ALDO CHERILLO RACCONTA IL LAGO DI AGNANO

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Pozzuoli.

Forse non tutti sanno che un tempo all’interno della conca d’Agnano esisteva un lago, probabilmente formatosi nel X secolo, sulle cui sponde oltre alla pesca e alla caccia si praticava la coltivazione della canapa tessile: una volta raccolta e caricata sui carri, la fibra veniva trasportato alle fabbriche di Miano lungo una strada impervia che si estendeva da Agnano a via Terracina fino alla Loggetta, risalendo per Via Pigna, scollinando sui Camaldoli e giungendo a destinazione.

La bonifica del lago, ideata per fronteggiare i casi di malaria che d’estate decimavano la popolazione, fu progettata nel 1835 in epoca borbonica ma venne realizzata solo dopo l’avvento dell’unità d’Italia tra il 1865 e 1871. Quando l’invaso fu prosciugato, sul fondale vennero scoperte ben 72 sorgenti d’acqua sorgiva che vanificarono le speranze di chi aveva investito capitali in quel progetto per poter poi lucrare sul terreno bonificato.

Di tutto ciò e altro ancora ha parlato Aldo Cherillo sabato 16 febbraio da Lux In Fabula a Pozzuoli in QUANDO C’ERA IL LAGO DI AGNANO nell’ambito della manifestazione QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE.

Supportato da immagini fotografiche e disegni tratti dal volume IL LAGO DI AGNANO di Libero Campana, storico locale residente sul Pendio di Agnano che del lago conosce vita morte e miracoli, per oltre un’ora Cherillo ha illustrato alla platea con una narrazione semplice e chiara, inframmezzando dotte dissertazioni a simpatici aneddoti, la storia del lago nel corso dei secoli, fino al suo svuotamento mediante la costruzione di un canale sotterraneo lungo un chilometro e mezzo che sbucava a mare, tuttora visibile nei pressi del Dazio a Bagnoli, il cui scavo costò un caro prezzo in termini di vite umane.

Sul lago sorgeva la famosa “grotta del cane” – un ipogeo artificiale, molto probabilmente un sudatorio delle antiche terme greche – oggi interdetta al pubblico, così denominata per via delle esalazioni venefiche di anidride carbonica che vi si diffondevano: essendo l’anidride carbonica più pesante dell’ossigeno, il gas si depositava al suolo per cui qualunque animale vi entrasse e respirasse restava tramortito.

Per fronteggiare la miseria, gli abitanti del luogo accompagnavano i turisti in visita alla grotta recando con sé un cane che facevano entrare nel cunicolo. Non appena l’animale vi accedeva e perdeva i sensi, lo immergevano nel lago perché si riprendesse. Da qui la leggenda che le acque del lago fossero “miracolose”.

Con la passione tipica degli autodidatti, Cherillo ha fatto scoprire ai presenti aspetti dei campi flegrei ignoti che meriterebbero di essere divulgati, magari organizzando visite guidate per non dimenticare che la conca di Agnano è un cratere vulcanico spento da millenni.

La natura vulcanica della zona è testimoniata dalle intense fumarole in località Pisciarelli e dalle gloriose terme di Agnano, un tempo fiore all’occhiello di Napoli, che meriterebbero il giusto rilancio a livello locale e nazionale tornando a fungere da volano turistico per un territorio ricco di risorse ma povero di menti imprenditoriali capaci di sfruttarle al meglio.

 

Vincenzo Giarritiello

VOCE ‘E SIRENA, IL GRIDO DI RABBIA DI SANDRO DIONISIO AL CINEMA SOFIA DI POZZUOLI

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Di seguito l’intervista integrale al regista Sandro Dionisio pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

La sera del 4 marzo 2013 un incendio doloso distrusse quattro dei sei capannoni che componevano Città della Scienza uno dei luoghi simbolo della cultura napoletana. Da quel tragico evento il regista Sandro Dionisio trasse spunto per il suo film VOCE ‘E SIRENA che sarà proiettato lunedì 4 marzo al cinema Sofia di Pozzuoli nel sesto anniversario dell’incendio. Per l’occasione lo abbiamo intervistato.

Sandro Voce ‘E Sirena è un grido di rabbia contro la distruzione di un luogo simbolo della cultura napoletana o contro la distruzione dell’intera città?

Entrambe le cose. Chiaramente il film nasce come reazione d’impulso all’atto vandalico: come tanti napoletani, anch’io vedendo in televisione le immagini del rogo mi indignai pensando che gli intellettuali napoletani dovevano reagire alla distruzione di quello che era uno dei luoghi di cultura più importanti di Europa. Di conseguenza scrissi di getto un film che raccontasse la protesta della civiltà civile contro quel gesto criminale non limitandomi a documentarlo né a dar vita a un’inchiesta per individuarne i colpevoli e il movente, ma ho cercato di far sì che l’incendio simboleggiasse la rovina della città. Nei secoli Napoli è stata oltraggiata e saccheggiata dalle dominazioni straniere e dai potenti di turno. Sopportare tutto ciò stoicamente va a onore dei napoletani.

Non pensi che paradossalmente ciò potrebbe essere invece inteso come una sorta di ignavia da parte dei cittadini?

No, decisamente. Piuttosto credo sia una forma di incapacità a strutturare la protesta in termini rivoluzionari

Ci vorrebbe un Masaniello…

Questa è proprio la frase che dice Sofia, una delle due protagoniste del film. Io rispondo di no, perché Masaniello non ha mai risolto i problemi di Napoli così come non li ha risolti la Pimentel de Fonseca e tanti altri eroi cittadini. Napoli è sempre stata salvata dalla coesione sociale, dal popolo unito. Secondo me gli eroi non fanno le fortune di un popolo.

Nel film ci sono due figure femminili, Patrizia interpretata da Cristina Donadio, Sofia da Rosaria De Cicco: una rappresenta la borghesia, l’altra il popolo, perché questa dualità?

