SIGNATURE RERUM – IL SUSSURRO DELLA SIBILLA

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[…]Poggiai le valige sulla soglia della villa. Presi le chiavi dalla tasca del giubbotto e aprii l’ingresso del mio nuovo alloggio.
L’odore di chiuso ristagnante nell’ambiente testimoniava che la casa era disabitata da tempo. Ne fui sorpreso perché Stefania e Francesco amavano vivere lì. Soprattutto d’inverno, quando il tranquillo sciabordio del mare riecheggiava sulla spiaggia solitaria, permettendo di fare lunghe passeggiate sul bagnasciuga senza il pericolo di inciampare nei bagnanti stesi al sole; d’essere involontario(?) bersaglio di pallonate, o, peggio ancora, d’essere investiti dagli ombrelloni sradicati dal vento.
Entrambi concordavano che l’autunno e l’inverno erano le sta-gioni migliori per godere delle facoltà terapeutiche e spirituali del ma-re. Sostenevano che il mormorio delle onde dava voce a un mistero irrisolvibile, inducendo a una profonda riflessione su una questione, se-condo loro, fondamentale per capire la vita e l’uomo: qual è l’esatto momento in cui l’onda nasce e quello in cui muore. Tra quanti si tormentavano nella soluzione dell’enigma, vi era chi affermava che l’onda si forma nell’attimo in cui sembra morire, ossia quando si riversava sulla riva con un ultimo, rabbioso ruggito. A sostegno di questa tesi, costoro riferivano dell’allegra melodia che si levava dai filamenti di schiuma dell’onda morta allorché, insinuandosi tra i ciottoli sulla sabbia, rifluivano nel mare come anime finalmente libere dal vincolo corporale, pronte a librarsi nel cielo quasi rinascessero a nuova vita.
Sebbene il problema non avesse mai suscitato il mio interesse, quando spalancai le imposte del balcone nel salottino per cambiare aria alla casa, affacciandomi sulla spiaggia a osservare le onde rin-corrersi sul mare fui assalito dal dubbio: la morte non potrebbe essere il preludio di una nuova vita?[…]

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IMPRENDITORI PLURITITOLATI, SFRUTTATORI DI PROFESSIONE

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È proprio vero, fino a quando una situazione non si vive sulla propria pelle, difficilmente si riuscirà a comprendere lo stato d’animo di chi è invece costretto a viverla, capendone la rabbia e la disperazione.

Da quando ho perso il lavoro a seguito della cessata attività dell’azienda con cui ho lavorato per trentadue anni, la quale era sul mercato da ottant’anni, trovarmi mio malgrado catapultato nel mondo della disoccupazione, per giunta a cinquantacinque anni, dunque a un’età in cui sei giovani per la pensione ma vecchio per il mercato del lavoro, non solo ho iniziato a sperimentare sulla mia pelle quanto sia dura e triste la realtà del disoccupato, ma anche quanti squali si annidino dietro l’angolo pronti ad assumerti alle loro dipendenze in cambio di quattro soldi tanto che, se accettassi le loro offerte, alla fine tra spese di spostamento e pranzo, ci rimetteresti, anziché guadagnare, anche solo un centesimo in più di quel che spenderesti per recarti a lavoro ogni mattina.

Quello che fa più rabbia è  che spesso questi squali sono stimatissimi professionisti che si fregiano sulle pareti dei loro studi e uffici di titoli accademici e attestati di partecipazione a master bocconiani per testimoniare il valore della loro professionalità. In alcuni casi mi è capitato addirittura di imbattermi in frasi tratte dalla Repubblica di Platone, scritte su carta pergamenata e in grassetto, inneggianti all’onestà e al rispetto del prossimo, appese in cornice di spalle alla scrivania dello stimabile professionista…

Tale presunta professionalità attestata dai titoli, va in assoluto conflitto con il loro modo di intendere la gestione del personale, tesa allo sfruttamento fino all’osso dell’individuo per una paga oraria che in molti casi è la metà del minimo sindacale, 7/8 € previsti per una colf. Dove, se ti va bene, ti si chiede di lavorare per 10/12 ore al giorno, incluso il sabato e a volte perfino la domenica senza percepire un euro in più.

Ad accrescere la rabbia è che questa situazione di sfruttamento, spesso rasentante il caporalato, non riguarda solo le persone della mia età, e se anche riguardasse solo loro non sarebbe comunque giustificabile!, ma prima di tutto i giovani, a prescindere se hanno o meno un titolo di studio. Anzi, paradossalmente, ascoltando i racconti di tanti giovani disoccupati, pare che in molti casi il titolo di studio penalizzi. È come se il diploma o la laurea certificassero non la capacità dell’individuo ma la sua dabbenaggine o la suapericolisita!

Sì, dispiace dirlo, tuttora, almeno a Napoli, e quindi credo valga per l’intero mezzogiorno, molti pseudo “imprenditori” – con tutto il rispetto per gli imprenditori veri che per fortuna esistono anche a Napoli e nel sud Italia – a un diplomato o a un laureato, preferiscono assumere chi ha la terza media, con tutto il rispetto per chi ha questo titolo di studio, in quanto, nella loro visione distorta del lavoro inteso come sfruttamento della persona, temono, probabilmente a giusta ragione, che un diplomato, un laureato o chi abbia un minimo di cultura non sottostaranno mai ai loro ricatti; denunciandoli nel momento in cui si azzardassero a fare loro una proposta “oscena” tipo, “ti faccio firmare la busta paga per 1200 €, ma materialmente te ne do 700/800€.”

In alcuni casi sembra che vi sia chi, oltre a far firmare la busta paga per un importo di tutto rispetto, la cifra indicata sullo statino paga  la versi realmente sul conto corrente del dipendente previo tacito accordo che, non appena avverrà il bonifico, il lavoratore preleverà 500 € e glieli ritornerà indietro a nero.

Ciò comporta che il lavoratore pagherà più tasse, pur percependo meno di quanto risulti al fisco. Viceversa il datore di lavoro pagherà meno tasse in quanto incasserà sotto traccia parte di quanto avrebbe dovuto realmente versare al dipendete come ufficialmente risulta dai movimenti bancari.

Quando ascolti simili narrazioni, la rabbia ti coglie nel profondo dell’anima. Aumentando quando, nel momento in cui inviti le presunte vittime a ribellarsi  dallo sfruttamento e dal ricatto, denunciando i responsabili , ti senti rispondere con rassegnazione, “Non servirebbe a niente. Se mi rifiutassii, alle mie spalle c’è una fila di gente pronta a lavorare per molto meno. E poi, se lo facessi, il mio nome girerebbe nell’ambiente e nessun piu mi prenderebbe a lavorare perché sarei marchiato come chi crea rogne!”

È a questo punto che ti rendi conto che la causa del disastro occupazionale nel sud non dipende solo dalla criminalità, dallo sfruttamento e dal clientelismo, ma prima di tutto da una forma di cultura dove vige il mors tua vita mea, per cui la solidarietà tra i lavoratori e i disoccupati va a farsi benedire in cambio di un tozzo di pane.

La rabbia aumenta ulteriormente quando ascolti chi, seppure tenendosi sul vago, ti fa capire che spesso queste situazioni di squilibrio a sfavore dei dipendenti trovano la complicità di chi dovrebbe combatterle, tutelandoli. Per sentito dire, sembra ci sarebbero, il condizionale è d’obbligo, pubblici ufficiali deputati ai controlli aziendali per la tutela dei lavoratori che sarebbero disposti a chiudere entrambi gli occhi sulle presunte irregolarità aziendali, soprattutto inerenti la sicurezza sul lavoro e l’igiene, vendendosi ai manager aziendali per pochi spiccioli o in cambio di un oggetto trattato dall’azienda di cui hanno bisogno loro o un proprio famigliare. Altre voci di corridoio racconterebbero addirittura di sindacalisti che andrebbero a braccetto con il padrone, danneggiando i lavoratori anziché tutelarne gli interessi…

Quando hai la sensazione di trovarti al cospetto di simili realtà, o ascolti storie del genere, ti rendi conto che le speranze di crescita per le popolazioni del sud Italia sono ridotte al lumicino. A quel punto, malgrado l’età avanzata ti suggerirebbe di cercare un lavoro nella tua città o al massimo nella tua regione, decidi di metterti in gioco e di trovare lavoro fuori regione, ovviamente da Roma a salire. Infatti, chissà perché, pare che superato il Garigliano la dignità dell’individuo e del lavoratore sarebbero improvvisamente rispettate.

La conferma verrebbe da chi lavora al sud con aziende che hanno sedi sparse nel centro Italia. A loro dire, nelle altre sedi gli stipendi sarebbero adeguati ai contratti di lavoro e gli straordinari verrebbero pagati fino all’ultimo soldo senza alcuna difficoltà. Nel momento in cui quelle stesse aziende si spostano al sud, dimenticherebbero i propri doveri verso i dipendenti, adeguandosi all’andazzo del mercato del lavoro in quelle zone dive, a parte casi sporadici, lo sfruttamento e l’oppressione del lavoratore la fanno da padrone.

E pensare che c’è chi sostiene che la questione meridionale è archiviata da tempo…

PAOLO SCHIATTI, CUSTODE DELLE TRADIZIONI

foto paolo schiatti

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Intervista a Paolo Schiatti presidente della Brigata di Raggiolo la cui funzione è recuperare e salvaguardare le tradizioni di Raggiolo, perla del Casentino Toscano in provincia di Arezzo, arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, inserito nella ristretta lista dei Borghi più Belli d’Italia.

 

Dottor Schiatti da quanto è presidente della Brigata di Raggiolo?

Da quattro anni

Quando nasce la Brigata?

Venticinque anni fa, da un’idea di un gruppo di amici. Quattro amici al bar, letteralmente. L’intenzione era quella di dar vita a qualcosa che valorizzasse Raggiolo, arrestando la perdita delle tradizioni che si poteva intraprendere.

Vi proponete tipo pro loco o il vostro compito principale è quello di serbare le tradizioni del luogo?

Assolutamente serbare le tradizioni del luogo! Tant’è vero che abbiamo deciso di non essere una pro loco e di non avere questa identificazione neanche nel nome.

Quando nasce Raggiolo?

La prima notizia storicamente accertata è del 967, prima del mille, in epoca ottoniana. Da un documento del regesto di Camaldoli risulta una donazione dell’imperatore Ottone a un cavaliere, Goffredo di Ildebrando, di alcuni territori tra cui “villa raggiola”.

Il termine raggiolo evoca alla mente il raggio di sole. E’ questa l’origine del nome?

No, è solo un’assonanza! L’analisi linguistica della cattedra di glottologia dell’università di Firenze conduce in un’altra direzione. La definizione raggiolo, per tutta una questione complessa di lemmi, indicherebbe “il luogo degli spini”, ossia un sito di non facile accesso all’interno del bosco.

La sala in cui ci troviamo si chiama “sala dei corsi” in riferimento agli abitanti della corsica. Qual è il legame tra Raggiolo e i corsi?

Dopo il 400 a Raggiolo si insediò una comunità di corsi che ripopolò l’antico castello che era andato completamente distrutto. I corsi sono gli antenati dei raggiolatti, una discendenza di cui qui a Raggiolo si va molto fieri e diversi vocaboli tipici di Raggiolo sono di origine corsa.

Per secoli l’economia di Raggiolo si è mantenuta grazie alla raccolta delle castagne e dei prodotti che vi si  ricavavano. Voi ogni anno, tra fine ottobre e inizi di novembre, in piazza organizzate la festa della castagna…

La castagnatura, è un termine tecnico del casentino.

Questa tradizione inerente la castagna esiste tuttora, o sta scomparendo e voi vi proponete di recuperarla?

Esiste tuttora, ma in maniera minima rispetto al passato. Raggiolo è stata davvero la patria della castagna fino alla seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra. I documenti ritrovati all’università attestano che fin dal duecento i conti Guidi, ai quali apparteneva Guido Novello signore di Raggiolo tra il 1301 e il 1322, avevano selezionato una castagna tuttora esistente derivante da un tipo di castagno detto raggiolano: la castagna raggiolana. Consideri che il castagno non è un albero autoctono, ma fu importato dall’Asia dai romani. La sua estensione territoriale a livello nazionale è dovuta al fatto che è un albero da frutto. Ma soprattutto è un albero del pane: dalla farina di castagne si ottiene la polenta di castagne che rispetto a quella di mais ha la caratteristica fondamentale di essere proteica. Per generazioni a Raggiolo si è vissuto grazie alla farina di castagne.

