DRAMMATURGIA PRIVATA, LA POESIA DI ANGELA SCHIAVONE

9788866442660_0_0_0_75angela

(nella foto il professor Andrea Bonajuto membro dell’associazione Quarto Bene Comune, lo scrittore Luca Marano e la poetessa Angela Schiavone)

Ieri sera presso la sede dell’Associazione Quarto Bene Comune ho assistito alla presentazione del volume Drammaturgia Privata, edito da Giuliano Ladolfi Editore, pluripremiata raccolta di poesie, opera prima di Angela Schiavone.

In assoluta sintonia con lo stile elegante, colto e discreto dell’autrice, le poesie che danno vita al volumetto sono un compendio dei tanti versi scritti da Angela nel corso degli anni su quadernetti dove traduceva in poesia i tormenti del proprio Io. Anche in questo caso, come ha più volte sottolineato il relatore, professor/scrittore Luca Marano, la scrittura, in particolare la poesia, conferma il proprio valore terapeutico cui affidarsi per ricucire le ferite dell’anima.

Nella loro semplicità, i versi della Schiavone non sono né banali né algidi, a riprova che la sua poesia non è affatto un costrutto laboratoriale finalizzato a suscitare a tutti i costi emozioni nel lettore e nell’ascoltatore, bensì un frammento istantaneo di sincera emozione, a cui il poeta sente l’impellente necessità di dare eco attraverso il componimento, affrancandolo dai meandri del proprio io per porlo alla luce del sole, ricomponendo con le lettere il puzzle emozionale del dolore esistenziale che ne tormenta l’anima.

Mai come nel caso della Schiavone, la cui poesia Marano non ha avuto dubbi a definire “dotta” per via dei ripetuti richiami ai miti greci, potremmo parlare di poesia al femminile – seppure la stessa autrice ammette che qualunque forma d’arte travalica il genere -, ciò perché Angela nella costruzione dei propri versi è delicata e pudica come solo una donna sa essere anche quando parla dell’amore carnale.

Tra i tanti versi che meriterebbero d’essere citati uno a uno per la potenza metaforica e icastica che caratterizzano la poesia della Schiavone, mi soffermo su quello in cui la poetessa a un certo punto recita  “un orizzonte inerme/e la certezza che terra è piatta”, chiaro riferimento all’appiattimento dei sentimenti umani che, mai come oggi, caratterizzano la società, dove l’apparire ha soppiantato l’essere.

La serata si è conclusa con la lettura di un inedito dedicato al marito Flavio. Mentre leggeva, Angela non ha saputo contenere la commozione, coinvolgendo emotivamente la platea che al termine l’ha a lungo applaudita, ringraziando lei e Marano per la bella serata.

LA VOCE DEL FIUME

fiume

     Come al solito, seppur domenica, Lorenzo si svegliò che ancora era buio malgrado fossero quasi le otto del mattino. Lì in montagna albeggiava sempre tardi, per via della nebbia fitta che non si dissolveva prima del levarsi del sole. E se il sole avesse avuto difficoltà a penetrare con i propri raggi il banco ovattato causa il maltempo, per tutto il giorno il paese e il panorama circostante sarebbero stati fantasmi la cui presenza era percettibile solo a chi si fosse avventurato nello spasso manto di umidità.

