CIAO, LUCIANO!

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Tra ieri e oggi ci hanno lasciato, a distanza di poco più di ventiquattro ore l’uno dall’altro, Andrea Camilleri, il papà del commissario Montalbano, e poi Luciano De Crescenzo, l’autore di Così Parlò Bellavista.

Se sulla scomparsa dello scrittore siciliano ho taciuto per una questione di pudore, rispetto e dignità personale non avendo letto praticamente nulla di suo se non qualche estratto dai suoi romanzi e qualche articolo apparso sui giornali, altrettanto non farò per De Crescenzo di cui ho letto praticamente quasi tutto, a partire da ZIO CARDELLINO il suo romanzo di esordio, a COSI’ PARLO’ BELLAVISTA che lo rese famoso in tutto il mondo, alla sua autobiografia STORIA DI LUCIANO DE CRESCENZO SCRITTA DA LUI MEDESIMO, unitamente a tutti i testi sulla STORIA DELLA FILOSOFIA GRECA.

Posso dirlo senza essere tacciato di piaggeria, fu proprio grazie ai suoi libri sulla filosofia che mi sono appassionato a questa disciplina: la semplicità della sua scrittura, unitamente alla sua innata ironia e indiscussa capacità di rendere comprensibili le cose difficili anche a chi non possedesse l’ABC, ne hanno sancito la grandezza letteraria, a prescindere da quanto ne dicessero gli addetti ai lavori, ossia i professori di filosofia, per fortuna non tutti, che vedevano De Crescenzo come il fumo negli occhi perché, a loro dire, s’era addentrato in un campo che non gli apparteneva, usurpandoli dello scettro della sapienza. Una sorta di moderno Prometeo, reo di  aver rubato la sacra fiamma della conoscenza dall’Olimpo per offrirla agli uomini!

Se con Camilleri se ne è andato un pezzo di Sicilia, con De Crescenzo se ne va un pezzo di Napoli. Quella città che lui amava e odiava al tempo stesso a causa delle tante contraddizioni che la caratterizzano, che lui seppe mettere in luce nel suo capolavoro letterario COSI’ PARLO’ BELLAVISTA. E che anni dopo ebbe l’ardire, ma anche la straordinaria capacità, di trasporre in versione cinematografica nel doppio ruolo di regista/attore, dimostrando la propria versatilità artistica. A distanza di anni, tuttora quel film viene spesso replicato da qualche emittente napoletana e, come i film di Totò, lo si rivede sempre con piacere.

Se del privato di Camilleri si sa poco o nulla, di De Crescenzo s’è saputo molto essendo stato oggetto di gossip per le tante storie d’amore che ha vissuto con star nazionali e internazionali. Una su tutte Isabella Rossellini!

Ero poco più che quindicenne quando lessi COSI’ PARLO’ BELLAVISTA: comprai il libro in una cartolibreria a Portici dove eravamo in visita dai genitori di papà. Quando uscii con il libro tra le mani e glielo mostrai, papà disse, “All’interno si racconta l’episodio di quando, mentre era da Minale – Minale è il negozio di giocattoli dove papà ha lavorato per oltre quaranta anni – per degli acquisti, gli rubarono degli oggetti dall’auto parcheggiata a Piazza Mercato!”’. Quell’episodio è stato trasposto nel film con la magistrale interpretazione di Riccardo Pazzaglia nella scena del Cavalluccio Rosso.

Pur conoscendolo come si può conoscere un cliente affezionato, di De Crescenzo papà ne parlava con rispetto, definendolo un signore sorridente e disponibile con tutti.

Da ieri la Sicilia è in lutto per la scomparsa di Camilleri, da oggi Napoli lo è per quella di De Crescenzo. Ma non avendo l’arte confini, tra ieri e oggi in lutto è il mondo intero dell’arte e della cultura nazionale e mondiale.

Speriamo che il Senato, così come ieri ha tributato un minuto di silenzio allo scrittore siciliano, altrettanto faccia oggi per la scomparsa di De Crescenzo. Entrambi con le loro opere hanno contribuito a rendere grande l’Italia.

A dispetto di alcuni politici che con le loro sbruffonate e cialtronerie non fanno altro che gettare fango sulla nazione!

CIAO, LUCIANO!

 

Vincenzo Giarritiello

FOLLIA DIVINA

Il tempo era sospeso nella staticità virtuale dell’amalgama divina.

La notte e il giorno, il bianco e il nero, la vita e la morte, l’uomo e la donna confusi nell’edenico androgine primordiale, languivano nel lattiginoso guscio, amebiche presenze dalle indistinte trasparenze del tempo che fu.

Nella sua infinita grandezza il supremo demiurgo impugnò la spada infuocata e squarciò il velo di tenebra con rilucenti lampi, fendendo violentemente la placenta dalla cui ferita le acque materne si riversarono nell’infinito spazio partorendo il cielo e la terra, alterne patrie dell’umana stirpe. Capriccio creativo di un Dio che nell’esaltazione parossistica della creazione decretò l’inizio della fine.

È compito nostro, uomini morsi dalla serpe della conoscenza, di arrestare lo scempio che la divina illusione va compiendo. Stretti nel gelido abbraccio della solitudine, amica fedele che ovunque ci accompagna, ci libriamo oltre le nuvole in un sonno purificatore, mentre gli ufficiali delle angeliche legioni ci armano di lancia e spada unguendoci la fronte di olio benedetto per rafforzarci nello spirito, indicandoci il sentiero da seguire per raggiungere l’esercito celeste per unirci a esso in battaglia contro il demone dell’illusione che dalle sue fetide fauci alita le fiamme del desiderio, causa primaria dell’eterno male.

Lo sprofondare improvviso in un pozzo nero e senza fondo, da cui esala il fetore degli innumerevoli cadaveri in putrefazione, stordisce gli spiriti più deboli, distogliendoli dalla sacra battaglia. Arricchendo quelli che a esso sanno resistere, concedendo loro di trovare la risposta al perché della vita; scatenando le loro menti lungimiranti in evoluzioni pindariche fino a condurle agli estremi limiti dell’universo, catapultandole verso il sacro fuoco che arde al centro del firmamento.

Aquila splendente dalle dorate piume, l’anima si invola incontro all’astro del giorno ad ali spiegate. Al suono di invisibili trombe, avanza verso il magnete di fuoco dando l’impressione di volerlo sfidare per usurparne il trono. Imperatrice altera di uomini senza nome e senza volto, sferza l’aria con le ali stringendo negli artigli una pergamena intrisa di sangue su cui spiriti ribelli a un’esistenza formale hanno stretto un patto con Dio implorandone il soccorso onde concedesse loro, umili servitori, il privilegio di varcare la soglia del tempio per bere dalla Sacra Coppa l’acqua dell’eterna giovinezza che fino e poco prima ristagnava nei loro cuori dormienti di pecore al pascolo alla guida del pastore.

Risvegliandole, il Signore Dio beatificò le loro anime ricostituendo l’unità originaria, restituendo all’uomo la sua funzione di nucleo primordiale da cui infiniti raggi si diramano ad intrecciare quelli di altri nuclei, formando una sottile catena di anime senza tempo e senza luogo da cui l’anima dei mondi si fonde in un abbraccio mortale, sintomo del passaggio di stato in cui tutti incorriamo per riposarci dall’immane fatica che l’edificazione della babelica torre richiede per l’illusorio incontro con Dio un giorno che fu, che è, che sarà.

Ciò mai accadrà perché Dio si espande nell’evoluzione delle coscienze: più le coscienze evolvono, più Dio si allontanerà da loro perché Egli si nutre dei frutti che le coscienze hanno seminato e raccolto in terra in un susseguirsi esistenziale che da Adamo in poi si protrae all’infinito, vita dopo vita.

Il pianto del neonato partorito dal ventre della donna è il segnale che un nuovo mondo è sorto per servire Dio nell’estenuante opera di sutura della placenta primordiale da cui si riversano le acque della creazione seminando morte e distruzione, ma anche gioia a amore!

Erranti cavalieri in groppa ad alati destrieri sorvoliamo le lattee vie con iperboliche traiettorie, viaggiando da un sogno all’altro guidati dalla rilucente cometa la cui iridescente coda accarezza la fulva criniera dell’immortale Pegaso, l’inesauribile stallone astrale che, teso nel compimento dello sforzo creativo, sparge nel vuoto cosmico il fluente seme, affidandolo al soffio divino affinché lo vivifichi con l’inestinguibile fuoco della passione, alimentato dalla lussuriosa danza di Venere che incendia le anime fino a ridurle in cenere che Borea, il vento astrale, disperderà nell’infinità del tempo.

Allorquando l’alato mito placa l’impeto creativo, un mare celeste si estenderà sotto di sé. Vele gravide lo fenderanno con briosa schiuma, piroettando tra le onde in allegre rotte serpentine disegnate da timonieri millenari.

All’orizzonte vette piramidali, eternamente imbiancate, sfiorano il cielo regalando l’incantevole scenario di un’alba senza tempo, nella vibrante attesa che essa sorga dentro di noi liberandoci dell’alternanza temporale giorno/notte, connubio vitale con cui un demone malvagio ha ingannato l’umanità intera, schiavizzandola a sé con l’ammaliante canto di splendide sirene bramose di fondersi in spossanti amplessi al fine di depredare l’umanità del gene creatore, estinguendo la fiamma che rischiara le tenebre dell’eternità.

L’ansante ritmo dei corpi fusi nell’ancestrale unione generativa dà vita a un suono muto le cui vibrazioni, in un crescente di sensuali movenze, sfociano nell’apicale nota del piacere, riunendo disciplinatamente le particelle cosmiche sparse nell’universo in formea dalle labili consistenze che si lasciano risucchiare nella spirale ombelicale per essere seppellite nelle viscere della terra da cui germoglieranno in consistenza materiale, azione combinante dei geni elementari sul tratteggio pentagrammato che antiteche polarità imbastiscono nell’orchestrale unione dei sensi.

Sfibranti orgasmi consumati nell’orgiastica visione di volti e corpi trasfigurati dall’accattivante piacere umorale intrisi di sudore; gli occhi levati al cielo nell’estatica visione di un dio incarnato, sacrificato sul vegetale intreccio infisso sul teschio bagnato dal sangue purificante che fuoriesce dai cardinali punti corporali, mentre un tremendo boato sentenzia l’imminente cambiamento di stato di colui che sacrificò se stesso per salvare l’umanità corrotta e ingrata.

Schiavi dell’ipocrita pentimento affondiamo il viso nello sterco, consapevoli delle pesanti colpe commesse verso colui che si lasciò uccidere per donarci la vita eterna. Mai domi di peccare, a frotte accorriamo alla corte di un’acerba meretrice che offre le proprie grazie solo per il gusto di sentirsi padrona di un branco di caproni instupiditi dal suo fiore nascosto che sbuffano frementi di appagare l’incontenibile desiderio che la sua visione suscita in loro. Ipocrite vipere, moralizzatori da strapazzo, sprofondano stancamente in un sofà sviliti della sovrana dignità che un tempo fu loro concessa, lasciando che lo scettro della creazione penda  mestamente tra le loro gambe, incapaci di resistere alla maliziosa concubina che astutamente ha svelato la loro animica lordura.

Nell’alchimia dei sensi le menti incontrollate evocano mostri, rifiuti astrali la cui gioia distruttiva trova il proprio appagamento nella furia assassina di coloro che si credono comandanti, condottieri, imperatori, ma che in realtà sono inconsapevoli strumenti alle direttive del mostro satanico il quale, nell’inaccettabile sconfitta, si doma con fameliche offerte dall’amaro sapore dell’ingiustizia e della crudeltà, illudendosi di sconfiggere Dio di cui a sua volta è inconsapevole strumento per il raggiungimento della perfezione in terra.