La vostra ambizione è salvaguardare la storia e le tradizioni di Raggiolo. Turisticamente il paese sta avendo un grosso boom, non a caso è stato inserito nella lista dei borghi più belli d’Italia, e questo è sicuramente anche merito vostro. Come Brigata quali altri obiettivi vi siete proposti per portare avanti questa crescita?

Il discorso sarebbe lungo. Volendo essere sintetici, credo che alla base vi sarebbe l’esigenza di creare un’unità territoriale tra tutti i comuni edificati sul massiccio del Pratomagno. Una montagna straordinaria, con una bellezza paesaggistica unica, sulla cui cima si estende un’immensa prateria che per secoli è stata, unitamente alla Maremma, luogo di pascolo per le greggi all’epoca della transumanza; divide il Casentino dal Val d’Arno ed è circondato nel suo percorso dall’Arno. Ecco, reputo che questa sia la prima cosa da farsi, dare unità a questo mondo che ha una sua omogeneità territoriale culturale e urbanistica.

Quindi, se non ho frainteso,  tutto ciò richiederebbe non solo un impegno culturale ma anche politico!?

Sì,implica che i comuni collaborino insieme a un progetto territoriale che facesse emergere il Pratomagno in quanto tale. E dentro questo progetto fare in modo che le tradizioni dei singoli paesi venissero recuperate e salvaguardate. 

Di raggiolatti in paese ve ne sono sempre meno, mentre vi è un aumento esponenziale di turisti. Alla lunga ciò non potrebbe far cadere nel dimenticatoio la storia e le tradizioni di Raggiolo?

Certo, il rischio è reale! Ed è proprio per evitare che avvenga che come brigata ci siamo posti l’ambizioso compito di recuperare e tenere vive le antiche tradizioni del luogo e organizzare escursioni in posti dove si possono ammirare le meraviglie della natura che ci circonda. È giusto che il paese si incrementi turisticamente, ne beneficia tutta l’economia locale. L’importante è che tutto ciò non oscuri le origini e le tradizioni di Raggiolo! Finché potrò, mi impegnerò con tutte le mie forze perché la radici storico-culturali del paese non cadano nel dimenticatoio. Ovviamente con la collaborazione dei volontari della brigata, donne e uomini straordinari senza i quali tutto quel che abbiamo finora fatto sarebbe stato impossibile.

ESCURSIONE NELL’ALVEO DEL TEGGINA, SULLE ORME DEL FIUME

L'immagine può contenere: 4 persone, persone in piedi, albero, pianta, spazio all'aperto e natura

Da sinistra: Adelio Gambini, Franco Franceschini, Bruno Luddi, Paolo Schiatti, Lorenzo Venturini, Arturo Gambini.

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Alcuni giorni dopo l’escursione in notturna sul Pratomagno, passeggiando per Raggiolo incontrai Paolo Schiatti, una delle guide di quella salita. Dopo avermi chiesto come mi sentissi, mi comunicò che stavano organizzando un’escursione fin su la Pozza del Berluzzi, a circa 900 mt di altezza, per poi ridiscendere l’alveo del Teggina fino al Ponte della Prata, un chilometro e mezzo a valle; magari camminando nell’acqua come facevano da ragazzini.

Da come me la descrisse sembrò dovesse trattarsi di un’escursione priva di difficoltà, una passeggiata o poco meno.

 

L’appuntamento è alle 8,30 di mattina in piazza. Oltre me ci sono Lorenzo Venturini, Paolo Schiatti, Adelio e Arturo Gambini, Franco Franceschini e Bruno Luddi. Tutti abbiamo superato da tempo  i cinquant’anni. Il più giovane sono io che ho completato i cinquantacinque da poco.

L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi, albero, pianta, cielo, erba, spazio all'aperto e natura

Contrariamente a quanto mi era stato prospettato, che non si trattasse di una semplice passeggiata lo intuisco quando, arrivati alla pozza del Berluzzi, un’ampia vasca naturale in cui il fiume si raccoglie per poi riversarsi a valle in uno scenario da canyon, luogo prediletto dai pescatori di trote, Bruno ci fa sapere che lui e Franco ritorneranno indietro ché non se la sentono di seguirci.

 

L'immagine può contenere: pianta, albero, spazio all'aperto, acqua e natura

Istintivamente punto lo sguardo sull’enorme parete di roccia che si innalza davanti a noi e sugli enormi massi che invadono il letto del fiume, ostruendone in parte il cammino. Ci toccherà camminarci sopra e saltare dall’uno all’altro per arrivare al Ponte della Prata. Uno sforzo e un rischio notevoli che forse non si addicono a un gruppo di sessantenni come noi, seppure tutti ancora in una condizione fisica più che dignitosa.

L'immagine può contenere: pianta, spazio all'aperto, natura e acqua

Dopo aver salutato Franco e Bruno, ci incamminiamo in quello scenario cinematografico che mi ricorda tanto il Signore Degli Anelli, con pareti rocciose che si elevano maestose al cielo nella perpetua penombra della fitta boscaglia e alberi che si piegano su di noi come se si inchinassero in segno di riverenza al fiume.

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Di tanto in tanto il grido di un uccello squarcia il silenzio: non mi stupirei se all’improvviso tra i cespugli  apparisse uno gnomo, un elfo o una fata…

Molte rocce affioranti dall’acqua sono schizzate di bianco come se si trattasse di pittura: “Sono gli escrementi dei rapaci che vengono qui ad abbeverarsi dopo il pasto”, mi spiega Lorenzo. A confermarlo è la carogna di una talpa riversa sulla sponda poco sopra di noi.

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Man mano che scendiamo verso valle, il percorso diventa sempre più impegnativo, obbligandoci a veri e propri equilibrismi tra alberi e rocce per passare da una sponda all’altra. Il fiume sfila veloce sotto di noi incuneandosi in ogni spiraglio, intonando una dolce melodia amplificata dal silenzio in cui siamo immersi .

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Mentre balziamo sulle rocce, Paolo indica le ampie chiazze  rosse che si riflettono dall’acqua facendola sembra sangue: “E’ ferro”, spiega, spostando lo sguardo su delle pietre asciutte ricoperte da un manto rossastro. Mi racconta che all’epoca dei longobardi a Raggiolo c’erano tante miniere di ferro, alcune rimaste in vita fino a molti anni fa, di cui tuttora si serba il ricordo nel nome del luogo ove sorgevano.

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Notando la mia incertezza nel muovermi sull’acciottolato umido, mi ammonisce a non mettere i piedi sulle pietre bagnate o ricoperte di muschio perché rischierei di scivolare. In effetti basta poggiare il piede su un masso bagnato e l’equilibrio diventa subito precario. Avendo calzato le scarpe da running, la suola di gomma aumenta notevolmente il rischio di scivolare. Divarico le gambe per cercare di non perdere l’equilibrio e vado avanti.

Tra di noi il più agile è Adelio, che è anche il più anziano: salta da una roccia all’altra come un capriolo. Guardarlo muoversi con tale facilità su quel ponte sconnesso di rocce non penseresti che abbia settant’uno anni… Va avanti e indietro come un ragazzino per individuare la strada migliore da seguire.

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Adelio Gambini

Strada è un eufemismo! L’unica “strada” che converrebbe prendere per non rischiare di farsi male sarebbe quella del fiume: immergersi con i piedi nell’acqua e proseguire tra i flutti fino a quando la “strada” non diventi percorribile. Pare che da ragazzi facessero così…

Per quanto mi riguarda provo a stare dietro ad Adelio, gli altri si attardano per scattare foto o ammirare il panorama circostante.

Osservando un enorme masso riverso nell’acqua, Adelio mi spiega che, come tanti altri, fu trascinato lì dall’alluvione del 58. All’epoca lui aveva nove anni: “per giorni venne giù tanta acqua da far temere che Dio avesse inviato in terra un nuovo diluvio!”

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Riprendiamo il cammino. Impreco contro me stesso per essermi portato il bastone. La sua presenza, rivelatasi fondamentale durante l’ascensione al Pratomagno, ora risulta un impedimento. Più volte faccio il pensiero di liberarmene. Mi trattengo, non sapendo cosa mi aspetta più avanti.

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Anche Paolo e Lorenzo mostrano un’agilità non comune nel saltare sulle pietre. Entrambi coltivano la passione per il tracking, quindi sono abituati a gestire simili situazioni.

Arriviamo in un punto dove è praticamente impossibile proseguire nell’alveo. L’unica soluzione è salire sul fianco sterrato del bosco, facendo attenzione a non scivolare cadendo di sotto.

Ci arrampichiamo per poi ridiscendere. Adelio scivola con i piedi di traverso sul terreno sfaldato con un’agilità da fare invidia, lo imito. Seppure a fatica, arrivo su uno spuntone di roccia. La naturalezza con cui balza sul terreno sotto di noi testimonia quanto sia abituato a cose del genere. Mi guardo intorno alla ricerca di un appiglio. Davanti a me un grosso ramo si protende nel vuoto. Penso di afferrarlo per appendermi in modo da calarmi a mia volta di sotto. Non appena lo agguanto, cede di schianto. Casco sul fondo senza alcuna conseguenze. Mi rialzo, rassicurando gli altri che va tutto bene.

Proseguiamo il nostro cammino, se si può chiamare cammino quell’inferno di pietre e massi…

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Risalendo tra gli alberi, mi benedico per aver tenuto il bastone: quell’appoggio si sta rivelando fondamentale ora che siamo costretti ad avanzare nella vegetazione sovrastante il fiume in quanto nell’alveo è impossibile procedere per via degli enormi massi di cui è ingombro.

È proprio vero, ogni impedimento è giovamento!

Seppure al Ponte della Prata non manchi molto, la fatica incomincia a farsi sentire.

Quando arriviamo al ponte, Lorenzo è scuro in viso: risalendo verso il ponte è scivolato in acqua e accusa un risentimento alla caviglia e alla mano.

Paolo ci chiede se volessimo proseguire fin giù al paese. Né Lorenzo né io ce la sentiamo. Anche Arturo preferisce seguirci sul sentiero che conduce a Raggiolo.

Manco a dirlo, Adelio gli fa compagnia!

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Mentre rientriamo, ripensando alla mia caduta, non posso fare a meno di riandare con la mente allo sventurato escursionista francese che ha perso la vita poche settimane fa nel parco del Pollino. Quando è caduto nel burrone, era da solo. Chissà, probabilmente se fosse stato in compagnia si sarebbe salvato!

A parte lo spavento per la caduta e un leggero risentimento alla gamba, non rimpiango di aver partecipato all’escursione.

Era quello l’unico modo per vedere posti che diversamente mai avrei potuto ammirare.

Certo la caduta poteva rivelarsi ben più grave, ma, quando si decide di intraprendere un’avventura, bisogna mettere in conto l’imprevisto e cercare di fare di tutto per prevenirlo o limitarne i danni ponendo la massima attenzione a quel che si fa.

Non sapremo mai se il povero escursionista francese l’avesse messo a sua volta in conto. Al di là delle tante, ipotetiche sbavature nei soccorsi, forse intraprendere da solo un’escursione come la sua è stata un’imprudenza…

Per quanto riguarda noi credo di poter affermare, senza rischio di smentita, di aver dimostrato che l’incoscienza non è un elemento puramente anagrafico. Anche a sessant’anni si può essere incoscienti come dei ragazzini. Ma solo così puoi vivere qualcosa di unico, di irripetibile.

L’importante è poterlo poi raccontare con il sorriso sulle labbra, facendo autoironia. Significa che all’incoscienza hai saputo dosare la giusta dose di buonsenso!

IL LIBRO: “RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA”

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“Raggiolo, frazione di Ortignano in provincia di Arezzo, a 10 km da Bibbiena, è un paese del Casentino Toscano arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, prospiciente il mistico pano-rama de La Verna dove San Francesco ricevette le stigmate. Circa venti anni fa mio suocero, il maestro Osvaldo Petricciuolo, vi acquistò una proprietà rurale che riadattò a casa d’arte per raccogliere parte della sua ricca produzione artistica. Per anni con la mia famiglia vi abbiamo trascorso l’estate. Là i miei figli sono cresciuti tra prati, boschi, ruscelli, respirando aria pura, mangiando cibi genuini, facendo i bagni nel fiume, pescando gamberi, giocando all’aperto con gli altri bambini. Ora che sono giovani Raggiolo per loro rappresenta un bagaglio di ricordi sbiaditi che cedono il passo a quelli eccitanti dell’adolescenza che hanno il nome di una ragazza cui si associa lo smarrimento e il rapimento per la scoperta dell’amore, le goliardate con gli amici, le occupazioni scolastiche, i nauseanti postumi della sbronza, l’impagabile sensazione di scoprirsi grandi in vacanza da soli con gli amici senza l’assillo dei genitori. Anche per me Raggiolo costituisce un bagaglio di ricordi, ma, diversamente dai miei figli, più vivi che mai, seppure riferiti all’epoca in cui loro erano piccoli.”