Napoli è l’unica città europea in cui questi due aspetti sociali convivono in spazi minimi, che addirittura a volte invadono l’uno il campo dell’altro; e poi perché in questo modo il film si è avvalso di una dinamica particolarmente felice grazie alla straordinaria interpretazione delle due attrici cui si associa Agostino Chiummariello: se in un film i personaggi fossero tutti uguali la narrazione sarebbe monotona. Mentre credo che, avendo messo a confronto due anime diverse, sono riuscito a creare momenti di enfasi derivanti dal rogo. Ovviamente nel film ci sono anche aspetti comici perché spesso allegria e dolore camminano a braccetto a testimonianza dell’eterno dualismo esistenziale.

Perché hai scelto di girare un crossover, ovvero un mix tra film e documentario?

Il crossover somiglia a Napoli nel senso che questa contaminazione attiene al racconto che volevo portare alla luce: Napoli è una città contaminata per eccellenza, forse è la prima città multietnica del mondo. Non a caso in città abbiamo una fitta presenza di minoranze etniche che sono storiche. Napoli non è una metropoli lineare per cui bisognava girare il film con un linguaggio che mettesse in luce queste caratteristiche.

Possiamo dire che sei voluto uscire dagli stereotipi?

Diciamo che più che cercare di essere originale ho voluto essere aderente alla realtà. Quando una storia mi chiama – secondo me sono sempre le storie a offrirsi gli autori, non viceversa – e decido di mettermi al suo servizio, mi nascondo dietro di essa; divento invisibile evitando che si percepisca la mia incisività di regista in quanto non amo le regie muscolari il cui fine quasi sempre è quello di mostrare quanto si è bravi. Tutto questo non mi interessa. Per me la regia deve essere strumentale a quello che il film deve raccontare e in questo seguo le tracce di grandi maestri quali De Sica o Zavattini.

Dunque ti rifai al neorealismo…

Seppure il neorealismo è stato un movimento che è durato un breve arco di tempo,deve ritenersi come la vera rivoluzione del cinema mondiale. Personalmente cerco di pormi dietro la macchina da presa come facevano i maestri citati prima, in maniera sobria ponendo attenzione alla storia.

Nel film compaiono anche personaggi della cultura napoletana quali Aldo Masullo, Marino Niola, Enzo Moscato, ossia un mix culturale: perché questa scelta?

Perché volevo e voglio che gli intellettuali napoletani riflettessero e riflettano sul motivo di questa nuova ferita arrecata alla città; che, così come avvenne ai tempi del mio maestro Franco Rosi con Mani Sulla Città, la città esprimesse un pensiero su quanto è accaduto.

Quindi il film è anche una denuncia contro l’inazione degli intellettuali napoletani…

Assolutamente sì! Secondo me gli intellettuali napoletani, pur essendo spesso la punta di diamante dell’intellighenzia europea, hanno il grande difetto di non fare rete, per cui di non servire adeguatamente la città. Io ho messo il mio film al servizio di quest’azione collettiva a mo’ di trait d’union. Mi piacerebbe che gli intellettuali napoletani fossero più vicini l’uno all’altro in modo dare esito alle esigenze del popolo.

Da uomo di cultura e amante di Napoli come stai vivendo l’azione che la città sta intraprendendo verso gli immigrati dicendosi pronta ad aprire le porte del porto per farli sbarcare?

Su quest’argomento nel 2011 ho girato il film “Un Consiglio a Dio” dove Vinicio Marchioni interpreta un trovacadaveri che recupera da una spiaggia i corpi degli extracomunitari deceduti a mare durante il naufragio dei barconi della speranza. La mia opinione è che i migranti sono una ricchezza: come faremmo senza le ucraine che fungono da badanti ai nostri anziani e ammalati? Come faremmo senza i cingalesi e i cinesi che hanno portato un indotto economico fortissimo? Non dimentichiamo che al momento gran parte del nostro PIL è affidato ai guadagni delle persone di colore. Ormai è sancito che gli immigrati non sono solo disperati in fuga dalle guerre e dalla carestie ma sono addirittura imprenditori che portano risorse al nostro paese.

Dunque Napoli è obbligata ad aprirgli il proprio porto…

A imporglielo è la sua natura di città multietnica e patria di migliaia di emigrati all’estero!

Quali sono come regista le tue aspettative per il futuro?

Razionalmente mi verrebbe da dire nessuna perché, per quanto mi riguarda, ritengo che questo paese non abbia alcun futuro, soprattutto per i giovani: insegno cinematografia all’Accademia delle Belle arti a Napoli e ti dico che da insegnante sono molto preoccupato per il futuro dei miei ragazzi i quali esprimono bellezza e grande intelligenza. Tuttavia l’uomo di cultura che è in me rifugge da questo cinismo e reagisce esprimendo la propria arte perché fino a quando c’è alito nel corpo bisogna resistere e lottare affinché le cose cambino in meglio!

 

Vincenzo Giarritiello

INTERVISTA AL CANTAUTORE NICOLA DRAGOTTO

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A seguire l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere

Sabato 2 marzo alle ore 21 presso ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE (direttore artistico Vania Fereshetian), a Pozzuoli in via Provinciale Pianura 16, (di fronte la stazione di servizio BA.CO.GAS.), si terrà il concerto del cantautore Nicola Dragotto.

Per l’occasione gli abbiamo posto alcune domande sulla sua attività artistica.

Nicola sono trascorsi quasi due anni dalla pubblicazione del tuo primo disco L’ULTIMA CAUSA. In questo frangente cosa è cambiato in Nicola Dragotto artista?

Più che cambiato è maturato l’approccio verso la musica e un po’ verso il mondo che mi circonda. Penso di aver raggiunto una maggior maturazione e nello stesso tempo serenità nel rapportarmi con le problematiche esistenziali da cui trarre ispirazione e humus per le mie composizioni.

Dopo tanti anni in cui il tuo riferimento artistico è stato Giorgio Gaber – non a caso ti definivi cantattore – ti sei degaberizzato, come ti piace dire, dando spazio a te stesso: un’acquisizione di autostima o una scelta conseguente all’uscita del disco?