     Levatosi dal letto, Lorenzo indossò la giacca da camera piegata ai piedi del letto; accese la stufa a gas posta in un angolo per riscaldare l’ambiente. Quindi aprì la finestra per rinnovare l’aria nella casa. La folata di gelo, come un schiaffo violento, filtrò nella stanza, facendo rabbrividire l’uomo che subito richiuse le imposte per non gelare. Rabbrividendo, andò in cucina; mise sul fornello la caffettiera, preparata la sera prima, e accese il fuoco. Nell’attesa che il caffè fosse pronto, andò in bagno. Il gorgoglio del caffè lo colse che era ancora seduto sulla tazza a leggere i messaggi sullo smartphone. Incespicando nel pantalone del pigiama calato ai piedi, strusciando i piedi sul pavimento, uscì dal bagno. Levò la caffettiera dal fuoco e versò il caffè nella tazzina poggiata sul tavolo. Bevve, facendo attenzione a non bruciarsi. Poi rientrò in bagno per lavarsi. Terminata la toilette, indossò il vestito della domenica; guardandosi nello specchio dell’armadio, fece il nodo alla cravatta. Calzò le scarpe nere, lucidate la sera prima in maniera ossessiva fino a farle brillare come se fossero nuove; indossò il soprabito; prese l’ombrello e aprì la porta di casa. Fermo sulla soglia, levò gli occhi al cielo: minacciosi nuvoloni scuri si addensavano sui tetti delle case. Stando alle previsioni meteo, quel giorno, per le nove, un violento temporale si sarebbe abbattuto sul paese. Come accadeva sempre in quelle occasioni, lo scrosciare dell’acqua avrebbe alimentato il piccolo fiume che, scendendo dalla montagna, attraversava il paese, trasformandolo in un fiume in piena. Scorrendo vorticosamente, l’acqua si sarebbe riversata tra i massi e gli alberi che sorgevano nell’alveo, dando vita a una melodia di suoni che, alle sue orecchie e a quelle dei suoi compaesani, risuonavano eco assordante di misteriosa voce.

      Come lui, tutti gli abitanti del paese, a loro volta vestiti a festa e muniti di ombrello, uscirono di casa per raggiungere le sponde del fiume per assistere allo spettacolo che di lì a poco la natura avrebbe offerto gratuitamente.

    Lorenzo e gli altri si sistemarono sulle rocce poste in alto al letto del fiume per ripararsi dalla violenza dell’acqua che a breve si sarebbe riversata giù dalla montagna. Ognuno di loro stringeva nella mano il telefonino, facendo attenzione a riparlo con l’ombrello non appena le prime gocce d’acqua iniziarono a precipitare dal cielo.

     Bastarono pochi istanti e la pioggerellina si trasformò in temporale, trasformando il fiumiciattolo in fiume in piena. Man mano che l’acqua sciabordava velocemente tra i massi, gli alberi e tronchi dell’alveo, nell’aria si librava un’intensa melodia. Incuranti della pioggia che, malgrado gli ombrelli e gli impermeabili, entrava fin nelle ossa, gli spettatori fradici restarono a lungo su quell’arena naturale per assistere la cascata che, impetuosa, scendeva giù dalla montagna verso il mare lontano, di cui molti di loro avevano sentito solo parlare ma mai visto: lo immaginavano come un immenso lago salato, chiedendosi se il sale lo si sarebbe dovuto mettere comunque nell’acqua per cucinare o bastava quello che naturalmente già c’era.

     Quando la pioggia e il freddo divennero insopportabili, uno alla volta gli spettatori rientrarono in casa.

     Non appena furono all’asciutto delle proprie abitazioni di pietra riscaldate dai camini e dalle stufe a pallet, ognuno di loro corse in bagno ad asciugarsi e indossare abiti asciutti. Quindi seduti a tavola, bevendo un bicchiere di vino e mangiando un pezzo di formaggio con il pane, da soli o in compagnia, in assoluto silenzio, avviarono la riproduzione della registrazione audio effettuata sulla riva mentre l’acqua scorreva. All’orecchio di una persona comune, il suono che si diffondeva dall’apparecchio sarebbe risuonato per ciò che era, uno scrosciare d’acqua. Per gli abitanti del paese invece esso era la voce del fiume. Ognuno di loro l’ascoltava in religioso silenzio per cogliervi l’insegnamento di vita racchiuso. Infatti, da sempre, per chi abitava in quei luoghi, il fiume non era semplicemente un corso d’acqua da sfruttare per irrigare i campi e, anticamente, la fonte da cui attingere l’acqua per bere, cucinare e lavarsi. La credenza popolare riteneva che provenendo dall’alto delle cime, l’acqua trasportasse con sé un messaggio divino, comprensibile solo a loro.

     Anche Lorenzo!

