DA LUX IN FABULA, SERATA DEDICATA AL FOTOGRAFO ALDO ADINOLFI

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Pozzuoli. Sabato 30 marzo, per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, da Lux In Fabula il fotografo Aldo Adinolfi ha proiettato una serie di foto digitalizzate divise in tre categorie. Si è iniziato con quelle che ritraevano i pescatori di Pozzuoli.

Quindi si è passati a scatti riguardanti i tanti viaggi compiuti da Aldo per il mondo insieme a un gruppo di amici storici, tra cui lo studioso Enzo Di Bonito. Per finire con una vera e propria chicca: foto scattate durante lo sgombero del Rione Terra agli inizi degli anni settanta quando aveva poco più di quindici anni.

Seppure la fotografia sia per Aldo un’incontenibile passione – chi lo conosce, difficilmente può immaginarselo senza la macchina fotografica appesa al collo – egli ha iniziato il suo lavoro nella pubblica amministrazione proprio come fotografico per conto dell’ufficio dei Beni Culturali, ritraendo strutture architettoniche. Successivamente spostato in altri ambiti, si è dedicato alla fotografia come passatempo, facendo reportage di viaggio in cui ha ritratto gli indiani d’America dal New Mexico al Canada. Oppure i luoghi della terra Santa.

Nei suoi scatti Adinolfi predilige immortalare i volti delle persone, essendo la fotografia nata proprio con questo intento.

Per essendo umile e schivo, Aldo ha affrontato la serata con il piglio giusto, spiegando la genesi di ogni scatto con dettagliata precisione, soffermandosi finanche sui tempi di esposizione utilizzati per ogni singolo scatto che commentava.

Alla domanda se fosse “un nikonista o un canonista”, nel senso se amasse fotografare con una Nikon o con una Canon, non ha esitato a rispondere “nikonista”; spiegando che la Nikon nasce come fabbrica di macchine fotografiche, mentre la Canon inizialmente produceva accessori: “Tuttora è possibile adattare gli obiettivi di una vecchia Nikon alle attuali digitali, mentre per ogni Canon devi comprare quegli appositi!”.

La serata si è conclusa con un gradito buffet offerto dall’artista.

 

Vincenzo Giarritiello

 

ANN PIZZORUSSO, UNA GEOLOGA SULLE TRACCE DI LEONARDO DA VINCI

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Pubblichiamo l’intervista integrale apparsa su comunicaresenzafrontiere

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A seguito della presentazione del suo saggio TWITTANDO DA VINCI avvenuta sabato 23 marzo da Lux In Fabula, a Pozzuoli, abbiamo intervistato l’autrice, la geologa americana Ann Pizzorusso la quale ci ha accolto nella sua bella casa al Petraio con vista sul golfo di Napoli.

Dopo un caffè e una chiacchierata informale in cui ci siamo piacevolmente confrontati sui rispettivi interessi culturali, scoprendo di averne molti in comune, siamo entrati nel vivo dell’intervista.

“Twittando Da Vinci” può essere definito una sorta di Codice Da Vinci in chiave saggistica, dove si suppone che in alcuni suoi dipinti, nel caso specifico LA VERGINE DELLE ROCCE, Leonardo abbia voluto lanciare un messaggio occulto legato alle influenze che determinati minerali e luoghi specifici avrebbero sugli individui, comprensibile solo a chi possiede la chiave di decrittazione. Quando le è venuta questa intuizione?

È difficile rispondere. Essendo geologa, i miei studi vertevano esclusivamente su quest’argomento. Di storia dell’arte non sapevo assolutamente niente, così come non conoscevo l’italiano. Tuttavia la mia formazione professionale e la mia curiosità mi hanno spinta a studiare tutti i disegni di Leonardo in cui compaiono particolari geologici, sentendo poi la necessità di scrivere sulle rocce che lui ritraeva nei suoi dipinti. Scrissi per circa tre ore senza nemmeno rendermi esattamente conto di cosa stessi annotando. Alla fine mi avvidi di aver messo su carta le mie convinzioni che Leonardo fosse anche un geologo poiché le rocce che disegnava erano caratterizzate da una tale minuzia di particolari che solo un geologo poteva registrare. La cosa straordinaria fu che un giorno, cadendo dalla libreria, un libro si aprì nella pagina dove era ritratta LA VERGINE DELLE ROCcE esposta a Londra. Osservando il quadro pensai che l’autore non potesse essere Leonardo giacché le rocce ritratte non erano reali, diversamente da quelle che fino allora avevo visto in altri suoi quadri. Misi a confronto il quadro esposto a Londra con quello che è a Parigi e scoprì che quest’ultimo è un capolavoro di minuzie geologiche. Mostrai le foto dei due quadri ad alcuni amici geologi i quali convennero con me che c’era un’enorme differenza tra di loro. A quel punto mi misi in contatto con un critico d’arte a Londra e gli esposi la mia teoria. Dopo aver osservato i due quadri in base alle mie indicazioni scientifiche, anche lui convenne che quello di Londra poteva non essere opera di Leonardo. Quindi mi rivolsi a James Beck che all’epoca era uno dei massimi esperti di storia dell’arte il quale mi disse, “sono vent’anni che vado dicendo che il quadro esposto a Londra non è di Leonardo!”. Lui lo diceva in rapporto a tutta una serie di particolari stilistici che differenziano i due dipinti, io lo sostenevo per il modo diverso in cui erano ritratti i particolari geologici. Unendo i due pareri, si amplificava tale convinzione!

Quando ha scoperto che nel quadro esposto a Parigi Leonardo aveva riprodotto in maniera esatta particolari geologici, s’è chiesta perché lo avesse fatto?

Credo fosse per un motivo di propaganda religiosa. Lui stava dipingendo la Vergine delle Rocce per i Francescani i quali erano in conflitto con i domenicani. Leonardo ha scelto di ritrarre la Vergine nella grotta perché simbolicamente questo luogo è un simbolo di fertilità femminile. Lui voleva dipingere il quadro ma senza entrare a far parte del conflitto tra i due ordini. Leonardo sapeva perfettamente che da millenni la grotta era associata al grembo femminile e a tutto ciò che ne deriva. La vergine delle rocce racchiudeva il trionfo del simbolismo, della generosità e della scienza naturale. Lui ha messo tutto insieme!

Lei ha trovato difficoltà che la sua tesi fosse accettata in campo accademico?

No! Diversamente dalla storia dell’arte che poggia sulle opinioni, la mia è una ricerca su basi scientifiche, dunque incontrovertibili. Io mi sono limitata a fare notare un aspetto derivante dalle mie conoscenze di geologa, tutto il resto lo lascio agli studiosi di storia dell’arte. Osservando i due dipinti, quello di Londra e quello di Parigi, ci si accorge che sono completamente diversi l’uno dall’altro. Durante un congresso di geologi a Frasassi cui parteciparono i più grandi geologi del mondo, diversamente dai loro interventi molto schematici e ortodossi, quando toccò a me parlare, li invitati a guardare le grotte con occhi diversi, inserendo nella mia relazione non solo la storia dell’arte ma perfino la metafisica. Loro mi ascoltarono esterrefatti perché gli mostrai un approccio diverso alla scienza che fino a quel momento non avevano affatto considerato. Parlai loro di Dante e della Divina Commedia, dei luoghi dove anticamente si riteneva vi fosse l’accesso agli inferi; del culto dell’acqua e dello stillicidio che era un rituale con cui gli antichi raccoglievano in enormi vasi le gocce d’acqua che cadevano dalle stalattiti perché quell’acqua aveva davvero poteri taumaturgici, come hanno poi dimostrato analisi di laboratorio, in quanto ricca di minerali e di particolari batteri. Nello stesso tempo le donne andavano in questo luogo per passarsi l’acqua sul seno ritenendo che in quel modo aumentavano la formazione di latte materno, questo perché il colore dell’acqua dello stillicidio è bianco come quello del latte. Queste caverne erano chiamate non a caso lattaio. Tutte cose che fino a quel momento i miei colleghi geologi non avevano considerato, ma che sono nate con l’uomo a dimostrazione che gli antichi avevano un bagaglio di conoscenze, seppure istintive, che noi abbiamo completamente perso, che non possono essere trascurate dalla scienza.