Gaber è stato un punto di partenza in quanto, riprendendo la mia strada artistica in età matura, avevo pensato bene di dedicarmi al teatro canzone per riannodare un filo conduttore col mio essere artista. Il degaberizzarmi è legato a un momento di presa di posizione nel volermi sentire cantautore nel senso classico della parola. Però devo dire che anche negli ultimi spettacoli che ho fatto sono riuscito a raggiungere quella che mi sembra la formula vincente: una via di mezzo tra cantautore e teatro canzone. Unisco, infatti, alle mie composizioni musicali anche dei monologhi tratti dai miei precedenti spettacoli e brevi incursioni di poesia con versi di Pasolini perché mai come oggi Pasolini si sta rivelando profetico, quindi mi è sembrato giusto onorare colui che è stato non solo un faro ma sicuramente uno dei maggiori esponenti della cultura italiana di tutti i tempi.

La tua parentesi con il Be Quiet ti ha maturato a livello artistico o dobbiamo considerarla semplicemente una parentesi professionale?

L’esperienza del BE Quiet è stata unica, irripetibile di per sé, perché ritrovarsi in un locale underground, una cantina, partire da là e nel giro di sette anni approdare a un palcoscenico come quello del teatro Bellini, ritengo sia una soddisfazione unica per chi ci ha creduto e per chi ha avuto la forza di andare fino in fondo. Però adesso, pur rimanendo il Be Quiet nel mio cuore, vivo un momento di ricerca artistica personale.

Pubblicamente, anche sui social, non ti fai scrupoli di attaccare in maniera diretta un certo mondo dello spettacolo come ad esempio, hai fatto,all’indomani della serata finale di Sanremo. Sulla tua pagina Facebook hai scritto, cito testuale: “Anche quest’anno è andata. Caro Sanremo, io sono fra quelli che davvero non ti hanno onorato. Lo so, sono un peccatore. Non sono venuto alla messa. Non mi sono confessato sui social, non ho invocato questo o quel vincitore e addirittura non ti giustifico come fenomeno di costume. Non trovo utile criticare i soggetti partecipanti, sia i nuovi che i vecchi colpiti dalla sindrome di Dorian Gray. Quello che sento di criticare è la perdita del coraggio. La bellezza, la forza e la profondità di un testo sono oggetto di ghettizzazione. I mecenati hanno lasciato il posto a miopi ed avidi imprenditori dell’usa e getta. Ci si è dimenticato dei poeti: la voce del popolo, l’incarnazione della identità, dell’appartenenza. Il problema non è emergere, quanto cercare di restare a galla senza diventare uno stronzo. Il vero problema è questo andare avanti tanto per andare mentre tutto si va spegnendo lentamente, un camminare senza senso e chi va controsenso in modo ostinato e contrario, trova la risposta a tutta questa follia imperante, nella sua sola solitudine…”

Io non attacco il sistema di per sé. Per chiarirci, artisticamente credo di essere stato sempre ironico ma moderatamente misurato ed oggetto, finora in positivo, della critica altrui. Quello che non sopporto è l’atteggiamento irriverente di taluni che vivono una subnormalità aculturale definendosi o peggio, venendo definiti da cannibali addetti ai lavori e da spettatori buoi, artisti o addirittura poeti. Per me la poesia è un momento sacro che si fa carne e sangue. Il poeta è un Atlante condannato a portare sulle spalle l’imbarazzante peso della memoria del suo popolo. Credo che oggi ci sia molto edonismo da parte di sedicenti poeti e l’aspetto più triste e preoccupante è che vengono definiti tali anche dalla pletora per lo più incolta di facebucchini, che confonde frasi lanciate troppo spesso ad capocchiam nel mare magnum di internet, con la poesia.

Tu sei consapevole che tenendo questo atteggiamento ti fai nemici nell’ambiente?…

Scusa, di che ambiente parliamo? Se ci riferiamo a quello artistico puro, credo che possano soltanto sposare le mie affermazioni perché non ne faccio una questione di superiorità ma di buongusto, di educazione e di rispetto verso coloro che devono ascoltarti e leggerti e comunque non ho mai pensato di condizionare il mio lavoro e il mio pensiero su ciò che può dire o pensare di me la gente.

Per ora L’ultima causa è stato il tuo unico disco, hai in programma di inciderne un altro?

Se trovassi una produzione volenterosa, disposta ad accogliere le mie divagazioni, ne sarei ben lieto. L’importante da parte mia è riuscire a coltivare sempre le parole giuste anche attraverso l’amore che mi viene contraccambiato per quello che cerco di donare dal mio cuore agli altri.

Nicola quanto incide la presenza della famiglia in questo tuo affrontare a viso aperto il mondo dello spettacolo?

La mia famiglia ha compreso le mie esigenze e mai come in questo momento, quando serve, mi è vicina sostenendomi. Diciamo che è passato il tempo in cui mi si chiedeva, mentre componevo, se i ceci dovessero essere cotti con l’aglio o con la cipolla. Ora la porta la si apre in silenzio e, se sto componendo, la si richiude, rimandando la domanda a data da destinarsi anche rischiando di restare digiuno!

Dallo spettacolo che il prossimo 2 marzo terrai a Pozzuoli, che Dragotto ci dobbiamo aspettare?

Il Dragotto di sempre: spontaneo, naturale, agrodolce. All’occorrenza sono critico, duro, ma anche molto irriverente verso me stesso. Quel che conta è divertirmi divertendo, invitando a riflettere e ridere di noi stessi, inventandomi il giusto registro per non annoiare chi ha deciso di investire su di me un paio di ore della propria vita.

Cosa vorresti che si dicesse di te, artisticamente parlando, quando non ci sarai più?

Ti rispondo alla Bukowski: uno stronzo di meno!

