Luca Sorbo, una vita per la fotografia

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Docente di fotografia, cinema e televisione all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, considerato tra i massimi esperti di fotografia in Italia, Luca Sorbo è il curatore della mostra fotografica EMOZIONI E PALCOSCENICO di Gianni Biccari esposta a Pozzuoli presso il Polo Culturale di Palazzo Toledo dal 7 al 21 settembre. Approfittando della sua presenza al vernissage, gli abbiamo posto alcune domande sulla fotografia in generale e quella di Biccari in particolare.

 

Professor Sorbo cosa rappresenta per lei la fotografia?

Un linguaggio straordinario che da quando è nato nel 1839 ha completamente cambiato la visione del mondo. Basta semplicemente pensare al ritratto: prima dell’avvento della fotografia le persone non avevano un ritratto di sé, a meno che non appartenessero alla ristretta cerchia dell’aristocrazia che poteva permettersi un pittore. Prendiamo come riferimento questa mostra di foto di scena, noi cosa sappiamo delle rappresentazioni di Moliere o di Shakespeare? Non sappiamo nulla di quali fossero gli allestimenti di questi grandi autori in quanto non abbiamo una documentazione come invece l’abbiamo oggi grazie alla fotografia.

Lei come si è avvicinato alla fotografia?

Ho cominciato come amatore a diciotto anni, poi a ventinove anni come fotogiornalista e a trentacinque mi sono interessato della storia della fotografia e delle tecniche fotografiche. Oggi, con un po’ di immodestia, posso dire d’essere considerato tra i maggiori esperti di fotografia a livello nazionale.

Lei dunque nasce come fotografo, come avviene il passaggio dallo scatto alla critica allo scatto?

A un certo punto mi sono accorto che c’era tanta gente che faceva fotografie e poca che le guardava. E mi sono reso conto che guardare le fotografie è difficile quanto farle! Per cui oggi il mio impegno come docente di belle arti e in altre scuole è quello di  insegnare le persone a guardare le fotografie.

Cosa intende esattamente con “guardare la fotografia”?

Avere la capacità di comprendere quello che l’autore ha fatto! La lettura di un’immagine è prima di tutto emozionale e possono farla tutti. Però quando poi si vuole passare dall’aspetto emozionale alla consapevolezza è necessario saper decriptare le scelte tecniche ed espressive. Dunque conoscere il linguaggio fotografico e comprendere quale scelte ha fatto l’autore per raggiungere quel risultato.

Quando parla di “scelte dell’autore”, lei dà per scontato che una foto sia costruita a monte?

No, assolutamente! La foto può essere casuale, come spesso accade. L’autore diventa tale nel momento in cui,tra tanti scatti, sceglie proprio quella foto. Io non solo valuto lo scatto, ma il perché l’autore ha scelto di rendere pubblico proprio quello scatto. Successivamente l’autore si valuta nel complesso delle foto, non sulla singola foto.

Come definirebbe Biccari fotografo?

Gianni prima di tutto è una persona attentissima alla tecnica e poi è un grande appassionato di teatro. Questo è il motivo per cui EMOZIONI E PALCOSCENICO è una mostra pregevole. Lui è riuscito ad unire alla competenza tecnica la passione per il teatro. Riuscire a gestire le emozioni attraverso la tecnica rende pregevoli le sue foto.

In Italia qual è il livello della fotografia?

Partiamo da un punto fermo, la fotografia in Italia viene considerata bene culturale solo dal 1999. Dal 2006 sono nati i corsi universitari, quindi abbiamo una tradizione accademica un po’ debole. Però c’è un grandissimo entusiasmo. Le mostre di fotografia sono frequentate più di quelle di pittura, sempre più giovani le si avvicinano. Manca una consapevolezza critica  e storica che necessita di tempo. Non abbiamo una tradizione fotografica radicata come ce l’hanno la musica e la pittura.   

Perché l’Italia ha riconosciuto con ritardo la fotografia come forma d’arte?

Perché ci sono cose molto più importanti come la letteratura, la pittura… Siamo il paese dei Giotto, Leonardo, Michelangelo, Raffaello; dei Dante, D’Annunzio, Pirandello… Il mondo istituzionale ha sempre guardato alla fotografia come un qualcosa di minore. La foto per anni è stata considerata mezzo per documentare, non un qualcosa che facesse arte avendo una propria capacità espressiva!

Quali sono i fotografi italiani che vanno per la maggiore?

Riferendoci ai napoletani, Mimmo Iodice, uno dei più grandi fotografi a livello europeo, Antonio Biasiucci, Cesare Accetta. A livello nazionale Ferdinando Scianna, Basilico… C’è una pattuglia di autori che però devono fare tutto da soli, non avendo uno stato che li sostiene. Come invece accade in Francia. Inghilterra e in Germanio dove ci sono istituzioni pubbliche che aiutano degli autori.

Questo arretramento dell’Italia rispetto alle altre nazioni a cosa lo imputa?

Alla disorganizzazione che purtroppo ci caratterizza un po’ in tutti i campi… Non riusciamo a fare sistema/paese. Però c’è il vantaggio che in questa disorganizzazione il singolo autore magari riesce ad ottenere risultati anche superiori rispetto a quelli del francese, del tedesco, dell’inglese che sono abituati a dei percorsi più comodi.

Come nasce la collaborazione con Biccari?

Nasce da un incontro casuale in cui lui mi parlò della sua attività di fotografo di scena a cui non dava tanta importanza. Avendo io studiato la storia della fotografia, e occupandomi di fotografia da venticinque anni, gli chiesi di vedere le foto e, visionandole, mi accorsi che il materiale era interessante. Ecco, se mi consente, il mio piccolo merito è quello di aver spinto Gianni  a organizzare questa mostra, storicizzandola. Vorrei ricordare che nel catalogo della mostra il testo di presentazione è di Giulio Baffi, il più grande critico teatrale italiano, il quale parla in maniera entusiasta del lavoro di Biccari, elogiandone la passione per il teatro che si riflette nella bellezza dei suoi scatti. Io ho storicizzato queste foto in un contesto importantissimo come il teatro a Napoli per cui ora abbiamo materiale che documenta trent’anni  di teatro.

Quali sono i suoi progetti personali per il futuro?

Sto realizzando un libro per la cineteca di Bologna,GLI ANNI SETTANTA A BOLOGNA; sto lavorando a un progetto con il MAN sulla documentazione del museo; un progetto a Capua. Fortunatamente è un periodo do lavoro molto intenso, forse troppo!   

LE FOTO DI BICCARI E I VERSI DELLA DE FRANCHIS ILLUMINANO POZZUOLI


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Sabato 7 settembre per la rassegna POZZUOLI ARDENTE, in corso nel capoluogo flegreo tra il 4 e l’8 di settembre, presso il Polo culturale di Palazzo Toledo si è inaugurata la mostra fotografica EMOZIONI E PALCOSCENICO di Gianni Biccari, curata da Luca Sorbo, visitabile fino al 21 settembre dal lunedì al sabato dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 19, ingresso libero; domenica chiuso.

La mostra, già proposta lo scorso anno al PAN, dove riscosse un enorme successo di pubblico e di critica, e a Roma a giugno di quest’anno, propone scatti di scena che ricoprono un trentennio di spettacoli dal 1988 al 2018. Non si tratta però di foto che ritraggono esclusivamente spettacoli attinenti alla cultura napoletana, ma che riguardano la storia del teatro nazionale e internazionale, le cui rappresentazioni hanno interessato palcoscenici napoletani e a cui Biccari ha presenziato in qualità di fotografo di scena. Sbaglierebbe di grosso chi, avendo visto la mostra al PAN, ritenesse inutile recarsi ad ammirare l’allestimento puteolano. Grazie alla vastità di spazio messo a disposizione dal Comune, almeno tre volte superiore rispetto a quello napoletano, la rassegna ha consentito all’autore di presentare scatti inediti e gigantografie che consentono di apprezzarne meglio il talento.

All’inaugurazione, cui ha partecipato un pubblico numeroso, ha presenziato l’Assessore alla Cultura del Comune di Pozzuoli Maria Teresa Moccia Di Fraia la quale, dopo aver porto i saluti istituzionali, ha sottolineato che, seppure la rassegna si svolga con il patrocinio morale del Comune di Pozzuoli,  gli eventi e gli artisti che vi partecipano si autofinanziano; che il comune ha messo a disposizione esclusivamente gli spazi. Tale precisazione le è sembrata  doverosa, visto le polemiche che hanno accompagnato la rassegna.

Unica nota stonata, stonatissima,  il furto di una cassa Bose durante la ressa del vernisage che ha procurato all’autore un notevole danno economico. Evidentemente qualcuno ha voluto dimostrare che non è affatto vero che con la cultura non si mangia!

 

Della bella mostra di Biccari parleremo in maniera più approfondita nelle interviste a lui e al curatore Luca Sorbo che pubblicheremo quanto prima.

Ora volgiamo la nostra attenzione al reading di poesie curato dalla poetessa Luisa De Franchis che si è svolto sempre sabato 7 settembre a Palazzo Toledo, nella sala antistante la mostra fotografica.

Definirlo emozionante sarebbe restrittivo. Impegnata da oltre otto anni nella diffusione della poesia nelle scuole medie con l’istituzione del premio letterario Briciole di Emozioni, e come docente di poesia presso l’università Popolare della città, convinta assertrice del valore terapeutico della poesia e della scrittura nonché dei rapporti umani, da anni la De Franchis si spende nella doppia veste di docente/confidente affinché le persone, in particolare le donne che hanno subito violenza, attraverso lei e i suoi versi, riescano a dare finalmente voce alle proprie sofferenze interiori, liberandosi dal dolore e dalle angosce confessandole il male subito che lei rielabora magistralmente in poesie senza mai intaccare la loro privacy.

Chi conosce Luisa De Franchis sa benissimo della dura battaglia che negli ultimi mesi ha dovuto affrontare contro un nemico subdolo senza mai avvilirsi né perdere il buonumore. Il sorriso e l’ironia con cui ne parla o ne fa implicitamente riferimento durante la serata definiscono la tempra d’acciaio di questa donna che, anche in momenti non particolarmente felici, non ha mai perso la voglia e la forza di darsi agli altri. Venendone ripagata con l’alta qualità di testi, alcuni davvero struggenti come i versi di Paolo Mirabella, a testimonianza del rispetto e dell’amore che nutrono verso di lei i ragazzi e le sue allieve.

All’evento hanno partecipato Silvana Cesarini, Gabriella Bellandi e Silvana Pipolo allieve dell’Università Popolare; Matteo Tafuto, Maurika Navarra e Paolo Mirabella vincitori del concorso Briciole di Emozioni ideato, coordinato e presentato dalla De Franchis.

Ad allietare il folto pubblico presente in sala, oltre alle tante belle poesie e filastrocche lette dai singoli autori, il gradito intermezzo musicale del cantautore Lorenzo Girotti, giovane promessa della musica puteolana di cui certamente sentiremo parlare.