Intrepidi argonauti alla ricerca del Vello d’oro, sondiamo l’infinito esplorando le sferiche stazioni dove creature angeliche e infernali si affrontano nell’estenuante lotta tra bene e male da dove nessun vincitore risulterà essendo l’alternanza alba a tramonto condizione imprescindibile per la vita.

Come accade nell’ermetico caduceo, dove le serpi si intrecciano in un recondito messaggio iniziatico, solo chi riuscirà ad annientare il veleno inoculatogli dai morsi traditori dell’odio e dell’amore, restando immune da dolori e gioie, un giorno godrà le angeliche visioni indotte dall’estasi della piacevole unione.

Il sei, numero bestiale, giorno della creazione umana, è l’eccellente tomo dell’infinito libro in cui le ventidue lettere della kabbala ebraica assumono toni figurativi, esplicando alle ansiose menti avide di sapere il misterioso arcano della creazione; ingiungendo a coloro che per volontà divina cavalcano le onde dell’ascetica visione d’essere avveduti nell’incedere nei corridoio del labirintico sentiero, ponendo attenzione ai fallaci impulsi che il vizio e la virtù animano in essi all’apparire di ninfe e pellegrini stanchi.

Allegri menestrelli di favolose storie, principi fate streghe maghi stregoni per noi son solo tracce dell’infantile natura che alberga nei nostri cuori infiammati di desiderio dall’immacolato spirito del primitivo istinto immaginativo. Seduti alla rotonda tavola banchettiamo ammirando il RE e la Regina tenersi per mano sorridenti. Cortesi personaggi dal principesco rango levano al cielo la sacra coppa  intonando un osannante canto.

Seduto sul cubico trono l’imperiale protagonista accoglie nel proprio castello ambasciatori di popoli lontani giunti nelle avalloniche pianure per testimoniare al sovrano la fedeltà di genti dimenticate che attendevano il salvatore per ritornare a vivere in pace e libertà. L’orso sornione dorme profondamente in attesa che l’uomo baci la sua sposa, risvegliando il canto d’amore sopito nel proprio cuore. Soave sinfonia che ravviva il ricordo di un aureo passato dove gli uomini vivevano tra loro in biblica fratellanza,  punti fermi di nature amorfe dove razza, ceto e colore della pelle erano insignificanti particolari che non lasciavano traccia.

Tinti d’azzurro il cielo , di verde i prati, di arancio l’alba, di rosso il tramonto, l’Eterno artista dette un saggio della propria abilità separando tra loro suoni e colori, dando vita alla determinatezza dell’essere. Ma quando comprese la pericolosità della dualità, cercò di unificarla nell’unità della creazione assegnando a ogni cosa un ruolo distinto.

Purtroppo lo strappo inevitabile del due dall’uno fu solo rinviato con quello del due dal sei quando l’umana natura vide il giorno, dopo aver vissuto a lungo nel buio placentare. L’alternanza fuggente tra luce e tenebre obbligò alla natura interna di separarsi da quella esterna. Fu così che nacquero l’uomo e la donna, l’uno figlio del sole l’altra della luna, che nelle alterne eclissi copulari intervallano il dominio del bene e del male su questo mondo, trafiggendo l’umanità con la lancia della vita che trapassò l’evangelico costato per svelare il succo dell’eternità che parla il muto linguaggio dell’amore.

Parole, solo parole bastarono a Dio per creare il tutto. Dal semplice “dire” un complesso ordinamento cosmico si andò formando dal caos dell’unità primordiale. Dall’uno nacque il due, dal due il tre, dal tre il quattro, dal quattro il cinque, dal cinque il sei, dal sei il sette, dal setto l’otto, dall’otto il nove.

Per giungere al nove si deve attraversare tutto l’ordinamento universale in quanto la legge impone che solo chi ha percorso, tappa dopo tappa, il periglioso cammino esistenziale, possa poi proseguire sul sentiero decimale, livello successivo a cui seguirà il ventennale, poi il trentennale e così via, fino a perdersi nell’infinito non essendo prevista una fine in quanto l’uomo, riflesso divino in terra, è illimitato e immortale al pari di Dio!

Solo il corpo, corruttibile strumento di cui l’uomo è stato dotato per viaggiare in eterno  nelle infinità siderali, si arrende alla morte. L’essenza dell’uomo, l’anima, mai perirà. Vita dopo vita, essa rivestirà forme diverse per esperimentare nuove forme di vita, assimilando continue conoscenze, nell’illusione di poter un giorno incontrare Dio. Ma dal quale paradossalmente si allontana, man mano che acquisisce consapevolezza perché l’evoluzione della coscienza umana è il nutrimento che consente a Dio di espandersi sempre più!

Se per molti il tempo rappresenta un insignificante aspetto del ritmare del respiro divino, per chi anela all’incontro con Dio, estrema salvezza alla terrificante incomprensione della vita e della morte, le mortali tappe simboleggiano il giusto premio alle sofferenze patite in vita; il mezzo necessario per comprendere ciò che è giusto da ciò che non lo è: la verità e la falsità hanno spesso aspetti indistinti, difficili da capire se non si conosce la volontà di Dio che nella sua opera creatrice ha manifestato come tutto sia  racchiuso in Lui e Lui sia in tutto racchiuso.

Dimostrando così quale folle irrazionalità abbia originato  il creato: Follia Divina!

 

Vincenzo Giarritiello

GIANLUCA GUILLARO, UN GIOVANE IMPRENDITORE NAPOLETANO SI RACCONTA

A seguire la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Poco più che ventiseienne, laureato in Economia Aziendale, Gianluca Guillaro è un giovane/dinamico imprenditore napoletano che insieme a tre colleghi di università ha fondato a Roma MARKAPPA SRL, agenzia di marketing e comunicazione, in crescita esponenziale.

Gli abbiamo posto alcune domande per conoscere meglio lui e la sua azienda.

Gianluca a giugno si è fondata MARKAPPA, ci spieghi esattamente cosa è?

È una società di consulenti di marketing. Nello specifico quattro giovani professionisti del settore: io, Eduardo Saba, Giuseppe De Nicola e Andrea Sergiacomo. Ci siamo conosciuti quattro anni fa all’università Sapienza per un progetto di marketing e comunicazione digitale. Lavorammo su un prodotto yogurt che ci fu assegnato dalle nostre professoresse. Da quel progetto nacque tra noi una forte sintonia tanto che siamo riusciti a portare quell’idea sulla scrivania dell’azienda che ci fu affidata per “gioco” e per studio dalle docenti, riuscendo a venderla a questa ditta di yogurt molto nota nel nord Italia. Da lì decidemmo di metterci in gioco: aprimmo la partita IVA e iniziammo a lavorare come liberi professionisti. Da giugno di quest’anno abbiamo deciso di fare un ulteriore salto di qualità, costituendo MARKAPPA SRL e metterci sul mercato come consulenti di marketing.

Tu sei napoletano, ma MARKAPPA ha sede a Roma. Qual è il motivo di questa scelta?

La scelta di Roma dipende dal fatto che, studiando lì, già ci trovavamo sul territorio. Dunque decidemmo di prendere un ufficio nella capitale e di iniziare a lavorare.

Tu e i tuoi soci siete tutti napoletani?

No. Io sono napoletano, poi c’è un siciliano e due romani. Sembra l’incipit di una barzelletta, in realtà siamo un team ben affiatato.

Con voi avete dei collaboratori?

Abbiamo dei consulenti esterni sia per quanto riguarda la grafica sia per quanto concerne lo sviluppo di siti web.

Nello specifico mi faresti un quadro di cosa esattamente si occupa MARKAPPA?

MARKAPPA si divide in due branche fondamentali, quella del marketing strategico e quella del marketing operativo. Il marketing strategico è votato alla consulenza di marketing: un’azienda o una persona ci contatta, ci racconta la sua realtà aziendale o il proprio progetto personale, nello specifico il personal branding di cui si parla tanto ultimamente soprattutto con Instagram, e insieme pianifichiamo una strategia volta a promuovere la persona o l’azienda. Ovviamente gli obiettivi sono diversi: pubblicizzare la propria immagine o accrescere la propria notorietà; o obiettivi di vendita, quindi cercare in breve tempo una monetizzazione.

La vostra attività è limitata a aree specifiche o si estende su tutto il territorio nazionale?

Operiamo su tutto il territorio nazionale, ma i principali clienti li abbiamo nel centro-sud tra Roma, Napoli, Bari e Palermo. Questo è il nostro polo operativo maggiore.

Esattamente tu in MARKAPPA che ruolo occupi?

La mia funzione è quella del CEO, una sorta di ambasciatore di MARKAPPA, la figura esterna che insieme al direttore commerciale parla con i clienti, cerca bandi, partecipa a eventi. Un po’ il frontman della società!

Quali sono i vostri obiettivi a breve e a lunga scadenza?

A breve termine affermarci nel centro-sud come tra le prime aziende di consulenza di marketing. A lungo termine vogliamo tornare da dove siamo partiti per cui estenderci al nord Italia e, perché no, all’estero. A riguardo già stiamo trattando la comunicazione di un brand in Spagna.

In quali settori operano per lo più i vostri clienti?

I nostri clienti operano nei settori più disparati. Il nostro core business è il food insieme alla sicurezza. Ma non ci poniamo limiti. Come dicevo prima la comunicazione si apre a più settori, perfino a quello degli scrittori, come hai avuto modo di sperimentare anche tu. In questo caso ci preoccupiamo di far conoscere l’autore, di pubblicizzarne l’immagine e l’operato. Soprattutto per quanto riguarda coloro che come te affidano le proprie pubblicazioni al self publishing. Un mondo a noi sconosciuto fino a quando non abbiamo lavorato con te e con una scrittrice di Palermo. In questo caso seguiamo tutto il processo creativo, dall’impaginazione alla grafica fino alla pubblicità dell’opera.

A un neo laureato in economia suggeriresti di intraprendere il tuo stesso cammino professionale?

Certo. Anche se devo dire che il mio percorso è iniziato all’indomani della laurea: credo di aver studiato e letto più libri dal giorno dopo che mi sono laureato anziché quando ero all’università. Come diceva Eduardo, è proprio vero, “gli esami non finiscono mai!”

 

Vincenzo Giarritiello

INCIPIT DEL MIO PROSSIMO ROMANZO

Risultati immagini per viandante sul mare di nebbia

Di seguito l’incipit del nuovo romanzo che spero di pubblicare per la fine dell’anno. 

PROLOGO

All’orizzonte il tramonto srotolava sul mare un tappeto di stelle. L’ombra del promontorio spruzzato di viti si stemperava sull’acqua increspata dallo zefiro. L’incanto del sogno, frammisto all’aria fragrante di sale e agrumi, spingeva le barche, dalle vele ingravidate dal vento, oltre i limiti del mondo.

Avanzando a piedi nudi sulla battigia, il ragazzo osservava le onde inseguirsi sul mare come pagine di un libro sfogliate velocemente, da cui sciamavano nella sua mente desiderosa d’emozioni leggendarie città, continenti scomparsi o lontani, civiltà misteriose, uomini senza scrupoli, maghi bianchi e neri, donne prodighe d’amore. Ciononostante, un’arcana forza lo legava alla collina che s’innalzava alle proprie spalle.

Tutte le mattine scendeva sulla spiaggia a mirare le imbarcazioni dirigersi verso l’ignoto. Quando il fischio del treno si levava attraverso la vegetazione che ammantava l’altura, un sorriso amaro ne feriva il volto.

Una sera, mentre rientrava a casa, salendo il sentiero che conduceva al podere di famiglia, trovò una stella marina. Rigirandola a lungo tra le mani, pensò fosse il destino d’ogni creatura che sfuggiva al proprio mondo inaridirsi fino a morirne. Quel pensiero accrebbe in lui la rabbia. Di slancio si girò e gettò la stella nel vuoto in direzione del mare.