 

Vincenzo Giarritiello

DA LUX IN FABULA ELEONORA PUNTILLO, PROFESSIONE GIORNALISTA

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Sabato 9 febbraio presso Lux In Fabula, a Pozzuoli, nell’ambito della manifestazione Quattro Chiacchiere Con l’Autore, si è svolto l’incontro con Eleonora Puntillo. Giornalista dal 1961, nel corso di oltre cinquant’anni di attività ha collaborato con L’unità, Paese Sera, La Repubblica, Il Roma, Il Corriere del Mezzogiorno, Il Corriere della Sera e con la rivista Polizia e Democrazia partendo dal ruolo di cronista fino a rivestire quello di capo servizio e inviato.

In poco meno di due ore di chiacchierata, Eleonora ha raccontato svariati episodi della propria carriera giornalistica, iniziando dalla vicenda di Felice Ippolito da lei narrata nel libro FELICE IPPOLITO UNA VITA PER L’ATOMO edito da EDIZIONI SINTESI, in cui racconta dello scienziato Felice Ippolito che, per le sue vedute avveniristiche in campo energetico tese all’utilizzo dell’energia atomica, fu osteggiato e deriso dai poteri, politici e non, dell’epoca.

Stimolata dalle domande e dalle riflessioni del pubblico, commentando la funzione del giornalismo moderno, la Puntillo ha espresso il proprio parere sull’avvento di internet e del digitale; riconoscendo alle nuove tecnologie il merito di aver reso possibile a chiunque l’accesso alle notizie, ma nello stesso tempo stigmatizzandone l’abuso indiscriminato che a suo dire avrebbe svilito una professione “nobile” dando a chiunque la possibilità di fornire informazioni in rete spesso con l’intento di divulgare falsità al fine di confondere le idee al lettore.

Come si conviene a un giornalista di “vecchio stampo”, la Puntillo ha ammesso di essere rimasta indissolubilmente legata alla carta stampata raccontando di quando, inviata a seguire un processo a Salerno, la mattina prima di entrare in aula invitava i colleghi a fare un’abbondante colazione e di come questi invece si limitassero a prendere un caffè per entrare subito in sala, mentre ella si attardava al buffet mangiando di tutto e di più. Ciò comportava che a un certo orario tanti giornalisti, vittime dei morsi della fame, erano costretti a recarsi al bar per mangiare un cornetto “sereticcio”, perdendo l’anima della discussione processuale che proprio in quel momento entrava nel vivo. Viceversa lei, proprio in virtù dell’essersi saziata abbondantemente prima che iniziasse il dibattimento processuale, non essendo afflitta dalla fame, era in grado di raccogliere tutte le informazioni e al momento che dettava il pezzo comunicava dettagliatamente al giornale la notizia, a differenza degli altri colleghi i quali, preso atto di questa sua prerogativa, nei giorni a seguire incominciarono a spulciare alle sue spalle quando scriveva, approfittando della leggibilità della sua scrittura chiara e lineare. Per evitare che continuassero a copiare, essendo laureata in filosofia, iniziò a scrivere gli appunti in greco scalzando tutti.

Parlando dello sgombero del Rione Terra avvenuto il 2 marzo del 1970, e di cui tra due settimane si ricorrerà il 49° anniversario, la giornalista non ha potuto fare a meno di manifestare le proprie perplessità sull’effettiva necessità di quel provvedimento che non solo lei reputa quanto meno avventato.

Ascoltare la Puntillo raccontare della propria esperienza professionale è equivalso a presenziare a una lezione di giornalismo dove il professore ha spalancato senza filtri il proprio animo agli “allievi”.

Grazie Eleonora!

POZZUOLI: TOBIA IODICE PRESENTA IL SUO SAGGIO SU D’ANNUNZIO A NAPOLI

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A seguire la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Piacevole serata venerdì 8 febbraio alla Biblioteca Comunale di Pozzuoli dove si è presentato il volume COME UN SOGNO RAPIDO E VIOLENTO di Tobia Iodice, edito da CARABBA: relatori Grazia Ballicu e Matilde Iaccarino; moderatore Antonio Alosco; in rappresentanza delle istituzioni Maria Teresa Moccia di Fraia Assessore alla cultura del comune di Pozzuoli.

Il libro, un saggio in chiave romanzata, narra il soggiorno di Gabriele D’Annunzio a Napoli tra il 1891 e il 1893: in fuga da Roma dove è pressato dai creditori che, alla sua partenza, gli depredano casa, il 31 agosto del 1891 il vate, uomo sconfitto, giunge in treno a Napoli.

Dopo i continui rifiuti dell’editore Treves a pubblicare L’Innocente ritenendolo un romanzo osceno trattando di un infanticidio, grazie alla pubblicazione in appendice dello stesso sul Corriere di Napoli fondato dai suoi amici Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao, la figura di D’annunzio come autore e come uomo si riabilita agli occhi dell’opinione pubblica tanto che non sarebbe errato presumere che da Napoli parta la sua inarrestabile ascesa nell’empireo della poesia.

Amante delle donne e della bella vita che lo portano a essere perennemente a corto di danaro, anche a Napoli il poeta non esita a indebitarsi fino al collo attribuendo le cause della propria “sventura” finanziaria a chi gli suggerì di vivere al civico 9 di viale Elena, oggi viale Gramsci, attribuendogli l’etichetta di iettatore e non alla propria sventatezza nello spendere. Questo suo aspetto superstizioso lo spinge a frequentare gli ambienti occultistici di Napoli dove spicca la figura della medium Eusapia Palladino: D’annunzio partecipa ad alcune sedute spiritiche non tanto per sondare la presunta esistenza del mondo ultraterreno ma per avere un bel terno da giocare al lotto.

Narrando questo particolare peridio dannunziano, il volume di Iodice si avvale di una ricca documentazione storica, arricchita da lunghi spezzoni dell’epistolario tra D’annunzio e la sua amante romana Barbara Leoni a cui il poeta nelle sue quotidiane lettere giura eterno amore e fedeltà quando a Napoli aveva già intessuto la relazione con Maria Gravina, moglie del conte di Anguissola, da cui ebbe Renata la sua unica figlia, e altre liaison che ne rafforzano la fama di irresistibile seduttore.