MARATONA DI NAPOLI, QUANDO SI FARA’?

col_4685

Ogni qualvolta partecipo a una maratona che non fosse a Napoli, o la seguo da spettatore in televisione, com’è successo ieri per quella di New York, osservando lo scenario lungo cui si dispiega il percorso, non posso fare a meno di chiedermi perché tutte le maggiori città italiane e internazionali riescono a organizzare una maratona che duri nel tempo, pur non offrendo un panorama suggestivo e spettacolare come quello partenopeo, mentre Napoli, che a livello scenografico potrebbe affermarsi tra i primi posti, se non prima in assoluto, non vi riesca.

Tralasciando le possibili difficoltà organizzative derivanti dall’individuare il tracciato per la gara e la data in cui si possa interdire il traffico cittadino per almeno sette/otto ore senza turbare l’animo dei napoletani, insofferenti agli stop alle auto anche per pochi minuti figurarsi per quasi mezza giornata, la domanda si ripete sempre come un mantra: perché non si riesce?

Quale sia la risposta, francamente non saprei proprio. Di certo, se dopo diciotto edizioni non si è riusciti a strutturare una gara che garantisse per gli anni a venire la dovuta continuità, grazie al percorso collaudato e al periodo in cui si dovesse svolgere – come invece regolarmente accade ormai da anni a Firenze, Roma, Milano, Torino, Venezia, Parigi, Berlino, Londra, New York, Valencia, – è probabile che le difficoltà, più che di natura tecnica, siano burocratiche.

Anche perché a Napoli, ormai da almeno quattro anni, si organizza una mezza maratona di livello internazionale che lo scorso anno ha fatto registrare oltre seimila partecipanti e per la prossima edizione del 2019 punta a sfiorare i diecimila iscritti, un record per il sud Italia. Una mezza maratona che, proprio per la bellezza dello scenario in cui si svolge e per il percorso tecnico su cui si corre, è considerata tra le più belle mezze maratone al mondo. Una gara capace di catalizzare oltre seimila atleti è un grande viatico per il turismo in quanto molti runner che provengono da fuori Napoli si organizzano con le famiglie e con gli amici per regalarsi un week end di turismo e sport, rilanciando l’economia cittadina; favorendo non solo l’organizzazione ma tutto l’indotto che è coinvolto nell’evento: alberghi, ristoranti, pizzerie, negozi, musei.

Poiché credo, con il dovuto rispetto, che Napoli. sia a livello paesaggistico che culturale, non abbia nulla da invidiare a nessun’altra città al mondo, New York inclusa, mi stupisce come le varie amministrazioni cittadine che si sono avvicendate negli ultimi venti anni non si siano adoperate affinché anche a Napoli si organizzasse una maratona di livello mondiale, come se, oltre al calcio, nessun altro sport meriti attenzione.

Oddio, se proprio fosse impossibile organizzarla per motivi a noi ignoti, meglio limitarsi alla collaudatissima ventuno, anziché scommettere sulla maratona con il rischio che il suo insuccesso si ripercuota negativamente anche sulla ventuno, vanificando i tanti sforzi fatti negli anni affinché assurgesse a evento sportivo di livello mondiale.

Ma se davvero, come con sempre maggiore insistenza si vocifera, nel 2020 finalmente anche Napoli avrà la sua maratona, allora significa che chi di dovere si sta muovendo in sordina, studiando nel dettaglio ogni minimo particolare per garantire un’edizione entusiasmante che possa ripetersi nel tempo invece di restare anch’essa isolata come tutte le altre precedenti edizioni.

Nell’attesa, godiamoci la mezza maratona di Napoli che si svolgerà il 24 febbraio 2019. Di sicuro sarà una festa indimenticabile!

“UN’ORA PER CAMBIARE”, UN LIBRO ESTREMAMENTE ATTUALE

un-ora-per-cambiare-e1540745065262-225x300

Di seguito la recensione integrale a UN’ORA PER CAMBIARE pubblicata su comunicare senza frontiere

“Un’ora per cambiare”, scritto a quattro mani da Bruno Esposito e Giuseppe Terminiello, edito da Lettere Italiane Guida, è un piccolo ma prezioso libretto in cui gli autori – ingegnere elettronico, il primo; ingegnere meccanico, il secondo – attraverso una sorta di dialogo platonico tra quattro personaggi – Bruno, Dario, Giuseppe e Matteo – (prendendo spunto dal “Saggio Sulla Libertà” di John Stuart Mill) affrontano l’argomento lavoro, toccando tutti gli aspetti che lo caratterizzano.