Da segnalare anche in questo caso la presenza dell’Assessore Maria Teresa Moccia De Fraia che fino all’ultimo ha presenziato alla lettura delle poesie, mostrando apprezzamento sia per il lavoro della poetessa sia per gli elaborati letti pubblicamente, non sottraendosi a partecipare a un giochino estemporaneo in cui la De Franchis ha coinvolto un po’ tutti i presenti in sala.

Brava Luisa!

 

IMPRENDITORI PLURITITOLATI, SFRUTTATORI DI PROFESSIONE

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È proprio vero, fino a quando una situazione non si vive sulla propria pelle, difficilmente si riuscirà a comprendere lo stato d’animo di chi è invece costretto a viverla, capendone la rabbia e la disperazione.

Da quando ho perso il lavoro a seguito della cessata attività dell’azienda con cui ho lavorato per trentadue anni, la quale era sul mercato da ottant’anni, trovarmi mio malgrado catapultato nel mondo della disoccupazione, per giunta a cinquantacinque anni, dunque a un’età in cui sei giovani per la pensione ma vecchio per il mercato del lavoro, non solo ho iniziato a sperimentare sulla mia pelle quanto sia dura e triste la realtà del disoccupato, ma anche quanti squali si annidino dietro l’angolo pronti ad assumerti alle loro dipendenze in cambio di quattro soldi tanto che, se accettassi le loro offerte, alla fine tra spese di spostamento e pranzo, ci rimetteresti, anziché guadagnare, anche solo un centesimo in più di quel che spenderesti per recarti a lavoro ogni mattina.

Quello che fa più rabbia è  che spesso questi squali sono stimatissimi professionisti che si fregiano sulle pareti dei loro studi e uffici di titoli accademici e attestati di partecipazione a master bocconiani per testimoniare il valore della loro professionalità. In alcuni casi mi è capitato addirittura di imbattermi in frasi tratte dalla Repubblica di Platone, scritte su carta pergamenata e in grassetto, inneggianti all’onestà e al rispetto del prossimo, appese in cornice di spalle alla scrivania dello stimabile professionista…

Tale presunta professionalità attestata dai titoli, va in assoluto conflitto con il loro modo di intendere la gestione del personale, tesa allo sfruttamento fino all’osso dell’individuo per una paga oraria che in molti casi è la metà del minimo sindacale, 7/8 € previsti per una colf. Dove, se ti va bene, ti si chiede di lavorare per 10/12 ore al giorno, incluso il sabato e a volte perfino la domenica senza percepire un euro in più.

Ad accrescere la rabbia è che questa situazione di sfruttamento, spesso rasentante il caporalato, non riguarda solo le persone della mia età, e se anche riguardasse solo loro non sarebbe comunque giustificabile!, ma prima di tutto i giovani, a prescindere se hanno o meno un titolo di studio. Anzi, paradossalmente, ascoltando i racconti di tanti giovani disoccupati, pare che in molti casi il titolo di studio penalizzi. È come se il diploma o la laurea certificassero non la capacità dell’individuo ma la sua dabbenaggine o la suapericolisita!

Sì, dispiace dirlo, tuttora, almeno a Napoli, e quindi credo valga per l’intero mezzogiorno, molti pseudo “imprenditori” – con tutto il rispetto per gli imprenditori veri che per fortuna esistono anche a Napoli e nel sud Italia – a un diplomato o a un laureato, preferiscono assumere chi ha la terza media, con tutto il rispetto per chi ha questo titolo di studio, in quanto, nella loro visione distorta del lavoro inteso come sfruttamento della persona, temono, probabilmente a giusta ragione, che un diplomato, un laureato o chi abbia un minimo di cultura non sottostaranno mai ai loro ricatti; denunciandoli nel momento in cui si azzardassero a fare loro una proposta “oscena” tipo, “ti faccio firmare la busta paga per 1200 €, ma materialmente te ne do 700/800€.”

In alcuni casi sembra che vi sia chi, oltre a far firmare la busta paga per un importo di tutto rispetto, la cifra indicata sullo statino paga  la versi realmente sul conto corrente del dipendente previo tacito accordo che, non appena avverrà il bonifico, il lavoratore preleverà 500 € e glieli ritornerà indietro a nero.

Ciò comporta che il lavoratore pagherà più tasse, pur percependo meno di quanto risulti al fisco. Viceversa il datore di lavoro pagherà meno tasse in quanto incasserà sotto traccia parte di quanto avrebbe dovuto realmente versare al dipendete come ufficialmente risulta dai movimenti bancari.

Quando ascolti simili narrazioni, la rabbia ti coglie nel profondo dell’anima. Aumentando quando, nel momento in cui inviti le presunte vittime a ribellarsi  dallo sfruttamento e dal ricatto, denunciando i responsabili , ti senti rispondere con rassegnazione, “Non servirebbe a niente. Se mi rifiutassii, alle mie spalle c’è una fila di gente pronta a lavorare per molto meno. E poi, se lo facessi, il mio nome girerebbe nell’ambiente e nessun piu mi prenderebbe a lavorare perché sarei marchiato come chi crea rogne!”

È a questo punto che ti rendi conto che la causa del disastro occupazionale nel sud non dipende solo dalla criminalità, dallo sfruttamento e dal clientelismo, ma prima di tutto da una forma di cultura dove vige il mors tua vita mea, per cui la solidarietà tra i lavoratori e i disoccupati va a farsi benedire in cambio di un tozzo di pane.

La rabbia aumenta ulteriormente quando ascolti chi, seppure tenendosi sul vago, ti fa capire che spesso queste situazioni di squilibrio a sfavore dei dipendenti trovano la complicità di chi dovrebbe combatterle, tutelandoli. Per sentito dire, sembra ci sarebbero, il condizionale è d’obbligo, pubblici ufficiali deputati ai controlli aziendali per la tutela dei lavoratori che sarebbero disposti a chiudere entrambi gli occhi sulle presunte irregolarità aziendali, soprattutto inerenti la sicurezza sul lavoro e l’igiene, vendendosi ai manager aziendali per pochi spiccioli o in cambio di un oggetto trattato dall’azienda di cui hanno bisogno loro o un proprio famigliare. Altre voci di corridoio racconterebbero addirittura di sindacalisti che andrebbero a braccetto con il padrone, danneggiando i lavoratori anziché tutelarne gli interessi…

Quando hai la sensazione di trovarti al cospetto di simili realtà, o ascolti storie del genere, ti rendi conto che le speranze di crescita per le popolazioni del sud Italia sono ridotte al lumicino. A quel punto, malgrado l’età avanzata ti suggerirebbe di cercare un lavoro nella tua città o al massimo nella tua regione, decidi di metterti in gioco e di trovare lavoro fuori regione, ovviamente da Roma a salire. Infatti, chissà perché, pare che superato il Garigliano la dignità dell’individuo e del lavoratore sarebbero improvvisamente rispettate.

La conferma verrebbe da chi lavora al sud con aziende che hanno sedi sparse nel centro Italia. A loro dire, nelle altre sedi gli stipendi sarebbero adeguati ai contratti di lavoro e gli straordinari verrebbero pagati fino all’ultimo soldo senza alcuna difficoltà. Nel momento in cui quelle stesse aziende si spostano al sud, dimenticherebbero i propri doveri verso i dipendenti, adeguandosi all’andazzo del mercato del lavoro in quelle zone dive, a parte casi sporadici, lo sfruttamento e l’oppressione del lavoratore la fanno da padrone.

E pensare che c’è chi sostiene che la questione meridionale è archiviata da tempo…

PAOLO SCHIATTI, CUSTODE DELLE TRADIZIONI

foto paolo schiatti

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Intervista a Paolo Schiatti presidente della Brigata di Raggiolo la cui funzione è recuperare e salvaguardare le tradizioni di Raggiolo, perla del Casentino Toscano in provincia di Arezzo, arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, inserito nella ristretta lista dei Borghi più Belli d’Italia.

 

Dottor Schiatti da quanto è presidente della Brigata di Raggiolo?

Da quattro anni

Quando nasce la Brigata?

Venticinque anni fa, da un’idea di un gruppo di amici. Quattro amici al bar, letteralmente. L’intenzione era quella di dar vita a qualcosa che valorizzasse Raggiolo, arrestando la perdita delle tradizioni che si poteva intraprendere.

Vi proponete tipo pro loco o il vostro compito principale è quello di serbare le tradizioni del luogo?

Assolutamente serbare le tradizioni del luogo! Tant’è vero che abbiamo deciso di non essere una pro loco e di non avere questa identificazione neanche nel nome.

Quando nasce Raggiolo?

La prima notizia storicamente accertata è del 967, prima del mille, in epoca ottoniana. Da un documento del regesto di Camaldoli risulta una donazione dell’imperatore Ottone a un cavaliere, Goffredo di Ildebrando, di alcuni territori tra cui “villa raggiola”.

Il termine raggiolo evoca alla mente il raggio di sole. E’ questa l’origine del nome?

No, è solo un’assonanza! L’analisi linguistica della cattedra di glottologia dell’università di Firenze conduce in un’altra direzione. La definizione raggiolo, per tutta una questione complessa di lemmi, indicherebbe “il luogo degli spini”, ossia un sito di non facile accesso all’interno del bosco.

La sala in cui ci troviamo si chiama “sala dei corsi” in riferimento agli abitanti della corsica. Qual è il legame tra Raggiolo e i corsi?

Dopo il 400 a Raggiolo si insediò una comunità di corsi che ripopolò l’antico castello che era andato completamente distrutto. I corsi sono gli antenati dei raggiolatti, una discendenza di cui qui a Raggiolo si va molto fieri e diversi vocaboli tipici di Raggiolo sono di origine corsa.

Per secoli l’economia di Raggiolo si è mantenuta grazie alla raccolta delle castagne e dei prodotti che vi si  ricavavano. Voi ogni anno, tra fine ottobre e inizi di novembre, in piazza organizzate la festa della castagna…

La castagnatura, è un termine tecnico del casentino.

Questa tradizione inerente la castagna esiste tuttora, o sta scomparendo e voi vi proponete di recuperarla?

Esiste tuttora, ma in maniera minima rispetto al passato. Raggiolo è stata davvero la patria della castagna fino alla seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra. I documenti ritrovati all’università attestano che fin dal duecento i conti Guidi, ai quali apparteneva Guido Novello signore di Raggiolo tra il 1301 e il 1322, avevano selezionato una castagna tuttora esistente derivante da un tipo di castagno detto raggiolano: la castagna raggiolana. Consideri che il castagno non è un albero autoctono, ma fu importato dall’Asia dai romani. La sua estensione territoriale a livello nazionale è dovuta al fatto che è un albero da frutto. Ma soprattutto è un albero del pane: dalla farina di castagne si ottiene la polenta di castagne che rispetto a quella di mais ha la caratteristica fondamentale di essere proteica. Per generazioni a Raggiolo si è vissuto grazie alla farina di castagne.