Così incomincia questa raccolta di pensieri e racconti dove il protagonista è Raggiolo, perla del Casentino Toscano, inserito nell’esclusiva lista dei borghi più belli d’Italia, in grado di trasfondere attraverso la magica atmosfera che vi si respira un mix emozionale, suscitando nell’animo umano ataviche reminiscenza che fanno riscoprire all’uomo quanto sia intimo il proprio rapporto con la natura. Suddiviso in tredici capitoli, il libro vuole essere un omaggio a un luogo dove la dimensione umana non si è ancora persa; un’oasi naturale in cui ogni individuo può rifugiarsi per ritrovare se stesso; uno scorcio di paradiso in terra.

Buona lettura

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E DI MAIO CONSEGNO’ L’ITALIA A SALVINI

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Ora che la crisi di governo è stata ufficialmente aperta da Salvini che, giustamente, non vede l’ora di capitalizzare la vittoria alle europee e sfruttare l’onda emotiva che scuote il paese a suo favore, come tra l’altro  affermerebbero i sondaggi che danno la Lega tra il 38/40% se si andasse a votare oggi, non resta che ringraziare Di Maio & c. se tra qualche mese ci ritroveremmo Salvini a Palazzo Chigi, e tutta una serie di Ministri, vice Ministri e Sottosegretari targati Lega a occupare le poltrone dei vari dicasteri. Ma soprattutto se ci ritroveremmo un paese diviso letteralmente in due tra nord e sud. Dove economicamente il nord primeggia e il sud boccheggia sempre più!

A chi come me aveva ingenuamente creduto nel M5S, non resta che fare mea culpa per averli votati.

Non è mai bello dover ammettere di aver preso una cantonata. Mi consola il fatto che in tempi non sospetti, precisamente il 2 aprile 2018, esattamente un mese dopo la clamorosa vittoria dei 5S alle politiche, quando solo si ventilava la remota possibilità che si formasse un’alleanza di governo 5S/Lega, sul mio blog scrissi una lettera aperta a Luigi Di Maio in cui palesavo i miei dubbi su una simile eventualità. Auspicando perfino un’alleanza con il PD, ma mai una con Salvini che del sud e del suo popolo ne aveva dette di cotte e di crude per poi magicamente illuminarsi sulla Via di Damasco, chiedendo scusa. Allargando il proprio bacino elettorale anche al mezzogiorno, ricavandone impensabili, per me, consensi.

In quella mia lettera a Di Maio, dopo aver espresso i miei dubbi e perplessità, concludevo: “Egregio Onorevole Luigi di Maio, un’alleanza con il Pd (di Renzi n.d.r.), seppure soffrendo, la potrei anche accettare. Una con la Lega proprio no. A quel punto, alle prossime elezioni, mi sa che anch’io farò parte del partito degli astenuti!”

A distanza di  un anno e mezzo, visto nel frattempo come è degenerata la situazione politica italiana, ritengo che attualmente  l’unica cosa che non debbano fare le persone di buon senso sia quella di astenersi dall’andare a votare alle prossime elezioni.

Così come un’inattesa affluenza di votanti bocciò la riforma costituzionale targata Boschi/Renzi, non è escluso che il partito degli astenuti, tuttora maggioranza relativa nel paese, non decida di turarsi il naso e tornare a votare per mandare all’aria i piani di Salvini.

Perché ciò avvenga non credo occorra la nascita di un nuovo soggetto politico che catalizzi su di sé i voti degli astenuti. Basta che tra gli attuali partiti presenti in Parlamento qualcuno di loro abbia il coraggio di liberarsi dalla zavorra che lo “blocca” nelle decisioni politiche, mettendo alla porta chi, pur non ricoprendo più il ruolo di Segretario, continua a volersi comportare come tale, spezzettando il partito, alimentando continue bagarre interne.

Se questo partito, alias il PD, avrà la forza di scucirsi da dosso una volta e per sempre il marchio Renzi, non è impensabile che il suo simbolo possa risultare polo d’attrazione per quei milioni di italiani che, delusi dalla politica, da anni non vanno più a votare. Ma lo fecero per bocciare la riforma costituzionale  varata, guarda caso, proprio dello statista di Rignano sull’Arno!

Per quanto riguarda il M5S, la cui palese incapacità a governare sta portando Salvini a Palazzo Chigi, non basterà certo il ritorno in campo di Di Battista per fargli riacquistare credibilità da parte dell’elettorato!

Di Battista è un ottimo arringatore di masse. Seppure riuscisse a evitare l’estinzione del movimento, risollevandone le sorti politiche,  è ormai evidente che le urla e i sit in vanno bene solo quando si è all’opposizione, per governare ci vuole ben altro! Se, come pare, Di Battista vuole riproporre nel M5S lo spirito delle origini, quello dei famosi vaffa per intenderci, tacitamente sta affermando che mai i 5S andranno al governo. In quanto, come si è visto, governare significa mediare, anteporre gli interessi dell’alleato di governo ai propri. A meno che alle prossime elezioni il M5S non riuscisse a prendere da solo oltre il 50% dei consensi. Un’utopia!

Se è vero che molte leggi  varate dall’attuale governo portano il marchio 5S, è altresì vero che in momenti determinanti i 5S sono venuti meno ai loro ideali, lasciando perplessi i propri elettori, attivisti e perfino alcuni rappresentanti parlamentari: no alla richiesta all’autorizzazione a procedere su Salvini per la vicenda Diciotti; approvazione del Decreto Sicurezza bis che punisce chi salva vite in mare; delegare al Parlamento la decisione sulla TAV, non facendo cadere il governo nel momento in cui la Lega era per il Sì e i 5S per il NO.

Un partito che si dichiara apertamente anti-sistema non può dare l’impressione d’essere a sua volta inchiodato alla poltrona. Un partito che afferma di voler aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, non può apparire a sua volta immischiato in squallidi giochi di potere.

Dispiace dirlo, Di Maio non si è dimostrato all’altezza della situazione: ha reso il movimento succube di Salvini, lasciando che l’alleato lo corrodesse fino al midollo per poi svilirlo!

All’indomani della debacle delle europee, quando il M5S dimezzò i voti rispetto alle politiche mentre la Lega li raddoppiò, il capo del movimento avrebbe dovuto avere un sussultò di dignità e dimettersi. Restare alla guida del movimento malgrado la disfatta, delegando a poche migliaia di iscritti sulla piattaforma Rosseau la decisione di restare o meno alla guida del movimento, è stato un gesto con cui ha dimostrato quanto poco conto tenesse dell’opinione dei milioni di elettori che lo avevano prima votato e poi voltato le spalle.

Oggi sulla schiena di Di Maio pende una responsabilità non da poco. Se Salvini dovesse andare al governo, dando una virata estremamente a destra al paese, spaccandolo in due tronconi con conseguenze tristemente prevedibili per il sud, sarà perché  Di Maio è voluto andare a ogni costo al governo con la Lega, quando lui stesso il 17 giugno del 2017 a “Porta A Porta” lucidamente affermava: “Io sono del sud. Faccio parte di quella Italia a cui la Lega diceva VESUVIO LAVALI COL FUOCO. Io non mi alleerò mai con la Lega“.

Magari si trattava di una controfigura!?…

 

L’ULTIMA NOTTE

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Di seguito i primi due capitoli de L’ULTIMA NOTTE in vendita su Amazon

 

Prologo

 

Dal ripiano del tavolo, la lampada illuminava l’interno della capanna, proiettando sulla parete l’ombra del vecchio pescatore intento a  scrivere su un quaderno. Avvolto in una nuvola di fumo che gli usciva dalle narici, con le ciglia corrucciate rilesse, schiacciando sulle assi del pavimento il mozzicone di un sigaro.

” L’amore ha il potere di fissare il passato in eterno presente.”

Trasse un profondo respiro. Chiuse il quaderno e si alzò, avvicinandosi alla finestra dove, da dietro ai vetri graffiati dalla pioggia, imperversava la tempesta.

Un fulmine tracciò nell’aria una scarica luminosa che squarciò le tenebre, illuminando, in lontananza, il mare ingrossato infrangersi sulla scogliera sottostante. Seguì l’assordante boato di un tuono. Da dietro alla capanna, Julab, il suo cane, prese ad abbaiare. Sorrise pensando all’animale con cui da tempo condivideva la solitaria esistenza.

Da una vita viveva in quella capanna, mai aveva assistito a una burrasca tanto violenta.

“Forse è un segno”, pensò. E, scrollando il capo, allontanandosi, si andò a sdraiare sul letto affiancato alla parete su cui si apriva la finestra.

Con le mani dietro alla nuca, fissava il soffitto da cui giungevano i rumori delle tegole tormentate dal vento e dalla pioggia. Un tuono, più fragoroso del precedente, inondò la capanna. La struttura di legno e lamiera vibrò, al punto che le stoviglie appese al muro caddero al suolo in maniera assordante.

Percependo il freddo entrargli nelle ossa, l’uomo si infilò sotto la coperta, rannicchiato nel tentativo di scaldarsi.

La fiammella della lampada cominciò ad affievolirsi.

Si alzò per raggiungere la mensola su cui erano disposti, ordinatamente, un rasoio, un pennello da barba, dei libri ammonticchiati l’uno sull’altro, una vaso di terracotta e una rudimentale clessidra che aveva costruito da giovane, unendo e strozzando con la pece i colli di due bottiglie, dopo averne riempita una a metà con la sabbia. Da dietro al vaso ne prese una più  corta, rivestita di uno spesso strato di polvere e ragnatele, in cui vi era dell’olio. Quindi si avvicinò al tavolo e prese da un cassetto una candela e una scatola di cerini. Accese la candela, versò un po’ di cera sul tavolo e la fissò. Assicurandosi così la luce mentre cambiava il combustibile alla lampada. Accese un altro fiammifero, accostandolo allo stoppino, manovrando con sapienza il regolatore della fiamma per sprigionare un fascio di luce pulita.

Con un soffio spense la candela riponendola nel cassetto.

 

La tempesta, intanto, aumentava d’ intensità.

Preoccupato, ritornò alla finestra, per accertarsi che Julab se ne stesse al riparo nella cuccia. Appoggiò il naso sul vetro, nel tentativo di sconfiggere il fitto velo di pioggia che rendeva impossibile distinguere quanto accadeva fuori in quel momento.

Lo spegnersi della lampada gettò la capanna nel buio.

“Accidenti.”, borbottò, raggiungendo il tavolo per prendere i cerini. Ne trovò un paio, accatastati di fianco alla lampada e ne strofinò  uno sul ruvido del pavimento. L’ umidità del legno vanificò ogni tentativo.

– Perché ti ostini ad accendere? -, domandò una voce alle sue spalle.

Un bagliore rischiarò il sorriso sul volto dell’uomo. Si girò in direzione della voce per vedere a chi apparteneva, ma un’ improvvisa pesantezza agli occhi lo costrinse a chiudere le palpebre. Quando le riaprì, un’ombra indistinta, nebbiosa era lì alla finestra.

– Allora. Cosa aspetti? -, domandò, tracciando dei segni sul vetro opaco. Segni che sembravano rivolti al mare.

Nella mente del vecchio, i ricordi di un passato lontanissimo tornarono  a ravvivarsi con frenesia.

 

I

 

Il sole, alto nel cielo, generava riflessi cristallini sul mare che circondava l’isola, simile a una collana di perle. I raggi illuminavano le case basse, esaltandone i colori pastello.

Dalle finestre aperte, l’astro entrava nelle case riscaldando ogni angolo. Nell’ aria l’accattivante aroma della primavera accarezzava le creature col suo dolce tepore, inducendole ad amarsi. Nulla e nessuno sapeva resistere a quella malia.

Tutta la natura si crogiolava nell’ebbrezza dell’abbraccio creativo.

Maschi e femmine giocavano a un perpetuo rincorrersi e sfuggirsi, per  ritrovarsi, rapiti dall’oblio dell’estasi amorosa.