Non manca il riferimento al licenziamento in tarda età, come è accaduto realmente a Bruno (per oltre vent’anni dirigente della Olivetti) licenziato a 51 anni e costretto a rimettersi in gioco nel mercato del lavoro a un’età in cui, in una società com’è strutturata quella italiana, se per un giovane è difficilissimo trovare lavoro, per chi ha più di cinquant’anni è quasi impossibile.

Scritto in modo semplice e diretto, il dialogo pone a confronto quattro generazioni: il cinquantenne Bruno, ingegnere elettronico; il quarantenne Giuseppe, ingegnere meccanico impiegato presso un’azienda aerospaziale; il trentenne Matteo, laureato in giurisprudenza; il ventenne Dario, figlio di Bruno, a sua volta ingegnere elettronico.

Le quattro generazioni, parlando delle reciproche esperienze lavorative (conversando anche di politica e mercati; la globalizzazione e la delocalizzazione in Cina) evidenziano come in Italia la crisi del lavoro sia conseguenza di una totale assenza di politiche mirate prima di tutto alla valorizzazione degli individui.

Man mano che il dialogo si svolge viene messo in risalto che un’azienda se vuole davvero crescere ed espandersi, oltre investire in strutture tecnologiche, deve assumere manodopera qualificata che garantisca risorse umane di formazione professionale (non solo tecnica ma anche culturale).

In sintonia con la visione di Adriano Olivetti, “la fabbrica deve essere luogo in cui formare uomini, non operai”, istruire l’individuo per svolgere una professione, unito alla crescita culturale, rappresenta un elemento trainante per la costruzione di una società civile migliore.

Nella storia, il discorso si estende agli USA, società iper-tecnologica, dove i giovani (e non solo) non hanno timore di crescere e confrontarsi con la realtà.

Crescere, tra le altre cose, significa mettere al mondo dei figli: la società americana è giovane, in quanto consapevoli di vivere in un paese che offre loro tutte le opportunità e le garanzie. Quest’ultime, necessarie per emergere e affermarsi, sono alla base per costruire ai propri figli un futuro altrettanto roseo.

Purtroppo, questo “ricambio generazionale” in Italia non avviene così facilmente.  A causa della crisi del lavoro, gli italiani fanno sempre meno figli con conseguente invecchiamento della società, delegando tale funzione di rinnovo agli immigrati che, speranzosi del futuro, non hanno timore di fare figli.

Scritto nel 2006 (due anni prima che scoppiasse la crisi economica che investì l’America per poi estendersi al mondo intero), sarebbe interessante sapere se oggi gli autori riscrivessero il dialogo così come lo impostarono all’epoca o se avessero un approccio diverso, magari più critico nei confronti del mercato americano rispetto a quello italiano. Ad ogni modo, dispiace dirlo, a distanza di dodici anni il nostro Paese non è cambiato affatto…se non in peggio.

Sarebbe interessante una versione aggiornata del dialogo. Non solo per sapere nel frattempo come è cambiato il punto di vista degli autori, ma anche per capire in base alle loro successive esperienze professionali e personali, quali alternative suggeriscono alla società italiana (dove il precariato e l’assistenzialismo tendono sempre più a radicarsi)  per ritrovare smalto e vigore in campo lavorativo e sociale.

Seppure politicamente di chiara impronta progressista (come messo in risalto da Nerio Nesi nella sua Nota al testo), personalmente penso che questo libricino meriti d’essere letto da chiunque.

Al di là dei singoli orientamenti politici, affrontare un argomento trasversale come il tema lavoro, serve a porre diversi spunti di riflessione e costruttivo confronto su una questione che mai come oggi, almeno in Italia, continua a non trovare soluzioni.

Auguro buona lettura a quanti avranno la fortuna di leggerlo, con la convinzione che non si pentiranno di avervi dedicato un’ora della propria vita…soprattutto se dopo averlo letto, percepiranno nell’animo che qualcosa sta effettivamente cambiando, anche solo in termini di pensiero!