La vostra ambizione è salvaguardare la storia e le tradizioni di Raggiolo. Turisticamente il paese sta avendo un grosso boom, non a caso è stato inserito nella lista dei borghi più belli d’Italia, e questo è sicuramente anche merito vostro. Come Brigata quali altri obiettivi vi siete proposti per portare avanti questa crescita?

Il discorso sarebbe lungo. Volendo essere sintetici, credo che alla base vi sarebbe l’esigenza di creare un’unità territoriale tra tutti i comuni edificati sul massiccio del Pratomagno. Una montagna straordinaria, con una bellezza paesaggistica unica, sulla cui cima si estende un’immensa prateria che per secoli è stata, unitamente alla Maremma, luogo di pascolo per le greggi all’epoca della transumanza; divide il Casentino dal Val d’Arno ed è circondato nel suo percorso dall’Arno. Ecco, reputo che questa sia la prima cosa da farsi, dare unità a questo mondo che ha una sua omogeneità territoriale culturale e urbanistica.

Quindi, se non ho frainteso,  tutto ciò richiederebbe non solo un impegno culturale ma anche politico!?

Sì,implica che i comuni collaborino insieme a un progetto territoriale che facesse emergere il Pratomagno in quanto tale. E dentro questo progetto fare in modo che le tradizioni dei singoli paesi venissero recuperate e salvaguardate. 

Di raggiolatti in paese ve ne sono sempre meno, mentre vi è un aumento esponenziale di turisti. Alla lunga ciò non potrebbe far cadere nel dimenticatoio la storia e le tradizioni di Raggiolo?

Certo, il rischio è reale! Ed è proprio per evitare che avvenga che come brigata ci siamo posti l’ambizioso compito di recuperare e tenere vive le antiche tradizioni del luogo e organizzare escursioni in posti dove si possono ammirare le meraviglie della natura che ci circonda. È giusto che il paese si incrementi turisticamente, ne beneficia tutta l’economia locale. L’importante è che tutto ciò non oscuri le origini e le tradizioni di Raggiolo! Finché potrò, mi impegnerò con tutte le mie forze perché la radici storico-culturali del paese non cadano nel dimenticatoio. Ovviamente con la collaborazione dei volontari della brigata, donne e uomini straordinari senza i quali tutto quel che abbiamo finora fatto sarebbe stato impossibile.

ESCURSIONE NELL’ALVEO DEL TEGGINA, SULLE ORME DEL FIUME

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Da sinistra: Adelio Gambini, Franco Franceschini, Bruno Luddi, Paolo Schiatti, Lorenzo Venturini, Arturo Gambini.

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Alcuni giorni dopo l’escursione in notturna sul Pratomagno, passeggiando per Raggiolo incontrai Paolo Schiatti, una delle guide di quella salita. Dopo avermi chiesto come mi sentissi, mi comunicò che stavano organizzando un’escursione fin su la Pozza del Berluzzi, a circa 900 mt di altezza, per poi ridiscendere l’alveo del Teggina fino al Ponte della Prata, un chilometro e mezzo a valle; magari camminando nell’acqua come facevano da ragazzini.

Da come me la descrisse sembrò dovesse trattarsi di un’escursione priva di difficoltà, una passeggiata o poco meno.

 

L’appuntamento è alle 8,30 di mattina in piazza. Oltre me ci sono Lorenzo Venturini, Paolo Schiatti, Adelio e Arturo Gambini, Franco Franceschini e Bruno Luddi. Tutti abbiamo superato da tempo  i cinquant’anni. Il più giovane sono io che ho completato i cinquantacinque da poco.

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Contrariamente a quanto mi era stato prospettato, che non si trattasse di una semplice passeggiata lo intuisco quando, arrivati alla pozza del Berluzzi, un’ampia vasca naturale in cui il fiume si raccoglie per poi riversarsi a valle in uno scenario da canyon, luogo prediletto dai pescatori di trote, Bruno ci fa sapere che lui e Franco ritorneranno indietro ché non se la sentono di seguirci.

 

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Istintivamente punto lo sguardo sull’enorme parete di roccia che si innalza davanti a noi e sugli enormi massi che invadono il letto del fiume, ostruendone in parte il cammino. Ci toccherà camminarci sopra e saltare dall’uno all’altro per arrivare al Ponte della Prata. Uno sforzo e un rischio notevoli che forse non si addicono a un gruppo di sessantenni come noi, seppure tutti ancora in una condizione fisica più che dignitosa.

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Dopo aver salutato Franco e Bruno, ci incamminiamo in quello scenario cinematografico che mi ricorda tanto il Signore Degli Anelli, con pareti rocciose che si elevano maestose al cielo nella perpetua penombra della fitta boscaglia e alberi che si piegano su di noi come se si inchinassero in segno di riverenza al fiume.

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Di tanto in tanto il grido di un uccello squarcia il silenzio: non mi stupirei se all’improvviso tra i cespugli  apparisse uno gnomo, un elfo o una fata…

Molte rocce affioranti dall’acqua sono schizzate di bianco come se si trattasse di pittura: “Sono gli escrementi dei rapaci che vengono qui ad abbeverarsi dopo il pasto”, mi spiega Lorenzo. A confermarlo è la carogna di una talpa riversa sulla sponda poco sopra di noi.

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Man mano che scendiamo verso valle, il percorso diventa sempre più impegnativo, obbligandoci a veri e propri equilibrismi tra alberi e rocce per passare da una sponda all’altra. Il fiume sfila veloce sotto di noi incuneandosi in ogni spiraglio, intonando una dolce melodia amplificata dal silenzio in cui siamo immersi .

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Mentre balziamo sulle rocce, Paolo indica le ampie chiazze  rosse che si riflettono dall’acqua facendola sembra sangue: “E’ ferro”, spiega, spostando lo sguardo su delle pietre asciutte ricoperte da un manto rossastro. Mi racconta che all’epoca dei longobardi a Raggiolo c’erano tante miniere di ferro, alcune rimaste in vita fino a molti anni fa, di cui tuttora si serba il ricordo nel nome del luogo ove sorgevano.

L'immagine può contenere: spazio all'aperto, acqua e cibo

Notando la mia incertezza nel muovermi sull’acciottolato umido, mi ammonisce a non mettere i piedi sulle pietre bagnate o ricoperte di muschio perché rischierei di scivolare. In effetti basta poggiare il piede su un masso bagnato e l’equilibrio diventa subito precario. Avendo calzato le scarpe da running, la suola di gomma aumenta notevolmente il rischio di scivolare. Divarico le gambe per cercare di non perdere l’equilibrio e vado avanti.

Tra di noi il più agile è Adelio, che è anche il più anziano: salta da una roccia all’altra come un capriolo. Guardarlo muoversi con tale facilità su quel ponte sconnesso di rocce non penseresti che abbia settant’uno anni… Va avanti e indietro come un ragazzino per individuare la strada migliore da seguire.

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Adelio Gambini

Strada è un eufemismo! L’unica “strada” che converrebbe prendere per non rischiare di farsi male sarebbe quella del fiume: immergersi con i piedi nell’acqua e proseguire tra i flutti fino a quando la “strada” non diventi percorribile. Pare che da ragazzi facessero così…

Per quanto mi riguarda provo a stare dietro ad Adelio, gli altri si attardano per scattare foto o ammirare il panorama circostante.

Osservando un enorme masso riverso nell’acqua, Adelio mi spiega che, come tanti altri, fu trascinato lì dall’alluvione del 58. All’epoca lui aveva nove anni: “per giorni venne giù tanta acqua da far temere che Dio avesse inviato in terra un nuovo diluvio!”

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Riprendiamo il cammino. Impreco contro me stesso per essermi portato il bastone. La sua presenza, rivelatasi fondamentale durante l’ascensione al Pratomagno, ora risulta un impedimento. Più volte faccio il pensiero di liberarmene. Mi trattengo, non sapendo cosa mi aspetta più avanti.

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Anche Paolo e Lorenzo mostrano un’agilità non comune nel saltare sulle pietre. Entrambi coltivano la passione per il tracking, quindi sono abituati a gestire simili situazioni.

Arriviamo in un punto dove è praticamente impossibile proseguire nell’alveo. L’unica soluzione è salire sul fianco sterrato del bosco, facendo attenzione a non scivolare cadendo di sotto.

Ci arrampichiamo per poi ridiscendere. Adelio scivola con i piedi di traverso sul terreno sfaldato con un’agilità da fare invidia, lo imito. Seppure a fatica, arrivo su uno spuntone di roccia. La naturalezza con cui balza sul terreno sotto di noi testimonia quanto sia abituato a cose del genere. Mi guardo intorno alla ricerca di un appiglio. Davanti a me un grosso ramo si protende nel vuoto. Penso di afferrarlo per appendermi in modo da calarmi a mia volta di sotto. Non appena lo agguanto, cede di schianto. Casco sul fondo senza alcuna conseguenze. Mi rialzo, rassicurando gli altri che va tutto bene.

Proseguiamo il nostro cammino, se si può chiamare cammino quell’inferno di pietre e massi…

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Risalendo tra gli alberi, mi benedico per aver tenuto il bastone: quell’appoggio si sta rivelando fondamentale ora che siamo costretti ad avanzare nella vegetazione sovrastante il fiume in quanto nell’alveo è impossibile procedere per via degli enormi massi di cui è ingombro.

È proprio vero, ogni impedimento è giovamento!

Seppure al Ponte della Prata non manchi molto, la fatica incomincia a farsi sentire.

Quando arriviamo al ponte, Lorenzo è scuro in viso: risalendo verso il ponte è scivolato in acqua e accusa un risentimento alla caviglia e alla mano.

Paolo ci chiede se volessimo proseguire fin giù al paese. Né Lorenzo né io ce la sentiamo. Anche Arturo preferisce seguirci sul sentiero che conduce a Raggiolo.

Manco a dirlo, Adelio gli fa compagnia!

L'immagine può contenere: spazio all'aperto, natura e acqua

Mentre rientriamo, ripensando alla mia caduta, non posso fare a meno di riandare con la mente allo sventurato escursionista francese che ha perso la vita poche settimane fa nel parco del Pollino. Quando è caduto nel burrone, era da solo. Chissà, probabilmente se fosse stato in compagnia si sarebbe salvato!

A parte lo spavento per la caduta e un leggero risentimento alla gamba, non rimpiango di aver partecipato all’escursione.

Era quello l’unico modo per vedere posti che diversamente mai avrei potuto ammirare.

Certo la caduta poteva rivelarsi ben più grave, ma, quando si decide di intraprendere un’avventura, bisogna mettere in conto l’imprevisto e cercare di fare di tutto per prevenirlo o limitarne i danni ponendo la massima attenzione a quel che si fa.