Mentre nel suo intervento la Iaccarino ha tracciato un quadro pressoché completo dell’opera, soffermandosi su come nel libro si evinca un D’annunzio ottimo imprenditore di se stesso, capace di trovare i fondi necessari per la pubblicazione dei suoi libri, la Ballicu ha messo in risalto gli aspetti tecnici della scrittura di Iodice definendola “analitica e raffinata”, evidenziando il modo in cui l’autore tratteggia in maniera precisa i vari episodi narrati offrendo al lettore tutti i riferimenti affinché si faccia un’idea chiara di quanto avveniva.

Da fine storico qual è il professore Alosco non si è limitato a moderare il tavolo ma ci ha tenuto a precisare che, contrariamente a quanto si presume, D’annunzio non era affatto un nazionalista ma un radical socialista. A sostegno di questa sua considerazione l’illustre storico ha citato la Costituzione del Carnaro, scritta da D’annunzio e promulgata l’8 settembre del 1920 a Fiume, da tanti esperti ritenuta in assoluto la più bella Costituzione finora mai redatta.

Nel suo intervento conclusivo, dopo aver ringraziato il pubblico in sala, l’Assessore Moccia di Fraia ha supposto che durante il suo soggiorno napoletano D’Annunzio avesse visitato anche Pozzuoli, ricevendo assoluta conferma dall’autore a riprova che in passato anche il capoluogo flegreo era meta ambita degli ambienti culturali dell’epoca.

La serata si è conclusa con l’attore Marco Sgamato che ha letto in maniera intensa e coinvolgente alcuni passi del libro, supportato dal commento musicale del maestro Francesco Maggio.

Vincenzo Giarritiello

VINCENZO DI BONITO PRESENTA IL SUO SAGGIO SULLE RELIGIONI

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it 

Chi conosce Vincenzo Di Bonito – ex dirigente del Comune di Pozzuoli, laureato in Lettere e Istituzioni dell’Europa occidentale all’Orientale di Napoli – sapendolo persona schiva e di poche parole, sarà rimasto piacevolmente sorpreso dalla vivacità con cui sabato 19 gennaio da Lux In Fabula, nell’ambito della rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, ha parlato del suo saggio sulle religioni “PROFEZIE MIRACOLI INCANTESIMI”.

Partendo in sordina come si addice a un buon maratoneta – Vincenzo è un runner e insieme a un gruppo di amici storici ha corso e corre maratone per il mondo – man mano che la discussione incalzava, stimolato dalle domande del pubblico, ha spiegato che il volume è una sorta di bignami sulla storia delle religioni e lo spunto per scriverlo lo ha tratto nel corso dei tanti viaggi, altra sua grande passione, che insieme a un altro gruppo di amici storici, tra cui il fotografo Aldo Adinolfi in calendario nella rassegna il 30 marzo con una proiezione di diapositive, lo hanno portato dalle Orcadi all’Alaska, dal Tibet alla Nuova Zelanda, evitando le rotte del turismo di massa in quanto di un paese ama conoscerne gli aspetti veri anziché quelli stereotipati da cartolina offerti dai tour operator.

A riguardo l’autore ha raccontato che spesso in queste sue peregrinazioni planetarie si è dovuto confrontare con situazioni estreme, che però lo hanno messo nelle condizioni di conoscere di ogni popolo aspetti culturali ignoti, specialmente per quanto concerne le credenze religiose spingendolo ad approfondire l’argomento di cui il libro è il compendio.

Il volume è articolato in quattro parti dove in ognuna si affronta un singolo aspetto. Nella terza si parla delle religioni rivelate cui appartengono il giudaismo, il cristianesimo e l’islam. Soffermandosi su quest’ultima Vincenzo ne ha smentito il presunto messaggio di violenza che traspare dalla stortura ideologica omicida fattane dall’estremismo islamico, facendo presente che gli estremismi appartengono a tutte le religioni, cristianesimo incluso il quale in passato, pur di affermarsi e estendersi sul pianeta, in nome di dio ha commesso i peggiori crimini; che quasi sempre è la voglia di potere di un ristretto gruppo di persone a interpretare e tramandare in maniera distorta e opportunistica l’originario messaggio tracciato dal fondatore al fine di sottomettere a sé la massa ignorante per poi farne pecore da pascolo o da macello a seconda dei propri intenti.

Non a caso gli insegnamenti di Buddha che li tramandava in maniera rigorosamente orale comparvero per la prima volta scritti a quattrocento anni dalla sua morte mentre quelli di Gesù a non meno di ottanta anni dalla sua scomparsa dal mondo: è facile travisare il senso di un messaggio quando la fonte originaria, l’unica che potrebbe smentirci, non c’è più, affermando tutto e il contrario di tutto rispetto a quanto si voleva davvero intendere, soprattutto se si è investiti di un’autorità…

Un aspetto del libro che merita d’essere segnalato è la semplicità e la fluidità del linguaggio con cui è redatto che lo rendono alla portata di tutti. Soprattutto di chi avrebbe intenzione di approcciarsi alla storia delle religioni ma, non avendo un’infarinatura accademica, se sfogliasse un saggio classico sull’argomento rischierebbe di non capirlo a causa del discorso articolato e complesso nonché per la mancanza di adeguate conoscenze storiche e politiche che non gli permetterebbero di comprendere l’affermarsi e lo svilupparsi di un credo in una specifica comunità.

A Vincenzo Di Bonito va riconosciuto il merito di aver affrontato il tema coniugando conoscenza e semplicità in maniera calibrata, offrendoci un gustoso abbecedario della storia delle religioni di cui dovrebbe munirsi chiunque fosse intenzionato a conoscerne la loro origine; un punto di partenza fondamentale per spaziare in un campo dove spirito e materia in alcuni casi sembrano essere in conflitto in altri in simbiosi a seconda se stiamo in occidente o in oriente.

VANIA FERESHETIAN, ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE

Da venticinque anni impegnata nel campo dell’associazionismo, Vania Fereshetian è la fondatrice e responsabile dell’associazione culturale ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE con sede a Pozzuoli in Località San Martino.