Osservando i propri sogni dissolversi nell’aria, si chiese se un giorno li avrebbe ritrovati…

CAPITOLO I

Il treno a diesel, sferragliando, si arrestò sui binari della piccola stazione di campagna. Impaurito dallo stridore dei freni, uno stormo di tortore schizzò via in volo dagli alberi.

Sul margine del marciapiede assolato lo attendeva il capostazione dal viso tondo e gioviale da cui si effondeva un profondo senso di tranquillità, prerogativa di quanti vivono in luoghi ameni e nelle cui anime sembrano trasfondersi la purezza e la leggerezza della quieta atmosfera che respirano.

Il ferroviere, impettito nell’uniforme di stoffa leggera colore del cielo all’imbrunire che pareva essergli stata cucita addosso, osservava l’uomo, la donna e il ragazzo con lo zaino sulle spalle uscire dalla sala d’attesa per raggiungere l’ultima carrozza.

– Abbi cura di te! – sospirò la donna, guardando con tristezza il figlio aprire lo sportello. Gli occhi verdi, resi umidi dall’emozione, scintillavano al sole come gemme preziose.

– Non temere, mamma – la rassicurò – Appena arrivo ti chiamo – aggiunse tirando fuori dalla tasca dei pantaloni il cellulare.

– Allora, hai deciso dove andare? – chiese il padre fissandolo negli occhi.

– Deciderò strada facendo – rispose pensieroso, abbassando la maniglia.

Il ragazzo assomigliava in maniera impressionante alla madre, tuttavia il tratto degli occhi ricalcava il disegno paterno.

– Qualunque cosa ti accada, ricorda che potrai sempre contare su di noi! – disse l’uomo, dando l’impressione di pronunciare quelle parole per pura formalità.

– Non temere – mormorò lui, spingendo con rabbia lo sportello. – Non mi accadrà nulla di spiacevole!

– Lo spero! – La sprezzante risposta sortì l’effetto di una stilettata al cuore del giovane.

– In carrozza, si parte! – La voce del capostazione pose fine ai saluti. Con un profondo respiro il ragazzo si aggrappò al corrimano e di slancio salì nel vagone. Richiuse lo sportello dietro di sé e si avviò nello scompartimento che si apriva al proprio sguardo.

Al fischio del capostazione il convoglio cominciò a muoversi a scossoni inoltrandosi lentamente nella fitta vegetazione che cresceva ai margini delle rotaie, lasciandosi alle spalle l’uomo e la donna che lo fissavano allontanarsi tra le fronde portando via con sé il loro unico figlio nato dopo cinque anni di matrimonio. Il tardo concepimento non era frutto né di una scelta ponderata da entrambi, né conseguente a un problema di fertilità, ma semplicemente perché la vita aveva voluto così, impedendogli di mettere al mondo quella prole numerosa che sognavano da fidanzati. Com’era accaduto ai genitori di suo padre, i quali avevano concepito il loro unico figlio subito dopo il matrimonio e poi più nulla, seppure entrambi fossero sani e desiderassero averne altri. Uno dei tanti misteri della vita che segnano l’esistenza di molte coppie, privandole del piacere di una famiglia numerosa.

Con le mani strette ai tiranti dello zaino, il ragazzo entrò nella carrozza deserta.

Osservò le fila di sedili tristemente vuoti, separate dallo stretto corridoio che immetteva nello scompartimento successivo, chiedendosi se anche in quello non ci fosse nessuno.

La curiosità lo spinse a varcare la soglia.

Avanzando tra la schiera di poltroncine, si domandò se quel deserto non giustificasse le perplessità del padre sulla sua decisione di partire quando gliela aveva comunicata…

Sdraiati all’ombra di un ulivo secolare dal tronco nerboruto, padre e figlio riposavano dopo aver lavorato l’intera mattinata a spianare una terrazza di terra sotto il sole. Con aria soddisfatta, i volti abbronzati solcati da gocce di sudore, gustavano il pollo alla cacciatora cucinato dalla madre innaffiandolo con lunghe sorsate di vino bianco, tenuto al fresco nella borsa termica sistemata tra le radici dell’albero.

Figliolo, un giorno tutto questo sarà tuo! – fece orgoglioso l’uomo, abbracciando con lo sguardo il vigneto che si estendeva a vista d’occhio sulla collina.

Il mare era solcato da uno sciame di windsurf; all’orizzonte, un’isola si stagliava nel cielo terso.

Guarda che meraviglia! – mormorò, mostrando al figlio il grappolo d’uva tratto dalla cesta al fianco. Staccò un chicco e, stringendolo tra le dita, trafisse con lo sguardo la sottile cuticola che lo ricopriva.

Queste viti sono tanto rigogliose per via del sole che scalda la terra su cui crescono, rendendola magica – disse raccogliendo un pugno di terreno. – Nei loro chicchi è racchiuso l’amore e la fatica con cui, da sempre, gli uomini la curano. – Allargò il palmo, disperdendo il terriccio nel vento. – Questo è il segreto che fa sì che il vino ottenuto allontani i dispiaceri di quanti vi cercano conforto senza bruciarne le menti e i cuori. – Schiacciò il chicco tra le dita: un’appiccicosa poltiglia rossastra aderì ai polpastrelli. Con gesti misurati dall’esperienza, sfregò tra loro le estremità umide di succo per determinare dalla viscosità la gradazione del vino che se ne sarebbe ottenuto e quindi la qualità. Un denso filamento si tese tra il pollice e l’indice. L’uomo sorrise: quell’annata sarebbe stata ottima. Staccò un altro chicco e l’offrì al figlio che lo assaggiò senza entusiasmo.

Allora? – domandò impaziente.

Sembra buona – disse lui, masticando distrattamente.

Offeso, il padre si drizzò sulla schiena.

Ma che dici? Quest’uva è ottima! Da anni non ne avevamo di così dolce. Il vino che ne ricaveremo sarà un vero nettare degli dei!

Il ragazzo non lo ascoltava. In lontananza, tra gli alberi, filtrava la densa scia di fumo nero del treno subito seguita dal fischio. Fin da bambino ne restava sempre rapito.

Mi ascolti? – chiese l’uomo.

Sì! – rispose il figlio, fissandone con decisione il viso corrucciato – E sappi che non ho alcuna intenzione di sacrificare la mia vita su questa terra. Io voglio conoscere il mondo e confrontarmi con gli altri. Papà, ho voglia di vivere, non di vegetare come una pianta, in eterno, nello stesso luogo, lasciando che il sole e l’aratro traccino il mio cammino. Il futuro voglio costruirlo da solo con le mie mani! – aggiunse, mostrando i palmi callosi.

Il padre li osservò con attenzione. Alla stessa età i suoi non erano così, la loro rudezza testimoniava che suo figlio, malgrado odiasse lavorare la terra, quando impugnava la vanga e l’aratro dava l’anima.

Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato – mormorò rassegnato. – Da che sei nato, tuo nonno non fa che ripetere che sei uno spirito libero; che un giorno avresti rinnegato le tue origini contadine – Parlando, con rimpianto fissava il manto di viti ricoprire la collina. – In cuor mio speravo si sbagliasse: ho sacrificato l’intera vita per ottenere ciò. – Sospirò profondamente. – Chissà il dolore di tua madre quando le comunicherai la tua decisione!

Ora ti preoccupi di lei? – sibilò tra i denti il ragazzo, piegando leggermente il capo – Eppure, quando ti rechi a quelle maledette fiere lasciandola sola per intere settimane, non te ne curi per niente, vero? Come non ti preoccupi di regalarle una breve vacanza perché per te esiste solo la vigna. Forse temi che, andando io via, sarai costretto a dedicarle più tempo? Rilassati, quando ieri le ho parlato mi ha benedetto, dicendo di non preoccuparmi per lei perché il suo posto è al tuo fianco, ed è pronta ad accettare qualunque cosa perché ti ama. Sì, ha detto che ti ama! Parole che tu non le hai mai rivolto perché ami soltanto questa dannata terra!

La voce improvvisamente si frantumò in un pianto. Si girò di fianco per non concedere al padre la soddisfazione di vederlo singhiozzare come un bambino.

L’uomo levò lo sguardo tra le foglie dell’ulivo. Il vento accarezzò le fronde. Con aria assente tornò a fissare i filari di viti sulla collina.

Quando partirai? – domandò.

Subito dopo l’esame di maturità! – rispose portandosi le ginocchia al petto per poggiarvi il mento, il viso segnato dalle lacrime.

Era iscritto al liceo scientifico con un ottimo rendimento tanto da far sperare che all’esame potesse prendere il massimo. Una volta diplomatosi, sapeva che le attese del padre prevedevano s’iscrivesse alla facoltà di agraria in modo da poter applicare alla cura della vigna le conoscenze acquisite con gli studi, consentendo all’azienda di famiglia quel salto di qualità che avrebbe permesso di avviare una vera propria impresa di vini, puntando non solo al mercato locale e nazionale, ma anche a quello estero. Lui avrebbe voluto invece iscriversi a medicina, malgrado consapevole che superare i test d’ingresso non fosse semplice e che, seppure li avesse superati, il corso di studi sarebbe stato lungo e complesso. Sua madre, nel momento in cui le aveva confidato la propria intenzione di tentare l’ingresso a quella facoltà, gli aveva suggerito di non essere avventato nella scelta; di pensare a diplomarsi e poi ne avrebbero riparlato, magari dopo il viaggio che aveva deciso di intraprendere subito dopo la maturità. Secondo lei non era improbabile che, una volta libero dagli impegni per la preparazione dell’esame, viaggiando, avrebbe avuto modo di schiarirsi le idee e decidere sulla scelta giusta da compiere. In cuor suo anche lei avrebbe preferito che s’iscrivesse ad agraria, ma sapendo quanto il figlio le fosse legato, non glielo aveva detto per non condizionarlo.

 

Andrai via da solo o con qualche amico? – domandò suo padre

Penso da solo: ho bisogno di riflettere sul mio futuro!

Hai anche la mia benedizione! – disse l’uomo, alzandosi di scatto per riprendere il lavoro, incurante del sole a picco.

CAPITOLO II

– Resterai via molto? – chiese la madre, fissando il figlio riempire lo zaino.

– Non saprei – rispose, pressando il carico nel sacco. Si girò a guardarla, il viso della donna era il ritratto della sofferenza.

Le andò incontro e la strinse a sé.

– Mi raccomando, chiama, non fare come tuo solito che dimentichi il cellulare spento o addirittura di ricaricarlo – mormorò.

Per tutta risposta lui si sciolse dall’abbraccio e le indicò con il dito il telefonino e il caricatore sul letto tra le cose che avrebbe portato con sé.

– Perché vuoi andare via? – sussurrò lei, abbracciandolo forte.

– L’uomo che vive nell’ignoranza è come l’uva che cresce su un terreno eternamente ombreggiato: il vino che se ne ricaverà sarà pallido, privo di forza e di carattere! La voce rimbombò nella stanza.

La donna e il ragazzo si volsero a fissare l’imponente figura del nonno impettita sotto l’arco della porta, con le mani intrecciate sul bastone dal manico intarsiato a testa d’aquila fisso davanti ai piedi.

– Non tormentarlo con le tue lacrime – disse l’anziano alla nuora – Non gravare il travaglio del suo animo. Aspetta che l’uva maturi. Solo allora conoscerai la qualità del vino e saprai se siete stati bravi nel produrlo. – Con passo incerto, appoggiandosi al bastone, il vegliardo avanzò incontro alla nuora e al nipote che lo fissavano intimoriti. Nella mano recava una conchiglia…

 

Le feluche, spinte dalla brezza verso il mare, scivolavano sul fiume accompagnate dallo sguardo di Sirio splendente in cielo; il quarto di luna rifletteva sull’acqua le ruvide ombre delle vele. All’estremità del molo la luce del faro fendeva la scura superficie, spianando alle barche il cammino nelle tenebre.