Non sapremo mai se il povero escursionista francese l’avesse messo a sua volta in conto. Al di là delle tante, ipotetiche sbavature nei soccorsi, forse intraprendere da solo un’escursione come la sua è stata un’imprudenza…

Per quanto riguarda noi credo di poter affermare, senza rischio di smentita, di aver dimostrato che l’incoscienza non è un elemento puramente anagrafico. Anche a sessant’anni si può essere incoscienti come dei ragazzini. Ma solo così puoi vivere qualcosa di unico, di irripetibile.

L’importante è poterlo poi raccontare con il sorriso sulle labbra, facendo autoironia. Significa che all’incoscienza hai saputo dosare la giusta dose di buonsenso!

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“Raggiolo, frazione di Ortignano in provincia di Arezzo, a 10 km da Bibbiena, è un paese del Casentino Toscano arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, prospiciente il mistico pano-rama de La Verna dove San Francesco ricevette le stigmate. Circa venti anni fa mio suocero, il maestro Osvaldo Petricciuolo, vi acquistò una proprietà rurale che riadattò a casa d’arte per raccogliere parte della sua ricca produzione artistica. Per anni con la mia famiglia vi abbiamo trascorso l’estate. Là i miei figli sono cresciuti tra prati, boschi, ruscelli, respirando aria pura, mangiando cibi genuini, facendo i bagni nel fiume, pescando gamberi, giocando all’aperto con gli altri bambini. Ora che sono giovani Raggiolo per loro rappresenta un bagaglio di ricordi sbiaditi che cedono il passo a quelli eccitanti dell’adolescenza che hanno il nome di una ragazza cui si associa lo smarrimento e il rapimento per la scoperta dell’amore, le goliardate con gli amici, le occupazioni scolastiche, i nauseanti postumi della sbronza, l’impagabile sensazione di scoprirsi grandi in vacanza da soli con gli amici senza l’assillo dei genitori. Anche per me Raggiolo costituisce un bagaglio di ricordi, ma, diversamente dai miei figli, più vivi che mai, seppure riferiti all’epoca in cui loro erano piccoli.”

Così incomincia questa raccolta di pensieri e racconti dove il protagonista è Raggiolo, perla del Casentino Toscano, inserito nell’esclusiva lista dei borghi più belli d’Italia, in grado di trasfondere attraverso la magica atmosfera che vi si respira un mix emozionale, suscitando nell’animo umano ataviche reminiscenza che fanno riscoprire all’uomo quanto sia intimo il proprio rapporto con la natura. Suddiviso in tredici capitoli, il libro vuole essere un omaggio a un luogo dove la dimensione umana non si è ancora persa; un’oasi naturale in cui ogni individuo può rifugiarsi per ritrovare se stesso; uno scorcio di paradiso in terra.

Buona lettura

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SIGNATURE RERUM

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Di seguito un estratto dal mio ultimo romanzo SIGNATURE RERUM-IL SUSSURRO DELLA SIBILLA 

Entrai in libreria. Oltre alla commessa seduta dietro il bancone impegnata a risolvere un cruciverba, nel locale non c’era nessun altro. Salutai con un cenno del capo e mi avvicinai alle colonne di libri che si innalzavano dal pavimento. L’aspetto miserevole di molti volumi confermava la loro lunga gestazione in magazzino, non sminuendone però il valore trattandosi di testi autorevoli.

Ero accosciato davanti a una pila di volumi per leggerne i titoli sbiaditi sui frontespizi, quando una voce familiare mi salutò:

<<Buongiorno>>

Mi voltai a fissare l’atleta che quella mattina mi aveva svegliato facendo ginnastica in giardino.

<<Buongiorno>> feci rialzandomi prontamente.

<<Le chiedo ancora scusa per questa mattina.>>

<<Non crucciarti, sono mattiniero.>>

<<Anche a lei piace leggere?>>

<<Appena il lavoro me lo consente.>>

<<Che genere preferisce?>>

<<Romanzi.>>

<<Anch’io! Ha trovato qualcosa d’interessante?>>

<<Sono appena entrato…>>

<<Venga>> disse guidandomi verso una catasta di libri addossati a uno scaffale vicino al retrobottega. <<Qui sicuramente troverà qualcosa d’interessante.>>

Mi inginocchiai per visionare i volumi.

<<Le piacciono gli scrittori sudamericani?>>

<<Ho letto qualcosa di Marquez, Borges, Coelho. Ultimamente Jorge Amado.>>

<<Se non lo avesse già letto, legga questo, sicuramente le piacerà.>> Con cautela sfilò dalla colonna di libri un volume e me lo porse.

<<L’amore al tempo del colera>> lessi.

<<Tra i romanzi di Marquez, lo ritengo in assoluto il migliore!>>

<<Ho letto Cronaca di una morte annunciata e Cent’anni di solitudine, non mi hanno entusiasmato granché.>>

<<Lo legga>> insistette.

Lessi la trama sul retro di copertina.

Prediligendo i thriller sapevo che difficilmente mi sarebbe piaciuto. Tuttavia, notando l’ansia con cui la ragazza mi guardava, decisi di acquistarlo per non deluderla.

Mentre pagavo, il volto le s’illuminò di gioia. Per un attimo la sua freschezza cacciò via le angustie dal mio animo.

 

Usciti dal negozio, dirigendoci in piazza, facemmo le presentazioni.

<<Io sono Laura>> fece porgendomi la mano.

<<Io Riccardo, e dammi del tu>> sorrisi, ricambiando la stretta.

<<Che ci fai qui?>> chiese, reclinando il capo. Lo sguardo intelligente luccicò di vita. Le orbite si restringevano ai lati conferendole un vago aspetto orientale. La parabola del naso curvava a punta sulla bocca piccola e sensuale, separata dal mento poco accentuato da una ruga sottile. La giacca a vento le nascondeva il corpo.

<<Vivi qui?>> chiesi.

<<Sono ospite della sorella di mio padre, mi sto allenando per La Quattro Laghi>>

<<Cos’è?>>

<<Una mezza maratona che attraversa passa per i quattro laghi flegrei. Malgrado siano solo 21 chilometri, è massacrante a causa dei continui saliscendi. Alla scorsa edizione mi sono classificata sesta assoluta tra le donne.>>

<<Un buon piazzamento>> osservai.

<<Sì, considerando la tendinite che mi obbligò a stare ferma per quasi sei mesi. Alla prossima, però, punto al podio!>>

La voce decisa ne palesava il carattere determinato.

<<Studi?>>

<<Sono iscritta a giurisprudenza. Vorrei fare l’avvocato. Tu di cosa ti occupi?>>

<<Lavoro in banca. Faccio il consulente finanziario>>

<<Ossia?>>

<<Suggerisco alle persone come far fruttare i propri risparmi.>>

<<Un giorno verrò a trovarti!>>

<<Possiedi dei risparmi?>>

<<Non ho un euro>> disse scoppiando a ridere. La sua ilarità mi contagiò, risi anch’io.

 

Giungemmo nella piazza assordata dai veicoli provenienti dal lungomare. Al bivio una parte delle vetture deviava verso il centro mentre l’altra proseguiva in direzione Pozzuoli. Il traffico era regolato da un’affascinante vigilessa dai capelli biondi coadiuvata da una coppia di pensionati che, muniti di palette, bloccavano i veicoli per consentire l’attraversamento ai pedoni.

 

<<Io sono arrivata>> disse Laura, fermandosi davanti la palazzina dai muri scrostati. Fui tentato di dirle che ero stato bene in sua compagnia, che mi sarebbe piaciuto rivederla. Tacqui per non apparire ridicolo.

<<Grazie per il consiglio>> feci, mostrandole la busta contenete il libro di Marquez.

<<Spero ti piacerà!>> sorrise.

Ci lasciammo con una calorosa stretta di mano.

 

Pranzai in cucina. Avvolgendo gli spaghetti alla forchetta, ripensavo a Laura, alla sua vitalità, al suo entusiasmo. Conoscevo uomini molto più grandi di me che non avevano alcuna difficoltà ad intessere una relazione con una ragazza più giovane di loro. In alcuni casi, addirittura più giovani delle loro stesse figlie.

Quando ne parlavano, tutti ammettevano che avere accanto una donna giovane come per magia annullava il peso degli anni, dissolvendo il tedio del matrimonio. Alcuni non lesinavano ad arricchire i propri racconti con particolari intimi affinché si sapesse che erano ancora nel pieno del vigore fisico. Mentre ascoltavo le loro avventure boccaccesche, mi chiedevo cosa avrei fatto se anch’io avessi incontrato una ragazza disposta ad intrecciare una relazione con me. Istintivamente il pensiero ritornò a Laura.

Poiché per carattere tendo a razionalizzare qualunque evento turbi il mio equilibrio interiore, mi imposi di considerare le inquietudini suscitate in me da Laura come logica conseguenza del difficile momento sentimentale che stavo attraversando. Ritrovarmi da solo, dopo tanti anni vissuti con Monica, era un trauma difficile da superare. Sospettai che il mio inconscio si fosse messo alla ricerca della terapia con cui riempire quell’imprevisto vuoto esistenziale. Pertanto non potevo escludere considerasse Laura la medicina per risanare le fratture del mio animo. Ripudiando ogni forma di medicinale convinto che, alla lunga, può nuocere più dello stesso male da curare, convenni che era meglio la dimenticassi; che l’unica medicina efficace per fronteggiare il difficile il momento che stavo attraversando era il trascorrere del tempo.

Ricacciai Laura dalla mente.

 

L’incessante suono del campanello alla porta mi ridestò.

Mi ero addormentato sulla poltrona davanti al televisore acceso. Filtrando dai vetri del balcone, il tramonto stemperava nel salotto smorti bagliori di luce. Chiedendomi chi fosse, andai ad aprire.

<<Ciao!>>

Il sorriso di Laura rischiarò la sera.

<<Disturbo?>> domandò.

<<Nient’affatto>> feci sorpreso e felice nello stesso tempo.

<<Posso entrare?>>

<<Certo.>> Mi spostai di lato per farla passare.

<<Carino qui>> commentò guardandosi intorno. <<E’ casa tua?>>

<<Di mia sorella.>>

Sfilandosi il giubbotto di pelle, si avvicinò alla libreria, dando uno sguardo ai libri allineati sulle mensole.

<<Dammi la giacca>> dissi.

Mentre appoggiavo il giubbotto sullo schienale della poltrona, ammirai l’asciutta compattezza del suo fisico: il seno sodo gonfiava il maglione; le gambe lunghe e i glutei muscolosi riempivano di sensualità i jeans.

<<Sorpreso?>> mi sorrise sedendosi sulla poltrona, accavallando le gambe.

<<Abbastanza>> ammisi restando in piedi, cercando di non mostrarmi imbarazzato.

<<Sono stata da un’amica che abita da queste parti. Passando ho visto la luce accesa e ho pensato di passare a salutarti.>>

<<Hai fatto bene. Gradisci qualcosa da bere?>>

<<Cosa hai?>>

<<Coca, sprite, aranciata, birra, caffè…>> elencai come un cameriere.