Possiamo dire che lei è riuscita a colorare di poesia un argomento algido, privo di emozioni?

Potremmo, certo. Ma ci tengo a precisare che il mio non è assolutamente un lavoro di fantasia, anche se credo che la scienza debba rapportarsi, per quanto sia possibile, allo stato di coscienza degli antichi per comprendere il perché si comportassero come se la terra fosse una creatura vivente, una divinità, una Madre! La metafisica mi piace, ma non mi sono mai azzardata a superare il confine che separa la realtà dalla fantasia proprio perché non voglio correre il rischio di alterare la verità con supposizioni errate. La scienza è matematica!

So che sta scrivendo un libro sugli etruschi: perché quest’amore per un popolo tanto misterioso di cui, ancora oggi, si sa poco o niente?

Quando ho iniziato a studiare per scrivere il mio libro mi sono resa conto che gli etruschi erano molto legati alla natura e alla terra. Qualunque cosa dovessero fare, prima di incominciarla, interpretavano i segni della natura come lampi e tuoni. Prima di edificare un tempio o una città, i sacerdoti benedicevano la terra e tracciavano segni sul terreno per delimitare esattamente dove costruire. Gli etruschi prestavano molta attenzione al volo degli uccelli giacché erano conviti che fossero molto sensibili ai campi magnetici in quanto, come poi la scienza ha dimostrato, hanno al centro della testa un cristallo di magnetite che gli consente di allontanarsi da un luogo per poi ritornarvi con precisione. Quando lessi che la terra ha campi magnetici positivi e negativi in grado di influenzare nel bene o nel male la salute e il comportamento degli uomini, chiesi a un amico di ingrandirmi una mappa geomagnetica dell’Italia, evidenziando i luoghi in cui gli etruschi avevano edificato le loro città. Quando fu fatto, osservando la mappa, rimasi scioccata: tutte le città etrusche furono edificate in zone dove le energie magnetiche erano negative e che, stando a un recente studio scientifico, sono in grado di influire positivamente sugli uomini!

Ascoltandola mi verrebbe da dire, “i veri primitivi non erano loro, i nostri progenitori, ma siamo noi”…

Probabile. Vede, l’era ipertecnologizzata in cui viviamo, paradossalmente, ha fatto sì che molte facoltà mentali dell’uomo si atrofizzassero, rendendolo istintivamente inferiore rispetto all’uomo antico il quale la natura non la sfruttava o la violentava, ma la rispettava sentendosi parte integrante con essa!

Quando sarà pronto il libro sugli etruschi?

Per il prossimo anno.

Allora ci diamo appuntamento al 2020…

Ok, l’aspetto!

A POZZUOLI ANN PIZZORUSSO HA PRESENTATO IL SUO “CODICE DA VINCI”

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicarsenzafrontiere

Pozzuoli.

Serata davvero speciale quella di sabato 23 marzo da Lux In Fabula: per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, si è presentato il volume TWITTANDO DA VINCI di Ann Pizzorusso, geologa americana di origini italiane.

Il volume è un’analisi di come la conformazione geologica di un determinato territorio possa influenzarne la storia. Partendo dalla Pangea, “il supercontinente che si ritiene includesse in un unico blocco tutte le terre emerse della Terra durante il Paleozoico e il primo Mesozoico”, fino all’attuale deriva dei continenti e al riavvicinamento dell’africa all’Europa, la studiosa dimostra in maniera convincente la tesi supportata da foto, grafici e fatti di cronaca che fanno parte della storia dell’umanità.

L’intuizione le sorse osservando il dipinto LA VERGINE DELLE ROCCE di Leonardo Da Vinci: i particolareggiati dettagli geologici ritratti dal genio italico nella sua opera, la convinsero che non fossero solo un perfezionamento artistico, ma una sorta di codice – a questo punto non possiamo non pensare a IL CODICE DA VINCI di Dan Brown – attraverso cui Leonardo voleva comunicare un’idea, un pensiero ben preciso inerente all’influenza che la conformazione geologica di un territorio avrebbe sulla sua storia politica e sociale.

Partendo da questo punto fermo, l’autrice ha intrapreso uno studio comparato tra geologia e storia, dimostrando come la prima abbia influenzato in maniera imprescindibile la seconda.

Amante degli etruschi, la Pizzorusso è riuscita a fornire prove che centri etruschi quali Orvieto, Chiusi, Perugia, Tarquinia furono volutamente costruiti in aree magneticamente negative perché, come in seguito la scienza medica ha dimostrato, influiscono positivamente sullo sviluppo psicologico dell’individuo. A riguardo è impossibile non pensare al tempio di Delfi e al suo famoso oracolo: recenti studi hanno dimostrato che dal sottosuolo su cui sorgeva il tempio, si emanavano gas in grado di alterare lo stato di coscienza degli individui, per cui le famose profezie dell’oracolo sarebbero visioni indotte al veggente dai gas che respirava.

Ovviamente, per le tematiche affrontate, lo studio tocca anche l’area geotermale dei campi flegrei in cui anticamente si riteneva fosse situato l’accesso agli inferi, Virgilio e Omero docet. Senza trascurare che il bradisismo, il periodico innalzamento e abbassamento del sottosuolo fenomeno tipico di queste zone, ha indotto in epoche remote, ma non solo, a veri e propri esodi di enormi masse di gente da un punto a un altro del territorio: formazione di Montenuovo nella metà del 1500; agli inizi del 1970 con l’evacuazione del Rione Terra cui seguì prima l’edificazione del rione Toiano e poi quella di Monteruscello dove gli sfollati furono trasferiti in veri e propri casermoni di cemento dove tutt’ora risiedono con disagi che non stiamo a raccontare.

Lo studio della Pizzorusso non si limita all’analisi di opere pittoriche, ma spazia anche in campo letterario inglobando, oltre a Virgilio e Omero già citati, Dante e il suo “viaggio” dall’Inferno al Paradiso narrato nella Divina Commedia.

Se fosse stato scritto da un’autodidatta, appassionata di queste tematiche ma priva di titoli accademici che ne avvalorassero in maniera autorevole le ipotesi azzardate, probabilmente in molti avrebbero guardato al lavoro della Pizzorusso con sufficienza, se non con irrisione. Trattandosi invece di una geologa accreditata, i suoi studi non solo meritano l’attenzione dovuta, ma hanno suscitato l’interesse di una parte del mondo accademico che ne ha ufficialmente riconosciuto i fondamenti e i meriti.

Quanto prima contiamo di intervistala per farci meglio spiegare la sua teoria.

Vincenzo Giarritiello

CARLO SANTILLO, IL CARONTE DEI CAMPI FLEGREI

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Nella foto Carlo Santillo il “caronte” della pseudo Grotta della Sibilla sul Lago d’Averno a Pozzuoli

Fino al 2014 la pseudo Grotta della Sibilla sul Lago d’Averno era uno dei principali siti d’attrazione turistica dei Campi Flegrei. Se ne prendeva cura Carlo Santillo la cui famiglia per più generazione ha svolto il ruolo di “caronte” trasportando in spalla da una vasca all’altra della grotta i visitatori che venivano a Pozzuoli per ammirarla. Dal 2015 la Grotta è abbandonata in quanto don Carlo per motivi di salute non è più in grado di svolgere il ruolo di custode e di guida. L’intervista che segue risale al 2003, fu pubblicata sul Bollettino Flegreo nel 2004.