Approfittando della splendida giornata, i suoi genitori decisero di uscire in barca per andare a pesca. Kayfa rinunciò, perché aspettava Raoul con il quale si doveva allenare per la gara di nuoto che si sarebbe svolta tra due settimane.

Udendo il battente picchiare alla porta, convinto che fosse l’amico, uscì dal bagno. Andò ad aprire senza la preoccupazione di coprirsi.

Sull’uscio, avvolta in un coloratissimo pareo, e con un braccio infilato in un cesto colmo di frutta, c’era Miryam, un’amica della madre. Una donna splendida, nel pieno della sua maturità. I capelli, neri e setosi, le scendevano lungo la schiena fino ai glutei. Sotto il delicato indumento, il suo corpo sinuoso, dalle generose forme, svettava armoniosamente al sole, offrendo al calore dei raggi la robustezza e la fragranza dei seni color pesca. Il viso della donna, anch’ esso rischiarato dal sole, era privo di trucco.

Kayfa restò per qualche istante confuso.

Quando si accorse che lei l’osservava con interesse, per nulla imbarazzata da quella situazione, d’istinto si portò le mani tra le gambe per celare le proprie nudità.

Intenerita da quel gesto, gli sfiorò il viso con una carezza.

– Mi scusi –   balbettò , visibilmente turbato.

La donna scosse il capo, lasciando intendere che non doveva preoccuparsi.

– Posso entrare? –   domandò, continuando ad accarezzargli la guancia con la mano.

– Mamma non è in casa – fece con voce tremante.

– Non fa niente – rispose, avanzando sulla soglia. Una volta entrata, gli fece cenno di chiudere la porta, scivolandogli con la punta delle dita lungo il collo, fino a sfiorargli il  torace glabro e muscoloso. Soffermandosi a solleticargli i capezzoli che avevano assunto il caratteristico tono violaceo dell’eccitazione.

Il corpo del giovane  era tutto un fremito mentre la donna, che nel frattempo si era liberata del cesto poggiandolo su un tavolino al centro della sala, gli  massaggiava con voluttà il petto, passandogli, di tanto in tanto,  una mano tra i capelli bagnati.

– Ora sono qui per te – gli sussurrò in un orecchio, mordendogli il lobo, sorridendogli maliziosamente. In quell’istante, Kayfa comprese che stava per diventare uomo.

 

Le gambe presero a tremare e le viscere a rivoltarsi nell’addome.

Cercò nei meandri della mente qualunque cosa potesse tornargli utile per mascherare la propria inesperienza.

Come d’abitudine per i ragazzi della sua età, ascoltava con interesse i discorsi dei più grandi relativi al sesso, in modo da farsi una cultura a cui poter attingere al momento opportuno onde evitare figuracce.

Il momento era giunto.

– Allora, cosa aspetti? –  chiese lei con voce sommessa, slacciandosi il pareo e fissandolo intensamente con due occhi neri e scintillanti. Offrendo al suo sguardo intimorito lo splendore naturale del suo corpo maturo.

 

” La stringi forte tra le braccia e la baci lungo il collo, mentre con le mani le sfiori i fianchi.”, ricordava aver sentito dire da qualcuno.  “Quando la baci, appoggi delicatamente le tue labbra sulle sue, schiudendole in modo che le vostre lingue si incrocino, è bellissimo!”, aveva sentito da qualcun altro. Ma la cosa più importante l’ascoltò da Omar, il pescatore di spugne con il quale spesso si fermava a dialogare. Facendosi coraggio, una mattina, approfittando che Omar gli stava raccontando delle proprie avventure amorose da giovane, aveva trovato la forza di chiedergli cosa bisognava fare quando si incontrava una donna per la prima volta.

“Non preoccuparti figliolo”, lo rassicurò. “Quando anche per te giungerà il momento, lasciati guidare dal cuore. Ma, soprattutto, lascia che a guidarti sia lei, chiunque essa sia. Le donne imparano presto e sanno essere delle maestre giudiziose. Non ti preoccupare e sii naturale. Solo così potrai essere certo che tutto andrà bene. Voler apparire ciò che non si è nella vita si risolve sempre contro noi stessi”.

 

Adesso, quelle parole gli ritornavano in mente, fissando Miryam che si accostava a sé con il suo corpo profumato di mare al suo, desiderosa di essere posseduta. Accarezzandolo tra le gambe al fine di stimolarne la virilità, ridotta a un pezzetto di carne raggrinzita.

Intuendo che per lui quella era la prima volta, Miryam tramutò se stessa in vergine, riacquistando spiritualmente la purezza donata in gioventù a un uomo che, dopo averla sposata, regalandole l’illusione dell’amore, successivamente, alle morbide onde del suo corpo aveva preferito quelle fredde del mare. Abbandonandola a un solitario destino su quell’isola, su cui, per vivere, era stata spesso costretta a cedere  alle lusinghe di quanti smaniavano di giacere con lei. Nutrendo un profondo rancore verso la vita che si era mostrata così crudele nei suoi confronti, privandola della madre, morta nel darla alla luce, e poi del padre, scomparso in mare durante una tempesta quando non aveva ancora un anno. Costringendola a vivere con la nonna materna fino al giorno del matrimonio, e in seguito da sola.

L’unica persona che non l’aveva mai abbandonata, niente affatto preoccupata della fama che l’accompagnava, era la madre di Kayfa.

 

Appassionatamente, senza tregua, si amarono fino a che i contorni dell’ orizzonte assunsero il tono purpureo del tramonto, ora in cui i pescatori rientravano.

Ravvivandosi i capelli con le mani, Miryam si alzò dal pavimento che aveva funto da giaciglio.

Nella stanza, il profumo dei loro corpi si mischiava a quello del mare proveniente dalla finestra, con la tenda di paglia prudentemente abbassata per evitare che sguardi indiscreti sorprendessero la loro intimità.

Un solo momento di panico li aveva colti: quando Raoul bussò con insistenza alla porta.

* * *

– Mio Dio. E’ Raoul – gemette Kayfa, nell’udire la voce dell’ amico gridare il suo nome –  Dovevamo andare ad allenarci -, aggiunse con espressione sognante, risultato delle carezze e dei baci con cui Miryam lo stordiva cavalcandogli il ventre.

– Lascia che bussi – mormorò estatica, riversando la cascata di capelli corvini sul viso di lui che accennò a un timido moto di ribellione per divincolarsi dalla stretta. Sortendo, invece, l’effetto di accrescere l’eccitazione di entrambi fino al culmine del piacere.

II

 

I raggi del sole attraversavano le liste della tenda, proiettando sul corpo di Miryam tanti punti luminosi, dando l’ impressione che la sua pelle fosse maculata al pari di un leopardo.

– Sei bellissima – fece Kayfa, steso sul pavimento con le mani giunte   dietro la nuca, ammirandola riavvolgersi nel pareo.

– Anche tu – rispose, accostando la punta dell’indice alle labbra. Posandola, quindi, su quelle di lui, in un ipotetico bacio.

– Quando ci rivediamo? – chiese Kayfa, sedendosi sul pavimento con le gambe incrociate.

– Al più presto – rispose, passandosi le mani lungo i fianchi perché l’indumento aderisse ai lineamenti del suo corpo – Adesso devo andare – aggiunse, chinandosi a baciare sulla fronte il giovane amante.

– Quando ci rivediamo? – chiese nuovamente Kayfa, balzando in piedi e afferrandole i polsi, preoccupato di non farle male.

Sorridendo, Miryam accostò le labbra alle sue:

– Domani alle quattro – sussurrò – Vicino allo “scoglio dei gabbiani” – E lo baciò con passione prima di avviarsi verso la porta. Aprendola, dopo essersi assicurata che non sopraggiungeva nessuno.

 

– Allora, come è andata? – chiese sua madre, entrando nella stanza dove  Kayfa, seduto sul letto, leggeva un libro.

– Non tanto bene – mentì, continuando a fissare le pagine aperte.

– Che significa “non tanto bene”? – chiese, baciandolo sulla fronte – Tu e Raoul avete per caso litigato? –  e si sedette sul bordo del letto in attesa di spiegazioni.

– Ho avvertito un malessere – continuò a mentire, chiudendo il libro e cercando di sfuggire lo sguardo perplesso con cui la donna lo fissava.

– Mio Dio – esclamò allarmata, prendendogli tra le dita il mento per osservare il viso – Hai un’aria affaticata – ammise. Istintivamente allungò la mano sulla fronte per controllare se avesse la febbre – E cosa ti sei sentito? –  riprese, tranquillizzata dal fresco percepito sui polpastrelli.

– Mal di stomaco – Kayfa sentì il sangue affluirgli alla testa per la rabbia e la vergogna che provava in quel momento. Prima di allora non aveva mai mentito a sua madre.

– Cosa hai mangiato questa mattina a colazione? – incalzò lei.

– Tè e biscotti – si affrettò a rispondere.

–  Evidentemente ti avrà fatto male qualcosa che hai mangiato ieri sera a cena –   concluse. E si alzò per avviarsi presso la finestra spalancata sulla baia, da dove giungeva il frinire delle cicale.

Le stelle bucavano il terso cielo della sera. Si appoggiò con le mani al davanzale per ammirare il panorama.

– E’ stata una splendida giornata – sospirò.

In lontananza, un peschereccio illuminato lanciò un “urlo”.

– La pesca è stata abbondante e tuo padre è ancora giù al porto per trattare il prezzo del pesce. Non immagini quanto sia felice.   .

– Sono contento – sorrise Kayfa portandosi al suo fianco.

– Ho visto sul tavolino dell’ingresso il cesto per la frutta che avevo prestato a Miryam. Quando è passata? – domandò, sistemandosi la gonna sul davanti.

Kayfa si sforzò di controllare l’imbarazzo che provava – Questa mattina, sul tardi – rispose deglutendo.

– Miryam è una carissima ragazza – sorrise lei – Peccato non sia stata baciata dalla fortuna. Non è cattiva come dicono, sai? – concluse, uscendo dalla stanza.

– Sì mamma – mormorò, rivolto all’arco d’argento che si stagliava nel cielo.

 

Distesi sul bagnasciuga, i corpi nudi di Miryam e Kayfa, travolti dalla passione, erano in balia delle carezze del mare.

Di tanto in tanto un gabbiano planava sullo spuntone di roccia lavica, dietro cui si erano dati appuntamento il giorno prima, per librarsi in volo  appena posava lo sguardo sulla strana creatura a due teste che si dimenava nell’acqua con degli strani suoni  gutturali.

Scossi dalle convulsioni dell’amore, i due amanti si fissavano con occhi sbarrati. Le mani intrecciate in una stretta morsa, che si allentò nell’ attimo in cui il flusso umorale defluì dai canali naturali, disperdendo nel vento l’acuta nota dell’ incanto d’amore.

 

– E’ stato splendido – sussurrò Miryam, sdraiata su di un fianco nell’ acqua, scorrendo con la punta delle dita i tratti acerbi di lui.

Immerso con la schiena nel ribollio della risacca, Kayfa ammirava le evoluzioni di un gabbiano. Udendo quelle parole, rivolse lo sguardo a Miryam che lo fissava con un dolce sorriso su cui si stemperavano gocce di mare, passandole una mano tra i capelli bagnati intrisi di sabbia e salsedine.

– I tuoi capelli hanno bisogno di una sistemata – mormorò.

La donna esaminò con cura una ciocca.

– Che importa – dichiarò divertita. Con impeto si gettò su di lui, abbracciandolo in modo che le loro guance si sfiorassero.

Da lontano, smorzati dal mare, giungevano gli echi delle voci dei pescatori che issavano le reti.

– Sei felice? – chiese Miryam con un sorriso, sfiorandogli l’orecchio con le labbra.

– Tanto. E tu? – le domandò tenendosi sui gomiti e fissandola con intensità negli occhi.

–  Abbastanza –  ammise lei, dopo un istante di riflessione.

–  Come abbastanza? – scattò preoccupato.

– Stupido – rise – Certo che sono felice – E spingendolo con la schiena nell’ acqua, lo baciò con passione.

Ancora una volta, i loro corpi si intrecciarono nei sussulti dell’amore. Questa volta fu Kayfa a sottomettere la natura di lei. Miryam lo lasciò fare, desiderosa di essere schiava del suo ardore, gemendo di piacere  all’ardire con cui il giovane le violava l’ intimo. L’apice li travolse all’unisono. Le labbra, unite in un caloroso bacio, trasfusero nelle loro anime l’armoniosa melodia che si levò dall’ esaltazione dei sensi. I cuori vibrarono in un ritmo assordante che si placò allorché l’ultimo sussulto di piacere scosse i due amanti.