<<Basta>> mi stoppò divertita. <<Una coca va benissimo!>>

Seduti in poltrona, l’uno di fronte all’altra, sorseggiando la lattina di Coca Cola, Laura mi parlò della sua passione per la corsa.

<<Praticamente corro da quando ero bambina. In qualunque stagione e con qualsiasi tempo. Per me correre è vita. Non riesco a immaginarmi la mia esistenza senza la corsa. Correre mi ha insegnato a limare le spigolature del mio carattere. Per natura sono impulsiva, esuberante, aggressiva. Correndo ho imparato a frenare questi aspetti del mio essere. Quando si corre per tanti chilometri bisogna avere il buonsenso di non bruciare subito le energie altrimenti si rischia di fermarsi per strada, di non raggiungere la meta. Nella vita accade, più o meno, la stessa cosa: per realizzare un obiettivo devi partire piano per non disperdere le energie e l’entusiasmo. Senza energie ed entusiasmo non si va da nessuna parte!>>

<<Tu ne hai da vendere, di entusiasmo!>> osservai.

<<L’entusiasmo in me è fisiologico. Fa parte del mio DNA. Qualunque cosa faccia, anche la più sciocca, è sostenuta sempre dall’entusiasmo. Sai perché tante persone sono infelici?>>

<<Perché?>>

<<Perché mancano di entusiasmo. Puoi essere ricco sfondato, avere tante amanti più di Casanova, successo nel lavoro, avere la possibilità di poter viaggiare in ogni angolo del mondo, ma se manchi d’entusiasmo sei una macchina senza benzina che ha bisogno d’essere spinta dagli altri per continuare a procedere. Io non ho un soldo, non ho niente a parte l’entusiasmo, eppure sono felice. Solo il pensiero che un giorno potrei avere bisogno del sostegno degli altri per vivere mi fa stare male.>>

Abbozzai un sorriso.

<<Sono qui per ritrovare l’entusiasmo>> confessai.

<<Lo so, l’ho capito quando in libreria ti ho visto inginocchiato davanti a quella catasta di libri. Solo chi è alla disperata ricerca di qualcosa avrebbe scorso i volumi con la tua stessa frenesia. Quel che tutti cercano nella vita, senza sapere esattamente cosa, è l’entusiasmo!>>

<<Dovresti fare la psicologa invece dell’avvocato.>>

<<Valutare giuridicamente è un’analisi psicologica! Il carattere delle persone, il loro modo d’essere lo determini dal comportamento, non certo da ciò che pensano. Se ci limitassimo a giudicare le persone solo da ciò pensano rischieremmo di fare i processi alle intenzioni, rovinando la gente onesta. E sai perché?>>

<<No!>>

<<Il pensiero è come un fiume, mentre scorre trasporta con sé di tutto, sia il buono che il marcio. Sta a noi decidere cosa salvare dall’acqua e cosa invece lasciare che la corrente porti via con sé. Questa scelta rivela chi davvero siamo, essendo l’origine delle nostre azioni-. Tutto il resto pensieri e parole al vento. Non possiamo giudicare una persona né per il suo modo di pensare né perché ha detto una frase fuori luogo in un momento di rabbia o di disperazione. Siamo esseri umani, non dei: nostro dovere è limitarci a valutare i fatti!>>

Tanta saggezza in quel fiore in germoglio mi disarmò.

Mi alzai e andai al balcone. I bagliori delle case illuminate sulla dorsale del promontorio di Capo Miseno sembravano candeline accese su una torta in una stanza buia. Da dietro l’insenatura apparve il transitante bagliore delle luci di un traghetto diretto alle isole. All’orizzonte, adagiata sul mare, Capri dormiva tranquilla vegliata dal proprio faro che a intervalli regolari squarciava il buio segnalandone la presenza ai naviganti perché ne rispettassero il sonno.

Fissai Laura.

<<Credi che riuscirò a trovare l’entusiasmo?>> chiesi.

<<Si trova sempre ciò che ci appartiene … Adesso devo proprio andare, oggi ho studiato poco e voglio recuperare.>>

Si alzò porgendomi la lattina vuota.

<<Sei certo che non ti infastidisco se continuo ad allenarmi nel tuo giardino?>> domandò mentre l’aiutavo ad infilare il giubbotto.

<<Mi offendo se non la fai!>>

<<Pratichi qualche sport?>>

<<Vado in palestra tre volte a settimana. Niente d’impegnativo. Giusto un po’ di ginnastica e di pesi per tenermi in forma.>>

<<Ti piacerebbe correre con me?>>

<<Non ho l’occorrente!>>

<<Ti piacerebbe?>> insistette.

<<Certo che sì!>>

<<Vedi, soffochi l’entusiasmo per un motivo futile. Ho un amico che vende articoli sportivi. Se vuoi, domani ti porto da lui.>>

<<Va bene.>>

L’accompagnai alla porta.

Laura balzò in sella al motorino parcheggiato davanti casa e l’avviò.

<<A domani>> fece infilandosi il casco.

<<A domani>> le feci eco salutandola con la mano.

 

Mentre ero in cucina a preparare la cena, all’improvviso mi sovvenne come un flash l’immagine di mio cognato che giocava a tennis.

Come un forsennato iniziai a rovistare la casa da cima a fondo. Sembravo un investigatore che percepisce a pochi passi da sé la prova schiacciante per inchiodare il colpevole ma non riesce a trovarla. Dove potevano essere? Fissai la scalinata che saliva in soffitta. Un lampo mi attraversò la mente. Salii di corsa la rampa di scale. Aprii la porta del solaio e accesi la luce, rischiarando l’interno. La fioca lampadina illuminò la cassetta degli arnesi, le biciclette dei bambini e le scope appoggiate al muro dirimpetto, il pacco di giornali ingialliti poggiato su una sedia sgangherata, due barattoli di pittura sistemati in un angolo l’uno sull’altro, dei pennelli induriti. L’armadietto a sinistra attirò la mia attenzione. Mi avvicinai e lo aprii senza indugio. Una fila di scatole di scarpe era allineata sul ripiano centrale. Scelsi quella di una nota marca di articoli sportivi. La scoperchiai: esultai alla vista delle scarpe da tennis. Io e mio cognato calzavamo lo stesso numero. Guardai nuovamente nell’armadietto: sulla scansia in alto era appoggiata una fila di buste di cellophane contenenti indumenti sportivi. Le svuotai una ad una sul pavimento fino a quando non trovai la tuta da ginnastica di Francesco.

 

L’umidità del mattino mi penetrava nelle ossa.

In prossimità del cancello della villa, saltellavo sulla sabbia con le braccia penzoloni per riscaldarmi, scrutando sulla battigia alla ricerca di Laura.

<<Volere è potere!>> risuonò di spalle la sua voce. Mi voltai.

<<Buongiorno>> la salutai.

<<Sei qui da molto?>>

Guardai l’orologio al polso.

<<Una ventina di minuti.>>

<<Se avessi saputo che m’aspettavi, avrei aumentato l’andatura.>>

<<Non preoccuparti.>>

Mi fissò i piedi.

<<Quelle non vanno bene>> fece fissando le scarpette da tennis che calzavo. <<Sono dure e hanno la pianta stretta. Per correre servono scarpe come queste>> Alzò il piede mostrandomi le sue. <<Leggere, con la pianta larga in modo che il peso del corpo sia ammortizzato interamente dal piede senza sforzo.>>

<<Allora non si corre?>>

<<Certo che corriamo, ma, appena puoi, compra delle scarpe adatte altrimenti ti infortunerai, garantito!>>

Iniziammo a riscaldarci. Afferrando una mano alla ringhiera, stringevamo l’altra mano al collo del piede, piegando la gamba all’interno in modo da toccare col tallone la natica. Restavamo in quella posizione per diversi secondi per poi fare lo stesso con l’altra gamba. Terminati gli esercizi, Laura si piantò al mio cospetto.

<<Unisci le gambe; flettiti sul busto senza piegare le ginocchia e cerca di toccarti con le mani le punta dei piedi come faccio io>>. Così dicendo s’inarcò sulle gambe tese, poggiando sul terreno i palmi delle mani. Restò in quella posizione per un tempo interminabile.

<<Adesso provaci tu>> fece rialzandosi.

Inarcai il busto, flettendo leggermente le ginocchia.

<<Se pieghi le ginocchia sbagli l’esercizio.>>

<<Non ci riesco>> gemetti. Il sangue mi andava alla testa.

<<Sei legato>> disse tastandomi le cosce: il tocco delle sue mani mi eccitò. Mi premette la mano sulla schiena perché mi flettessi meglio sul busto. Provai un dolore lancinante.

 

Corremmo una buona mezz’ora sul lungomare, parlando di noi.

Di tanto in tanto Laura interrompeva la conversazione, preoccupata delle mie condizioni fisiche.

<<Tutto bene?>> mi chiedeva premurosa.

<<Tutto ok!>> rispondevo strizzando l’occhio.

Al rientro, in giardino, dopo aver fatto gli esercizi di scarico, mi fece sdraiare con la schiena sulla panca, controllando che eseguissi correttamente gli addominali.

Feci la mia bella figura in quanto in palestra mi sottoponevo a massacranti serie di addominali per bruciare i grassi, reggendo un peso sull’addome.

<<Bravo>> si complimentò.

Toccò a lei.

Sollevandosi sul busto la tesa muscolatura delle cosce si delineò sotto la calzamaglia. Involontariamente posai lo sguardo al tessuto aderente sotto cui si delineava il pube. Il respiro le gonfiò il seno.

<<Stanca?>> feci cercando di nascondere il turbamento suscitatomi dalla sua femminilità.

<<Per niente>> disse alzandosi. <<Ci vendiamo domani alle sette?>> domandò sistemandosi ai fianchi l’elastico della tuta.

<<Perfetto!>> risposi.

Inaspettatamente, prima di andare via, mi baciò sulla guancia.

 

Uscito dalla doccia, indossai l’accappatoio di spugna e rientrai in camera da letto. Aprii l’armadio per prendere i pantaloni. Lo specchio all’interno dell’anta rifletté la mia immagine. Accostai la faccia al vetro: qualche timida ruga solcava le estremità degli occhi. Slacciai la cinta dell’accappatoio, riflettendo il corpo nudo nello specchio. Indietreggiai di qualche passo per analizzarmi a figura intera nel vetro. Tutto sommato potevo ritenermi soddisfatto, non avevo il benché minimo accenno di pancia. Le gambe erano toniche. I pettorali definiti in modo giusto. I bicipiti manifestavano forza. Forse qualche eccesso di grasso ai fianchi …

<<Ma che sto facendo?>> pensai ad un tratto ad alta voce, provando vergogna di me stesso.