Oggi la Grotta, come tanti altri siti archeologici di Pozzuoli e dei Campi Flegrei, versa in uno stato di assoluto abbandono e desolante degrado. Speriamo che quanto prima qualcuno si “svegli” dal sonno e si adoperi per recuperarli, ridonandogli lo splendore di un tempo.

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Ancora oggi, a distanza di oltre cent’anni, sul lago d’Averno esiste una figura per tanti aspetti mitica che, nonostante la veneranda età, si prodiga con tutte le sue forze per proseguire una tradizione familiare ufficialmente iniziata verso la fine del XIX secolo. Stiamo parlando di Carlo Santillo, ACCOMPAGNATORE DELLA GROTTA DELLA SIBILLA IN LOCALITA’ AVERNOcome è segnato sul biglietto da visita dietro cui don Carlo ha fatto stampare il tracciato da percorrere in auto per raggiungere la grotta da Napoli via tangenziale.

Conobbi don Carlo un pomeriggio di giugno 2004 mentre passeggiavo intorno al lago godendomi la quiete del posto. Giunto all’altezza del viale che conduce alla grotta, la mia attenzione fu attratta da una comitiva di ragazzi che dal sentiero si riversava sulla via. Incuriosito mi incamminai sul viottolo ombrato da una fitta vegetazione. Percorso pochi metri, giunsi davanti alla spelonca. All’interno scorsi un uomo anziano spazzare con cura l’atrio illuminato dai riverberi di luce. Continuando a ramazzare, l’uomo volse su di me il viso magro adorno di occhialini attraverso cui scintillavano gli occhi sottilmente indagatori. Un berretto da caccia gli copriva il capo. Nonostante il caldo indossava un giubbetto di stoffa per proteggersi dall’umidità che ristagnava nella grotta.“Buongiorno”, mi salutò accatastando al suolo un mucchio di sporcizia. “Volete visitare la grotta?” “Sono solo e non voglio disturbarvi”. “Nessun disturbo. Lasciatemi finire e vi accompagno” Zoppicando si avvicinò a una nicchia scavata nella roccia per prendere da una cassa di legno la paletta. “Da poco è andata via una scolaresca, forse l’avete incrociata venendo” disse raccogliendo con fare certosino la spazzatura. “I turisti non hanno alcun rispetto, disseminano mozziconi e cartacce dappertutto. E a me tocca ogni volta ripulire perché la grotta sia presentabile”. “La grotta è vostra?”. “No. Io faccio solo l’accompagnatore. Venite!” Lo seguii verso la parete interna del cunicolo dove era infissa una mensola con su poggiate delle lampade da campeggio. Ne accese una e me la porse. “Tenete, senza queste non si va da nessuna parte. State attento a non bruciarvi.” Ne accese un’altra per sé, prendendo anche quella spenta, aggiungendo: “Per emergenza, non si può mai sapere!” Accompagnati da quell’incoraggiante viatico ci avviammo incontro al mistero. Man mano che avanzavamo nel buio alla luce delle torce, don Carlo mi parlò della grotta“Scoperta durante gli scavi archeologici promossi dai Borbone nel 1750 e successivamente nel 1792, la grotta è lunga duecentocinquanta metri ed è famosa per la sua discesa agli inferi, un budello scavato a gomito nella roccia che conduce a un corso d’acqua. In passato il fiumiciattolo si guadava trasportati sulle spalle di un moderno Caronte per visitare le stanze della Sibilla sull’altro versante oggi raggiungibile a piedi.” “Chi era questo moderno Caronte?” chiedo incuriosito. “Lo stesso accompagnatore! Fino al 1930, epoca in cui mio padre completò l’intero scavo del cunicolo, consentendo l’ingresso alle stanze direttamente a piedi, la grotta era lunga circa la metà, e per giungere lì dove si presume fosse la Sibilla bisognava attraversare il corso d’acqua sul fondo della cavità” dice fermandosi davanti a un cunicolo che si incunea nelle parete.“Vi faccio strada” Scendiamo fino a quando davanti a noi appare uno spettacolo fantastico. Illuminata dalle torce una vena d’acqua filtra nel fondo del cunicolo, svoltando in un’ansa che immette nelle stanze della Sibilla. Osservando il suggestivo scenario non mi stupisco che in passato si pensasse che quello fosse il passaggio agli inferi di cui parlano Omero e Virgilio nelle loro opere. “Una volta condotti fin qui i turisti, l’accompagnatore se li caricava a turno sulle spalle guadando il fiume per mostrare loro le stanze. Accompagnatori furono mio nonno, mio padre e tuttora io.”Ascoltarlo raccontare della sua famiglia accompagnatori da tre generazioni; ammirare l’impegno con cui da solo accudisce la grotta a proprie spese, senza percepire il minimo contributo dalle autorità o da altri, mi induce a proporgli un’intervista per capire cosa lo spinge a fare tutto ciò.Con don Carlo ci risentiamo telefonicamente dopo alcuni giorni e fissiamo l’appuntamento per le nove di sera davanti al sagrato della chiesa del Carmine a Pozzuoli. Nel chiarore dei neon distinguo l’inconfondibile figura di don Carlo venirmi incontro. Sul capo sgombro dal berretto risalta la rada schiera di capelli bianchi perfettamente ordinati. Indossa un elegante gilet porpora dalla trama arabescata. Mi saluta con simpatia. Sorridendo gli stringo la mano chiedendo se ha già cenato. “No, ma non vi preoccupate, alla mia età si mangia poco.” Insisto per offrirgli una pizza, alla fine accetta. In pizzeria mi presento al proprietario chiedendogli se nel locale c’è un posto dove possiamo parlare senza essere disturbati. Lui annuisce e ci guida nella sala interna ingombra di tavoli vuoti. Ci sediamo al desco l’uno di fronte all’altro. Traggo dalla borsa il registratore e lo sistemo sul tavolo. Don Carlo lo fissa spaventato. “Ma che fate, registrate?” si raddrizza sulla sedia. Non è la prima volta che intervisto qualcuno. E ogniqualvolta estraggo il registratore per non perdere nemmeno una parola di ciò che si dirà, tutti si allarmano! “State tranquillo” lo rassicuro. Pigio il tasto di registrazione dando il via alla nostra storia.