Esausti, si accasciarono felici nell’acqua cristallina.

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FOLLIA DIVINA

Il tempo era sospeso nella staticità virtuale dell’amalgama divina.

La notte e il giorno, il bianco e il nero, la vita e la morte, l’uomo e la donna confusi nell’edenico androgine primordiale, languivano nel lattiginoso guscio, amebiche presenze dalle indistinte trasparenze del tempo che fu.

Nella sua infinita grandezza il supremo demiurgo impugnò la spada infuocata e squarciò il velo di tenebra con rilucenti lampi, fendendo violentemente la placenta dalla cui ferita le acque materne si riversarono nell’infinito spazio partorendo il cielo e la terra, alterne patrie dell’umana stirpe. Capriccio creativo di un Dio che nell’esaltazione parossistica della creazione decretò l’inizio della fine.

È compito nostro, uomini morsi dalla serpe della conoscenza, di arrestare lo scempio che la divina illusione va compiendo. Stretti nel gelido abbraccio della solitudine, amica fedele che ovunque ci accompagna, ci libriamo oltre le nuvole in un sonno purificatore, mentre gli ufficiali delle angeliche legioni ci armano di lancia e spada unguendoci la fronte di olio benedetto per rafforzarci nello spirito, indicandoci il sentiero da seguire per raggiungere l’esercito celeste per unirci a esso in battaglia contro il demone dell’illusione che dalle sue fetide fauci alita le fiamme del desiderio, causa primaria dell’eterno male.

Lo sprofondare improvviso in un pozzo nero e senza fondo, da cui esala il fetore degli innumerevoli cadaveri in putrefazione, stordisce gli spiriti più deboli, distogliendoli dalla sacra battaglia. Arricchendo quelli che a esso sanno resistere, concedendo loro di trovare la risposta al perché della vita; scatenando le loro menti lungimiranti in evoluzioni pindariche fino a condurle agli estremi limiti dell’universo, catapultandole verso il sacro fuoco che arde al centro del firmamento.

Aquila splendente dalle dorate piume, l’anima si invola incontro all’astro del giorno ad ali spiegate. Al suono di invisibili trombe, avanza verso il magnete di fuoco dando l’impressione di volerlo sfidare per usurparne il trono. Imperatrice altera di uomini senza nome e senza volto, sferza l’aria con le ali stringendo negli artigli una pergamena intrisa di sangue su cui spiriti ribelli a un’esistenza formale hanno stretto un patto con Dio implorandone il soccorso onde concedesse loro, umili servitori, il privilegio di varcare la soglia del tempio per bere dalla Sacra Coppa l’acqua dell’eterna giovinezza che fino e poco prima ristagnava nei loro cuori dormienti di pecore al pascolo alla guida del pastore.

Risvegliandole, il Signore Dio beatificò le loro anime ricostituendo l’unità originaria, restituendo all’uomo la sua funzione di nucleo primordiale da cui infiniti raggi si diramano ad intrecciare quelli di altri nuclei, formando una sottile catena di anime senza tempo e senza luogo da cui l’anima dei mondi si fonde in un abbraccio mortale, sintomo del passaggio di stato in cui tutti incorriamo per riposarci dall’immane fatica che l’edificazione della babelica torre richiede per l’illusorio incontro con Dio un giorno che fu, che è, che sarà.

Ciò mai accadrà perché Dio si espande nell’evoluzione delle coscienze: più le coscienze evolvono, più Dio si allontanerà da loro perché Egli si nutre dei frutti che le coscienze hanno seminato e raccolto in terra in un susseguirsi esistenziale che da Adamo in poi si protrae all’infinito, vita dopo vita.

Il pianto del neonato partorito dal ventre della donna è il segnale che un nuovo mondo è sorto per servire Dio nell’estenuante opera di sutura della placenta primordiale da cui si riversano le acque della creazione seminando morte e distruzione, ma anche gioia a amore!

Erranti cavalieri in groppa ad alati destrieri sorvoliamo le lattee vie con iperboliche traiettorie, viaggiando da un sogno all’altro guidati dalla rilucente cometa la cui iridescente coda accarezza la fulva criniera dell’immortale Pegaso, l’inesauribile stallone astrale che, teso nel compimento dello sforzo creativo, sparge nel vuoto cosmico il fluente seme, affidandolo al soffio divino affinché lo vivifichi con l’inestinguibile fuoco della passione, alimentato dalla lussuriosa danza di Venere che incendia le anime fino a ridurle in cenere che Borea, il vento astrale, disperderà nell’infinità del tempo.

Allorquando l’alato mito placa l’impeto creativo, un mare celeste si estenderà sotto di sé. Vele gravide lo fenderanno con briosa schiuma, piroettando tra le onde in allegre rotte serpentine disegnate da timonieri millenari.

All’orizzonte vette piramidali, eternamente imbiancate, sfiorano il cielo regalando l’incantevole scenario di un’alba senza tempo, nella vibrante attesa che essa sorga dentro di noi liberandoci dell’alternanza temporale giorno/notte, connubio vitale con cui un demone malvagio ha ingannato l’umanità intera, schiavizzandola a sé con l’ammaliante canto di splendide sirene bramose di fondersi in spossanti amplessi al fine di depredare l’umanità del gene creatore, estinguendo la fiamma che rischiara le tenebre dell’eternità.

L’ansante ritmo dei corpi fusi nell’ancestrale unione generativa dà vita a un suono muto le cui vibrazioni, in un crescente di sensuali movenze, sfociano nell’apicale nota del piacere, riunendo disciplinatamente le particelle cosmiche sparse nell’universo in formea dalle labili consistenze che si lasciano risucchiare nella spirale ombelicale per essere seppellite nelle viscere della terra da cui germoglieranno in consistenza materiale, azione combinante dei geni elementari sul tratteggio pentagrammato che antiteche polarità imbastiscono nell’orchestrale unione dei sensi.

Sfibranti orgasmi consumati nell’orgiastica visione di volti e corpi trasfigurati dall’accattivante piacere umorale intrisi di sudore; gli occhi levati al cielo nell’estatica visione di un dio incarnato, sacrificato sul vegetale intreccio infisso sul teschio bagnato dal sangue purificante che fuoriesce dai cardinali punti corporali, mentre un tremendo boato sentenzia l’imminente cambiamento di stato di colui che sacrificò se stesso per salvare l’umanità corrotta e ingrata.

Schiavi dell’ipocrita pentimento affondiamo il viso nello sterco, consapevoli delle pesanti colpe commesse verso colui che si lasciò uccidere per donarci la vita eterna. Mai domi di peccare, a frotte accorriamo alla corte di un’acerba meretrice che offre le proprie grazie solo per il gusto di sentirsi padrona di un branco di caproni instupiditi dal suo fiore nascosto che sbuffano frementi di appagare l’incontenibile desiderio che la sua visione suscita in loro. Ipocrite vipere, moralizzatori da strapazzo, sprofondano stancamente in un sofà sviliti della sovrana dignità che un tempo fu loro concessa, lasciando che lo scettro della creazione penda  mestamente tra le loro gambe, incapaci di resistere alla maliziosa concubina che astutamente ha svelato la loro animica lordura.

Nell’alchimia dei sensi le menti incontrollate evocano mostri, rifiuti astrali la cui gioia distruttiva trova il proprio appagamento nella furia assassina di coloro che si credono comandanti, condottieri, imperatori, ma che in realtà sono inconsapevoli strumenti alle direttive del mostro satanico il quale, nell’inaccettabile sconfitta, si doma con fameliche offerte dall’amaro sapore dell’ingiustizia e della crudeltà, illudendosi di sconfiggere Dio di cui a sua volta è inconsapevole strumento per il raggiungimento della perfezione in terra.

Intrepidi argonauti alla ricerca del Vello d’oro, sondiamo l’infinito esplorando le sferiche stazioni dove creature angeliche e infernali si affrontano nell’estenuante lotta tra bene e male da dove nessun vincitore risulterà essendo l’alternanza alba a tramonto condizione imprescindibile per la vita.

Come accade nell’ermetico caduceo, dove le serpi si intrecciano in un recondito messaggio iniziatico, solo chi riuscirà ad annientare il veleno inoculatogli dai morsi traditori dell’odio e dell’amore, restando immune da dolori e gioie, un giorno godrà le angeliche visioni indotte dall’estasi della piacevole unione.

Il sei, numero bestiale, giorno della creazione umana, è l’eccellente tomo dell’infinito libro in cui le ventidue lettere della kabbala ebraica assumono toni figurativi, esplicando alle ansiose menti avide di sapere il misterioso arcano della creazione; ingiungendo a coloro che per volontà divina cavalcano le onde dell’ascetica visione d’essere avveduti nell’incedere nei corridoio del labirintico sentiero, ponendo attenzione ai fallaci impulsi che il vizio e la virtù animano in essi all’apparire di ninfe e pellegrini stanchi.

Allegri menestrelli di favolose storie, principi fate streghe maghi stregoni per noi son solo tracce dell’infantile natura che alberga nei nostri cuori infiammati di desiderio dall’immacolato spirito del primitivo istinto immaginativo. Seduti alla rotonda tavola banchettiamo ammirando il RE e la Regina tenersi per mano sorridenti. Cortesi personaggi dal principesco rango levano al cielo la sacra coppa  intonando un osannante canto.

Seduto sul cubico trono l’imperiale protagonista accoglie nel proprio castello ambasciatori di popoli lontani giunti nelle avalloniche pianure per testimoniare al sovrano la fedeltà di genti dimenticate che attendevano il salvatore per ritornare a vivere in pace e libertà. L’orso sornione dorme profondamente in attesa che l’uomo baci la sua sposa, risvegliando il canto d’amore sopito nel proprio cuore. Soave sinfonia che ravviva il ricordo di un aureo passato dove gli uomini vivevano tra loro in biblica fratellanza,  punti fermi di nature amorfe dove razza, ceto e colore della pelle erano insignificanti particolari che non lasciavano traccia.

Tinti d’azzurro il cielo , di verde i prati, di arancio l’alba, di rosso il tramonto, l’Eterno artista dette un saggio della propria abilità separando tra loro suoni e colori, dando vita alla determinatezza dell’essere. Ma quando comprese la pericolosità della dualità, cercò di unificarla nell’unità della creazione assegnando a ogni cosa un ruolo distinto.

Purtroppo lo strappo inevitabile del due dall’uno fu solo rinviato con quello del due dal sei quando l’umana natura vide il giorno, dopo aver vissuto a lungo nel buio placentare. L’alternanza fuggente tra luce e tenebre obbligò alla natura interna di separarsi da quella esterna. Fu così che nacquero l’uomo e la donna, l’uno figlio del sole l’altra della luna, che nelle alterne eclissi copulari intervallano il dominio del bene e del male su questo mondo, trafiggendo l’umanità con la lancia della vita che trapassò l’evangelico costato per svelare il succo dell’eternità che parla il muto linguaggio dell’amore.

Parole, solo parole bastarono a Dio per creare il tutto. Dal semplice “dire” un complesso ordinamento cosmico si andò formando dal caos dell’unità primordiale. Dall’uno nacque il due, dal due il tre, dal tre il quattro, dal quattro il cinque, dal cinque il sei, dal sei il sette, dal setto l’otto, dall’otto il nove.

Per giungere al nove si deve attraversare tutto l’ordinamento universale in quanto la legge impone che solo chi ha percorso, tappa dopo tappa, il periglioso cammino esistenziale, possa poi proseguire sul sentiero decimale, livello successivo a cui seguirà il ventennale, poi il trentennale e così via, fino a perdersi nell’infinito non essendo prevista una fine in quanto l’uomo, riflesso divino in terra, è illimitato e immortale al pari di Dio!

Solo il corpo, corruttibile strumento di cui l’uomo è stato dotato per viaggiare in eterno  nelle infinità siderali, si arrende alla morte. L’essenza dell’uomo, l’anima, mai perirà. Vita dopo vita, essa rivestirà forme diverse per esperimentare nuove forme di vita, assimilando continue conoscenze, nell’illusione di poter un giorno incontrare Dio. Ma dal quale paradossalmente si allontana, man mano che acquisisce consapevolezza perché l’evoluzione della coscienza umana è il nutrimento che consente a Dio di espandersi sempre più!