Con un colpo secco richiusi l’armadio. Mi stavo comportando alla stregua di quegli uomini che ogni giorno, mattina e sera, si mirano nello specchio terrorizzati dal pensiero di scorgere sul proprio corpo i segni del tempo. Era la prima volta che mi comportavo in quel modo ridicolo. Proprio io che non perdevo occasione di replicare a chi si lamentava del passare degli anni:  <<Le uniche certezze della vita sono il passato e la morte. Tutto il resto è solo speranza e mistero!>>

 

La mia passione per i miti virgiliani risaliva all’epoca del liceo. Tra i tanti episodi delle gesta di Enea prediligevo l’incontro tra l’eroe latino e la sibilla cumana. Cuma distava pochi chilometri da Bacoli. La giornata tersa, riscaldata da un tiepido sole, mi invogliò a visitare l’Acropoli.

 

Risalivo il viale che conduceva agli scavi, attorniato da una calca di ragazzini festosi in gita scolastica. In prossimità dell’ampia sala d’ingresso scavata nel tufo della collina su cui gli antichi avevano edificato il sacro sito, levai lo sguardo alla cima del monte. La fitta vegetazione ammantava le pendici, nascondendo agli sguardi i resti del tempio di Giove eretto sull’apice. Entrando nell’ampia sala di tufo che come un limbo separava la biglietteria dal sito archeologico, osservai i piccoli loculi scavati nelle pareti dove anticamente alloggiavano le lucerne. Non appena fui nel parco, mi accostai alla ringhiera alla mia destra e mi affacciai nel canalone sottostante da dove proveniva l’eco dei colombi annidati nelle spaccature della rupe. Sotto di me si apriva uno slargo dove un ingresso scavato nella pietra conduceva nella città sotterranea. Ammirando quel suggestivo scenario, la fantasia cominciò a galoppare: mi domandai se il complesso archeologico non fosse opera dei Cimmeri, il misterioso popolo delle tenebre, per dar vita ai loro rituali sacri. E solo dopo l’avvento dei colonizzatori greci e successivamente dei romani aveva assunto i connotati attuali con i resti dei templi di Apollo e di Giove. Dubbioso mi incamminai verso il viale alberato che rasentava il margine della collina delimitato da una lunga staccionata in ferro. Al di sotto della terrazza la fitta vegetazione della foresta di Cuma si estendeva fino ai margini della spiaggia del Fusaro. All’orizzonte, ammantata da una sottile foschia, Ischia appariva come una misteriosa signora col velo calato sul viso per nascondersi agli sguardi degli uomini.

Contemplai il suggestivo panorama quasi fossi rapito in mistica ebbrezza: non c’era da stupirsi se gli antichi avessero scelto quel luogo per onorare gli dei e se Virgilio vi avesse fatto sbarcare Enea, gettando i semi della civiltà romana. Pochi siti al mondo suscitavano malie tanto intense nella fantasia degli uomini come quel luogo la cui eterna instabilità del sottosuolo, battezzata bradisismo, caratterizzata dal periodico innalzamento e abbassamento del suolo, lo accomunava simbolicamente alla vita con i suoi alti e bassi. I periodici sommovimenti della terra, unitamente alle esalazioni dei gas che dal suolo si libravano nell’aria alterando i sensi, agli sguardi degli antichi dovettero apparire come manifestazione di una volontà suprema che aveva prescelto quel luogo per manifestarsi e comunicare con gli uomini. Da qui la scelta di edificare il sito in onore del Nume.

Fissai le pigre onde del mare svolgersi sulla spiaggia. Respirai profondamente. Senza indugio mi diressi all’antro della sibilla imboccando l’oscuro corridoio che trafiggeva la collina alle mie spalle.

Man mano che avanzavo nelle tenebre accompagnato dall’eco dei miei passi, osservando la forma del corridoio che ricordava vagamente una vagina, ebbi la sensazione di inoltrarmi nell’intimità della terra. Avanzando in quel grembo tufaceo, più volte fui colto dalla sensazione che occhi invisibili mi spiassero. Attraverso gli enormi squarci laterali intagliati sul fianco dell’antro, fasci di luce provenienti dall’esterno laceravano il buio, proiettando la mia ombra sulla parete opposta. Timoroso avanzai incontro all’ignoto fino a quando non giunsi nella sala della sibilla. Il moncone di pilastro templare posto dinanzi al tabernacolo dove la pitonessa vaticinava, accresceva di mistero l’atmosfera.

Dai meandri della memoria mi sovvenne alla mente la storia della sibilla cumana: la sibilla era una splendida fanciulla. Affascinato dalla sua bellezza Apollo, pur di averla come sacerdotessa, la tentò in ogni modo, offrendosi di esaudirne qualunque desiderio. La donna raccolse una manciata di sabbia e chiese di vivere tanti anni quanti fossero i granelli di sabbia racchiusi nel pugno. Ma dimenticò di chiedere anche il dono dell’eterna giovinezza. Il dio l’accontentò. Con lo scorrere del tempo, la sibilla scoprì d’essere caduta vittima della propria vanità e del cinismo del nume: il suo aspetto si ridusse sempre di più a quello di una larva fino a scomparire, restando percepibile solo la voce. A quel punto il dio le promise di farla restare eternamente giovane a patto che lei avesse giaciuto con lui. Pur di non perdere la propria purezza, la sibilla rifiutò. Ecco il motivo per cui, ancora oggi, c’è chi sostiene che è possibile ascoltarne la voce.

In quell’attimo una voce di donna sorse dal nulla, sussurrandomi: <<L’entusiasmo è il motore della vita. Chi soffoca l’entusiasmo uccide se stesso. Ogni uomo è un dio in embrione che solo vivendo ha modo di manifestare la propria grandezza!>>

Istintivamente mi guardai intorno alla ricerca di Laura. Intorno a me solo silenzio e oscurità. La sibilla aveva vaticinato. Era compito mio penetrare il senso delle sue parole. […]

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L’ULTIMA NOTTE

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Di seguito i primi due capitoli de L’ULTIMA NOTTE in vendita su Amazon

 

Prologo

 

Dal ripiano del tavolo, la lampada illuminava l’interno della capanna, proiettando sulla parete l’ombra del vecchio pescatore intento a  scrivere su un quaderno. Avvolto in una nuvola di fumo che gli usciva dalle narici, con le ciglia corrucciate rilesse, schiacciando sulle assi del pavimento il mozzicone di un sigaro.

” L’amore ha il potere di fissare il passato in eterno presente.”

Trasse un profondo respiro. Chiuse il quaderno e si alzò, avvicinandosi alla finestra dove, da dietro ai vetri graffiati dalla pioggia, imperversava la tempesta.

Un fulmine tracciò nell’aria una scarica luminosa che squarciò le tenebre, illuminando, in lontananza, il mare ingrossato infrangersi sulla scogliera sottostante. Seguì l’assordante boato di un tuono. Da dietro alla capanna, Julab, il suo cane, prese ad abbaiare. Sorrise pensando all’animale con cui da tempo condivideva la solitaria esistenza.

Da una vita viveva in quella capanna, mai aveva assistito a una burrasca tanto violenta.

“Forse è un segno”, pensò. E, scrollando il capo, allontanandosi, si andò a sdraiare sul letto affiancato alla parete su cui si apriva la finestra.

Con le mani dietro alla nuca, fissava il soffitto da cui giungevano i rumori delle tegole tormentate dal vento e dalla pioggia. Un tuono, più fragoroso del precedente, inondò la capanna. La struttura di legno e lamiera vibrò, al punto che le stoviglie appese al muro caddero al suolo in maniera assordante.

Percependo il freddo entrargli nelle ossa, l’uomo si infilò sotto la coperta, rannicchiato nel tentativo di scaldarsi.

La fiammella della lampada cominciò ad affievolirsi.

Si alzò per raggiungere la mensola su cui erano disposti, ordinatamente, un rasoio, un pennello da barba, dei libri ammonticchiati l’uno sull’altro, una vaso di terracotta e una rudimentale clessidra che aveva costruito da giovane, unendo e strozzando con la pece i colli di due bottiglie, dopo averne riempita una a metà con la sabbia. Da dietro al vaso ne prese una più  corta, rivestita di uno spesso strato di polvere e ragnatele, in cui vi era dell’olio. Quindi si avvicinò al tavolo e prese da un cassetto una candela e una scatola di cerini. Accese la candela, versò un po’ di cera sul tavolo e la fissò. Assicurandosi così la luce mentre cambiava il combustibile alla lampada. Accese un altro fiammifero, accostandolo allo stoppino, manovrando con sapienza il regolatore della fiamma per sprigionare un fascio di luce pulita.

Con un soffio spense la candela riponendola nel cassetto.

 

La tempesta, intanto, aumentava d’ intensità.

Preoccupato, ritornò alla finestra, per accertarsi che Julab se ne stesse al riparo nella cuccia. Appoggiò il naso sul vetro, nel tentativo di sconfiggere il fitto velo di pioggia che rendeva impossibile distinguere quanto accadeva fuori in quel momento.

Lo spegnersi della lampada gettò la capanna nel buio.

“Accidenti.”, borbottò, raggiungendo il tavolo per prendere i cerini. Ne trovò un paio, accatastati di fianco alla lampada e ne strofinò  uno sul ruvido del pavimento. L’ umidità del legno vanificò ogni tentativo.

– Perché ti ostini ad accendere? -, domandò una voce alle sue spalle.

Un bagliore rischiarò il sorriso sul volto dell’uomo. Si girò in direzione della voce per vedere a chi apparteneva, ma un’ improvvisa pesantezza agli occhi lo costrinse a chiudere le palpebre. Quando le riaprì, un’ombra indistinta, nebbiosa era lì alla finestra.

– Allora. Cosa aspetti? -, domandò, tracciando dei segni sul vetro opaco. Segni che sembravano rivolti al mare.

Nella mente del vecchio, i ricordi di un passato lontanissimo tornarono  a ravvivarsi con frenesia.

 

I

 

Il sole, alto nel cielo, generava riflessi cristallini sul mare che circondava l’isola, simile a una collana di perle. I raggi illuminavano le case basse, esaltandone i colori pastello.

Dalle finestre aperte, l’astro entrava nelle case riscaldando ogni angolo. Nell’ aria l’accattivante aroma della primavera accarezzava le creature col suo dolce tepore, inducendole ad amarsi. Nulla e nessuno sapeva resistere a quella malia.

Tutta la natura si crogiolava nell’ebbrezza dell’abbraccio creativo.

Maschi e femmine giocavano a un perpetuo rincorrersi e sfuggirsi, per  ritrovarsi, rapiti dall’oblio dell’estasi amorosa.

Approfittando della splendida giornata, i suoi genitori decisero di uscire in barca per andare a pesca. Kayfa rinunciò, perché aspettava Raoul con il quale si doveva allenare per la gara di nuoto che si sarebbe svolta tra due settimane.

Udendo il battente picchiare alla porta, convinto che fosse l’amico, uscì dal bagno. Andò ad aprire senza la preoccupazione di coprirsi.

Sull’uscio, avvolta in un coloratissimo pareo, e con un braccio infilato in un cesto colmo di frutta, c’era Miryam, un’amica della madre. Una donna splendida, nel pieno della sua maturità. I capelli, neri e setosi, le scendevano lungo la schiena fino ai glutei. Sotto il delicato indumento, il suo corpo sinuoso, dalle generose forme, svettava armoniosamente al sole, offrendo al calore dei raggi la robustezza e la fragranza dei seni color pesca. Il viso della donna, anch’ esso rischiarato dal sole, era privo di trucco.