INTERVISTA A NIKO MUCCI

NIKO

Di seguito ripropongo in  versione integrale l’intervista all’attore Niko Mucci pubblicata su comunicaresenzafrontiere  


Niko tu non sei napoletano…

No,ho origini abruzzesi e pugliesi. Ma, a parte qualche breve periodo della mia infanzia, ho vissuto tutta la mia vita a Portici. Per sbaglio sono nato in Piemonte.

Ti senti napoletano adottivo o napoletano a tutti gli effetti?

Mi sento un napoletano adottivo nella misura in cui mi ritengo un meridionale: di Napoli percepisco pregi e difetti. L’avere più origini e l’aver soggiornato in diversi luoghi del meridione d’Italia ha fatto sì che la mia formazione culturale fosse napoletanaNon dimentichiamo che a Napoli fu istituita la prima università italiana, e che Napoli e le sue province per secoli sono state, e lo sono tuttora, un’attrattiva per quanti in Europa e nel mondo, nel corso dei secoli, volendo formarsi culturalmente, inserivano la città partenopea nei propri viaggi di formazione. A Napoli e nelle sue province hanno visto la luce tanti uomini e donne che hanno condizionato e condizionano tuttora la cultura mondiale.

Uno di questi è sicuramente Gianbattista Basile di cui ti sei divertito a trasporre in teatro le favole del Pentamerone.

Questo è un progetto che iniziò a maturare quando ero ancora giovane. Caso ha voluto che successivamente, in età matura, mi incontrassi con un discendete di Basile, il regista Domenico Basile, il quale ha tradotto dal napoletano antico, non da quello moderno che noi oggi conosciamo, le cinque favole del Pentamerone e insieme ne abbiamo fatto delle rappresentazioni teatrali in strada a Giugliano, paese natio di Basile. In precedenza già mi ero cimentato con Basile. Per la precisione lavorando con Renato Carpentieri con il quale in ben due occasioni abbiamo portato in scena le favole di Basile. Questo mi ha imposto di studiare il napoletano, non solo da autori moderni, ma da autori del passato come appunto Basile.

So che sei appassionato della letteratura latino/americana. E definisci la cultura napoletana antecedente il terremoto dell’ottanta molto affine a quel tipo di cultura sudamericana. Puoi spiegare questa sottile caratterizzazione?

Prima di tutto penso che sia chiaro a chiunque abbia a vissuto Napoli, sia culturalmente che praticamente, che la città dopo il terremoto è cambiata a livello di impostazione culturale e politica; così come è cambiato il rapporto che la città aveva con la politica e con i propri sentimenti. Ritengo che dopo il terremoto la città sia diventata più cinica, più distaccata da tutta una serie di cose che, seppure facessero parte di un’oleografia, erano insite nel napoletano. Mentre dopo sono diventate solo cartolina. Viceversa un’attenzione non cinica verso i sentimenti, a mio avviso, è rimasta nella cultura di lingua spagnola, sudamericana in particolare. C’è una generazione di scrittori sudamericani moderni che, senza smarrire la classica verve surrealista che caratterizza da sempre quel tipo di letteratura, affrontano in maniera molto incisiva tematiche realistiche. Uno è De La Parra – uno psichiatra – di cui metterò in scena un testo; un altro è Jorge Accame di cui ho già proposto “Avana”, un lavoro molto bello che in Italia non era mai stato rappresentato. Entrambi mantengono un sottofondo di poesia a fronte di un cinismo realistico che possiamo ritrovare in Moscato e in altri autori napoletani, dando vita a una sorta di teatro della crudeltà alla napoletana.

Tu svolgi la tua attività teatrale in un cosiddetto teatro di frontiera perché situato in una zona periferica e “particolare” della città

Il TAN di Piscinola, ai confini con Scampia, Miano, Chiano; comuni dove non c’è un cinema, un teatro, non c’è nulla perché la gente possa divagarsi senza doversi spostare.

Pregi e difetti del lavorare in una zona di frontiera

Prima di tutto, lasciami dire che è bellissimo! Per quanto riguarda i difetti, una sorta di provincialismo da parte di alcuni abitanti di quelle zone che preferiscono spostarsi a Napoli, malgrado noi facciamo molte attività come quelle che si svolgono in città. Provincialismo che io ho già testato a Portici: noi facevamo una proposta e la gente invece preferiva spostarsi a Napoli per vedere o fare le stesse cose da noi proposte.