Affacciato alla balaustra del postale ancorato nella rada, il giovane mozzo osservava amareggiato le luci della città riflettersi in lontananza. Avrebbe preferito approdare direttamente ad Alessandria d’Egitto per riviverne i fasti trasmessi dalle antiche mura e dai monumenti lasciati dai faraoni in eredità ai posteri. In particolare il suo pensiero andava al leggendario faro considerato tra le sette meraviglie del mondo dell’epoca, la cui torre si innalzava nel cielo, così si raccontava, per 120 metri, e alla mitica biblioteca in cui erano conservati oltre 700 mila papiri, distrutta nel 280 d.C. dall’imperatore Aureliano durante il saccheggio della città. Ogni volta che ripensava a quei drammatici eventi, non poteva fare a meno di domandarsi se davvero tutti i papiri fossero andati distrutti o se molti non fossero stati messi in salvo dai curatori della biblioteca. E, in quel caso, se molte opere dell’antichità di cui si era persa ogni traccia, divenendo a loro volta leggenda perché citate da autori classici che dichiaravano di averle consultate, non fossero tuttora conservate in luoghi ignoti. Così come, tutte le volte che ripensava all’Egitto, non poteva fare a meno di andare con la mente alle piramidi e alla sfinge, chiedendosi chissà quali misteri conservassero nelle proprie viscere di pietra. Allo stesso tempo, misteriosa era la loro origine: la sua fervida fantasia si rifiutava di accettare che a costruirle fossero stati gli antichi egizi utilizzando tronchi, barconi di papiro e carrucole su cui trasportare e innalzare le migliaia di enormi massi di calcare, ognuno dal peso di diverse tonnellate, che le costituivano. Di chissà quale oscura civiltà le piramidi erano invece testimonianza! Magari della mitica Atlantide di cui per primo aveva parlato Platone nel Crizia e nel Timeo, citando il suo antenato Solone: egli riferiva di aver sentito raccontare di quel continente e della sua scomparsa nel mare, a seguito di un tremendo cataclisma, dai sacerdoti della città di Sais nel delta del Nilo che facevano risalire i fatti a un tempo remoto in cui gli dei dimoravano sulla terra.

L’eco della voce del muezzin che invocava la grandezza di Allah ruppe la notte. Il ragazzo chiuse gli occhi e inspirò profondamente affinché quella voce trasportata dal vento del deserto gli ravvivasse l’anima.

Improvvisamente le  grida disperate  di donna giunsero da poppa, sfumando il sogno.

D’istinto il giovane attraversò di corsa il ponte della nave, senza mai staccare lo sguardo dal mare. Era quasi arrivato, quando nell’acqua distinse il bambino trascinato dalla corrente verso il piroscafo che si stava lentamente allontanando dalla banchina. Pochi attimi ancora e le eliche del bastimento l’avrebbero maciullato. Senza indugio si tuffò nelle tenebre e, nuotando con forti bracciate, lo raggiunse cingendogli un braccio al collo. Incurante dei gorghi delle eliche che lentamente li risucchiavano, prese a nuotare come un folle, tirandosi appresso il bimbo nell’angoscioso tentativo di respingere la morte incombente.

Sul molo, la madre disperata fissava la scena.

Avvinghiati in un vortice, il ragazzo e il bambino si volsero a fissare terrorizzati il minaccioso roteare delle eliche, sempre più vicine, mentre erano sovrastati dall’acqua.

A un tratto, il bagliore del faro rischiarò il lato poppiero del piroscafo, consentendo al marinaio che dirigeva le manovre d’individuare tra i flutti i corpi dei due sventurati.

Tutto a babordo, tutto a babordo! Uomo in mare, uomo in mare! – urlò al timoniere affacciato all’oblò della sala comandi che subito, con un colpo secco al timone, virò, calando simultaneamente la leva sul pannello dei comandi per fermare le macchine.

Sebbene i motori si fossero spenti, per inerzia la nave continuò a spostarsi nell’acqua, arrivando a ridosso del ragazzo e del bambino, arrestandosi con l’elica alle loro spalle.

Un applauso si levò dal piroscafo e dal battello. Il pianto disperato della donna si trasformò in lacrime di gioia.

Per premiare il valore del mozzo, il comandante gli concesse un giorno di libertà, consentendogli di visitare Alessandria.

Circondato dai banchi dei mercanti assiepati nel bazar, il giovane volgeva lo sguardo sulle imponenti cupole moresche che, svettando tra i tetti delle case costruite con mattoni di fango e paglia, si ergevano al cielo come funghi giganteschi. Avanzando tra la folla si guardava intorno stordito dal caleidoscopio di colori, profumi e voci del mercato. Nell’aria l’acre odore dei narghilè, fumati dai negozianti seduti sulla soglia delle botteghe, si mischiava all’intenso aroma delle spezie e delle essenze profumate racchiuse nei sacchi e nelle piccole ampolle di vetro soffiato, esposte ordinatamente sui banchi.

Ciao! – risuonò di spalle la voce di donna.

Lui si girò. Rapito, ammirò lo splendido viso sorridergli, adornato dalla folta chioma ramata. Attraverso la lunga veste di veli rossi traspariva la sua seducente femminilità.

Con voce rotta dall’emozione, pensando si trattasse di una prostituta alla ricerca di clienti, arrossendo, rispose al saluto. Il pensiero che finalmente anche per lui fosse giunto il momento di diventare uomo lo mise in agitazione.

Non farti strane idee – disse lei, divertita, leggendogli nella mente – Volevo ringraziarti per quel che hai fatto questa notte: salvare una vita umana rischiando la propria è un nobile gesto, indelebile agli occhi degli dei. Questa è la ricompensa che meriti! – Così dicendo, allungò il braccio verso il giovane, tendendogli la mano aperta.

Una conchiglia? – si meravigliò lui, mirando la spirale di madreperla rilucere come un serpente aggrovigliato su se stesso nel palmo della donna.

Tutte le volte che ascolterai la melodia racchiusa, i tuoi sogni si realizzeranno.

Titubante, s’impossessò della conchiglia e la accostò all’orecchio. Un dolce suono gli penetrò l’animo, cancellando le inquietudini che lo turbavano.

Chiuse gli occhi, abbandonandosi alla melodia. Quando li riaprì la donna era scomparsa.

– Tieni! – disse il nonno, offrendo la conchiglia al nipote. Tenendola tra le mani, lui la alzò al soffitto ammirandola luccicare alla luce del lampadario. Un’energia indescrivibile s’irradiò dal guscio, inondandogli mente e cuore. Con cura la avvolse in uno straccio per proteggerla da eventuali urti e la ripose in una delle tasche laterali dello zaino. Percepì che quell’oggetto gli avrebbe portato fortuna, o almeno si sarebbe rivelato fondamentale per il viaggio; ma non sapeva spiegarsi perché…

CAPITOLO III

Il ragazzo entrò nello scompartimento successivo, anch’esso vuoto.

Fu tentato di andare oltre, ma sulle spalle il peso dello zaino incominciava a farsi sentire. Lo sfilò e lo poggiò sul pavimento davanti a sé per poi sedersi accanto al finestrino. Attraverso i vetri, il paesaggio verdeggiante si scioglieva allo sguardo come un film.

Di tanto in tanto il ramo di una pianta cresciuta sul margine dei binari graffiava i vetri. Trasse di tasca il cellulare per controllare se ci fossero messaggi da parte di quei pochi amici che aveva: solo cinque in cui gli si augurava “in bocca al lupo”, o “buon viaggio”.

I sacrifici con cui si divideva tra lo studio e la vigna gli avevano talmente condizionato l’esistenza da impedirgli di coltivare le normali amicizie di un ragazzo della sua età, tanto che a diciotto anni si ritrovava ad avere per lo più conoscenti con cui saltuariamente gli capitava di incontrarsi il sabato sera nella piazza del paese per fare quattro chiacchiere, bevendo una birra o mangiando un panino in un pub. A parte ciò, mai era riuscito ad avere un vero amico con cui confidarsi. Per quanto invece riguardava le ragazze, peggio che mai. Seppure le classi che aveva frequentato fossero state miste, non era mai riuscito a instaurare con qualcuna delle compagne un rapporto che andasse oltre la scuola, malgrado ci fosse una con cui gli sarebbe piaciuto ritrovarsi da solo: si chiamava Claudia, sedeva due file di banchi davanti a lui. Capelli lunghi, viso tondo, occhietti furbi, bassina, fisico proporzionato, era stata in classe con lui dal primo anno del liceo, ma mai gli aveva dato a intendere di piacerle…

Una mattina, poco prima della fine del primo quadrimestre del terzo anno, non appena suonò la campanella, Claudia gli si affiancò chiedendogli se quel pomeriggio potesse andare a studiare da lei per aiutarla a ripassare matematica, materia in cui lui primeggiava. Ascoltandola, non gli sembrò vero che quella ragazza, piaciutagli dalla prima volta che l’aveva vista, gli chiedesse di studiare insieme. D’impulso rispose di sì, dimenticando che per quel pomeriggio aveva promesso al padre che lo avrebbe aiutato alla vigna. Quando tornò a casa, euforico si sedette a tavola. Mentre pranzavano, ascoltando il padre anticipargli il lavoro che avrebbero svolto a breve, quasi si sentì male. << Papà >> disse, << più tardi un’amica mi ha chiesto di passare da lei per aiutarla in matematica >>. << Ovviamente le hai risposto di no >> osservò  l’uomo con sguardo gelido. << Le ho detto di sì >>, rispose fissando il piatto. << Hai fatto male >> riprese il genitore. << Lo sai bene che mi sono organizzato il lavoro per questo pomeriggio perché potevo contare sul tuo aiuto. Mi dispiace, la chiami e le dici che non puoi andarci >>. La madre intervenne in sua difesa offrendosi di sostituirsi a lui, ma il padre fu inflessibile: << Niente da fare, mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato, non può rifiutarsi per correre dietro a una smorfiosa! >>. La donna cercò di replicare, chiedendo il supporto del suocero che in silenzio assisteva alla scena. Anche lui fu del parere che il nipote dovesse onorare l’impegno preso con il padre perché gli uomini veri non disattendono la parola data. Per evitare ulteriori discussioni il ragazzo disse alla madre di non preoccuparsi, che avrebbe telefonato alla sua amica inventandosi una scusa. Quindi prese il cellulare dalla tasca, si alzò dalla tavola e andò a telefonare nella sua stanza. Ascoltandolo mentre cercava di giustificarsi, dall’altro lato dell’apparecchio Claudia rimase in silenzio. Alla fine disse solo, << Va bene, ciao! >>.

Il giorno dopo fuori scuola non lo degnò di uno sguardo e quando, prima di entrare in classe, lui si avvicinò per spiegarsi, lo respinse come se fosse un appestato. Ma l’umiliazione più grande la subì quando, alcuni giorni dopo, la sorprese ad amoreggiare con il bullo della classe il quale non si stancava mai di lanciare frecciatine al suo indirizzo, definendolo “zotico”, suscitando l’ilarità di tutti, lei compresa.