“Don Carlo come nasce la figura dell’accompagnatore della Grotta della Sibilla dell’Averno, il cosiddetto moderno Caronte?” “Il capostipite fu Del Giudice Lorenzo impiegato del genio civile di cui mio nonno Carlo sposò una delle sette figlie. Siamo intorno alla fine del milleottocento. Allora la strada che conduce da Lucrino all’Averno era ammantata di brecciolino e non asfaltata come oggi. Per agevolare l’afflusso delle carrozzelle con i turisti, Del Giudice e i suoi aiutanti, tra cui mio nonno, si adoperavano per tenerla sempre in ottimo stato, estirpando l’erba che cresceva ai lati, spianando e bagnando il terreno per evitare che al passaggio delle carrozze si levasse la polvere infastidendo i turisti. All’epoca il maggior afflusso di visitatori all’Averno e alla grotta era in autunno, in inverno e a Pasqua. Per fronteggiare la marea di gente il suocero di mio nonno allestì un gruppo di aiutanti per traghettare in spalla i turisti che volevano scendere negli inferi per visitare la stanza della Sibilla. D’estate invece i turisti diminuivano e da solo Del Giudice riusciva a fronteggiare le esigenze del pubblico per cui mio nonno, che tra l’altro era un valente pescatore, insieme agli amici se ne andava a La Spezia a pescare. Quando Del Giudice andò in pensione, non avendo figli maschi propose mio nonno al genio civile perché ne prendesse il posto. Inoltre gli cedette anche il ruolo di accompagnatore della grotta che di seguito occupò mio padre e quindi io. Approssimativamente sono centotrenta, centoquaranta anni che nella mia famiglia facciamo questo mestiere. Io iniziai nel 1946, dedicandomi a tempo pieno all’attività fino al 1960 quando mi impiegai nelle poste. Ma appena potevo aiutavo mio padre. Ho ripreso da quando sono andato in pensione nel gennaio del 1995.” “Don Carlo cosa la spinge a proseguire quest’attività? La volontà di non infrangere la tradizione di famiglia, la passione, o..?” “L’una e l’altra! Certamente non per interesse. Sono un pensionato e, a dire la verità, quel poco che guadagno accompagnando la gente lo spendo per far fronte a tutte le mascalzonate arrecate dagli sconosciuti alle infrastrutture della grotta. Più volte ho dovuto riparare il cancello d’entrata perché manomettevano la serratura per entrarvi. Addirittura alcuni anni fa realizzai un impiantino elettrico alimentato da accumulatori che rischiarava i cunicoli e le stanze. Durò quindici giorni poi scassarono tutto!” “Don Carlo ma i lavori di manutenzioni li paga lei?” “Si capisce! Li pago io di tasca mia fino all’ultimo soldo. Nessuno mi sostiene… Si rompe il muro? Chiamo il muratore e lo faccio riparare. Manomettono il cancello? Chiamo il fabbro e lo faccio aggiustare. La passerella che c’è nelle stanze marcisce? Chiamo il falegname e faccio sostituire le assi. Tutto a spese mie! Mai nessuno s’è degnato di ringraziarmi per tutto ciò! A parte ovviamente i visitatori i quali, chiedendomi ragguagli sulla grotta, come lei si sorprendono che faccia tutto da solo, finanche da spazzino pur di tenere il luogo in ottimo stato. Consideri che quando pulisco il vialetto d’accesso dal fogliame, durante il periodo invernale sono costretto a spazzare anche in mezzo alla strada per rendere transitabile il tratto che conduce alla grotta.” “Ha mai pensato di cercarsi un aiutante?” suggerisco mentre don Carlo si versa da bere un bicchiere d’acqua minerale. Bevendo il suo sguardo attento e luminoso mi scruta al di sopra del bicchiere. “Al giorno d’oggi non c’è tutta quell’affluenza di gente da giustificare la presenza di un aiutante “ dice posando il bicchiere sul tavolo. “Solo il lunedì dell’Angelo e il primo maggio mi ci vorrebbe effettivamente un po’ d’aiuto. Per il resto faccio da me!” Il velato orgoglio, misto a una punta di ostinazione, che traspare dalle sue parole mi induce a credere che, considerandola un bene di famiglia, l’idea di condividere la grotta con qualcun altro non gli piace affatto. Se così fosse non lo si potrebbe biasimare ripensando alla fatica e al sudore versati dai suoi avi mentre negli anni trasportavano in spalla i turisti per garantire il pane ai propri figli. Fu proprio la paura che questo pane venisse improvvisamente a mancare che il padre di don Carlo, Alessandro Santillo, nel 1932, allorché Amedeo Maiuri scoprì l’attuale antro della Sibilla nell’acropoli di Cuma, si rivolse a Raimondo Annecchino affinché intervenisse perché l’archeologo non sconfessasse con la propria autorità la grotta dell’Averno. “Dopo aver scoperto l’antro di Cuma, Maiuri si recò a visitare la grotta dell’Averno facendosi traghettare in spalla da mio padre” ricorda don Carlo. “A seguito di quella visita dichiarò che per anni la grotta era stata arbitrariamente definita grotta della Sibilla. Viceversa si trattava di uno dei tanti camminamenti militari di epoca romana scavati da Agrippa nel 37 a.c. quando bonificò il lago creandovi il Porto Julius durante la guerra civile tra Ottaviano e Pompeo, ingiungendo a mio padre di interrompere l’attività. Papà non si lasciò intimorire. Rispose che aveva famiglia per cui avrebbe smesso solo se Maiuri gli avesse trovato un lavoro. Quindi si rivolse a Raimondo Annecchino perché trovasse un compromesso. Annecchino, che oltre ad essere un signore era anche amico di Maiuri, si interessò della vicenda, chiedendo all’archeologo di non rimarcare troppo sull’infondatezza dell’originalità della grotta dell’Averno. Alla fine si trovò la soluzione decidendo di chiamare la grotta Bagno della Sibilla, ovvero luogo in cui la Sibilla veniva a bagnarsi. Io non affermo che la Sibilla stesse davvero in questo luogo. Dichiarare la grotta camminamento militare successivamente adibito a bagno termale mi sta bene. Però vorrei che gli organi competenti dessero maggiore importanza alla grotta e a tutta l’aria dell’Averno. Di questi luoghi ne parlano Omero, Virgilio. Uomini di cultura di tutte le epoche giungevano in questi posti per respirare il mito. Ma oggi dove sono i turisti? Qui intorno si vede solo gente che viene per mangiare o per fare all’amore… Perché gli studiosi, oltre ad affermare che la grotta è un camminamento militare, non dicono che tutto il luogo, per il suo valore storico, merita d’essere visitato? Perché non si adoperano affinché i turisti tornino in massa invece di tacere? L’esistenza della grotta è stata addirittura cancellata dalle carte topografiche. Fino a venti anni fa sulle guide c’era scritto Grotta della Sibilla, oggi troviamo segnato Grotta Romana. In tal modo la gente è depistata. Leggendo che l’antro della sibilla sta a Cuma questa non la viene a visitare perché di grotte romane qui ce ne sono tante.” Il tono accorato di don Carlo coinvolge emotivamente. Essendo mia intenzione dare risalto alla sua figura di Carlo di moderno Caronte, gli pongo una domanda che lo imbarazza. “Don Carlo perché suppone che anticamente nella grotta si celebravano riti sacri?” “Per sentito dire sembra che durante alcuni scavi effettuati in passato nei pressi della grotta furono rinvenuti un altare e delle statue di divinità risalenti a epoca preromana che furono subito occultati per evitare l’intervento della soprintendenza. Ma si tratta solo di voci che lasciano il tempo che trovano!” Tralasciando i “per sentito dire”, i graffiti scavati sulle pareti della grotta che riproducono una spiga, simbolo di Demetra dea dei campi, e un fallo, simbolo dionisiaco, lasciano supporre che probabilmente nella grotta si celebrasse un culto ctono legato alla terra, avvalorando la tesi di don Carlo. Uno degli aspetti più affascinanti che in passato resero famosa la figura dell’accompagnatore era il traghettamento a spalla dei turisti. “Prima che installassi la passerella sul canale che collega l’ingresso agli inferi con le stanze, l’attraversamento del corso d’acqua si compiva sulle spalle dell’accompagnatore. All’epoca di mio nonno e mio padre l’auto era un lusso che poche famiglie potevano permettersi. I turisti giungevano nei Campi Flegrei con la cumana, il tram o la metropolitana. All’uscita dalle stazioni trovavano le carrozzelle che li accompagnavano a visitare i luoghi del mito virgiliano. Con i vetturini mio nonno e mio padre avevano stabilito un accordo che prevedeva per ogni turista che visitava la grotta, in base al prezzo stabilito per la visita, una percentuale che andava al vetturino. In questo modo l’andirivieni di turisti alla grotta era garantito così come era assicurato a mio nonno, mio padre e altri di mantenere le proprie famiglie in un epoca in cui non era facile sbarcare il lunario. Allora alla grotta provenivano carrozzelle da Baia, Napoli, Posillipo, dalla Riviera di Chiaia, Marigliano. Taxy da Napoli e da Pozzuoli; guide dalla solfatara con i loro gruppi di turisti. Considerate che a quei tempi alla solfatara c’erano ben quattordici guide mentre oggi ce ne sono solo due! All’epoca spesso fuori alla grotta si creava un’interminabile fila di visitatori. Oggi purtroppo la carrozzella è scomparsa. Ognuno ha la macchina, legge sulle guide della grotta di Cuma e si reca lì tralasciando questa dell’Averno.”
Riguardo alla sua figura di moderno Caronte, gli chiedo 
di raccontarmi qualche aneddoto curioso verificatosi nel corso di tutti questi lunghi anni in cui la sua famiglia ha svolto la funzione di accompagnatore.