Kayfa restò per qualche istante confuso.

Quando si accorse che lei l’osservava con interesse, per nulla imbarazzata da quella situazione, d’istinto si portò le mani tra le gambe per celare le proprie nudità.

Intenerita da quel gesto, gli sfiorò il viso con una carezza.

– Mi scusi –   balbettò , visibilmente turbato.

La donna scosse il capo, lasciando intendere che non doveva preoccuparsi.

– Posso entrare? –   domandò, continuando ad accarezzargli la guancia con la mano.

– Mamma non è in casa – fece con voce tremante.

– Non fa niente – rispose, avanzando sulla soglia. Una volta entrata, gli fece cenno di chiudere la porta, scivolandogli con la punta delle dita lungo il collo, fino a sfiorargli il  torace glabro e muscoloso. Soffermandosi a solleticargli i capezzoli che avevano assunto il caratteristico tono violaceo dell’eccitazione.

Il corpo del giovane  era tutto un fremito mentre la donna, che nel frattempo si era liberata del cesto poggiandolo su un tavolino al centro della sala, gli  massaggiava con voluttà il petto, passandogli, di tanto in tanto,  una mano tra i capelli bagnati.

– Ora sono qui per te – gli sussurrò in un orecchio, mordendogli il lobo, sorridendogli maliziosamente. In quell’istante, Kayfa comprese che stava per diventare uomo.

 

Le gambe presero a tremare e le viscere a rivoltarsi nell’addome.

Cercò nei meandri della mente qualunque cosa potesse tornargli utile per mascherare la propria inesperienza.

Come d’abitudine per i ragazzi della sua età, ascoltava con interesse i discorsi dei più grandi relativi al sesso, in modo da farsi una cultura a cui poter attingere al momento opportuno onde evitare figuracce.

Il momento era giunto.

– Allora, cosa aspetti? –  chiese lei con voce sommessa, slacciandosi il pareo e fissandolo intensamente con due occhi neri e scintillanti. Offrendo al suo sguardo intimorito lo splendore naturale del suo corpo maturo.

 

” La stringi forte tra le braccia e la baci lungo il collo, mentre con le mani le sfiori i fianchi.”, ricordava aver sentito dire da qualcuno.  “Quando la baci, appoggi delicatamente le tue labbra sulle sue, schiudendole in modo che le vostre lingue si incrocino, è bellissimo!”, aveva sentito da qualcun altro. Ma la cosa più importante l’ascoltò da Omar, il pescatore di spugne con il quale spesso si fermava a dialogare. Facendosi coraggio, una mattina, approfittando che Omar gli stava raccontando delle proprie avventure amorose da giovane, aveva trovato la forza di chiedergli cosa bisognava fare quando si incontrava una donna per la prima volta.

“Non preoccuparti figliolo”, lo rassicurò. “Quando anche per te giungerà il momento, lasciati guidare dal cuore. Ma, soprattutto, lascia che a guidarti sia lei, chiunque essa sia. Le donne imparano presto e sanno essere delle maestre giudiziose. Non ti preoccupare e sii naturale. Solo così potrai essere certo che tutto andrà bene. Voler apparire ciò che non si è nella vita si risolve sempre contro noi stessi”.

 

Adesso, quelle parole gli ritornavano in mente, fissando Miryam che si accostava a sé con il suo corpo profumato di mare al suo, desiderosa di essere posseduta. Accarezzandolo tra le gambe al fine di stimolarne la virilità, ridotta a un pezzetto di carne raggrinzita.

Intuendo che per lui quella era la prima volta, Miryam tramutò se stessa in vergine, riacquistando spiritualmente la purezza donata in gioventù a un uomo che, dopo averla sposata, regalandole l’illusione dell’amore, successivamente, alle morbide onde del suo corpo aveva preferito quelle fredde del mare. Abbandonandola a un solitario destino su quell’isola, su cui, per vivere, era stata spesso costretta a cedere  alle lusinghe di quanti smaniavano di giacere con lei. Nutrendo un profondo rancore verso la vita che si era mostrata così crudele nei suoi confronti, privandola della madre, morta nel darla alla luce, e poi del padre, scomparso in mare durante una tempesta quando non aveva ancora un anno. Costringendola a vivere con la nonna materna fino al giorno del matrimonio, e in seguito da sola.

L’unica persona che non l’aveva mai abbandonata, niente affatto preoccupata della fama che l’accompagnava, era la madre di Kayfa.

 

Appassionatamente, senza tregua, si amarono fino a che i contorni dell’ orizzonte assunsero il tono purpureo del tramonto, ora in cui i pescatori rientravano.

Ravvivandosi i capelli con le mani, Miryam si alzò dal pavimento che aveva funto da giaciglio.

Nella stanza, il profumo dei loro corpi si mischiava a quello del mare proveniente dalla finestra, con la tenda di paglia prudentemente abbassata per evitare che sguardi indiscreti sorprendessero la loro intimità.

Un solo momento di panico li aveva colti: quando Raoul bussò con insistenza alla porta.

* * *

– Mio Dio. E’ Raoul – gemette Kayfa, nell’udire la voce dell’ amico gridare il suo nome –  Dovevamo andare ad allenarci -, aggiunse con espressione sognante, risultato delle carezze e dei baci con cui Miryam lo stordiva cavalcandogli il ventre.

– Lascia che bussi – mormorò estatica, riversando la cascata di capelli corvini sul viso di lui che accennò a un timido moto di ribellione per divincolarsi dalla stretta. Sortendo, invece, l’effetto di accrescere l’eccitazione di entrambi fino al culmine del piacere.

II

 

I raggi del sole attraversavano le liste della tenda, proiettando sul corpo di Miryam tanti punti luminosi, dando l’ impressione che la sua pelle fosse maculata al pari di un leopardo.

– Sei bellissima – fece Kayfa, steso sul pavimento con le mani giunte   dietro la nuca, ammirandola riavvolgersi nel pareo.

– Anche tu – rispose, accostando la punta dell’indice alle labbra. Posandola, quindi, su quelle di lui, in un ipotetico bacio.

– Quando ci rivediamo? – chiese Kayfa, sedendosi sul pavimento con le gambe incrociate.

– Al più presto – rispose, passandosi le mani lungo i fianchi perché l’indumento aderisse ai lineamenti del suo corpo – Adesso devo andare – aggiunse, chinandosi a baciare sulla fronte il giovane amante.

– Quando ci rivediamo? – chiese nuovamente Kayfa, balzando in piedi e afferrandole i polsi, preoccupato di non farle male.

Sorridendo, Miryam accostò le labbra alle sue:

– Domani alle quattro – sussurrò – Vicino allo “scoglio dei gabbiani” – E lo baciò con passione prima di avviarsi verso la porta. Aprendola, dopo essersi assicurata che non sopraggiungeva nessuno.

 

– Allora, come è andata? – chiese sua madre, entrando nella stanza dove  Kayfa, seduto sul letto, leggeva un libro.

– Non tanto bene – mentì, continuando a fissare le pagine aperte.

– Che significa “non tanto bene”? – chiese, baciandolo sulla fronte – Tu e Raoul avete per caso litigato? –  e si sedette sul bordo del letto in attesa di spiegazioni.

– Ho avvertito un malessere – continuò a mentire, chiudendo il libro e cercando di sfuggire lo sguardo perplesso con cui la donna lo fissava.

– Mio Dio – esclamò allarmata, prendendogli tra le dita il mento per osservare il viso – Hai un’aria affaticata – ammise. Istintivamente allungò la mano sulla fronte per controllare se avesse la febbre – E cosa ti sei sentito? –  riprese, tranquillizzata dal fresco percepito sui polpastrelli.

– Mal di stomaco – Kayfa sentì il sangue affluirgli alla testa per la rabbia e la vergogna che provava in quel momento. Prima di allora non aveva mai mentito a sua madre.

– Cosa hai mangiato questa mattina a colazione? – incalzò lei.

– Tè e biscotti – si affrettò a rispondere.

–  Evidentemente ti avrà fatto male qualcosa che hai mangiato ieri sera a cena –   concluse. E si alzò per avviarsi presso la finestra spalancata sulla baia, da dove giungeva il frinire delle cicale.

Le stelle bucavano il terso cielo della sera. Si appoggiò con le mani al davanzale per ammirare il panorama.

– E’ stata una splendida giornata – sospirò.

In lontananza, un peschereccio illuminato lanciò un “urlo”.

– La pesca è stata abbondante e tuo padre è ancora giù al porto per trattare il prezzo del pesce. Non immagini quanto sia felice.   .

– Sono contento – sorrise Kayfa portandosi al suo fianco.

– Ho visto sul tavolino dell’ingresso il cesto per la frutta che avevo prestato a Miryam. Quando è passata? – domandò, sistemandosi la gonna sul davanti.

Kayfa si sforzò di controllare l’imbarazzo che provava – Questa mattina, sul tardi – rispose deglutendo.

– Miryam è una carissima ragazza – sorrise lei – Peccato non sia stata baciata dalla fortuna. Non è cattiva come dicono, sai? – concluse, uscendo dalla stanza.

– Sì mamma – mormorò, rivolto all’arco d’argento che si stagliava nel cielo.

 

Distesi sul bagnasciuga, i corpi nudi di Miryam e Kayfa, travolti dalla passione, erano in balia delle carezze del mare.

Di tanto in tanto un gabbiano planava sullo spuntone di roccia lavica, dietro cui si erano dati appuntamento il giorno prima, per librarsi in volo  appena posava lo sguardo sulla strana creatura a due teste che si dimenava nell’acqua con degli strani suoni  gutturali.

Scossi dalle convulsioni dell’amore, i due amanti si fissavano con occhi sbarrati. Le mani intrecciate in una stretta morsa, che si allentò nell’ attimo in cui il flusso umorale defluì dai canali naturali, disperdendo nel vento l’acuta nota dell’ incanto d’amore.

 

– E’ stato splendido – sussurrò Miryam, sdraiata su di un fianco nell’ acqua, scorrendo con la punta delle dita i tratti acerbi di lui.

Immerso con la schiena nel ribollio della risacca, Kayfa ammirava le evoluzioni di un gabbiano. Udendo quelle parole, rivolse lo sguardo a Miryam che lo fissava con un dolce sorriso su cui si stemperavano gocce di mare, passandole una mano tra i capelli bagnati intrisi di sabbia e salsedine.

– I tuoi capelli hanno bisogno di una sistemata – mormorò.

La donna esaminò con cura una ciocca.

– Che importa – dichiarò divertita. Con impeto si gettò su di lui, abbracciandolo in modo che le loro guance si sfiorassero.

Da lontano, smorzati dal mare, giungevano gli echi delle voci dei pescatori che issavano le reti.