In realtà c’era un’altra ragazza che gli piaceva molto. Si chiamava Veronica, era figlia di un colono che collaborava con il padre durante la vendemmia. Alta quanto lui, bene in carne, aveva il viso lentigginoso cui si sposava una folta chioma rossa raccolta in una lunga treccia dietro alla nuca. Quando era tempo di vendemmia, insieme agli altri figli dei contadini, Veronica accompagnava il papà e la mamma perché quel momento rappresentava per tutti un gioco. In quelle giornate di festa, il ragazzo non perdeva occasione per osservarla di sfuggita e quando capitava che i loro sguardi s’incrociassero, entrambi volgevano subito gli occhi da un’altra parte, arrossendo. Alla madre non era sfuggito che Veronica e suo figlio si piacessero, in cuor suo sperava che lui si decidesse ad avvicinarla per esternarle i propri sentimenti. Vedendo la ritrosia del figlio nel fare il primo passo, convinta fosse timidezza, in più di un’occasione aveva cercato di infondergli coraggio dicendo, << Quando una persona ci piace, non dobbiamo vergognarci di farglielo capire. Spesso la timidezza è l’ostacolo più difficile da superare per essere felici! >>. Ascoltandola, pur comprendendo perfettamente a cosa la madre alludesse, il ragazzo non rispondeva, limitandosi a fare spallucce. Malgrado fosse consapevole di piacere a Veronica tanto quanto lei piaceva a lui, le  si teneva lontano temendo che, una volta insieme, avrebbe dovuto dire addio all’idea di viaggiare, essendo la ragazza  molto legata alla famiglia e al lavoro nei campi. Tuttavia non poteva negare che spesso pensava a lei, chiedendosi che sapore avessero i suoi baci e quale profumo emanasse il suo corpo…

Notando che la spia rossa del cellulare lampeggiava, fu colto dal dubbio di aver dimenticato a casa il caricatore. Seccato sbuffò, sapeva che senza ricevere sue notizie la madre si sarebbe allarmata, ma era certo che, alla fine, un modo per ricaricarlo lo avrebbe trovato. Rilassandosi nella poltrona, fissò lo sguardo oltre il vetro del finestrino per ammirare il panorama. Improvvisamente lo colse la stanchezza. Senza accorgersene, si addormentò.

Fu svegliato da un sordo fruscio. Lentamente riaprì gli occhi: di fronte gli sedeva uno strano personaggio impegnato a mischiare un mazzo di carte dall’insolita lunghezza.

– Ben trovato! – disse l’uomo con voce baritonale, interrompendo per un istante il vorticare delle carte tra le dita.

Il ragazzo si drizzò sul sedile. Stropicciandosi gli occhi, notò che vestiva in maniera insolita: portava un cappello dalle larghe tese che ricordavano un otto adagiato di fianco. Sulla spalla era addossato il mantello di fine velluto rosso, non certo adatto per la bella stagione da poco incominciata. Lui si preoccupò: se l’uomo avesse avuto brutte intenzioni, nello scompartimento non c’era nessuno cui avrebbe potuto chiedere aiuto.

All’improvviso lo scenario nella cornice del finestrino cambiò: alla verde prateria subentrarono le effervescenti onde del mare solcate da un cutter. La barca, con le vele spiegate al vento, in ali di schiuma puntava dritta verso lo spuntone di roccia che dalla costa declinava a mare, sparendovi dietro.

Giganteschi megaliti rosa, sulle cui cime nei loro nidi gli uccelli stavano accovacciati al sole, s’innalzavano dall’acqua su nel cielo tracciato da uno stormo di anatre.

Guardando quel paesaggio incantevole, il ragazzo sospirò.

Sprofondò la schiena nel sedile e, emozionato, ammirò di là dal vetro il panorama in continuo mutamento come le immagini di un documentario.

– Magnifico, vero? – La voce dell’uomo lo strappò a quel piacere.

– Già! – Stupito, fissava il cavaliere in groppa al bianco destriero, apparso all’improvviso dal nulla, galoppare sulla spiaggia dorata.

– Non hai la sensazione di trovarti in un’altra dimensione? – chiese lo strano personaggio. Anziché rispondere, incantato, il ragazzo continuò a seguire con la punta dell’occhio il cavaliere lanciare lo stallone al galoppo sulla battigia.

– Non ti sembra di trovarti in un universo dove la realtà è in continuo mutamento, subordinata alla fantasia? – suggerì l’uomo, mischiando le carte.

– Sì – ammise, volgendo per un istante lo sguardo su di lui.

– E’ la prima volta che viaggi, vero?

– Sì – rispose, tornando a fissare il mare increspato dal vento.

– Preferisci il mare o la montagna? – chiese.

– Entrambi!

– Impossibile! Al mondo esistono due tipi di persone, chi ama il mare e chi la montagna. Tu a quale categoria appartieni?

Il ragazzo cercò di rimettere ordine nella propria testa. Fissava con attenzione il paesaggio modificarsi davanti a sé man mano che il convoglio, rallentando, avanzava tra la fitta boscaglia ai margini dei binari. Lentamente il paesaggio marino lasciò il posto a quello campestre.

Tra i rami di un grosso fico distinse una merla imboccare i pulcini nel nido intrecciato nel tronco.

Appena il mare tornò visibile, intravide tre donne nude correre allegramente tra le onde, schizzandosi a vicenda l’acqua con i piedi e le mani. Seppur lontane, riuscì a focalizzarne i seni e gli scuri cespugli dei pubi.

Interessato si drizzò sul sedile per osservarle meglio.

Con uno strappo violento il treno imboccò la curva, inoltrandosi nuovamente nella fitta boscaglia, sottraendo allo sguardo la piacevole visione.

– Belle, vero? – disse l’uomo, abbozzando un sorriso eloquente.

Solo allora il ragazzo ricordò di non essere solo.

Turbato, abbassò gli occhi sulle scarpe dell’altro: anch’esse erano di velluto porpora come il mantello; la foggia, dalla punta leggermente piegata verso l’interno, ricordava quelle di un principe orientale o del genio della lampada.

– Mica devi vergognarti! – fece lui, divertito del suo imbarazzo – Non c’è nulla di più elettrizzante per lo sguardo maschile di una bella donna nuda intenta nell’intimità naturale dei propri gesti, inconsapevole d’essere osservata!

Udendo quelle parole, il ragazzo si rasserenò.

– Perché non si possono preferire insieme il mare e la montagna? – chiese, accennando un sorriso.

– Al mare appartengono gli individui, alla montagna le persone: tu ti senti individuo o persona? – domandò l’uomo, divenendo improvvisamente serio.

– Qual è la differenza? – chiese, grattandosi la testa. Aveva sempre considerato individuo e persona sinonimi l’uno dell’altra.*

– Non conosci il latino, vero?

Un fitto cespuglio di more graffiò il finestrino.

– No! – arrossì.

L’uomo respirò profondamente.

– Individuo deriva dal latino individuus che significa <<indivisibile>>. Persona dal latino persona, termine con cui, nell’antica Roma, ci si riferiva a un tipo di maschera utilizzata dagli attori nelle rappresentazioni teatrali. A sua volta, persona è originata dall’unione di per, che significa attraverso, e sonare, ossia suonare, ed è il termine con cui gli antichi denotavano la parte interpretata dall’attore nel dramma. Da ciò deduciamo che dichiararsi individui significa ammettere la propria indivisibilità dalla massa, trascendendo l’aspetto personale che rappresenta la maschera di cui ci disfiamo quando smettiamo di recitare il nostro ruolo sul palcoscenico della vita per tornare al sicuro tra le pareti di casa, lontano dagli sguardi altrui.

Con gli occhi luccicanti il ragazzo si raddrizzò sul sedile. Nella sua mente risuonarono le parole che il nonno ripeteva sempre mostrandogli un grappolo d’uva: <<Ricorda, figliolo, l’umanità non è altro che una moltitudine di grappoli da cui ricavare il vino della creazione. Per questo motivo ognuno di noi ha il dovere nella vita di svolgere al meglio il proprio compito, per quanto umile esso sia, al fine di evitare che il vino diventi aceto. Senza mai dimenticare che il proprio operato, sia nel bene sia nel male, influenzerà in maniera imprescindibile l’esistenza di tutti coloro con cui s’interagirà. Per il diletto del palato, un grappolo lo si può mangiare, gustandolo chicco dopo chicco, ma per quello dell’anima, cioè il vino, bisogna riunire nel tino tutti i grappoli e schiacciarli affinché le specifiche essenze si mischino tra di loro fino a confondersi, dandone vita a un’unica del tutto nuova che racchiuda in sé le caratteristiche delle singole anime che l’hanno generata. >>

Ogniqualvolta lo ascoltava ripetere quelle misteriose parole, si chiedeva cosa volesse significare, ricorrendo al padre nella speranza gli svelasse l’arcano.

<< Papà cosa voleva dire il nonno? >> chiedeva. << Devi arrivarci da solo >> gli rispondeva, lasciandolo con il dubbio, dipananto in parte dalla madre che, sorridendo, lo rassicurava: << Non affliggerti, al momento opportuno tutto ti sarà chiaro! >>.

– Preferisco il mare! – asserì convinto il ragazzo, raddrizzandosi sul sedile.

INTERVISTA A CASSANDRA FORTIN – UNA CANADESE A POZZUOLI

Di seguiti l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Ventitreenne canadese del Quebec, laureata in Scienze Storiche, Cassandra Fortin è in Europa da due anni per l’Erasmus con cui sta completando un master sui beni e i paesaggi culturali. Da sei mesi a Pozzuoli, collabora attivamente con l’associazione culturale Lux In Fabula.

A fine agosto completerà il ciclo di studi e agli inizi di settembre rientrerà in Canada. Ne abbiamo approfittato per farle qualche domanda e conoscere il suo punto di vista su Pozzuoli e i suoi abitanti.

Cassandra da quanti mesi sei in Italia?

Sono arrivata all’inizio di febbraio

Sei qui per l’Erasmus?

Sì!

In cosa stai per laurearti?

Sono laureata in Scienze Storiche. Ora sto facendo un master in beni e paesaggi culturali.

Perché hai scelto di vivere a Pozzuoli?

Perché l’Associazione Lux In Fabula, presso cui mi appoggio per i miei studi, lavora sugli stessi argomenti oggetto delle mie ricerche.

Come sei venuta a conoscenza di Lux In Fabula?

Me ne parlò una professoressa della Federico II che conosce Claudio Correale il presidente di Lux. Quando le chiesi a chi potessi rivolgermi per avere un valido sostegno alle mie attività di ricerca, mi indicò lui e la sua associazione.

Che cosa ti ha colpito dei campi flegrei?

Quando sono arrivata non sapevo che questa zona fosse vulcanica e sismica. Per me è stata una sorpresa, soprattutto vedere il modo naturale con cui gli abitanti interagiscono con questa realtà.

Puoi spiegarti meglio?

Per me che vengo da una terra dove non esistono fenomeni vulcanici così intensi come qui da voi, mi ha stupito la semplicità con cui le persone vivono quest’aspetto del territorio. Ho la sensazione che gli abitanti adorino la loro terra, anche quando li fa “ballare” costringendoli a doversene allontanare per motivi di sicurezza. Ho riscontrato che qui c’è una maniera diversa di appropriarsi del territorio rispetto a tante altre zone dell’Italia che ho conosciuto.

In che senso?…

Un esempio facile, le terme: sono una realtà molto antica, che risale all’epoca romana. Ma qui da voi è una realtà tuttora molto utilizzata, un aspetto quotidiano che caratterizza l’economia del territorio e la vita di molte persone. Pur non essendo obbligate a vivere in questa terra così problematica e pericolosa, la gente lo fa come se nulla fosse, tradendo un legame molto forte con essa. Sono cose come queste che mi hanno stupita!

Questo legame così forte con il territorio non lo riscontri in voi canadesi?

Sì, ma è diverso. Noi non abbiamo i vulcani o fenomeni come il bradisismo. Abbiamo la neve, il ghiaccio e tanta acqua. Fenomeni diversi che non ti inducono a vivere come se ti pendesse sul capo la spada di Damocle!…

Tu da quale zona del Canada vieni?

Quebec, la parte francese!

Ci puoi raccontare cosa hai esattamente fatto in questi mesi che sei stata in Italia, in particolare a Pozzuoli?