Vania da quanto tempo esiste “’a puteca ‘e ll’arte”?

Da tre anni anche se sono ben venticinque che mi interesso di associazionismo: con mia sorella fondammo l’associazione Il Filo della Fortuna. Poi lei si ammalò e per diverso tempo sono rimasta ferma, ma alla fine l’amore per l’arte ha prevalso e ho ripreso le mie attività. Nello specifico ‘a pu­teca fa parte di un progetto molto più vasto qual è l’Associazione San Martino che si occupa di tante altre cose. Ci siamo divisi un poco i compiti, io mi interesso di arte, spettacolo e cultura.

Qual è realmente la tua professione?

Sono insegnante elementare, al momento insegno psicomotricità. In campo artistico sono sceneggiatrice e regista.

Come regista cosa hai fatto?

Diverse cose di teatro. Non a caso ho sempre avuto un’associazione con una compagnia teatrale. Oggi abbiamo la possibilità di avere questa bella struttura e il nostro intento è di essere presenti attivamente sul territorio flegreo.

Perché questo “intento” ambizioso, se posso permettermi?

Io credo che la nuova generazione debba crescere nel rispetto della cultura. Attraverso la nostra associazione ci proponiamo di curare specifici aspetti culturali come la tradizione napoletana.

In tre anni di attività cosa avete fatto?

Tanto! Ci siamo molto mossi sul territorio: siamo stati negli ospedali, abbiamo fatto spettacoli per raccolte di beneficenza, siamo stati nei canili. In generale cerchiamo di essere molto attenti e propositivi rispetto alle problematiche che ci circondano. Abbiamo realizzato anche eventi riguardanti appunto la cultura napoletana.

Per essere più precisi, voi vi occupate solo di teatro o spaziate nei vari campi artistici?

Per noi tutto è arte, non solo la scrittura, che io amo, o la pittura ma può esserlo anche il ritaglio del giornale fatto in un certo modo. Secondo me arte è tutto ciò che viene dal cuore e dalla manipolazione mettendosi in gioco con se stessi e con gli altri.

Voi fate anche laboratori?

Sì! Cerchiamo di incentivare i laboratori teatrali e musicali; facciamo propedeutica musicale per i più piccoli per avvicinarli all’arte intesa come crescita dell’anima e quindi crescita interiore. Considera che abbiamo a che fare con bambini “speciali” ai quali questo tipo di attività serve per renderli fantastici più di quanto già non sono.

Sul territorio esattamente che cosa avete fatto?

Per lo più eventi musicali anche se devo ammettere con rammarico che abbiamo qualche difficoltà a “muoverci” nell’area flegrea…

In che senso?

Ho la sensazione che in generale le persone siano restie ad avvicinarsi e ad avvicinare i propri figli a questo tipo di attività, forse perché ne minimizzano il valore rispetto all’andare in palestre o al frequentare una scuola calcio. Ecco noi vorremmo che la gente capisse l’importanza di questo tipo di attività finalizzate allo sviluppo interiore dell’essere.

Avete anche collaborato con le scuole?

Sì, ma purtroppo anche in quel caso non abbiamo avuto dei riscontri entusiasmanti ma non saprei dirti il perché!

Avete una programmazione?

La programmazione la facciamo di volta in volta dato che a me non piace stringermi e operare su una specifica cosa perché programmata a monte su carta. Mi piace invece tener conto delle esigenze del momento e muovermi rispetto a quelle per cercare di soddisfare i bisogni attuali delle persone. Oddio, una programmazione in linea generale l’abbiamo nel senso che già so cosa faremo – laboratori, eventi -, ma spaziando senza restrizioni. I nostri laboratori sono “aperti”, ossia i partecipanti non sono assoggettati a una singola idea su cui lavorare bensì sono liberi di dare spazio alla propria creatività senza vincoli tematici e di altro genere.

La vostra sala può ospitare fino a cento posti a sedere, come spettacoli teatrali cosa avete realizzato?

Per lo più spettacoli legati alla tradizione napoletana: l’ultimo riguardava la “posteggia” a cui hanno aderito tanti artisti napoletani famosi che ebbero la sensibilità di capire quanto fosse importante dare un contributo all’associazione e soprattutto alla causa per cui ci battevamo.

La risposta del pubblico come fu?

Certamente non negativa, anche se non mi sarebbe dispiaciuta qualche presenza in più.

Per l’anno in corso che progetti avete?

Cercare di far sì che i ragazzi si avvicinino alle nostre attività, essendo loro la fonte del domani. Dico questo perché avendo già lavorato in passato con i giovani, soprattutto con gli adolescenti, ho avuto modo di appurare che la vicinanza all’arte li rende migliori; acquisiscono una buona capacità di reazione con il mondo esterno dove purtroppo l’etica e la morale assurgono sempre più a utopie! Rischiando di sembrare immodesta, lasciami dire che molti di quelli che in passato hanno lavorato con noi ancora oggi mi chiamano per ringraziarmi. Alcuni attualmente sono all’accademia a Roma o sono diventati importanti a livello musicale, ma non chiedermi di fare nomi perché per rispetto non li farò mai. Attraverso questa attività ho avuto più di una testimonianza di come l’arte possa risolversi in maniera positiva per il futuro dei giovani. Ovviamente con l’ausilio delle famiglie, senza quello sarebbe difficile se non addirittura impossibile!

 

INTERVISTA AL PITTORE CIRO D’ALESSIO

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Di seguito l’intervista integrale al pittore Ciro D’Alessio pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it 

Ciro sei napoletano o puteolano?

Napoletano.

Come mai hai lo studio a Pozzuoli?

Pozzuoli è una città tranquilla, vivibile, piena di storia e, per quanto mi riguarda, molto interes­sata alle manifestazioni artistiche per cui quando trovai questo gruppo di amici che esponeva sulle Rampe Causa decisi di unirmi a loro e successivamente aprii questo mio spazio proprio accanto alla sede di Terra di Pozzuoli. (Via Marconi, 3A – nei pressi del Rione Terra)

Esporre sulle Rampe Causa cosa rappresenta per un pittore di professione come te?