Se per molti il tempo rappresenta un insignificante aspetto del ritmare del respiro divino, per chi anela all’incontro con Dio, estrema salvezza alla terrificante incomprensione della vita e della morte, le mortali tappe simboleggiano il giusto premio alle sofferenze patite in vita; il mezzo necessario per comprendere ciò che è giusto da ciò che non lo è: la verità e la falsità hanno spesso aspetti indistinti, difficili da capire se non si conosce la volontà di Dio che nella sua opera creatrice ha manifestato come tutto sia  racchiuso in Lui e Lui sia in tutto racchiuso.

Dimostrando così quale folle irrazionalità abbia originato  il creato: Follia Divina!

 

Vincenzo Giarritiello

INCIPIT DEL MIO PROSSIMO ROMANZO

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Di seguito l’incipit del nuovo romanzo che spero di pubblicare per la fine dell’anno. 

PROLOGO

All’orizzonte il tramonto srotolava sul mare un tappeto di stelle. L’ombra del promontorio spruzzato di viti si stemperava sull’acqua increspata dallo zefiro. L’incanto del sogno, frammisto all’aria fragrante di sale e agrumi, spingeva le barche, dalle vele ingravidate dal vento, oltre i limiti del mondo.

Avanzando a piedi nudi sulla battigia, il ragazzo osservava le onde inseguirsi sul mare come pagine di un libro sfogliate velocemente, da cui sciamavano nella sua mente desiderosa d’emozioni leggendarie città, continenti scomparsi o lontani, civiltà misteriose, uomini senza scrupoli, maghi bianchi e neri, donne prodighe d’amore. Ciononostante, un’arcana forza lo legava alla collina che s’innalzava alle proprie spalle.

Tutte le mattine scendeva sulla spiaggia a mirare le imbarcazioni dirigersi verso l’ignoto. Quando il fischio del treno si levava attraverso la vegetazione che ammantava l’altura, un sorriso amaro ne feriva il volto.

Una sera, mentre rientrava a casa, salendo il sentiero che conduceva al podere di famiglia, trovò una stella marina. Rigirandola a lungo tra le mani, pensò fosse il destino d’ogni creatura che sfuggiva al proprio mondo inaridirsi fino a morirne. Quel pensiero accrebbe in lui la rabbia. Di slancio si girò e gettò la stella nel vuoto in direzione del mare.

Osservando i propri sogni dissolversi nell’aria, si chiese se un giorno li avrebbe ritrovati…

CAPITOLO I

Il treno a diesel, sferragliando, si arrestò sui binari della piccola stazione di campagna. Impaurito dallo stridore dei freni, uno stormo di tortore schizzò via in volo dagli alberi.

Sul margine del marciapiede assolato lo attendeva il capostazione dal viso tondo e gioviale da cui si effondeva un profondo senso di tranquillità, prerogativa di quanti vivono in luoghi ameni e nelle cui anime sembrano trasfondersi la purezza e la leggerezza della quieta atmosfera che respirano.

Il ferroviere, impettito nell’uniforme di stoffa leggera colore del cielo all’imbrunire che pareva essergli stata cucita addosso, osservava l’uomo, la donna e il ragazzo con lo zaino sulle spalle uscire dalla sala d’attesa per raggiungere l’ultima carrozza.

– Abbi cura di te! – sospirò la donna, guardando con tristezza il figlio aprire lo sportello. Gli occhi verdi, resi umidi dall’emozione, scintillavano al sole come gemme preziose.

– Non temere, mamma – la rassicurò – Appena arrivo ti chiamo – aggiunse tirando fuori dalla tasca dei pantaloni il cellulare.

– Allora, hai deciso dove andare? – chiese il padre fissandolo negli occhi.

– Deciderò strada facendo – rispose pensieroso, abbassando la maniglia.

Il ragazzo assomigliava in maniera impressionante alla madre, tuttavia il tratto degli occhi ricalcava il disegno paterno.

– Qualunque cosa ti accada, ricorda che potrai sempre contare su di noi! – disse l’uomo, dando l’impressione di pronunciare quelle parole per pura formalità.

– Non temere – mormorò lui, spingendo con rabbia lo sportello. – Non mi accadrà nulla di spiacevole!

– Lo spero! – La sprezzante risposta sortì l’effetto di una stilettata al cuore del giovane.

– In carrozza, si parte! – La voce del capostazione pose fine ai saluti. Con un profondo respiro il ragazzo si aggrappò al corrimano e di slancio salì nel vagone. Richiuse lo sportello dietro di sé e si avviò nello scompartimento che si apriva al proprio sguardo.

Al fischio del capostazione il convoglio cominciò a muoversi a scossoni inoltrandosi lentamente nella fitta vegetazione che cresceva ai margini delle rotaie, lasciandosi alle spalle l’uomo e la donna che lo fissavano allontanarsi tra le fronde portando via con sé il loro unico figlio nato dopo cinque anni di matrimonio. Il tardo concepimento non era frutto né di una scelta ponderata da entrambi, né conseguente a un problema di fertilità, ma semplicemente perché la vita aveva voluto così, impedendogli di mettere al mondo quella prole numerosa che sognavano da fidanzati. Com’era accaduto ai genitori di suo padre, i quali avevano concepito il loro unico figlio subito dopo il matrimonio e poi più nulla, seppure entrambi fossero sani e desiderassero averne altri. Uno dei tanti misteri della vita che segnano l’esistenza di molte coppie, privandole del piacere di una famiglia numerosa.

Con le mani strette ai tiranti dello zaino, il ragazzo entrò nella carrozza deserta.

Osservò le fila di sedili tristemente vuoti, separate dallo stretto corridoio che immetteva nello scompartimento successivo, chiedendosi se anche in quello non ci fosse nessuno.

La curiosità lo spinse a varcare la soglia.

Avanzando tra la schiera di poltroncine, si domandò se quel deserto non giustificasse le perplessità del padre sulla sua decisione di partire quando gliela aveva comunicata…

Sdraiati all’ombra di un ulivo secolare dal tronco nerboruto, padre e figlio riposavano dopo aver lavorato l’intera mattinata a spianare una terrazza di terra sotto il sole. Con aria soddisfatta, i volti abbronzati solcati da gocce di sudore, gustavano il pollo alla cacciatora cucinato dalla madre innaffiandolo con lunghe sorsate di vino bianco, tenuto al fresco nella borsa termica sistemata tra le radici dell’albero.

Figliolo, un giorno tutto questo sarà tuo! – fece orgoglioso l’uomo, abbracciando con lo sguardo il vigneto che si estendeva a vista d’occhio sulla collina.

Il mare era solcato da uno sciame di windsurf; all’orizzonte, un’isola si stagliava nel cielo terso.

Guarda che meraviglia! – mormorò, mostrando al figlio il grappolo d’uva tratto dalla cesta al fianco. Staccò un chicco e, stringendolo tra le dita, trafisse con lo sguardo la sottile cuticola che lo ricopriva.

Queste viti sono tanto rigogliose per via del sole che scalda la terra su cui crescono, rendendola magica – disse raccogliendo un pugno di terreno. – Nei loro chicchi è racchiuso l’amore e la fatica con cui, da sempre, gli uomini la curano. – Allargò il palmo, disperdendo il terriccio nel vento. – Questo è il segreto che fa sì che il vino ottenuto allontani i dispiaceri di quanti vi cercano conforto senza bruciarne le menti e i cuori. – Schiacciò il chicco tra le dita: un’appiccicosa poltiglia rossastra aderì ai polpastrelli. Con gesti misurati dall’esperienza, sfregò tra loro le estremità umide di succo per determinare dalla viscosità la gradazione del vino che se ne sarebbe ottenuto e quindi la qualità. Un denso filamento si tese tra il pollice e l’indice. L’uomo sorrise: quell’annata sarebbe stata ottima. Staccò un altro chicco e l’offrì al figlio che lo assaggiò senza entusiasmo.

Allora? – domandò impaziente.

Sembra buona – disse lui, masticando distrattamente.

Offeso, il padre si drizzò sulla schiena.

Ma che dici? Quest’uva è ottima! Da anni non ne avevamo di così dolce. Il vino che ne ricaveremo sarà un vero nettare degli dei!

Il ragazzo non lo ascoltava. In lontananza, tra gli alberi, filtrava la densa scia di fumo nero del treno subito seguita dal fischio. Fin da bambino ne restava sempre rapito.

Mi ascolti? – chiese l’uomo.

Sì! – rispose il figlio, fissandone con decisione il viso corrucciato – E sappi che non ho alcuna intenzione di sacrificare la mia vita su questa terra. Io voglio conoscere il mondo e confrontarmi con gli altri. Papà, ho voglia di vivere, non di vegetare come una pianta, in eterno, nello stesso luogo, lasciando che il sole e l’aratro traccino il mio cammino. Il futuro voglio costruirlo da solo con le mie mani! – aggiunse, mostrando i palmi callosi.

Il padre li osservò con attenzione. Alla stessa età i suoi non erano così, la loro rudezza testimoniava che suo figlio, malgrado odiasse lavorare la terra, quando impugnava la vanga e l’aratro dava l’anima.

Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato – mormorò rassegnato. – Da che sei nato, tuo nonno non fa che ripetere che sei uno spirito libero; che un giorno avresti rinnegato le tue origini contadine – Parlando, con rimpianto fissava il manto di viti ricoprire la collina. – In cuor mio speravo si sbagliasse: ho sacrificato l’intera vita per ottenere ciò. – Sospirò profondamente. – Chissà il dolore di tua madre quando le comunicherai la tua decisione!

Ora ti preoccupi di lei? – sibilò tra i denti il ragazzo, piegando leggermente il capo – Eppure, quando ti rechi a quelle maledette fiere lasciandola sola per intere settimane, non te ne curi per niente, vero? Come non ti preoccupi di regalarle una breve vacanza perché per te esiste solo la vigna. Forse temi che, andando io via, sarai costretto a dedicarle più tempo? Rilassati, quando ieri le ho parlato mi ha benedetto, dicendo di non preoccuparmi per lei perché il suo posto è al tuo fianco, ed è pronta ad accettare qualunque cosa perché ti ama. Sì, ha detto che ti ama! Parole che tu non le hai mai rivolto perché ami soltanto questa dannata terra!

La voce improvvisamente si frantumò in un pianto. Si girò di fianco per non concedere al padre la soddisfazione di vederlo singhiozzare come un bambino.

L’uomo levò lo sguardo tra le foglie dell’ulivo. Il vento accarezzò le fronde. Con aria assente tornò a fissare i filari di viti sulla collina.

Quando partirai? – domandò.

Subito dopo l’esame di maturità! – rispose portandosi le ginocchia al petto per poggiarvi il mento, il viso segnato dalle lacrime.

Era iscritto al liceo scientifico con un ottimo rendimento tanto da far sperare che all’esame potesse prendere il massimo. Una volta diplomatosi, sapeva che le attese del padre prevedevano s’iscrivesse alla facoltà di agraria in modo da poter applicare alla cura della vigna le conoscenze acquisite con gli studi, consentendo all’azienda di famiglia quel salto di qualità che avrebbe permesso di avviare una vera propria impresa di vini, puntando non solo al mercato locale e nazionale, ma anche a quello estero. Lui avrebbe voluto invece iscriversi a medicina, malgrado consapevole che superare i test d’ingresso non fosse semplice e che, seppure li avesse superati, il corso di studi sarebbe stato lungo e complesso. Sua madre, nel momento in cui le aveva confidato la propria intenzione di tentare l’ingresso a quella facoltà, gli aveva suggerito di non essere avventato nella scelta; di pensare a diplomarsi e poi ne avrebbero riparlato, magari dopo il viaggio che aveva deciso di intraprendere subito dopo la maturità. Secondo lei non era improbabile che, una volta libero dagli impegni per la preparazione dell’esame, viaggiando, avrebbe avuto modo di schiarirsi le idee e decidere sulla scelta giusta da compiere. In cuor suo anche lei avrebbe preferito che s’iscrivesse ad agraria, ma sapendo quanto il figlio le fosse legato, non glielo aveva detto per non condizionarlo.

 

Andrai via da solo o con qualche amico? – domandò suo padre

Penso da solo: ho bisogno di riflettere sul mio futuro!

Hai anche la mia benedizione! – disse l’uomo, alzandosi di scatto per riprendere il lavoro, incurante del sole a picco.

CAPITOLO II

– Resterai via molto? – chiese la madre, fissando il figlio riempire lo zaino.

– Non saprei – rispose, pressando il carico nel sacco. Si girò a guardarla, il viso della donna era il ritratto della sofferenza.

Le andò incontro e la strinse a sé.