Ho lavorato a molti progetti: ho allestito un sito web per l’associazione che ho quasi finito; ho lavorato a un video sullo sgombero del Rione Terra del 1970 da cui ho tratto spunto per farne poi uno sul successivo sgombero a Pozzuoli del 1983 sempre conseguente al bradisismo.

Ora che tornerai nel tuo paese, cosa pensi ti resterà di questa esperienza in Italia, a Pozzuoli in particolare?

Studiando da antropologa, questo lavoro che sto facendo con gli abitanti che hanno vissuto e vivono la realtà bradisismica dei campi flegrei e gli sgomberi che ci sono stati, è per me un modo concreto di conoscerne in maniera più approfondita la storia e la mentalità.

Oltre alla loro capacità di adattamento alla natura instabile del territorio, cos’altro ti ha colpito dei puteolani?

La maniera di vivere sapendo cogliere l’attimo, attuando il motto latino del carpe diem. Da che sono in Italia ho avuto modo di constatare come negli italiani, e soprattutto nei napoletani e puteolani, sia insita questa filosofia di vita. Del resto non mi stupisce: vivendo in un territorio dove sai benissimo che da un momento all’altro potrebbe verificarsi un evento sismico che potrebbe completamente cambiarti la vita, è naturale che le persone vivano la propria esistenza attimo per attimo. Questo mi piace perché, così facendo, assapori ogni momento della vita. Dai valore a ogni secondo, non perdendoti nell’effimero!

Quando rientrerai in Canada?

Agli inizi di settembre.

Il pensiero di dover andare via ti rende felice o pensi che ci soffrirai un po’?

Entrambe le cose! Sono due anni che sono in Europa e mio mancano molto la mia casa, la mia famiglia, i miei amici. È vero che parlo spesso in chat con i miei familiari, in particolare con mamma, ma non è la stessa cosa!

I tuoi genitori cosa dicono di questo tuo lungo soggiorno europeo?

Quella che lo sta soffrendo molto è mamma: sia papà che mio fratello, per motivi di lavoro e di studio, stanno via da casa tutta la settimana e mamma resta molto tempo da sola. Questo mi dispiace, per cui ecco perché non vedo l’ora di rientrare in Canada!

Pensi che un giorno ritornerai a Pozzuoli?

Sicuramente, adoro questa terra e la sua gente!

Vincenzo Giarritiello

IL GRAAL A NAPOLI TRA REALTA’ E FANTASIA

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

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Napoli

Sabato 29 giugno, presso l’Antisala dei Baroni al Maschio Angioino, la IVI ha organizzato il convegno IL GRAAL TRA STORIA, MITO E PSICOLOGIA. Relatori:  Afro de Falco, Clementina Gily, Vittorio Del Tufo, Adolfo Ferraro, Salvatore Forte.

Nonostante il caldo torrido della giornata, un folto pubblico ha gremito la sala a dimostrazione dell’interesse e della curiosità suscitati dal mito del Graal, la coppa dell’ultima cena dove, stando alla leggenda, Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo.

Ma cosa esattamente è il Graal e quale motivo lo legherebbe a Napoli e al Maschio Angioino?

Rispondere alla prima domanda è difficile. Seppure da secoli il Graal viene identificato nella coppa dell’ultima cena, in diversi testi medievali che per la prima volta vi fanno accenno esso assume connotazioni diverse.

Si parte da una testa decollata, recata su di un piatto d’oro da un gruppo di ancelle durante una celebrazione sacra, nella quale molti identificano la testa di San Giovanni Battista. In questo caso forte sarebbe il richiamo al misterioso baphometto adorato dai templari. In altri testi il Graal rappresenterebbe invece una pietra, precisamente il diadema posto al centro della fronte di Lucifero e dalla quale si staccò cadendo sulla terra durante la battaglia tra gli angeli del bene contro quelli del male. Per altri ancora il Graal sarebbe la coppa con la quale Gesù celebrò l’ultima cena e in cui Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo quando fu posto in croce.

Come si evince dai diversi aspetti che il Graal assume in svariate trattazioni e tradizioni, è difficile dargli una precisa caratterizzazione.

Tuttavia, grazie alla bravura dei conferenzieri, chiunque abbia seguito con attenzione i loro interventi avrà maturato la convinzione che il Graal, qualunque cosa sia, è intimamente legato alla crescita interiore dell’individuo.

A riguardo fondamentali gli interventi della professoressa Gily e del professor Adolfo Ferrara i quali, citando rispettivamente Bruno e Jung, hanno dimostrato come la ricerca del Graal sia connessa allo sviluppo interiore dell’essere: l’uomo, attraverso il cammino tracciato dai sacri testi e mediante la purezza dei sentimenti, percorrerebbe il “sentiero” in grado di elevarlo dallo stato di animalità a quello di spirituale riconquistando l’originale status divino perso con la cacciata dall’Eden di Adamo ed Eva.

Tale “cammino” sarebbe simboleggiato dagli alchimisti con l’appellativo di Grande Opera.

All’alchima ha fatto esplicitamente riferimento il regista Afro de Falco proiettando delle slide che riproducevano diversi simboli che utilizziamo col pc o coi telefonini, soffermandosi su un simbolo composto da una croce sovrastante una sfera che ufficialmente rappresenta il simbolo della cristianità, ma che in alchimia simboleggia l’antimonio, ovvero il metallo da cui ha inizio l’opera alchemica. Guarda caso tale simbolo compare nel fregio dell’università Federico II, precisamente nella mano sinistra dell’imperatore a dimostrazione (?) che anche lo Stupor Mundi era un iniziato ai Grandi Misteri.

Alla domanda quale rapporto ci sarebbe tra il Maschio Angioino e il Graal, hanno cercato di rispondere il giornalista Vittorio del Tufo e Salvatore Forte con il suo intervento conclusivo.

Da giornalista, studioso e saggista Del Tufo si è “limitato” a delineare l’excursus storico che portò a Napoli gli Aragonesi, precisamente Alfonso d’Aragona il cui ingresso trionfale in città è scolpito sull’arco di trionfo del portale d’ingresso del castello.

Parlando di Alfonso d’Aragona, sia del Tufo che Forte ne hanno evidenziato la magnanimità – non a caso era denominato il Magnanimo – e le capacità amministrative sia economiche che politiche.

Mentre il giornalista ha fondato il proprio intervento sugli eventi storici, Forte è andato al di là della storia ufficiale, proponendo una serie di immagini e versi di epoca rinascimentale appartenenti alla tradizione dei Fedeli d’Amore – un gruppo di poeti devoti all’Amore identificato nella figura femminile, ma che attraverso versi criptati si scambiavano messaggi politici e religiosi in contrasto con le idee ufficiali propugnate dalla chiesa del tempo – dai quali, secondo lui, si evincerebbe che il Graal, almeno per un certo periodo, ebbe la sua sede nella città di Partenope.

A supporto di questa suggestiva ipotesi anche Forte si è avvalso di slide, offrendo al pubblico immagini che a suo parere attesterebbero la presenza del Graal a Napoli per poi essere probabilmente trasferito, poco dopo la metà del XVII secolo, nel monastero di Santa Maria di Poblet quando furono traslate in spagna le spoglie di Alfonso d’Aragona.

A ulteriore sostegno della sua tesi, Forte ha fatto riferimento a un gioco di luce che avverrebbe all’interno della Sala dei Baroni durante il solstizio d’Estate: filtrando attraverso un punto in alto alla  sala, il sole proietterebbe sulla parete prospiciente l’immagine di un libro aperto. L’apparizione di questo libro di luce nel momento in cui il sole è al suo apice potrebbe significare che il castello è un libro di pietra sulle cui facciate e mura le sapienti mani degli scalpellini hanno impresso simboli la cui interpretazione è possibile solo agli iniziati. In tal senso il Maschio Angioino si rivelerebbe come una delle tante “dimore filosofali” cui fa riferimento il Fulcanelli in una sua opera dall’omonimo titolo, e che lo scrittore francese Victor Hugo ne IL GOBBO DI NOTRE DAME definisce “libri di pietra” comprensibili solo a chi fosse iniziato ai sacri misteri. Oppure che gli aragonesi, nella fattispecie Alfonso d’Aragona, erano in possesso di una conoscenza di luce, la conoscenza sacra cui si dichiaravano depositari i Fedeli d’Amore, i Templari, i Rosacroce, e in tempi remoti gli antichi egizi e tante altre civiltà del passato che ci hanno lasciato monumentali vestigia dal significato impenetrabile, la cui edificazione sarebbe stata impossibile con i mezzi e conoscenze ufficiali dell’epoca in cui furono erette…

Giochi di luce di questo genere avvengono in diversi templi e cattedrali sparsi per il mondo. Uno è il tempio egizio di Abu Simbel dove durante il solstizio d’estate, a una certa ora, il sole penetra all’interno illuminando la statua del faraone avallandone l’origine solare, e dunque affermandone la natura divina.

Se davvero il Graal abbia un intimo legame con gli aragonesi e la città di Napoli, probabilmente non lo sapremo mai. Di certo il convegno ha aperto nuovi orizzonti di approfondimento per quanti amano studiare la città e i suoi misteri.

Secondo un detto alchemico, “l’alchimista attua la trasmutazione di se stesso mentre opera”. In virtù di ciò, non possiamo escludere che chiunque si ponesse seriamente alla ricerca del legame tra Napoli e il Graal, attraverso lo studio, non riuscirebbe a migliorare se stesso come individuo. Se ciò avvenisse, chiunque subisse questa catarsi potrebbe affermare di avere trovato la pietra filosofale, oppure il Graal, fate voi!

Vincenzo Giarritiello

 

PIANO TRAFFICO UNIVERSIADI 2019: RESTANO LE PERPLESSITA’ DI CASA DEL CONSUMATORE (INTERVISTA AL RESPONSABILE CITTADINO DOTT. CARLA DE CIAMPIS)

L'immagine può contenere: Carla de Ciampis

Dopo il caos/traffico di venerdì 28 giugno conseguente al varo del piano viabilità predisposto dal Comune di Napoli per le Universiadi, da sabato 29 giugno è stato predisposto un nuovo percorso che lunedì 1 luglio, con la riapertura delle attività commerciali e lavorative, testerà la propria efficacia. Sulla scia delle polemiche dei giorni scorsi, abbiamo dato la parola al Dottor Carla De Ciampis, responsabile cittadino di Casa del Consumatore, che da diverse settimane sta lanciando allarmi inascoltati sulle probabili ripercussioni negative che il piano avrebbe avuto sulla viabilità, penalizzando i comuni cittadini.

 

Dottore alcune settimane fa lei espresse le proprie perplessità riguardo i problemi di viabilità che si sarebbero potuti presentare per i cittadini durante le Universiadi, se non fosse stato studiato dal Comune un corretto piano di viabilità. Purtroppo queste suoi dubbi hanno trovato conferma con il caos che si è verificato venerdì scorso con l’entrata in vigore del piano, costringendo i responsabili a rivederlo il giorno dopo. Alcuni giorni fa ha scritto una lettera a diversi giornali, rimarcando la sua sfiducia.  È il caso di dire “nemo profeta in patria”?

Partiamo dalla fine: la lettera a cui fa riferimento è stata l’atto conclusivo di una presa di posizione personale iniziata ai primi di giugno quando fu varato e reso pubblico sui siti istituzionali il piano traffico per le Universiadi. Non appena lo visionai notai subito che presentava diverse criticità a scapito del comune cittadino e provai a contattare anche via Facebook i responsabili delle istituzioni per confrontarci civilmente, senza purtroppo ricevere nessuna risposta. A questo punto, poiché il piano era già stato varato, era inutile fare una richiesta di convocazione. Per cui ho esternato le mie perplessità confidando che qualcuno mi avrebbe risposto.

Su quali basi si fondano le sue perplessità?