Non pensi che, più che provincialismo, possa trattarsi di una sorta di precauzione, nel senso che l’idea di dover andare in un luogo deputato “pericoloso” incida sulle scelte delle persone?

Questo sicuramente: tante volte, ai miei inviti a vederci a vedere al TAN, mi sento rispondere, “ma non è pericoloso?”. La mia risposta è sempre la stessa: ci vado da venticinque anni e non mi è mai successo niente! Purtroppo è difficile sradicare un luogo comune dall’anima della gente. Questo è l’aspetto critico dello stare in periferia. Il grosso pregio invece è che in quella zona esiste un associazionismo spinto e un interesse per fare le cose al fine di dire “noi non siamo la camorra, noi non siamo lo spaccio. Noi siamo gente che vuole vivere la cultura”.

Qual è stata la risposta del pubblico a questo vostro impegno?

All’inizio ottima: eravamo seguiti da un nutrito pubblico tanto da arrivare ad avere per una stagione teatrale circa cento abbonati che è tanto per un piccolo teatro come il nostro. Abbiamo creato una rete con altri teatri e un pulmino che porta la gente da Napoli centro fino a noi e poi la riaccompagna in città. Ma soprattutto abbiamo riscontrato un interesse e una voglia di fare da parte degli abitanti del posto che ci fanno venire la voglia di continuare. Considera che io vado da Portici a Piscinola, il nostro direttore artistico viene da Fuorigrotta. Malgrado le distanze, ci spostiamo con gioia perché in quel territorio c’è fermento culturale per dimostrare di essere la parte buona di Napoli!

Passiamo per un attimo alla tua passione per la poesia, come nasce?

Quando da ragazzo suonavo, avevo la tendenza a fare il cantautore quindi mi scrivevo i testi delle canzoni e molti li mettevo da parte. Molti anni dopo, lavorando in teatro, una sera che eravamo in tournée, nell’attesa che la compagnia che ci ospitava finisse le prove, cominciai a improvvisare dei versi e la cosa mi divertì molto. Visto che poi le persone a cui li feci leggere si divertirono a loro volta, cominciai a scrivere con continuità. Inoltre la scrittura mi è stata di grande aiuto nei momenti di depressione derivanti dallo stare lontano per lungo tempo dalla famiglia a causa del lavoro. Quando poi le iniziai a pubblicare su Facebook, più di un amico mi chiese perché non le raccogliessi in un libro. E così nacque la prima raccolta di poesie, ATTORI A BABORDO, tutte scritte in tournée. Avevo come punto di riferimento Isa Danieli con la quale lavoravo: un giorno, mentre eravamo in pausa, prese una mia poesia, la lesse e disse “ a mme ‘e rime nun me piaceno, ma chesta poesia è bella”. A quel punto mi sentii incoraggiato e decisi di pubblicare.

Anche la tua seconda raccolta di poesie ha un titolo che richiama il mare, NAVIGARE E’ TARDI, ci spieghi perché questo legame con il mare e la navigazione?

Ho sempre accostato la compagnia di teatro all’equipaggio di una nave, obbligato per tutto il viaggio a stare insieme, decidendo se accoltellarsi o collaborare per portare la nave in porto. E poi mi porto dentro il monologo iniziale di Ismaele in Moby Dick che termina dicendo, “il mare, dove ciascuno come uno specchio ritrova se stesso.”

Tua moglie è l’attrice Nunzia Schiano, il vostro è un rapporto in cui prevale l’intesa o il conflitto?, ovviamente mi riferisco alla vostra attività teatrale.

Per un lungo periodo siamo andati di amore e d’accordo su tante cose. Negli ultimi tempi qualche conflitto nasce rispetto alle valutazioni sui giovani attori: io sono più possibilista, lei invece è molto rigida. Le nostre discussioni vertono sulla misurabilità del concetto di talento, ossia se il talento si può misurare o no: io dico che esistono vari gradi di talento; lei invece sostiene che il talento o c’è o non c’è! E su questo ci facciamo delle battaglie ideologiche che mi sono divertito a traslare in un testo teatrale: l’anno scorso ho proposto a mia moglie un copione in cui io e lei eravamo una specie di aspettando Godot, due ex attori settantenni che su una spiaggia rivedono il loro percorso. Mi ha risposto,”non lo farò mai, sono contraria all’autoanalisi in teatro”.