“Di aneddoti da raccontare ne avrei diversi ma taccio per rispetto dei turisti. Quello che le posso dire è che mio nonno e mio padre hanno traghettato in spalla persone illustri come lo zar di Russia Nicola II, Re Gustavo di Svezia, donna Rachele Mussolini con il figlio Bruno, la contessa Pallavicini, la regina Elena di Savoia e la Principessa Maria José che mio padre portò in braccio perché era in stato interessante. In passato c’era l’abitudine da parte dei turisti di lasciare appuntato con un chiodo sulla sommità della grotta il proprio biglietto da visita cosicché si veniva facilmente a sapere delle persone importanti che l’avevano visitata. Ovviamente quando sopraggiungeva un’alta personalità lo si capiva subito perché era preceduta dalla staffetta che annunciava, “sta arrivando sua maestà!”. In quei momenti si allestiva tutto un preparativo per accoglierla degnamente. Ma questo succedeva all’epoca di mio nonno e di mio padre. Personalmente non mi risulta di aver accompagnato qualche pezzo grosso, anche perché oggi se qualcuno lasciasse un biglietto da visita presso la grotta per segnalare d’averla visitata, ‘sti mascalzoni non lascerebbero in pace nemmeno quelli!” “Don Carlo possibile che non ha qualche aneddoto particolare da raccontare che riguardi lei o suoi avi?” insisto sperando di fare breccia nella sua dura scorza da galantuomo. Per un attimo leva gli occhi al soffitto segno che sta setacciando nei ricordi. “Oddio, un fatto che mi ha molto colpito riguardò mio nonno” ammette tornando a fissarmi inarcando la fronte, sistemandosi gli occhialini sul naso. “Durante la visita di un gruppo di turisti facoltosi uno di loro perse un gioiello molto prezioso. Quando ritornò alla grotta per vedere se l’avesse perso lì, mio nonno glielo consegnò dicendo, “qui l’avete perso e qui sta!” Personalmente un episodio che non dimenticherò mai fu la visita di un turista che, prima di venire alla grotta, era stato alla solfatara. Appena mi vide la prima cosa che mi chiese fu il costo dell’accompagnamento. Io risposi che era a suo piacere e lui si innervosì, asserendo che era stanco di quest’atteggiamento dei napoletani. Incuriosito chiesi perché ce l’avesse tanto con i napoletani. Mi spiegò che alla Solfatara, dopo aver pagato centocinquanta lire per l’ingresso, aveva dovuto sborsare quattrocento lire per la guida altrimenti non poteva visitare il vulcano in quanto farlo da soli era proibito ritenendolo pericoloso. Quindi aveva dovuto pagare altre duecento lire per delle fiaccole di pino utilizzate dalle guide per accrescere il fumo in alcuni punti del vulcano, più ancora altre duecentocinquanta lire per l’acquisto di alcune pietre che gli aveva venduto un tizio che allestiva una specie di scenografia all’interno di una grotta. In più, a conclusione della visita, la guida gli aveva chiesto di offrirgli un bicchiere di vino per brindare alla sua salute. Insomma la visita alla Solfatara gli era costata più di mille lire. Come non giustificare la sua arrabbiatura? A quel punto dissi, “ a Napoli diciamo che i patti li fanno i cocchieri” e gli chiesi poche centinaia di lire. Bene, alla fine il signore restò talmente soddisfatto che non ricordo se mi diede cinquecento o cinquemila lire. Ma rammento che mentre fissavo il danaro nella mano ero così confuso che gli chiesi se fosse certo di quel che mi aveva dato. “Eccome se sono certo, lei è un galantuomo!”, ribatté lui soddisfatto.” Nei racconti di don Carlo compare un elemento comune rappresentato dall’onestà! Glielo faccio notare e lui rafforza il concetto narrando un episodio emblematico. “Tenga presente che l’accompagnatore deve scortare persone sole nel buio. Ora immaginatevi quando si compiva l’attraversamento a spalla e si traghettava una bella donna… Il moderno Caronte con una mano reggeva la torcia e con l’altra le gambe della turista. Ma ‘sta mano tanto poteva metterla all’altezza delle caviglie e tanto più sopra accarezzando le cosce della signora!” “C’è stato chi l’ha fatto?” “Ci fu chi si lamentò con mio padre, ma non perché compì lui l’audace gesto. Un giorno che c’erano tante persone da accompagnare e traghettare, papà chiese aiuto a un conoscente il quale ne approfittò per palpeggiare le gambe di una signora. All’uscita la visitatrice si lamentò col cocchiere il quale ammonì mio padre di non servirsi più di quella persona perché non si era comportata da galantuomo!” “Don Carlo anche lei ha traghettato gente in spalla” “No!” risponde deciso. “Non l’ho mai fatto e non mi sarebbe piaciuto farlo. Anzi criticavo mio padre perché, facendolo, si rovinò la salute. Oddio, papà è vissuto fino a novantatre anni ma di acciacchi ne aveva tanti tra artrosi e reumatismi. Mio padre faceva l’accompagnatore da che era bambino. Per oltre trenta anni ha traghettato la gente in spalla nell’acqua caricandosi in groppa persone che pesavano fino a centoventi chili. E vi assicuro che non aveva un fisico erculeo, anzi… Vi immaginate che vita ha fatto? Il cardiologo che lo conosceva, quando mi incontrava, mi chiedeva sempre, “ma papà è ancora vivo? Deve essere figlio del padreterno per continuare a campare dopo quella vitaccia!” Da oltre un’ora pendo dalle labbra di quest’uomo così semplice e umile da non rendersi conto d’essere un vivo fotogramma di storia! Di tanto in tanto l’aroma della pizza si spande nella sala stuzzicando il palato. Sarei tentato di chiudere l’intervista per soddisfare la gola ma tengo a bada lo stomaco ancora per un po’ e pongo un’ulteriore domanda a don Carlo. “Da qui a cent’anni, quando lei non ci sarà più scomparirà anche la figura dell’accompagnatore, o c’è qualcuno che prenderà il suo posto?” “Chissà” sorride facendo spallucce. “Al momento non c’è nessuno a cui cedere il timone. Per farlo dovrei trovare una persona che intraprenda il mestiere non per lucro. Glielo ho detto, per fare l’accompagnatore prima di tutto bisogna essere galantuomini!” “Don Carlo un’ultima domanda.” “Dica” fa rilassandosi. “Quali sono le sue speranze per il futuro della grotta?” Prima di rispondere si aggiusta gli occhiali sul naso. “Ho 74 anni e soffro di artrosi all’anca, un ricordo della grotta. Tuttavia se non avessi questo fastidio mi adopererei come un giovanotto perché si desse più considerazione a tutta la località dell’Averno, non solo alla grotta. Ho sempre sognato di vedere l’Averno curato come si conviene; senza un filo d’erba lungo la strada. Magari creare una pista ciclabile; istituire un trenino che colleghi l’Averno con il lago di Lucrino; ripristinare d’estate un servizio di carrozzelle per i turisti. Impiantare lungo il lago dei fari che illuminino in maniera caratteristica e suggestiva la zona; sistemare lungo il percorso delle panchine, delle piante ornamentali e delle fontanelle. Ma si tratta solo di speranze, di sogni!” “Don Carlo a volte i sogni si avverano” “Speriamo!” sorride.