Rispetto ad altre esposizioni di questo genere che si fanno a Napoli e in tante altre città, questo è un luogo in cui si sta tra amici. Per cui questa familiarità rende l’esposizione un momento non solo professionale ma di simpatica aggregazione. Oltre ovviamente alla visibilità che ne deriva per chi espone in quanto le rampe, congiungendo la zona alta di Pozzuoli con quella del porto, sono frequentatissime soprattutto nei fine settimana.

Osservando i tuoi dipinti mi sembra di capire che tu ami dipingere con la spatola…

Sì, sono oli applicati a spatola.

Hai dei riferimenti artistici?

No, seguo il mio percorso cercando di ricavarmi un mio spazio nel mondo dell’arte contemporanea. Certo, faccio riferimento sia alla lezione ottocentesca prestando attenzione alla natura, sia a quella novecentesca dove l’arte viene intesa come una forma autonoma, ovvero espressione di un pensiero tramite colori e gesti.

I tuoi quadri sono pieni di luce. Poiché si dice che l’espressione artistica riflette lo stato interiore di chi la manifesta, ciò indicherebbe che sei una persona solare!

Non saprei: la nostra interiorità è complicata per cui a volte le manifestazioni artistiche sono solari ma l’intimità di chi le realizza vive una condizione totalmente diversa che non esterna quel che si è ma ciò che si vorrebbe essere. Se non addirittura qualcosa di molto più profondo che va al di là della personalità descrittiva dell’individuo.

Ogni artista ha qualcosa da comunicare, il tuo messaggio qual è?

Non credo di avere un messaggio specifico da comunicare, diversamente non sarebbe arte ma opera messianica. Personalmente ritengo che l’arte sia la sintesi tra l’universale e il particolare che si esprime in un’immagine; l’incontro tra relativo e assoluto da cui ha origine la vita stessa, in questo caso rappresentata dall’espressione artistica!

Tu dipingi in quanto senti il bisogno naturale di dipingere…

Certo, ma penso che questo valga per tutti essendo l’arte una necessità espressiva.

Quindi il significato delle tue opere lo deleghi all’interpretazione di chi le ammira?

Anche! Per me dipingere è un giocare, un dialogare con l’osservatore: io propongo l’immagine, lui la completa con la sua immaginazione interpretativa.

Volendo accostarti a un grande pittore, alcuni tuoi quadri mi ricordano Van Gogh, Renoir, Mo­net…

Grazie per l’accostamento che mi lusinga molto. Per quanto mi riguarda cerco di fare il mio per­corso individuale, anche se ci sono dei grandi maestri che sono punti di riferimento imprescindibili per chiunque dipinga, ma ognuno deve rilucere di luce propria attraverso un lavoro di ricerca perso­nale, altrimenti non “fai” ma “rifai”, il che è diverso! Sicuramente ciò che accomuna me e tanti altri artisti ai grandi pittori da lei citati è il gusto per la materia intesa come materia pittorica che non si riduce a immagine ma che fuoriesce dalla superficie e sembra avere una vita propria.

Tu dipingi da che eri ragazzo?

Sì! Ho fatto il mio primo quadro a olio a diciassette anni e da allora non ho più smesso.

Hai fatto studi specifici?

No! Presi la licenza classica e successivamente iniziai a studiare filosofia. Inizialmente la pittura rappresen­tava un momento di svago dalla fatica degli studi. Poi quel momento diventò più importan­te dello studio e decisi di farne il mio lavoro.

Auspici per il 2019?

Da poco ho allestito questo studio e spero diventi un punto d’incontro e di riferimento per chi ha interesse per la pittura. Fare parte di Terra di Pozzuoli mi consente di confrontarmi con altri pittori ricevendo sempre nuovi stimoli e idee e, spero, dando a mia volta suggerimenti utili agli altri. Del resto ritengo sia questo il senso dell’associazionismo: crescere insieme!

 

INTERVISTA A SALVATORE VOLPE, COORDINATORE DI “TERRA DI POZZUOLI”

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Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzarontiere.it

Come nasce l’idea di fondare Terra di Pozzuoli?

A Pozzuoli e in generale sul territorio flegreo abbiamo sempre avuto la necessità di esprimere arte in quanto riteniamo fosse necessario dare spazio ai tanti artisti, non solo pittori, che abitano in loco.

Anche perché da sempre Pozzuoli porta la nomea di avere una sua scuola e un suo stato di artisti. Per cui il nostro scopo iniziale, a partire da Nino D’Amore fondatore e Presidente dell’associazione, era quello di raccogliere principalmente artisti di origine flegrea. Seppure in parte, ci siamo riusciti e per il secondo anno consecutivo ci proporremo sul territorio. A riguardo abbiamo già presentato la richiesta al Comune per poter nuovamente usufruire di quelle che ormai riteniamo le “nostre” scale, le Rampe Raffaello Causa, su cui esponiamo in maniera da dare visibilità ai nostri associati.

Dell’associazione fanno parte solo artisti flegrei?

Purtroppo pochi e questo è un nostro grande rammarico! A Pozzuoli vivono tantissimi artisti di valore ma, non so perché, sono restii a partecipare. Alla nostra associazione sono iscritti artisti provenienti da ogni parte di Napoli, dal giuglianese, perfino dalla provincia di Avellino. Non capisco perché invece quelli puteolani e flegrei latitino.

Ha cercato di dare una spiegazione a questa latitanza?

Personalmente in alcuni casi ho riscontrato una sorta di ritrosia ad esporre o perché timidi o perché non si reputassero all’altezza per un confronto pubblico: diciamo mancanza di autostima.

Voi raccogliete solo pittori o anche artisti di altro genere?

Siamo aperti a tutte le forme d’arte. A esempio quella presepiale, la ceramica, la scultura. In particolare l’arte presepiale è legatissima alla cultura napoletana ed è molto bella sia da praticarsi che da vedersi.