– Mi raccomando, chiama, non fare come tuo solito che dimentichi il cellulare spento o addirittura di ricaricarlo – mormorò.

Per tutta risposta lui si sciolse dall’abbraccio e le indicò con il dito il telefonino e il caricatore sul letto tra le cose che avrebbe portato con sé.

– Perché vuoi andare via? – sussurrò lei, abbracciandolo forte.

– L’uomo che vive nell’ignoranza è come l’uva che cresce su un terreno eternamente ombreggiato: il vino che se ne ricaverà sarà pallido, privo di forza e di carattere! La voce rimbombò nella stanza.

La donna e il ragazzo si volsero a fissare l’imponente figura del nonno impettita sotto l’arco della porta, con le mani intrecciate sul bastone dal manico intarsiato a testa d’aquila fisso davanti ai piedi.

– Non tormentarlo con le tue lacrime – disse l’anziano alla nuora – Non gravare il travaglio del suo animo. Aspetta che l’uva maturi. Solo allora conoscerai la qualità del vino e saprai se siete stati bravi nel produrlo. – Con passo incerto, appoggiandosi al bastone, il vegliardo avanzò incontro alla nuora e al nipote che lo fissavano intimoriti. Nella mano recava una conchiglia…

 

Le feluche, spinte dalla brezza verso il mare, scivolavano sul fiume accompagnate dallo sguardo di Sirio splendente in cielo; il quarto di luna rifletteva sull’acqua le ruvide ombre delle vele. All’estremità del molo la luce del faro fendeva la scura superficie, spianando alle barche il cammino nelle tenebre.

Affacciato alla balaustra del postale ancorato nella rada, il giovane mozzo osservava amareggiato le luci della città riflettersi in lontananza. Avrebbe preferito approdare direttamente ad Alessandria d’Egitto per riviverne i fasti trasmessi dalle antiche mura e dai monumenti lasciati dai faraoni in eredità ai posteri. In particolare il suo pensiero andava al leggendario faro considerato tra le sette meraviglie del mondo dell’epoca, la cui torre si innalzava nel cielo, così si raccontava, per 120 metri, e alla mitica biblioteca in cui erano conservati oltre 700 mila papiri, distrutta nel 280 d.C. dall’imperatore Aureliano durante il saccheggio della città. Ogni volta che ripensava a quei drammatici eventi, non poteva fare a meno di domandarsi se davvero tutti i papiri fossero andati distrutti o se molti non fossero stati messi in salvo dai curatori della biblioteca. E, in quel caso, se molte opere dell’antichità di cui si era persa ogni traccia, divenendo a loro volta leggenda perché citate da autori classici che dichiaravano di averle consultate, non fossero tuttora conservate in luoghi ignoti. Così come, tutte le volte che ripensava all’Egitto, non poteva fare a meno di andare con la mente alle piramidi e alla sfinge, chiedendosi chissà quali misteri conservassero nelle proprie viscere di pietra. Allo stesso tempo, misteriosa era la loro origine: la sua fervida fantasia si rifiutava di accettare che a costruirle fossero stati gli antichi egizi utilizzando tronchi, barconi di papiro e carrucole su cui trasportare e innalzare le migliaia di enormi massi di calcare, ognuno dal peso di diverse tonnellate, che le costituivano. Di chissà quale oscura civiltà le piramidi erano invece testimonianza! Magari della mitica Atlantide di cui per primo aveva parlato Platone nel Crizia e nel Timeo, citando il suo antenato Solone: egli riferiva di aver sentito raccontare di quel continente e della sua scomparsa nel mare, a seguito di un tremendo cataclisma, dai sacerdoti della città di Sais nel delta del Nilo che facevano risalire i fatti a un tempo remoto in cui gli dei dimoravano sulla terra.

L’eco della voce del muezzin che invocava la grandezza di Allah ruppe la notte. Il ragazzo chiuse gli occhi e inspirò profondamente affinché quella voce trasportata dal vento del deserto gli ravvivasse l’anima.

Improvvisamente le  grida disperate  di donna giunsero da poppa, sfumando il sogno.

D’istinto il giovane attraversò di corsa il ponte della nave, senza mai staccare lo sguardo dal mare. Era quasi arrivato, quando nell’acqua distinse il bambino trascinato dalla corrente verso il piroscafo che si stava lentamente allontanando dalla banchina. Pochi attimi ancora e le eliche del bastimento l’avrebbero maciullato. Senza indugio si tuffò nelle tenebre e, nuotando con forti bracciate, lo raggiunse cingendogli un braccio al collo. Incurante dei gorghi delle eliche che lentamente li risucchiavano, prese a nuotare come un folle, tirandosi appresso il bimbo nell’angoscioso tentativo di respingere la morte incombente.

Sul molo, la madre disperata fissava la scena.

Avvinghiati in un vortice, il ragazzo e il bambino si volsero a fissare terrorizzati il minaccioso roteare delle eliche, sempre più vicine, mentre erano sovrastati dall’acqua.

A un tratto, il bagliore del faro rischiarò il lato poppiero del piroscafo, consentendo al marinaio che dirigeva le manovre d’individuare tra i flutti i corpi dei due sventurati.

Tutto a babordo, tutto a babordo! Uomo in mare, uomo in mare! – urlò al timoniere affacciato all’oblò della sala comandi che subito, con un colpo secco al timone, virò, calando simultaneamente la leva sul pannello dei comandi per fermare le macchine.

Sebbene i motori si fossero spenti, per inerzia la nave continuò a spostarsi nell’acqua, arrivando a ridosso del ragazzo e del bambino, arrestandosi con l’elica alle loro spalle.

Un applauso si levò dal piroscafo e dal battello. Il pianto disperato della donna si trasformò in lacrime di gioia.

Per premiare il valore del mozzo, il comandante gli concesse un giorno di libertà, consentendogli di visitare Alessandria.

Circondato dai banchi dei mercanti assiepati nel bazar, il giovane volgeva lo sguardo sulle imponenti cupole moresche che, svettando tra i tetti delle case costruite con mattoni di fango e paglia, si ergevano al cielo come funghi giganteschi. Avanzando tra la folla si guardava intorno stordito dal caleidoscopio di colori, profumi e voci del mercato. Nell’aria l’acre odore dei narghilè, fumati dai negozianti seduti sulla soglia delle botteghe, si mischiava all’intenso aroma delle spezie e delle essenze profumate racchiuse nei sacchi e nelle piccole ampolle di vetro soffiato, esposte ordinatamente sui banchi.

Ciao! – risuonò di spalle la voce di donna.

Lui si girò. Rapito, ammirò lo splendido viso sorridergli, adornato dalla folta chioma ramata. Attraverso la lunga veste di veli rossi traspariva la sua seducente femminilità.

Con voce rotta dall’emozione, pensando si trattasse di una prostituta alla ricerca di clienti, arrossendo, rispose al saluto. Il pensiero che finalmente anche per lui fosse giunto il momento di diventare uomo lo mise in agitazione.

Non farti strane idee – disse lei, divertita, leggendogli nella mente – Volevo ringraziarti per quel che hai fatto questa notte: salvare una vita umana rischiando la propria è un nobile gesto, indelebile agli occhi degli dei. Questa è la ricompensa che meriti! – Così dicendo, allungò il braccio verso il giovane, tendendogli la mano aperta.

Una conchiglia? – si meravigliò lui, mirando la spirale di madreperla rilucere come un serpente aggrovigliato su se stesso nel palmo della donna.

Tutte le volte che ascolterai la melodia racchiusa, i tuoi sogni si realizzeranno.

Titubante, s’impossessò della conchiglia e la accostò all’orecchio. Un dolce suono gli penetrò l’animo, cancellando le inquietudini che lo turbavano.

Chiuse gli occhi, abbandonandosi alla melodia. Quando li riaprì la donna era scomparsa.

– Tieni! – disse il nonno, offrendo la conchiglia al nipote. Tenendola tra le mani, lui la alzò al soffitto ammirandola luccicare alla luce del lampadario. Un’energia indescrivibile s’irradiò dal guscio, inondandogli mente e cuore. Con cura la avvolse in uno straccio per proteggerla da eventuali urti e la ripose in una delle tasche laterali dello zaino. Percepì che quell’oggetto gli avrebbe portato fortuna, o almeno si sarebbe rivelato fondamentale per il viaggio; ma non sapeva spiegarsi perché…

CAPITOLO III

Il ragazzo entrò nello scompartimento successivo, anch’esso vuoto.

Fu tentato di andare oltre, ma sulle spalle il peso dello zaino incominciava a farsi sentire. Lo sfilò e lo poggiò sul pavimento davanti a sé per poi sedersi accanto al finestrino. Attraverso i vetri, il paesaggio verdeggiante si scioglieva allo sguardo come un film.

Di tanto in tanto il ramo di una pianta cresciuta sul margine dei binari graffiava i vetri. Trasse di tasca il cellulare per controllare se ci fossero messaggi da parte di quei pochi amici che aveva: solo cinque in cui gli si augurava “in bocca al lupo”, o “buon viaggio”.

I sacrifici con cui si divideva tra lo studio e la vigna gli avevano talmente condizionato l’esistenza da impedirgli di coltivare le normali amicizie di un ragazzo della sua età, tanto che a diciotto anni si ritrovava ad avere per lo più conoscenti con cui saltuariamente gli capitava di incontrarsi il sabato sera nella piazza del paese per fare quattro chiacchiere, bevendo una birra o mangiando un panino in un pub. A parte ciò, mai era riuscito ad avere un vero amico con cui confidarsi. Per quanto invece riguardava le ragazze, peggio che mai. Seppure le classi che aveva frequentato fossero state miste, non era mai riuscito a instaurare con qualcuna delle compagne un rapporto che andasse oltre la scuola, malgrado ci fosse una con cui gli sarebbe piaciuto ritrovarsi da solo: si chiamava Claudia, sedeva due file di banchi davanti a lui. Capelli lunghi, viso tondo, occhietti furbi, bassina, fisico proporzionato, era stata in classe con lui dal primo anno del liceo, ma mai gli aveva dato a intendere di piacerle…

Una mattina, poco prima della fine del primo quadrimestre del terzo anno, non appena suonò la campanella, Claudia gli si affiancò chiedendogli se quel pomeriggio potesse andare a studiare da lei per aiutarla a ripassare matematica, materia in cui lui primeggiava. Ascoltandola, non gli sembrò vero che quella ragazza, piaciutagli dalla prima volta che l’aveva vista, gli chiedesse di studiare insieme. D’impulso rispose di sì, dimenticando che per quel pomeriggio aveva promesso al padre che lo avrebbe aiutato alla vigna. Quando tornò a casa, euforico si sedette a tavola. Mentre pranzavano, ascoltando il padre anticipargli il lavoro che avrebbero svolto a breve, quasi si sentì male. << Papà >> disse, << più tardi un’amica mi ha chiesto di passare da lei per aiutarla in matematica >>. << Ovviamente le hai risposto di no >> osservò  l’uomo con sguardo gelido. << Le ho detto di sì >>, rispose fissando il piatto. << Hai fatto male >> riprese il genitore. << Lo sai bene che mi sono organizzato il lavoro per questo pomeriggio perché potevo contare sul tuo aiuto. Mi dispiace, la chiami e le dici che non puoi andarci >>. La madre intervenne in sua difesa offrendosi di sostituirsi a lui, ma il padre fu inflessibile: << Niente da fare, mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato, non può rifiutarsi per correre dietro a una smorfiosa! >>. La donna cercò di replicare, chiedendo il supporto del suocero che in silenzio assisteva alla scena. Anche lui fu del parere che il nipote dovesse onorare l’impegno preso con il padre perché gli uomini veri non disattendono la parola data. Per evitare ulteriori discussioni il ragazzo disse alla madre di non preoccuparsi, che avrebbe telefonato alla sua amica inventandosi una scusa. Quindi prese il cellulare dalla tasca, si alzò dalla tavola e andò a telefonare nella sua stanza. Ascoltandolo mentre cercava di giustificarsi, dall’altro lato dell’apparecchio Claudia rimase in silenzio. Alla fine disse solo, << Va bene, ciao! >>.

Il giorno dopo fuori scuola non lo degnò di uno sguardo e quando, prima di entrare in classe, lui si avvicinò per spiegarsi, lo respinse come se fosse un appestato. Ma l’umiliazione più grande la subì quando, alcuni giorni dopo, la sorprese ad amoreggiare con il bullo della classe il quale non si stancava mai di lanciare frecciatine al suo indirizzo, definendolo “zotico”, suscitando l’ilarità di tutti, lei compresa.