ANGELINA DI BONITO – POETESSA DELLA PITTURA

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Sabato 9 marzo, per la rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, nella sede dell’associazione culturale Lux In fabula si è svolto l’incontro con la pittrice Angelina Di Bonito.

Persona timida e riservata, l’artista si è spesa in poche parole, lasciando che a parlare fossero le proprie opere dal tocco leggero e penetrante, da cui traspariscono forti emozioni.

In particolare i ritratti effondono una profonda visione intimista, che si riflette negli sguardi intensi e nelle espressioni dei soggetti dipinti, dal delicato sapore di poesia. Tant’è, più d’uno dei presenti ha evidenziato tale aspetto giungendo a definire la Di Bonito “poetessa della pittura”.

Alla serata era presente il maestro d’arte Antonio Isabettini che, oltre a spendere parole d’elogio per l’artista, ha ricordato quando da ragazzi, insieme con altri giovani pittori, si recavano in giro per Pozzuoli per ritrarre angoli del capoluogo flegreo.

Raccontando di sé, la Di Bonito ci ha tenuto a precisare di essere un autodidatta; di aver iniziato a dipingere all’età di sette anni quando il papà le regalò la prima scatola di colori e di non aver più smesso. Alla domanda “qual è il suo riferimento artistico” ha risposto “non ne ho uno in particolare. Mi piace spaziare dall’espressionismo all’astrattismo, dal seicento caravaggesco alla scuola di Posillipo. Da ogni pittore ho cercato di imparare qualcosa che è servita a formare il mio stile”.

La serata si è aperta con un breve filmato, montato da Claudio Correale presidente dell’associazione e da Guglielmo Moschetti compagno della Di Bonito e scrittore anche lui in calendario nella rassegna, in cui si potevano ammirare alcune opere dell’artista e immagini di concorsi dove ha partecipato e vinto.

Lo stile di vita sobrio ed elegante della Di Bonito ricorda quello di una nobildonna dell’ottocento. Non a caso il maestro Isabettini ha affermato con rammarico “Angelina è nata nell’epoca sbagliata. Fosse nata a fine ottocento, sarebbe stata un Chagall o un Van Gogh al femminile” riferendosi non solo alla sua pittura ma alla personalità compita e decisa della Di Bonito “poetessa della pittura”.

Vincenzo Giarritiello

POZZUOLI, UN INIZIO MARZO CARICO DI EVENTI CULTURALI

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Sarà un inizio marzo all’insegna della cultura e dello spettacolo quello che si prospetta a Pozzuoli per il prossimo fine settimana.

Si incomincia sabato 2 marzo alle ore 17 all’Art Garage – Viale Bognar, 21 nei pressi della metropolitana – con l’inaugurazione della mostra fotografica “Viaggio a Tecla e Moriana” di Lorenzo Leone. L’evento è il secondo appuntamento della rassegna fotografica a scadenza bisettimanale curata da Gianni Biccari. Apertura: lunedì-venerdì dalle 10 alle 22; sabato dalle 10 alle 20; domenica chiuso. Ingresso libero.

Quello stesso giorno alle ore 21 presso ‘A PUTECA ‘E LL’ARTE – Via Traversa Provinciale Pianura, 16/Pozzuoli (direzione Pozzuoli-Pianura di Fronte BA.CO.GAS) – si terrà il concerto del cantautore Nicola Dragotto, “DIVAGAZIONI (tu chiamale se vuoi)”. Costo del biglietto 10 euro.

Domenica 3 marzo per commemorare il 49° anniversario dello sgombero del Rione Terra, a partire dalle ore 10,30 un gruppo di ex abitanti della rocca si ritroveranno nel piazzale d’ingresso del Rione per raccontare episodi di vita vissuta fino al giorno dello sgombero nell’attesa si facciano le 12, ora in cui ebbe inizio l’evacuazione, per chiudere il raduno con una sorpresa commemorativa. Ingresso libero, partecipazione aperta a tutti.

La tre giorni culturale si concluderà lunedì 4 marzo al cinema Sofia: per ricordare il sesto anniversario dell’incendio di Città della Scienza che cade proprio quel giorno, alle ore 20,30 si proietterà il docufilm VOCE ‘E SIRENA del regista Sandro Dioniso con Cristina Donadio, Rosaria De Cicco e Agostino Chiummariello. Ingresso libero fino a esaurimento posti.

Non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Buon divertimento!

Vincenzo Giarritiello

ALDO CHERILLO RACCONTA IL LAGO DI AGNANO

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Pozzuoli.

Forse non tutti sanno che un tempo all’interno della conca d’Agnano esisteva un lago, probabilmente formatosi nel X secolo, sulle cui sponde oltre alla pesca e alla caccia si praticava la coltivazione della canapa tessile: una volta raccolta e caricata sui carri, la fibra veniva trasportato alle fabbriche di Miano lungo una strada impervia che si estendeva da Agnano a via Terracina fino alla Loggetta, risalendo per Via Pigna, scollinando sui Camaldoli e giungendo a destinazione.

La bonifica del lago, ideata per fronteggiare i casi di malaria che d’estate decimavano la popolazione, fu progettata nel 1835 in epoca borbonica ma venne realizzata solo dopo l’avvento dell’unità d’Italia tra il 1865 e 1871. Quando l’invaso fu prosciugato, sul fondale vennero scoperte ben 72 sorgenti d’acqua sorgiva che vanificarono le speranze di chi aveva investito capitali in quel progetto per poter poi lucrare sul terreno bonificato.

Di tutto ciò e altro ancora ha parlato Aldo Cherillo sabato 16 febbraio da Lux In Fabula a Pozzuoli in QUANDO C’ERA IL LAGO DI AGNANO nell’ambito della manifestazione QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE.

Supportato da immagini fotografiche e disegni tratti dal volume IL LAGO DI AGNANO di Libero Campana, storico locale residente sul Pendio di Agnano che del lago conosce vita morte e miracoli, per oltre un’ora Cherillo ha illustrato alla platea con una narrazione semplice e chiara, inframmezzando dotte dissertazioni a simpatici aneddoti, la storia del lago nel corso dei secoli, fino al suo svuotamento mediante la costruzione di un canale sotterraneo lungo un chilometro e mezzo che sbucava a mare, tuttora visibile nei pressi del Dazio a Bagnoli, il cui scavo costò un caro prezzo in termini di vite umane.

Sul lago sorgeva la famosa “grotta del cane” – un ipogeo artificiale, molto probabilmente un sudatorio delle antiche terme greche – oggi interdetta al pubblico, così denominata per via delle esalazioni venefiche di anidride carbonica che vi si diffondevano: essendo l’anidride carbonica più pesante dell’ossigeno, il gas si depositava al suolo per cui qualunque animale vi entrasse e respirasse restava tramortito.