Chi ebbe l’idea di “occupare” artisticamente le rampe Causa?

In passato esisteva già un’associazione di artisti flegrei, Arte/Artisti di cui anch’io facevo parte, presieduta da Lino Chiaromonte con cui siamo rimasti amici, che usufruiva di questo spazio per esporre. Entrambi frequentavamo il bar Il Grottino che sta sulle scale. Originariamente Lino aveva un’associazione a Napoli, ma nel momento in cui si trasferì a vivere a Pozzuoli e ci conoscemmo, a entrambi venne l’idea di “adottare” le scale come luogo di esposizione. Successivamente, quando con Nino D’Amore abbiamo fondato Terra di Pozzuoli, ritenemmo giusto proseguire su questa linea in quanto, essendo le Rampe Causa frequentatissime, si prestavano a dare visibilità a coloro che vi avrebbero esposto. Inizialmente all’associazione eravamo cinque o sei iscritti, fino ad arrivare a un massimo di cinquanta. Poiché in seguito il Comune ci ridusse lo spazio espositivo per timore che sulle scale si potessero creare degli assembramenti e qualcuno si potesse fare male, per conseguenza logica si è anche ridotto il numero di iscritti. A tutt’oggi siamo una ventina.

Presumo che la riduzione di spazio avrà ridotto anche i vostri progetti futuri…

Certamente! Le nostre ambizioni organizzative contemplavano tra l’altro delle estemporanee e delle manifestazioni allargate sul territorio, oltre a laboratori di pittura che teniamo in sede. Purtroppo tale limitazione ci ha costretti a rivedere i piani originari, lasciandone molti nel cassetto con il proposito di riprenderli in futuro.

Quali sono i vostri propositi per il 2019?

Fermo restando la possibilità di continuare a usufruire delle Rampe Causa – cosa che sapremo non prima di febbraio perché solo allora il Comune dovrebbe rispondere alla nostra richiesta di riutilizzo delle stesse – le quali per noi hanno un significato affettivo in quanto la gente ha imparato a conoscerci in virtù della nostra presenza sulle Rampe, gli obiettivi per il 2019 contemplano la crescita sia in termini di associati che di organizzazione di eventi; sperando che quest’anno collaborino con noi anche altri artisti flegrei in modo da sfatare l’antipatica voce secondo cui a Pozzuoli è impossibile fare comunità. Se ci riuscissimo, potremmo dire di avere ottenuto un grosso risultato!

Auguri!

PERE CATAPERE, LA GUIDA SU NAPOLI DI ERNESTO NOCERA

ernesto nocera. pere catapere

Di seguito la versione integrale della recensione pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it 

Solo il sincero amore per la propria città poteva consentire a Ernesto Nocera, classe 1931, la realizzazione di una brillante e dettagliatissima guida turistica qual è Père Catapère, edito da Il Quaderno Edizioni, che ha il merito di presentare Napoli alla napoletana; abbinando alla storia, alla cultura, alle indicazioni gastronomiche e curiosità generali, il gusto dell’aneddotica popolare frammista a considerazioni personali che arricchiscono di contenuti e colori la storia di una città mito nel mondo. Come avviene quando si chiacchiera tra amici, utilizzando un linguaggio semplice, chiaro ma incisivo, spesso ironico, l’autore ci guida in una passeggiata ideale tra le strade, le piazze e i vicoli di quella che per secoli fu una delle capitali più apprezzate d’Europa e tuttora, malgrado le infinite contraddizioni che la caratterizzano, è tra le città più visitate di Italia e del mondo. Per questa sua “passeggiata” l’autore propone un itinerario particolarmente suggestivo che inizia nel caos di Montesanto; attraversa la Pignasecca e il suo pittoresco mercato e, inerpicandosi in funicolare sulla collina del Vomero, converge a  San Martino dove svetta Castel Sant’Elmo con la certosa e il suo ricco museo poco più in basso; per poi scendere la Pedamentina, la lunga scalinata panoramica che da San Martino arriva  fin giù Montesanto intersecando il Corso Vittorio Emanuele, congiungendosi con il decumano maggiore, meglio noto come Spaccanapoli, che come una ferita mai rimarginata, taglia per oltre un chilometro il centro storico della città, vera anima di Napoli. In quel chilometro attraversato da un’infinità di strade, vicoli, piazze e piazzette ornati da monumenti, residenze storiche, chiese e locali tutti con una personalissima  storia che arricchisce ulteriormente il bagaglio storico/culturale della città e dei suoi misteri, si è sviluppata e si condensa la millenaria storia partenopea. In questo denso dedalo di anime, da buon napoletano, l’autore si muove con maestria, non limitandosi a segnalare al turista i luoghi da visitare ma dove potersi fermare per sorbire un buon caffè e un’ottima sfogliatella, o in quale pizzeria e trattoria recarsi a mangiare per gustare una buona pizza e assaggiare le prelibatezze della cucina napoletana, spendendo poco.  A dimostrazione che Napoli è davvero una città a dimensione d’uomo. Personalmente mi sentirei di suggerire la lettura del libro non solo ai turisti ma, prima di tutto, a quei tanti napoletani che hanno la presunzione di conoscere la città come le proprie tasche: li invito a mettersi in “viaggio” libro alla mano, seguendo dettagliatamente le indicazioni di Ernesto Nocera. Scommetto che i primi a scoprire aspetti ignoti della città sarebbero loro stessi. Non escludendo che in questo modo imparerebbero ad amarla più di quanto realmente dicono e, soprattutto, dimostrano di farlo con i fatti. Del resto lo stesso autore in uno dei suoi tanti spunti personali evidenzia come, essendo Napoli un monumento a cielo aperto, spesso i napoletani non sanno di camminare in una via storica o di trovarsi a ridosso di un palazzo dove in passato si svolsero eventi tragici o vi risedette un personaggio di prestigio mondiale. Per apprezzare il valore delle cose bisogna conoscerle. Con la sua guida Ernesto Nocera ce ne dà la possibilità.