Ultima domanda, tuo figlio ha anche lui intrapreso l’attività nel modo dello spettacolo, seppure da regista cinematografico. Il suo cortometraggio ‘Corduroy’ è tra i finalisti per la categoria al Festival del cinema di Roma: come padre sei orgoglioso, preoccupato o cosa?

Di mio figlio sono molto orgoglioso per il percorso che ha fatto: come me ha iniziato a suonare; quindi si è interessato di cinema; si è laureato al DAMS; ha fatto dei master. Tuttavia vorrebbe fare lo sceneggiatore. Ma quello che mi ha reso particolarmente orgoglioso è il modo con cui ha gestito la compagnia durante i tre giorni di riprese. Secondo me ha fatto un solo errore: nel cortometraggio Nunzia interpreta il ruolo di protagonista; un giorno le disse, “mamma devi metterti qua”, anziché chiamarla Nunzia. Per il resto ha gestito in maniera egregia una compagnia composta da persone più esperte di lui; ascoltando e portando avanti il suo progetto, mediandolo con l’aiuto degli altri. Non è cosa da tutti.

Niko progetti per il futuro?

L’uscita del terzo libro di poesie che si chiama BAIONETTE LE PAROLE, in cui sono racchiuse tutta una serie di poesie che scrissi quando fui costretto in ospedale in seguito all’incidente per cui ho rischiato la vita e che mi ha limitato nei movimenti. Ma che mi ha anche obbligato a una profonda riflessione su me stesso per capire come avrei dovuto rivedere la mia vita, a valutarla in modo diverso. Per quanto concerne il teatro, sono costretto a passare più tempo dietro le quinte, lavorando come regista,che non a stare sul palco come attore. Ma ti assicuro che ciò non sminuisce affatto la mia passione per il teatro. È solo un inversione di ruolo, per alcuni aspetti anche più affascinante della recitazione stessa. Seppure il contatto che hai con in pubblico quando sei in scena è tutta un’altra emozione.

Fatti una domanda e datti una risposta.

Quali pensi siano i punti finali del tuo percorso?… Citando Flaiano, speriamo che la morte ci trovi ancora in vita!

 

Poco prima di pubblicare l’intervista, apprendiamo che l’attrice Nunzia Schiano, al Festival del Cinema di Roma, ha vinto il primo premio come attrice protagonista nel cortometraggio “Corduroy” girato dal regista Francesco Mucci.
A Niko, Nunzia e Francesco i complimenti della redazione di Comunicare Senza Frontiere.

CONVEGNO: ALLA RICERCA DELLA CITTA’ PERDUTA

locandinaProgramma

COMUNICATO STAMPA

L’Associazione G.R.O.N. socialmente impegnata, sin dagli anni ’90, nel trattare temi legati allo sviluppo delle realtà urbane in scala europea e mediterranea, organizza presso la Sala Circolare – Cortile di Palazzo Fondi (Via Medina 24) e Sala Accoglienza-Palazzo Reale-Napoli, il 25 e 26 Ottobre 2018 due appuntamenti dedicati al progetto,“Alla ricerca della città perduta”. Ideato, coordinato e sostenuto da Mario Mangone, presidente dell’Associazione G.R.O.N., il progetto Alla ricerca della città perduta “punta la propria attenzione sugli strumenti organizzativi e disciplinari per rinnovare nuovi sguardi verso la città di Napoli; tenta di redigere nuovi modelli organizzativi ed innovativi per sviluppare contemporaneamente nuove collaborazioni analitiche e progettuali tra le città di Napoli-Milano ed Atene”. L’evento, oltre ad illustrare il progetto, è anche un momento di riflessione per porsi domande su: Cosa sono oggi le nostre città? Siamo in grado di riconoscerle? Qual è il senso delle loro attuali trasformazioni?