Per fronteggiare la miseria, gli abitanti del luogo accompagnavano i turisti in visita alla grotta recando con sé un cane che facevano entrare nel cunicolo. Non appena l’animale vi accedeva e perdeva i sensi, lo immergevano nel lago perché si riprendesse. Da qui la leggenda che le acque del lago fossero “miracolose”.

Con la passione tipica degli autodidatti, Cherillo ha fatto scoprire ai presenti aspetti dei campi flegrei ignoti che meriterebbero di essere divulgati, magari organizzando visite guidate per non dimenticare che la conca di Agnano è un cratere vulcanico spento da millenni.

La natura vulcanica della zona è testimoniata dalle intense fumarole in località Pisciarelli e dalle gloriose terme di Agnano, un tempo fiore all’occhiello di Napoli, che meriterebbero il giusto rilancio a livello locale e nazionale tornando a fungere da volano turistico per un territorio ricco di risorse ma povero di menti imprenditoriali capaci di sfruttarle al meglio.

 

Vincenzo Giarritiello

DA LUX IN FABULA ELEONORA PUNTILLO, PROFESSIONE GIORNALISTA

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Sabato 9 febbraio presso Lux In Fabula, a Pozzuoli, nell’ambito della manifestazione Quattro Chiacchiere Con l’Autore, si è svolto l’incontro con Eleonora Puntillo. Giornalista dal 1961, nel corso di oltre cinquant’anni di attività ha collaborato con L’unità, Paese Sera, La Repubblica, Il Roma, Il Corriere del Mezzogiorno, Il Corriere della Sera e con la rivista Polizia e Democrazia partendo dal ruolo di cronista fino a rivestire quello di capo servizio e inviato.

In poco meno di due ore di chiacchierata, Eleonora ha raccontato svariati episodi della propria carriera giornalistica, iniziando dalla vicenda di Felice Ippolito da lei narrata nel libro FELICE IPPOLITO UNA VITA PER L’ATOMO edito da EDIZIONI SINTESI, in cui racconta dello scienziato Felice Ippolito che, per le sue vedute avveniristiche in campo energetico tese all’utilizzo dell’energia atomica, fu osteggiato e deriso dai poteri, politici e non, dell’epoca.

Stimolata dalle domande e dalle riflessioni del pubblico, commentando la funzione del giornalismo moderno, la Puntillo ha espresso il proprio parere sull’avvento di internet e del digitale; riconoscendo alle nuove tecnologie il merito di aver reso possibile a chiunque l’accesso alle notizie, ma nello stesso tempo stigmatizzandone l’abuso indiscriminato che a suo dire avrebbe svilito una professione “nobile” dando a chiunque la possibilità di fornire informazioni in rete spesso con l’intento di divulgare falsità al fine di confondere le idee al lettore.

Come si conviene a un giornalista di “vecchio stampo”, la Puntillo ha ammesso di essere rimasta indissolubilmente legata alla carta stampata raccontando di quando, inviata a seguire un processo a Salerno, la mattina prima di entrare in aula invitava i colleghi a fare un’abbondante colazione e di come questi invece si limitassero a prendere un caffè per entrare subito in sala, mentre ella si attardava al buffet mangiando di tutto e di più. Ciò comportava che a un certo orario tanti giornalisti, vittime dei morsi della fame, erano costretti a recarsi al bar per mangiare un cornetto “sereticcio”, perdendo l’anima della discussione processuale che proprio in quel momento entrava nel vivo. Viceversa lei, proprio in virtù dell’essersi saziata abbondantemente prima che iniziasse il dibattimento processuale, non essendo afflitta dalla fame, era in grado di raccogliere tutte le informazioni e al momento che dettava il pezzo comunicava dettagliatamente al giornale la notizia, a differenza degli altri colleghi i quali, preso atto di questa sua prerogativa, nei giorni a seguire incominciarono a spulciare alle sue spalle quando scriveva, approfittando della leggibilità della sua scrittura chiara e lineare. Per evitare che continuassero a copiare, essendo laureata in filosofia, iniziò a scrivere gli appunti in greco scalzando tutti.

Parlando dello sgombero del Rione Terra avvenuto il 2 marzo del 1970, e di cui tra due settimane si ricorrerà il 49° anniversario, la giornalista non ha potuto fare a meno di manifestare le proprie perplessità sull’effettiva necessità di quel provvedimento che non solo lei reputa quanto meno avventato.

Ascoltare la Puntillo raccontare della propria esperienza professionale è equivalso a presenziare a una lezione di giornalismo dove il professore ha spalancato senza filtri il proprio animo agli “allievi”.

Grazie Eleonora!

VINCENZO DI BONITO PRESENTA IL SUO SAGGIO SULLE RELIGIONI

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Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it 

Chi conosce Vincenzo Di Bonito – ex dirigente del Comune di Pozzuoli, laureato in Lettere e Istituzioni dell’Europa occidentale all’Orientale di Napoli – sapendolo persona schiva e di poche parole, sarà rimasto piacevolmente sorpreso dalla vivacità con cui sabato 19 gennaio da Lux In Fabula, nell’ambito della rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, ha parlato del suo saggio sulle religioni “PROFEZIE MIRACOLI INCANTESIMI”.

Partendo in sordina come si addice a un buon maratoneta – Vincenzo è un runner e insieme a un gruppo di amici storici ha corso e corre maratone per il mondo – man mano che la discussione incalzava, stimolato dalle domande del pubblico, ha spiegato che il volume è una sorta di bignami sulla storia delle religioni e lo spunto per scriverlo lo ha tratto nel corso dei tanti viaggi, altra sua grande passione, che insieme a un altro gruppo di amici storici, tra cui il fotografo Aldo Adinolfi in calendario nella rassegna il 30 marzo con una proiezione di diapositive, lo hanno portato dalle Orcadi all’Alaska, dal Tibet alla Nuova Zelanda, evitando le rotte del turismo di massa in quanto di un paese ama conoscerne gli aspetti veri anziché quelli stereotipati da cartolina offerti dai tour operator.

A riguardo l’autore ha raccontato che spesso in queste sue peregrinazioni planetarie si è dovuto confrontare con situazioni estreme, che però lo hanno messo nelle condizioni di conoscere di ogni popolo aspetti culturali ignoti, specialmente per quanto concerne le credenze religiose spingendolo ad approfondire l’argomento di cui il libro è il compendio.

Il volume è articolato in quattro parti dove in ognuna si affronta un singolo aspetto. Nella terza si parla delle religioni rivelate cui appartengono il giudaismo, il cristianesimo e l’islam. Soffermandosi su quest’ultima Vincenzo ne ha smentito il presunto messaggio di violenza che traspare dalla stortura ideologica omicida fattane dall’estremismo islamico, facendo presente che gli estremismi appartengono a tutte le religioni, cristianesimo incluso il quale in passato, pur di affermarsi e estendersi sul pianeta, in nome di dio ha commesso i peggiori crimini; che quasi sempre è la voglia di potere di un ristretto gruppo di persone a interpretare e tramandare in maniera distorta e opportunistica l’originario messaggio tracciato dal fondatore al fine di sottomettere a sé la massa ignorante per poi farne pecore da pascolo o da macello a seconda dei propri intenti.