Sul fatto che da circa dieci anni Napoli è sprovvista di corsie preferenziali a causa dei lavori della Linea 1 della metropolitana. Com’era possibile pensare che strade ridotte al lumicino per via dei  cantieri per la metropolitana, strade che sono state lottizzate in buona parte dalle strisce blu con conseguente restringimento delle corsie e delle carreggiate, potessero magicamente non rivelarsi un problema per i cittadini all’atto in cui si sarebbe varato un piano viabilità per le Universiadi che giustamente prevedeva la creazione di corridoi preferenziali per il transito dei pullman che trasporteranno gli atleti dal Molosiglio a Fuorigrotta e viceversa? Con questi elementi di base non riuscivo a capire come si sarebbe fatto e quindi mi meravigliavo di come gli organizzatori e i responsabili amministrativi potessero aver trovato magicamente la soluzione. Quando c’è stata la prima attuazione del piano le mie perplessità si sono concretizzate: chiudendo le strade alla pubblica viabilità per creare i corridoi per gli atleti, relegando i cittadini in un’unica corsia tutto è subito andato in tilt!

Tra ieri e oggi sembrerebbe che la situazione sarebbe un tantino migliorata in quanto, proprio in virtù del caos di venerdì, i sensi di marcia che hanno creato tanti problemi ai cittadini, sarebbero stati nuovamente invertiti. Si aspetta domani, quando riprenderanno le attività lavorative e commerciali, per vedere se effettivamente i problemi sono stati, almeno in parte, risolti.

Ribadisco, le mie perplessità nascono dal fatto che da dieci anni a Napoli non esistono corsie preferenziali che in questo caso sarebbero servite anche per il trasporto degli atleti. In carenza di questo non capisco come abbiano potuto pensare di far circolare decine di pullman, macchine, taxi per il trasporto degli atleti senza penalizzare i cittadini!

Allo stato attuale quali sono le sue aspettative in merito?

Stamani sui quotidiani cittadini leggevo che il Comune ha preso atto che il piano così com’è non va bene, avallando dunque le mie ritrosie.

Quando all’epoca lei segnalò il problema al comune ricevette risposta?

No! In questi casi, come dico sempre, il comune cala dall’alto le ordinanze. Mi spiego: con l’ordinanza 269 del 26 giugno, dunque varata appena quattro giorni fa, il Comune per 21 giorni  vieta sia il transito che la sosta in aree specifiche perfino ai residenti muniti di regolare permesso i quali non lo hanno avuto gratuitamente ma lo hanno pagato, senza minimamente preoccuparsi di sopperire al disagio fornendo ai malcapitati la possibilità di parcheggiare gratuitamente in garage con cui preventivamente il Comune stesso si sarebbe dovuto accordare, stabilendo un prezzo di comodo per garantire a chi ne ha diritto la possibilità di parcheggiare e sostare laddove risiede.  Mi sarei aspettata quanto meno questo. Se non addirittura che, così come gli operatori delle Universiadi sono stati dotati di abbonamenti gratuiti per i mezzi pubblici, per i cittadini sottoposti ai disagi della viabilità e del parcheggio il Comune prevedesse degli abbonamenti a un costo speciale per tutta la durata del periodo dei giochi in modo da indurli a non doversi spostare con l’auto. Altra criticità che a mio avviso renderà difficile la viabilità ai napoletani durante le Universiadi è che da luglio scattano le ferie per molti operatori del settore dei trasporti su gomma e su ferro. Non a caso la funicolare che collega Mergellina a Via Manzoni resterà chiusa dal 30 giugno a settembre per lavori di manutenzione. Ora mi chiedo, possibile che in vista di un evento così importante come le Universiadi i lavori non potessero slittare alla fine dei giochi, dando la possibilità a chi viene dalla zona collinare della città di muoversi  senza grosse difficoltà?

Come responsabile dell’associazione consumatori lei cosa chiede?

Innanzitutto che per l’organizzazione di un evento così importante si fosse adoperata la filosofia del buon padre di famiglia, ponderando tutti i punti di vista, partendo dai commercianti ai cittadini agli atleti e a quanti si muoveranno attorno ai giochi, tenendo ben presente tutte le situazioni di sicurezza. Quando hanno rifatto il manto stradale del corridoio per il trasporto degli atleti lo hanno rifatto non solo riempiendo tutte le buche e cancellando i rattoppi, ma hanno cassato anche la segnaletica orizzontale. Attualmente il manto stradale è una lunga strisciata di nero priva di strisce pedonali anche in prossimità dei semafori. Poiché il piano originale prevedeva delle anomalie rispetto a quello attualmente in corso, in molte zone c’è una segnaletica che non corrisponde più al reale senso di marcia. Ad esempio Viale Gramsci: il percorso originale lo prevedeva a doppio senso e sull’asfalto c’è la segnaletica relativa. Con il piano attuale, sotto esame da domani, Viale Gramsci torna a essere a senso unico, malgrado la segnaletica orizzontale indichi il contrario. Ma pare che già starebbero provvedendo a modificarla proprio in questo momento…

In conclusione cosa si sente di dire?

Se si fosse adottato il buonsenso, personalmente non avrei varato un piano dall’alto, bensì lo avrei studiato e sperimentato molte settimane prima dei giochi. Domani, quando mancheranno solo  tre giorni all’inizio delle Universiadi, si testerà la validità del nuovo piano viabilità. Se dovesse fallire, dovrà funzionare per forza, con buona pace dei cittadini! Mi lasci aggiungere un’ultima cosa: pare che l’attuale piano preveda per un tratto di strada la commistione tra il corridoio per il trasporto degli atleti con il traffico privato. Se davvero fosse, mi chiedo se, così facendo, non si minerebbero le elementari regole per la sicurezza degli atleti e degli stessi cittadini?…

INTERVISTA A CLAUDIO CORREALE, L’ANIMA DI LUX IN FABULA

Di seguito la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Sabato 22 giugno con Conversazioni Socialmente Utili si è chiusa la prima edizione della rassegna culturale QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE curata e realizzata dall’associazione culturale flegrea Lux In Fabula presso la propria sede a Pozzuoli.

Per l’occasione abbiamo intervistato il Presidente Claudio Correale per fare il punto sulla rassegna appena conclusasi e conoscere i prossimi progetti dell’associazione.

Claudio perché QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE?

Per dare la possibilità ai tanti intellettuali e artisti sparsi sul territorio flegreo, ma che non riescono a trovare gli opportuni spazi in cui esibirsi, di farsi conoscere e apprezzare. Alla rassegna hanno partecipato diciannove artisti, di cui la maggior parte romanzieri e saggisti. Nonché un informatico che ha ideato un sito internet dove è possibile passeggiare virtualmente nel tempo, sia nei campi flegrei che altrove, muniti della strumentazione relativa; un tecnico elettronico con la passione della fotografia che ha spiegato l’utilizzo dei droni in ambito fotografico; un gruppo di professionisti impegnati nella salvaguardia dei diritti dei consumatori che ha illustrato i mezzi e le dinamiche di cui può usufruire il cittadino per difendersi dagli abusi di cui spesso è vittima da parte degli enti pubblici e privati. E ovviamente studiosi del territorio che ne hanno parlato in senso lato, non limitandosi a Pozzuoli e all’area archeologica che lo riguarda, ma estendendosi fino alla conca di Agnano che ha molto da dire e da dare in ambito archeologico e storico, contrariamente a quanto si possa immaginare. Ovviamente non è questa la prima volta che organizziamo una manifestazione del genere. Già in passato, seppure sotto altre vesti, abbiamo organizzato eventi simili, cercando sempre di dare spazio a chi non ne aveva, non perché non fosse capace ma perché non riusciva a trovare i canali giusti che gli consentissero di farsi conoscere.

La manifestazione ha avuto un tale successo che già avete pronto il calendario completo per la prossima edizione…

Sì, è vero, gli obiettivi sono stati perfettamente centrati e in autunno prenderà il via la seconda edizione, quasi in contemporanea con il nuovo appuntamento dei “Giovedì Letterari” presso il Museo del Mare di Napoli a Bagnoli con “Pozzuoli è Memoria!” (il 31 Ottobre 2019) che tanto consenso ha ricevuto per i contenuti espressi dai numerosi relatori il 4 aprile scorso quando per la prima volta come associazione fummo invitati a parteciparvi. Ritornando alla seconda edizione di Quattro Chiacchiere Con L’Autore, è già possibile visionare online sul sito di Lux in Fabula, cliccando sulla sezione “Eventi”, il calendario provvisorio degli incontri: si partirà il 26 ottobre 2019 con la presentazione del tuo libro Le Mie Ragazze Rom dove narri la tua esperienza di laboratorio di scrittura creativa presso la sezione femminile del carcere minorile di Nisida nel 2006, e si proseguirà con un fitto programma, arricchito anche da interventi musicali e artistici.

Ci racconti come nasce Lux In Fabula?

Più di trent’anni fa insieme al fotografo Ciro Ammendola e al pittore Antoine, così si faceva chiamare, affittammo un appartamento a Pozzuoli, al parco Bognar nei pressi della metropolitana, e iniziammo a fare attività artistiche. Tra le prime attività sociali che intraprendemmo ci fu quella di commentare alcune favole utilizzando delle diapositive fatte a mano con la tecnica della diapositiva creativa. Le immagini che proiettavamo erano quasi tutte astratte in maniera da sollecitare quanto più potevamo la fantasia dei bambini. Ci tengo a precisare che noi nasciamo con l’intento di insegnare ai bambini a difendersi dagli abusi dei mass media e le nostre attività si svolgono soprattutto nei plessi scolastici elementari. Dotando i ragazzi degli strumenti adeguati per non lasciarsi sedurre dai messaggi pubblicitari audio e audiovisivi, siamo convinti che ciò possa risolversi nel primo e fondamentale passo per avere un domani una società di uomini liberi e non di “schiavi” del messaggio. In sintesi il nostro scopo è quello di sviluppare nei bambini una capacità critica verso le immagini. In particolare a difendersi dalla televisione che a livello mediatico è il mezzo invasivo per eccellenza. A riguardo ho tenuto fino pochi anni fa corsi P.O.N. agli insegnanti, sia nell’area flegrea che altrove, perché imparassero le tecniche necessarie per poi educare i bambini a come fare per difendersi dagli abusi della società dell’immagine!

Luci e ombre di questa prima rassegna di Quattro Chiacchiere Con L’autore…

Di ombre non mi sembra ce ne siano state, a parte qualche defaillance di partecipazione all’ultimo momento cui abbiamo saputo rimediare senza difficoltà visto che tanti erano quelli che ci tenevano a partecipare alla rassegna. Di luci, per quanto mi riguarda, ce ne sono state tantissime. A partire dalla folta presenza di pubblico che ha accompagnato ogni incontro. Considerando le misure ridotte della nostra sala, circa venticinque metri quadrati, abbiamo avuto mediamente la presenza di 15/20 persone con punte anche di 30/40. Per cui già questo ti gratifica e ti motiva a proseguire nell’opera.

Come mai un’associazione come la vostra così attiva da tanti anni sul territorio non è dotata di una sede idonea? Non ne avete mai fatto la richiesta alle autorità competenti?

Sì, la richiesta l’abbiamo fatta. Finora in risposta abbiamo ricevuto solo impegni informali e promesse che spero non tarderanno a tramutarsi in realtà. Sia chiaro, mi rendo conto che le nostre esigenze sono secondarie rispetto a tante altre cui l’autorità deve far fronte. Tuttavia confido che il nostro impegno per il territorio venga riconosciuto anche in sede ufficiale e premiato con la messa a disposizione di uno spazio adeguato che ci consenta di moltiplicare per enne le nostre attività. E soprattutto di realizzare un progetto che mi sta particolarmente a cuore…

Quale?