– Sei felice? – chiese Miryam con un sorriso, sfiorandogli l’orecchio con le labbra.

– Tanto. E tu? – le domandò tenendosi sui gomiti e fissandola con intensità negli occhi.

–  Abbastanza –  ammise lei, dopo un istante di riflessione.

–  Come abbastanza? – scattò preoccupato.

– Stupido – rise – Certo che sono felice – E spingendolo con la schiena nell’ acqua, lo baciò con passione.

Ancora una volta, i loro corpi si intrecciarono nei sussulti dell’amore. Questa volta fu Kayfa a sottomettere la natura di lei. Miryam lo lasciò fare, desiderosa di essere schiava del suo ardore, gemendo di piacere  all’ardire con cui il giovane le violava l’ intimo. L’apice li travolse all’unisono. Le labbra, unite in un caloroso bacio, trasfusero nelle loro anime l’armoniosa melodia che si levò dall’ esaltazione dei sensi. I cuori vibrarono in un ritmo assordante che si placò allorché l’ultimo sussulto di piacere scosse i due amanti.

Esausti, si accasciarono felici nell’acqua cristallina.

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IL LIBRO: LE MIE RAGAZZE-RAGAZZE ROM SCRIVONO

le mie ragazze

Le chiamerò semplicemente le mie ragazze perché dopo gli incontri tenuti nell’IPM di Nisida da fine giugno agli inizi di luglio del 2006 per impartire loro qualche nozione di scrittura creativa, non posso che considerarle tali. Ovviamente mie non va inteso come aggettivo possessivo, bensì deve intendersi in chiave spirituale.

Nelle sei settimane in cui ci siamo incontrati, ognuna di loro, a modo suo, mi ha dato qualcosa. Ognuna di loro col suo sorriso, la sua tristezza, la sua voce, il suo silenzio mi ha aiutato a capire, anche se solo in minima parte, un mondo a me noto solo attraverso le immagini stereotipate di bambini/e, ragazze/i ferme/i ai semafori che cercano di lavarti il vetro del parabrezza o di venderti un pacchetto di fazzolettini di carta vestiti in maniera trasandata e puzzolente; di gruppi di donne con neonati tra le braccia accovacciate per a terra mangiare con le mani sudice cibi di dubbia qualità e provenienza, la cui vista da lontano ti disgusta al punto da indurti ad attraversare la strada.

Sembrerà strano ma Le Mie Ragazze mi obbligarono a cercare di comprendere quest’esistenza volutamente vissuta senza pentimenti ai margini della società. Frutto di una cultura popolare per noi inammissibile che riconosce nel vagabondaggio, nell’accattonaggio e, molto spesso, nel furto gli unici mezzi di sostentamento. Una cultura dove i bambini piccoli sono un mezzo per attuare tali principi in quanto non sono perseguibili dalla legge.

Le mie ragazze non avevano più di diciassette anni. Alcune erano davvero belle, altre avevano un fascino magnetico. Quando discutevamo, la loro allegria era così contagiosa che a stento riuscivo a frenare l’ilarità per non dare di me un’immagine faceta, rischiando di perdere l’ascendente che avevo su di loro. Forse qualcuna ha iniziato anche a volermi bene, o a vedermi con occhi “diversi”…

Quest’ultimo aspetto lo percepivo dall’intensità di alcuni sguardi… In quei momenti mi sentivo in imbarazzo!

Quando iniziai gli incontri avevo messo in conto anche quella possibilità in quanto alla loro età qualsiasi ragazza è già donna. Figuriamoci loro che non sanno cosa significhi l’infanzia; che non appena hanno le loro prime regole vengono date in spose affinché mettano al mondo dei figli; che in quel caso specifico restano a lungo imprigionate senza alcuna possibilità d’incontrare un coetaneo, se non sotto stretta sorveglianza e in momenti particolari.

Rientrando a casa, ripensando a quegli sguardi di desiderio e alle frasi allusive che spesso li accompagnavano, sorridevo lusingato. Ma il compiacimento si arrestava lì. Esistono limiti che alla mente non è concesso oltrepassare!

Le mie ragazze erano belle! E ancor più belle erano l’ultimo sabato che ci vedemmo. Dai lori volti traspariva speranza di libertà per via della discussione in parlamento sull’approvazione dell’indulto. Qualcuna già sognava di riabbracciare il marito e i figli – avete letto bene, “il marito e i figli”; qualcun’altra sognava di cambiare vita; qualcun’altra, più realisticamente, sperava di rientrare in carcere il più tardi possibile perché “rubare appartiene al mio DNA”. Disse proprio così!

Fu bello condividere con loro quelle settimane, leggere sui lori volti e nei loro sguardi le continue mutazioni delle loro anime. E’ stato bello sapere che per un momento le loro menti hanno pensato in maniera diversa dal solito, meditando sugli errori commessi, (cosa che già facevano prima di incontrare me, ma in maniera differente. Almeno così dissero…).

Fu bello essere lì con loro illuminandomi dei loro sorrisi, commuovendomi delle loro lacrime, raccogliere nel mio cuore i loro pentimenti, la loro rabbia, la loro voglia di vivere, di amare, di sentirsi donne.

Fu bello ricevere i loro baci sulle guance prima di andare via per sempre.

Fu commovente sentire alle mie spalle, mentre m’incamminavo per l’ultima volta verso l’uscita, la voce di una di loro sussurrare “Addio istruttore!”

Se volete leggere l’intero diario di quelle 6 settimane non vi resta che acquistare il libro. Sono convinto che non ve ne pentirete.

Buona lettura!

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INTERVISTA A CASSANDRA FORTIN – UNA CANADESE A POZZUOLI

Di seguiti l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Ventitreenne canadese del Quebec, laureata in Scienze Storiche, Cassandra Fortin è in Europa da due anni per l’Erasmus con cui sta completando un master sui beni e i paesaggi culturali. Da sei mesi a Pozzuoli, collabora attivamente con l’associazione culturale Lux In Fabula.

A fine agosto completerà il ciclo di studi e agli inizi di settembre rientrerà in Canada. Ne abbiamo approfittato per farle qualche domanda e conoscere il suo punto di vista su Pozzuoli e i suoi abitanti.

Cassandra da quanti mesi sei in Italia?

Sono arrivata all’inizio di febbraio

Sei qui per l’Erasmus?

Sì!

In cosa stai per laurearti?

Sono laureata in Scienze Storiche. Ora sto facendo un master in beni e paesaggi culturali.

Perché hai scelto di vivere a Pozzuoli?

Perché l’Associazione Lux In Fabula, presso cui mi appoggio per i miei studi, lavora sugli stessi argomenti oggetto delle mie ricerche.

Come sei venuta a conoscenza di Lux In Fabula?

Me ne parlò una professoressa della Federico II che conosce Claudio Correale il presidente di Lux. Quando le chiesi a chi potessi rivolgermi per avere un valido sostegno alle mie attività di ricerca, mi indicò lui e la sua associazione.

Che cosa ti ha colpito dei campi flegrei?

Quando sono arrivata non sapevo che questa zona fosse vulcanica e sismica. Per me è stata una sorpresa, soprattutto vedere il modo naturale con cui gli abitanti interagiscono con questa realtà.

Puoi spiegarti meglio?

Per me che vengo da una terra dove non esistono fenomeni vulcanici così intensi come qui da voi, mi ha stupito la semplicità con cui le persone vivono quest’aspetto del territorio. Ho la sensazione che gli abitanti adorino la loro terra, anche quando li fa “ballare” costringendoli a doversene allontanare per motivi di sicurezza. Ho riscontrato che qui c’è una maniera diversa di appropriarsi del territorio rispetto a tante altre zone dell’Italia che ho conosciuto.

In che senso?…

Un esempio facile, le terme: sono una realtà molto antica, che risale all’epoca romana. Ma qui da voi è una realtà tuttora molto utilizzata, un aspetto quotidiano che caratterizza l’economia del territorio e la vita di molte persone. Pur non essendo obbligate a vivere in questa terra così problematica e pericolosa, la gente lo fa come se nulla fosse, tradendo un legame molto forte con essa. Sono cose come queste che mi hanno stupita!

Questo legame così forte con il territorio non lo riscontri in voi canadesi?

Sì, ma è diverso. Noi non abbiamo i vulcani o fenomeni come il bradisismo. Abbiamo la neve, il ghiaccio e tanta acqua. Fenomeni diversi che non ti inducono a vivere come se ti pendesse sul capo la spada di Damocle!…

Tu da quale zona del Canada vieni?

Quebec, la parte francese!

Ci puoi raccontare cosa hai esattamente fatto in questi mesi che sei stata in Italia, in particolare a Pozzuoli?

Ho lavorato a molti progetti: ho allestito un sito web per l’associazione che ho quasi finito; ho lavorato a un video sullo sgombero del Rione Terra del 1970 da cui ho tratto spunto per farne poi uno sul successivo sgombero a Pozzuoli del 1983 sempre conseguente al bradisismo.

Ora che tornerai nel tuo paese, cosa pensi ti resterà di questa esperienza in Italia, a Pozzuoli in particolare?

Studiando da antropologa, questo lavoro che sto facendo con gli abitanti che hanno vissuto e vivono la realtà bradisismica dei campi flegrei e gli sgomberi che ci sono stati, è per me un modo concreto di conoscerne in maniera più approfondita la storia e la mentalità.

Oltre alla loro capacità di adattamento alla natura instabile del territorio, cos’altro ti ha colpito dei puteolani?

La maniera di vivere sapendo cogliere l’attimo, attuando il motto latino del carpe diem. Da che sono in Italia ho avuto modo di constatare come negli italiani, e soprattutto nei napoletani e puteolani, sia insita questa filosofia di vita. Del resto non mi stupisce: vivendo in un territorio dove sai benissimo che da un momento all’altro potrebbe verificarsi un evento sismico che potrebbe completamente cambiarti la vita, è naturale che le persone vivano la propria esistenza attimo per attimo. Questo mi piace perché, così facendo, assapori ogni momento della vita. Dai valore a ogni secondo, non perdendoti nell’effimero!

Quando rientrerai in Canada?

Agli inizi di settembre.

Il pensiero di dover andare via ti rende felice o pensi che ci soffrirai un po’?

Entrambe le cose! Sono due anni che sono in Europa e mio mancano molto la mia casa, la mia famiglia, i miei amici. È vero che parlo spesso in chat con i miei familiari, in particolare con mamma, ma non è la stessa cosa!

I tuoi genitori cosa dicono di questo tuo lungo soggiorno europeo?

Quella che lo sta soffrendo molto è mamma: sia papà che mio fratello, per motivi di lavoro e di studio, stanno via da casa tutta la settimana e mamma resta molto tempo da sola. Questo mi dispiace, per cui ecco perché non vedo l’ora di rientrare in Canada!

Pensi che un giorno ritornerai a Pozzuoli?

Sicuramente, adoro questa terra e la sua gente!

Vincenzo Giarritiello