In realtà c’era un’altra ragazza che gli piaceva molto. Si chiamava Veronica, era figlia di un colono che collaborava con il padre durante la vendemmia. Alta quanto lui, bene in carne, aveva il viso lentigginoso cui si sposava una folta chioma rossa raccolta in una lunga treccia dietro alla nuca. Quando era tempo di vendemmia, insieme agli altri figli dei contadini, Veronica accompagnava il papà e la mamma perché quel momento rappresentava per tutti un gioco. In quelle giornate di festa, il ragazzo non perdeva occasione per osservarla di sfuggita e quando capitava che i loro sguardi s’incrociassero, entrambi volgevano subito gli occhi da un’altra parte, arrossendo. Alla madre non era sfuggito che Veronica e suo figlio si piacessero, in cuor suo sperava che lui si decidesse ad avvicinarla per esternarle i propri sentimenti. Vedendo la ritrosia del figlio nel fare il primo passo, convinta fosse timidezza, in più di un’occasione aveva cercato di infondergli coraggio dicendo, << Quando una persona ci piace, non dobbiamo vergognarci di farglielo capire. Spesso la timidezza è l’ostacolo più difficile da superare per essere felici! >>. Ascoltandola, pur comprendendo perfettamente a cosa la madre alludesse, il ragazzo non rispondeva, limitandosi a fare spallucce. Malgrado fosse consapevole di piacere a Veronica tanto quanto lei piaceva a lui, le  si teneva lontano temendo che, una volta insieme, avrebbe dovuto dire addio all’idea di viaggiare, essendo la ragazza  molto legata alla famiglia e al lavoro nei campi. Tuttavia non poteva negare che spesso pensava a lei, chiedendosi che sapore avessero i suoi baci e quale profumo emanasse il suo corpo…

Notando che la spia rossa del cellulare lampeggiava, fu colto dal dubbio di aver dimenticato a casa il caricatore. Seccato sbuffò, sapeva che senza ricevere sue notizie la madre si sarebbe allarmata, ma era certo che, alla fine, un modo per ricaricarlo lo avrebbe trovato. Rilassandosi nella poltrona, fissò lo sguardo oltre il vetro del finestrino per ammirare il panorama. Improvvisamente lo colse la stanchezza. Senza accorgersene, si addormentò.

Fu svegliato da un sordo fruscio. Lentamente riaprì gli occhi: di fronte gli sedeva uno strano personaggio impegnato a mischiare un mazzo di carte dall’insolita lunghezza.

– Ben trovato! – disse l’uomo con voce baritonale, interrompendo per un istante il vorticare delle carte tra le dita.

Il ragazzo si drizzò sul sedile. Stropicciandosi gli occhi, notò che vestiva in maniera insolita: portava un cappello dalle larghe tese che ricordavano un otto adagiato di fianco. Sulla spalla era addossato il mantello di fine velluto rosso, non certo adatto per la bella stagione da poco incominciata. Lui si preoccupò: se l’uomo avesse avuto brutte intenzioni, nello scompartimento non c’era nessuno cui avrebbe potuto chiedere aiuto.

All’improvviso lo scenario nella cornice del finestrino cambiò: alla verde prateria subentrarono le effervescenti onde del mare solcate da un cutter. La barca, con le vele spiegate al vento, in ali di schiuma puntava dritta verso lo spuntone di roccia che dalla costa declinava a mare, sparendovi dietro.

Giganteschi megaliti rosa, sulle cui cime nei loro nidi gli uccelli stavano accovacciati al sole, s’innalzavano dall’acqua su nel cielo tracciato da uno stormo di anatre.

Guardando quel paesaggio incantevole, il ragazzo sospirò.

Sprofondò la schiena nel sedile e, emozionato, ammirò di là dal vetro il panorama in continuo mutamento come le immagini di un documentario.

– Magnifico, vero? – La voce dell’uomo lo strappò a quel piacere.

– Già! – Stupito, fissava il cavaliere in groppa al bianco destriero, apparso all’improvviso dal nulla, galoppare sulla spiaggia dorata.

– Non hai la sensazione di trovarti in un’altra dimensione? – chiese lo strano personaggio. Anziché rispondere, incantato, il ragazzo continuò a seguire con la punta dell’occhio il cavaliere lanciare lo stallone al galoppo sulla battigia.

– Non ti sembra di trovarti in un universo dove la realtà è in continuo mutamento, subordinata alla fantasia? – suggerì l’uomo, mischiando le carte.

– Sì – ammise, volgendo per un istante lo sguardo su di lui.

– E’ la prima volta che viaggi, vero?

– Sì – rispose, tornando a fissare il mare increspato dal vento.

– Preferisci il mare o la montagna? – chiese.

– Entrambi!

– Impossibile! Al mondo esistono due tipi di persone, chi ama il mare e chi la montagna. Tu a quale categoria appartieni?

Il ragazzo cercò di rimettere ordine nella propria testa. Fissava con attenzione il paesaggio modificarsi davanti a sé man mano che il convoglio, rallentando, avanzava tra la fitta boscaglia ai margini dei binari. Lentamente il paesaggio marino lasciò il posto a quello campestre.

Tra i rami di un grosso fico distinse una merla imboccare i pulcini nel nido intrecciato nel tronco.

Appena il mare tornò visibile, intravide tre donne nude correre allegramente tra le onde, schizzandosi a vicenda l’acqua con i piedi e le mani. Seppur lontane, riuscì a focalizzarne i seni e gli scuri cespugli dei pubi.

Interessato si drizzò sul sedile per osservarle meglio.

Con uno strappo violento il treno imboccò la curva, inoltrandosi nuovamente nella fitta boscaglia, sottraendo allo sguardo la piacevole visione.

– Belle, vero? – disse l’uomo, abbozzando un sorriso eloquente.

Solo allora il ragazzo ricordò di non essere solo.

Turbato, abbassò gli occhi sulle scarpe dell’altro: anch’esse erano di velluto porpora come il mantello; la foggia, dalla punta leggermente piegata verso l’interno, ricordava quelle di un principe orientale o del genio della lampada.

– Mica devi vergognarti! – fece lui, divertito del suo imbarazzo – Non c’è nulla di più elettrizzante per lo sguardo maschile di una bella donna nuda intenta nell’intimità naturale dei propri gesti, inconsapevole d’essere osservata!

Udendo quelle parole, il ragazzo si rasserenò.

– Perché non si possono preferire insieme il mare e la montagna? – chiese, accennando un sorriso.

– Al mare appartengono gli individui, alla montagna le persone: tu ti senti individuo o persona? – domandò l’uomo, divenendo improvvisamente serio.

– Qual è la differenza? – chiese, grattandosi la testa. Aveva sempre considerato individuo e persona sinonimi l’uno dell’altra.*

– Non conosci il latino, vero?

Un fitto cespuglio di more graffiò il finestrino.

– No! – arrossì.

L’uomo respirò profondamente.

– Individuo deriva dal latino individuus che significa <<indivisibile>>. Persona dal latino persona, termine con cui, nell’antica Roma, ci si riferiva a un tipo di maschera utilizzata dagli attori nelle rappresentazioni teatrali. A sua volta, persona è originata dall’unione di per, che significa attraverso, e sonare, ossia suonare, ed è il termine con cui gli antichi denotavano la parte interpretata dall’attore nel dramma. Da ciò deduciamo che dichiararsi individui significa ammettere la propria indivisibilità dalla massa, trascendendo l’aspetto personale che rappresenta la maschera di cui ci disfiamo quando smettiamo di recitare il nostro ruolo sul palcoscenico della vita per tornare al sicuro tra le pareti di casa, lontano dagli sguardi altrui.

Con gli occhi luccicanti il ragazzo si raddrizzò sul sedile. Nella sua mente risuonarono le parole che il nonno ripeteva sempre mostrandogli un grappolo d’uva: <<Ricorda, figliolo, l’umanità non è altro che una moltitudine di grappoli da cui ricavare il vino della creazione. Per questo motivo ognuno di noi ha il dovere nella vita di svolgere al meglio il proprio compito, per quanto umile esso sia, al fine di evitare che il vino diventi aceto. Senza mai dimenticare che il proprio operato, sia nel bene sia nel male, influenzerà in maniera imprescindibile l’esistenza di tutti coloro con cui s’interagirà. Per il diletto del palato, un grappolo lo si può mangiare, gustandolo chicco dopo chicco, ma per quello dell’anima, cioè il vino, bisogna riunire nel tino tutti i grappoli e schiacciarli affinché le specifiche essenze si mischino tra di loro fino a confondersi, dandone vita a un’unica del tutto nuova che racchiuda in sé le caratteristiche delle singole anime che l’hanno generata. >>

Ogniqualvolta lo ascoltava ripetere quelle misteriose parole, si chiedeva cosa volesse significare, ricorrendo al padre nella speranza gli svelasse l’arcano.

<< Papà cosa voleva dire il nonno? >> chiedeva. << Devi arrivarci da solo >> gli rispondeva, lasciandolo con il dubbio, dipananto in parte dalla madre che, sorridendo, lo rassicurava: << Non affliggerti, al momento opportuno tutto ti sarà chiaro! >>.

– Preferisco il mare! – asserì convinto il ragazzo, raddrizzandosi sul sedile.

CHI COME ME…

quelli come come METRONAPOLI

Chi come me è abituato a svegliarsi prima dell’alba per andare a correre e a scendere di casa poco dopo le sette per recarsi in auto a lavoro, fino a quando non sarà costretto a dover andare in ufficio con i mezzi pubblici, difficilmente si renderà conto di quante persone verso le sei del mattino già affollano le fermate di autobus e treni per iniziare la propria giornata.

Chi come me è abituato a rientrare a casa poco dopo le sei del mattino da una seduta di allenamento per infilarsi sotto la doccia, difficilmente immaginerà che in quel preciso istante in cui l’acqua scorre sul proprio corpo per cancellare via i segni della corsa, centinaia di persone si accalcano alle porte di un treno o di un autobus: uomini, donne, ragazzi di ogni età e nazionalità nello stesso momento in cui esco dalla doccia e indosso l’accappatoio, soddisfatto per aver iniziato la giornata facendo una tra le cose che più mi piacciono, già sono in strada per dare un senso al proprio esistere; per porre le basi del proprio futuro in una società dove il futuro, soprattutto per i giovani, è praticamente un miraggio.

Chi come me, pur potendo starsene a letto fino alle sei del mattino, si alza a notte fonda per andare a correre, solo quando sarà costretto a dover scendere a sua volta con le tenebre per recarsi a lavoro avrà modo di apprezzare l’umanità.

Le auto incolonnate dalle sette del mattino sulla tangenziale, cui egli si accoda con la propria da più di trent’anni per andare in ufficio, testimoniano l’esistenza di un’umanità inconsapevolmente privilegiata essendole concesso il lusso di spostarsi di casa con un certo agio. Viceversa la fila di gente sulla fermata della metro alle sei del mattino certifica che a molti non è concesso nemmeno il privilegio di alzarsi con comodo dal letto, fare colazione con i propri cari o guardare il TG mentre sorbiscono il caffè.

È a costoro che dovrebbe rivolgere con la mente un rispettoso buongiorno chiunque come me è abituato a scendere di casa all’alba per andare a correre, passeggiare o fare sport. Un’umanità costretta a fare enormi sacrifici per dare un senso al proprio esistere, senza escludere che alla fine in molti subiscano l’umiliazione di uno stipendio da fame.

Un conto è sentire parlare del suo esistere per interposta persona, altro è incrociarla, quest’umanità, per strada, imbacuccata nei cappotti e nei giacconi per proteggersi dal freddo umido e pungente del primo mattino, come mi è successo questa mattina quando sono sceso di casa presto per andare anch’io a lavoro con i mezzi pubblici.

A tutte queste donne, a questi uomini, a questi studenti, a questi extracomunitari andrà da oggi il mio rispettoso pensiero ogni volta che la mattina scenderò di casa con il buio per fare jogging .

Chissà, forse è per questo che la vita è fatta di alti e bassi. Diversamente non avremmo la possibilità di apprezzare ciò che abbiamo, fosse solo la possibilità di alzarci presto per andare a correre con gli amici mentre la stragrande maggioranza delle persone a quell’ora si sta già preparando per avviarsi alla fermata di un tram per andare a lavoro.

È proprio vero, ci si accorge di quanto si è fortunati solo quando non si è più nella condizione di esserlo.