Il museo del bradisismo. Dotare Pozzuoli di un luogo dove chiunque possa recarsi per erudirsi sul bradisismo, questo particolare fenomeno che caratterizza da sempre i campi flegrei,Pozzuoli in particolare, e acquisire la consapevolezza di quanto esso abbia influito, influisca e influirà in ambito sociale! Unitamente al museo sul bradisismo, un’altra nostra proposta è il museo interattivo della cinematografia. Abbiamo collezionato sessanta strumenti che vanno dalla seconda metà dell’ottocento a oggi: cinque lanterne magiche di cui due funzionanti; tantissimi giochi ottici che abbiamo ricostruito. Nonché proiettori che vanno dagli anni 40 a oggi. Abbiamo inoltre una collezione straordinaria di macchine Polaroid e altre macchine fotografiche di un certo valore.

Per quest’estate avete in programma qualcosa?

Siamo stati invitati a partecipare alla quattordicesima edizione di Malazé nella figura di Rosario Mattera che è il padre/fondatore della manifestazione: il 22 settembre nella sede della nostra associazione terremo quattro spettacoli con lanterne magiche dell’800.

Cosa vuol fare Claudio Correale da grande?

Il mio sogno è realizzare il museo del bradisismo e quello della cinematografia a Pozzuoli. Se però non fosse possibile, sono già in contatto con altre realtà di Napoli e provincia che sono interessate ai progetti e disponibili a offrirci gli spazi necessari per dargli vita. Ma spero di riuscire a realizzare il museo del bradisismo a Pozzuoli. Farlo altrove lo troverei umiliante e offensivo per la città e per i cittadini. Il bradisismo è l’anima di Pozzuoli, sia nel bene sia nel male!

LUX IN FABULA OSPITA “CONVERSAZIONI SOCIALMENTE UTILI”

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Pozzuoli – presso Lux in Fabula, sabato 22 giugno, in appendice alla rassegna QUATTRO CHIACCHIERE CON L’AUTORE, si è tenuto l’incontro “CONVERSAZIONI SOCIALMENTE UTILI” rassegna itinerante organizzata dalla giornalista Carla De Ciampis:l’obiettivo è condividere in uno “spazio fisico” argomenti del vivere quotidiano attraverso la conversazione tra esperti di una materia e una ristretta platea di persone.

L’odierna “conversazione” ha visto protagonisti gli esperti: avv. Lucia Vitiello – ADUSBEF (Associazione Difesa Utenti Servizi Bancari e Finanziari) sede di Santa Lucia, Napoli –  il dott. Antonio del Prete – Direttore Organizzativo APS Sud Fundraising e un gruppo di soci dell’associazione Lux in Fabula.

L’ intervento dell’avvocato Vitiello ha toccato dapprima la figura del consumatore all’interno della legislazione italiana ed europea. Poi ha illustrato il ruolo indipendente e centrale dei consumatori con le banche, gli istituti di credito e assicurativi.

Dal 2007, grazie all’opera del legislatore, il cittadino è stato dotato degli strumenti idonei per potersi difendere anche in ambito bancario/assicurativo. L’esperta ADUSBEF ha continuato con una breve disamina del Codice del Consumo, lo stesso va considerato come una svolta importante nella tutela dei consumatori italiani, soprattutto per la rilevanza che assume in termini di politica del diritto.

La Vitiello ha ricordato la facoltà del consumatore, in ambito bancario, di richiedere per ottenere un mutuo, un prestito o altro, l’intera documentazione contrattuale prima di sottoscrive, per poterla esaminare con calma anche con l’aiuto di un esperto, o delle associazioni dei consumatori.

“Evitare – sottolinea l’avvocato – la prassi di firmare senza la dovuta consapevolezza e disamina”. Spesso, il sottoscrittore “incauto”  può incorrere in clausole capestro, con un dispendio di tempo e spese aggiuntive. Ha concluso “oggi il legislatore è a favore del consumatore, con un Codice sul Consumo, con le attività in autotutela e con le associazioni dei consumatori presenti su tutto il territorio“.

L’argomento “Forme di sostegno al territorio: il 5 x 1000 al Sud tra ritardi e difficoltà” trattato dal Direttore Organizzativo APS SUD Fundraising, Antonio Del Prete, ha evidenziato il ruolo fondamentale della comunicazione e del marketing per le Associazioni del terzo settore e ricerca.

Dopo un breve cenno sulle diverse destinazioni del 2, 5 e 8 per mille nelle dichiarazioni dei redditi (8×1000 – devoluto alle istituzioni religiose o Stato; 5×1000 – alle associazioni impegnate nel sociale, ricerca; 2×1000 ai partiti e movimenti politici) l’esperto ha chiarito il ruolo fondamentale dei dottori commercialisti e dei centri di assistenza fiscali-Caf- per la parte operativa e di informazione ai contribuenti a partire dal Codice Fiscale dell’Associazione a cui destinare.

Il Meridione – ha spiegato Del Prete – sconta la mancanza della comunicazione, del non fare marketing da parte delle Associazioni interessateIn Italia poco più dell’11% di questi fondi va al mezzogiorno. La maggioranza viene distribuita ad associazioni dislocate al Nord, in particolare in Lombardia e nel Lazio“.

Tale disparità non è da attribuirsi a una gestione “federalista” dei fondi, bensì a una capacità di fare comunicazione/marketing da parte di molte associazioni ma anche ospedali del centro nord rispetto a quelli del sud; unitamente a una disparità di redditi tra nord e sud a svantaggio di quest’ultimo.

“L’ importanza del fare una buona comunicazione si tramuta in cifre: per esempio, l’Ospedale Meyer di Firenze raccoglie tantissimo rispetto a qualunque ospedale pediatrico del sud. Le cifre si ottengono anche per un lavoro continuo tutto l’anno. Gruppi di volontari girano per i reparti pubblicizzando le attività dell’ospedale Mayer, invitando i genitori e parenti dei piccoli degenti a devolvere, quando sarà il momento, il proprio 5×1000 all’ospedale affinché possa finanziarsi e proseguire il proprio lavoro di ricerca, garantendo la migliore assistenza “. “L’importanza della scelta del 5×1000 nella propria dichiarazione dovrebbe essere percepita da ogni contribuente non solo barrando la casella relativa”.

Infatti, la destinazione, si effettua mediante l’inserimento del Codice Fiscale dell’Associazione prescelta. Il nostro 5×1000 se non indirizzato con il predetto codice fiscale confluirà automaticamente in un fondo generale che sarà, poi, distribuito alle prime 8 associazioni nazionali impegnate nella ricerca e nel sociale. Evidenzia Del Prete “tali 8 associazioni sono tutte dislocate nel centro nord, mentre potremmo favorire le nostre al sud destinando consapevolmente il 5 per Mille”.

La serata o meglio la Conversazione si è conclusa con la condivisa soddisfazione dei presenti e la necessità di incontrarsi di nuovo per proseguire questo “apprendimento sociale” su altre tematiche.

 

Vincenzo Giarritiello

“ERAVAMO TANTO RICCHI” LE MEMORIE DI ANNAMARIA VARRIALE

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it 

La sensazione che si ha leggendo ERAVAMO TANTO RICCHI di Annamaria Varriale, edizioni Homo Scrivens, è di avere tra le mani un album fotografico in cui sono serbate in ordine cronologico le foto in bianco/nero di famiglia di più generazioni e, mentre lo sfogliamo, di sentire una voce di donna che in maniera didascalica, senza sbalzi emotivi, racconta ogni singolo scatto, soffermandosi sui particolari, imbastendo una storia lineare ed emozionante foto dopo foto.

Con voce ferma, perfino quando narra vicende tragiche come l’improvvisa scomparsa della mamma quando era ancora bambina, l’autrice tratteggia un affresco familiare di pregevole fattura narrativa, regalandoci un’opera affascinante in grado di farci vedere personaggi e scenari, respirare odori e profumi di cibi e stagioni, ascoltare suoni e voci di un passato a lungo sedimentato dentro di sé sotto forma di ricordi che fuoriescono lentamente dalla penna con leggerezza ed eleganza, ma con decisione e sostanza a conferma che lo scorrere del tempo non li ha minimamente scalfiti bensì fatti levitare.

Nel suo incedere narrativo la Varriale sussurra le parole, centellinandole come gocce di una medicina in grado di curare le ferite dell’anima, senza omettere nulla, neanche momenti imbarazzanti quali la decisione del padre, una volta rimasto vedovo, di rifarsi una vita senza dire nulla ai figli e, quando decide di andare a vivere con la nuova compagna anche lei vedova, non avendo il coraggio di comunicare la notizia ai propri cari, sparisce lasciando che a farlo siano i figli di lei, scatenando un putiferio. Un modo in apparenza vigliacco, ma che testimonia l’amore e il rispetto che Raffaele, così si chiamava il padre di Annamaria, nutriva verso i propri figli tanto da sentirsi in colpa per una decisione umanamente comprensibile, seppure difficile da accettare per una famiglia unita qual era la sua dove la figura di Carolina, la madre di Annamaria, si era sempre rivelata fondamentale non solo per il marito e i figli, ma prima di tutto per i propri fratelli e sorelle, portando alcuni di loro a vivere con sé sotto lo stesso tetto.

Tratteggiando luoghi e personaggio della propria infanzia, la scrittrice lo fa con chiarezza di particolari e padronanza di linguaggio che è impossibile al lettore, soprattutto se a sua volta è cresciuto e ha vissuto in quei posti, di non “vedere” quanto sta leggendo a conferma della potenza descrittiva dell’autrice: il Bar De Bono in Via Giulio Cesare, Sisina la fruttivendola, la Pizzeria Cafasso, la Mostra d’Oltremare, il Banco di Napoli a Fuorigrotta, la Torretta a Mergellina sono siti, locali e personaggi che chiunque abbia vissuto a cavallo degli anni cinquanta/settanta tra Fuorigrotta e la Riviera di Chiaia ben conosce e riconosce nei fotogrammi narrativi della Varriale.

L’intento della scrittrice è raccontare la storia della propria famiglia nell’arco di cinquant’anni, dalla fine della prima guerra mondiale al sessantotto; dove l’avvento della televisione e degli elettrodomestici sono segni emblematici di un indiscutibile cambiamento economico e sociale. Tuttavia la sensazione è che, attraverso il dipanarsi del filo della memoria, lei voglia dimostrare come l’unità familiare sia un valore imprescindibile e assoluto per essere felici. Per cui quel ERAVAMO TANTO RICCHI che dà il titolo al libro non si riferisce soltanto alla agiatezza economica, che per inciso alla sua famiglia non è mai mancata grazie alla ben avviata attività di barbiere del padre, bensì a quella umana, ormai quasi del tutto persa proprio in virtù dell’avvento tecnologico e del consumismo che hanno trasformato gli uomini da soggetti sociali in oggetti di consumo.

Il libro della Varriale può essere considerato un monito a ritrovare l’unità familiare, oggi sempre più in disfacimento perfino a tavola un tempo luogo deputato al rinsaldarsi della famiglia, essendo quella l’unica vera ricchezza degli uomini; a far sì che l’indicativo imperfetto del titolo, “eravamo”, quanto prima venga coniugato al presente con “siamo”, perché solo l’unità familiare è in grado di rendere felici.

In ERAVAMO TANTO RICCHI Annamaria Varriale si rivela narratrice doc, limitandosi a raccontare le vicende della propria famiglia e di se stessa senza porsi alcun problema stilistico; rivolgendosi al lettore come se parlasse a un amico che conosce da sempre. Ed è forse per questo motivo che, leggendolo, non ci si può esimere dal riflettere su ogni singolo episodio rapportandolo a se stessi, chiedendosi oggi che fine abbia fatto quella ricchezza un tempo denominata famiglia che si reggeva sulle cose semplici ma sincere, rendendo felice perfino chi aveva poco o niente!

Vincenzo Giarritiello