Non a caso gli insegnamenti di Buddha che li tramandava in maniera rigorosamente orale comparvero per la prima volta scritti a quattrocento anni dalla sua morte mentre quelli di Gesù a non meno di ottanta anni dalla sua scomparsa dal mondo: è facile travisare il senso di un messaggio quando la fonte originaria, l’unica che potrebbe smentirci, non c’è più, affermando tutto e il contrario di tutto rispetto a quanto si voleva davvero intendere, soprattutto se si è investiti di un’autorità…

Un aspetto del libro che merita d’essere segnalato è la semplicità e la fluidità del linguaggio con cui è redatto che lo rendono alla portata di tutti. Soprattutto di chi avrebbe intenzione di approcciarsi alla storia delle religioni ma, non avendo un’infarinatura accademica, se sfogliasse un saggio classico sull’argomento rischierebbe di non capirlo a causa del discorso articolato e complesso nonché per la mancanza di adeguate conoscenze storiche e politiche che non gli permetterebbero di comprendere l’affermarsi e lo svilupparsi di un credo in una specifica comunità.

A Vincenzo Di Bonito va riconosciuto il merito di aver affrontato il tema coniugando conoscenza e semplicità in maniera calibrata, offrendoci un gustoso abbecedario della storia delle religioni di cui dovrebbe munirsi chiunque fosse intenzionato a conoscerne la loro origine; un punto di partenza fondamentale per spaziare in un campo dove spirito e materia in alcuni casi sembrano essere in conflitto in altri in simbiosi a seconda se stiamo in occidente o in oriente.

INTERVISTA AL MAESTRO ZEN VINCENZO CROSIO

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Di seguito la versione integrale dell’intervista a Vincenzo Crosio pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it; a margine la successiva puntualizzazione di Vincenzo in un commento su Facebook

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Pozzuoli. Sabato 12 gennaio, per la rassegna “Quattro Chiacchiere Con L’Autore”, presso Lux In Fabula si è svolto l’incontro con il maestro zen Vincenzo Crosio che, presentando il  suo libro IL KOAN DEL RAMO SPEZZATO edito da Aletti Editore dove si affronta il tema dell’ikebana, l’arte giapponese di disporre in un vaso i fiori spezzati, ha discusso in maniera diffusa della filosofia zen e del concetto secondo cui nell’universo nulla è perfetto ma perfettibile, ossia migliorabile.

Per essere più chiaro Vincenzo ha mostrato ai presenti prima una composizione di fiori e foglie colti e disposti da lui stesso nel vaso in modo da formare con le loro estremità una spirale tendente verso l’alto, simbolo della vita in eterna evoluzione; quindi una tazza  di ceramica  giapponese: mostrandone il fondo grezzo, ha spiegato che non si trattava di un errore dell’artigiano bensì di una caratteristica voluta apposta per testimoniare che nell’universo nulla di perfetto; che si parte dal grezzo per ottenere, dopo un lungo processo di raffinazione mediante il lavoro, la tazza e le sue delicate decorazioni.

Poiché tale procedimento di purificazione, secondo lo zen, sarebbe infinito, ecco il motivo della presenza di un piccolo errore in qualsiasi opera si rifaccia a tale filosofia. Ciò ricalca il concetto, sempre cinese, dello yin e dello yang, il nero e il bianco, dove nel nero vi è una goccia di bianco e viceversa a testimonianza che gli opposti non sono mai separati l’uno dall’altro.

A fine serata abbiamo posto alcune domanda al maestro Crosio.

E’ un’anomalia che un occidentale rivesta il ruolo di maestro zen o rientra nella norma?

Rientra nella norma perché l’incontro tra Oriente e Occidente è destinato a verificarsi. In fondo si tratta di capirsi: due più due fa quattro sia in Oriente che in Occidente, come diceva Newton.

Enzo come ti sei avvicinato a questa realtà?

Da giovane ho avuto un’esperienza molto dura, la mia generazione negli anni settanta si è impattata con gli anni di piombo. Mi trovai a Parma e fui letteralmente ospitato, curato ed educato dal monastero zen di Fudenji in quanto ero un samurai sconfitto.

In che senso eri un samurai sconfitto?…

Sono stato un guerriero del movimento del settantasette. Alla fine tutto questo cozzava contro le imperizie, una non conoscenza che lo Zen invece ha formato.

Oggi che attività svolgi?

Sono pensionato. La mia attività era quella di insegnante e sono stato anche rettore e direttore del seminario teologico avendo l’attitudine a quella che definisco la teologia della grazia: io sono un teologo della grazia, spero che gli uomini siano felici!

Quindi il tuo ruolo di maestro zen ti sarà stato di aiuto nel rapporto con gli studenti…

Moltissimo! Non lo dico per vanteria ma capire tutte le dinamiche di una ragazzo, soprattutto quelle di chi viveva nei rioni a rischio, ha significato letteralmente salvare dalla criminalità, dalla droga e dall’alcol tanti giovani. A scuola avevamo una “scuola del samurai” che era molto disciplinata ma nello stesso tempo molto aperta alle affettività. Tutto ciò l’ho sempre considerato come un compito affidatomi da Dio di cui non ne ero consapevole: di fronte al dolore estremo di alcune persone è come se mi fossi gettato nel fuoco insieme a loro per salvarle.

Suggeriresti a chiunque di avvicinarsi all’ikebana?

Si! Ordinare i fiori nel vaso, che sembrerebbe una sciocchezza, introduce a un fatto pratico, ossia le mani devono comporre un vaso di fiori seguendo dei criteri personali ma che ubbidiscono a un gusto che alla fine fa sì che questo gesto semplice produca la bellezza in un salotto, in una cucina, perfino in un bagno. Attraverso l’ikebana possiamo rendere vivibili anche gli spazi più imbarazzanti, a conferma che gli opposti, in questo caso bello e brutto, si compenetrano l’uno nell’altro. Proprio come indicano i simboli dello yin e dello yang!

Secondo alcuni, noi occidentali in virtù del nostro vivere caotico non saremmo portati per le dottrine meditative di tipo orientale. Tu che da occidentale sei assurto al grado di maestro zen ovviamente sconfessi questa teoria…

Assolutamente sì! Ogni popolo ha dentro di sé un cuore zen, ossia generoso, e una delle città occidentali dove si attua in maniera inconsapevole la filosofia zen è Napoli, essendo per natura disposta all’accoglienza e alla generosità verso il prossimo. In qualche modo l’incontro tra Oriente e Occidente è esattamente l’incontro che descrive il mio maestro il quale chiese a un monaco tibetano “scusi ma l’occidente non le ha insegnato niente?”.

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Commento all’articolo di Vincenzo Crosio apparso su Facebook: “Grazie a Vincenzo Giarritiello, una persona colta e molto disponibile…anche se chiamarmi maestro e poi maestro zen è un po’ eccessivo. Ho raggiunto nella ordinazione laica – ripeto laica- il grado di Maestro assistente I, che non è poi così oneroso, anzi. L’unico maestro per me è uno solo, il principio creatore, l’infinita misteriosa genesi ed evoluzione del tutto. Sono solo un praticante e nemmeno così bravo! Come spiego nell’intervista la ‘regola morale’ ,la ‘paramita’ , mi ha forgiato all’attenzione degli altri, questo sì e lo devo ai miei maestri del Monastero Zen di Salsomaggiore che ho avuto l’onore di servire per oltre 20 anni con dedizione. In cambio ne ho ricevuto educazione, nutrimento e sapienza. Mi ha forgiato come uomo, consapevole che esistono delle pratiche e dei doveri, in cui tutti siamo chiamati ad agire. Agire oggi significa aver cura di sé e degli altri, dell’uno e dei molti, con una felice espressione di un famosissimo Sutra , il ‘Sandokai’, la via dell’uno e dei molti. Ecco la via di mezzo è esattamente la via dell’uno e di molti.”