PROGRAMMA 25 Ottobre 2018 – ore 11,30 – presso Sala Circolare – Cortile di Palazzo Fondi Nuovi sguardi sulla città, attraverso i volumi di “NAPOLI-Atlante della Città Storica- Verso la costruzione di un Info-Point Urbano. Interviene Italo Ferraro – Focus storico sull’intera area urbana circostante Palazzo Fondi. A conclusione aperitivo enogastronomico musicale a cura di Antonella Iacuaniello, Vitignoitalia e gruppo miusicale “Le Belle Dame” – ore 16,30- presso Sala Accoglienza-Palazzo Reale –Napoli Quali strumenti di conoscenza per le realtà urbane contemporanee? L’esempio di “NAPOLI-Atlante della Città Storica”, come occasione di collaborazione e confronto con altre città europee, da Atene a Milano. Introduce e coordina Pasquale Belfiore Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” Intervengono: Italo Ferraro, ideatore e curatore di “NAPOLI-Atlante della Città Storica”, Ed. Oikos Nikos Ktenàs, Atene-architetto docente al Politecnico di Milano Sezione curata in collaborazione con la Comunità Ellenica di Napoli e Campania. 26 Ottobre 2018 – ore 10,30 – presso Sala Accoglienza-Palazzo Reale –Napoli Quali trasformazioni per le realtà urbane italiane. Il caso Napoli, Milano ed Atene, verso nuove forme di collaborazione. Verso la costruzione di vetrine urbane a scala internazionale tra Salone del Mobile – Milano 2019 e “Tiime Experience Bovio 2019” in parallelo con Universiadi 2019 –Napoli Introduce: Massimo Lo Cicero, Economista Intervengono: Italo Ferraro, curatore di Napoli-Atlante della città storica; Nikos Ktenàs, Atene-architetto docente al Politecnico di Milano; Paolo Casati e Cristian Confalonieri, Fondatori StudioLabo e Creativ Director di Brera Design District – Milano. – ore 16,30 -presso Sala Accoglienza-Palazzo Reale –Napoli “Produzione e consumo dei linguaggi culturali a Napoli” Intervento dell’attrice Cinzia Mirabella in memoria di Salvatore Cantalupo, Antonio Pennarella, Riccardo Zinna, Salvatore Bisogni. Introduce: Sergio Brancato, Sociologo Intervengono: Francesco Pinto, Direttore CPTV – RAI di Napoli Gabriele Frasca, Scrittore Giuseppe Gaeta, Direttore Accademia di Belle Arti di Napoli Lello Savonardo, Docente di Comunicazione e Culture giovanili- Univ. “Federico II” di Napoli

Comunicazione e Media Mario Mangone: mariomangone53@gmail.com

Carla de Ciampis: redazione@comunicaresenzafrontiere.it

SCHIAVONE – DI LINO, QUANDO LA POESIA HA LA VOCE DI DONNA

20181021_111033-1-300x225

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere inerente l’inaugurazione delle terza edizione di “La poesia al Tempo del Vino e delle Rose”

——————————————————————————————————————————————

Napoli, nella sobria e accogliente atmosfera del caffè e bistrot letterario, Il Tempo del vino e delle Rose, in Piazza Dante, domenica 21 ottobre, si è inaugurata la terza edizione de “La poesia al tempo del vino e delle rose”; una serie di incontri con poeti e scrittori curati da Rosanna Bazzano, proprietaria del caffé.

Ad aprire questa nuova serie di appuntamenti le poetesse Angela Schiavone e Stefania Di Lino, coadiuvate rispettivamente da Cinzia Caputo, psicoterapeuta e poetessa, e Floriana Coppola, docente e scrittrice. In veste di lettrice, Wanda Marasco.

Ad aprire la kermesse la poetessa puteolana Angela Schiavone con la sua raccolta di poesie Drammaturgia Privata edito da Giuliano Ladolfi Editore, presentata da Cinzia Caputo che ha evidenziato come per Angela, attraverso la scrittura, “il quotidiano da foglio buttato via “ assurge ad “affermazione del mito”. Chiaro riferimento al mito di Narciso, apertamente citato da Angela in una delle sue poesie, da cui la Caputo ha preso spunto per evidenziare che, mentre quella femminile si perde nell’altro, la poesia maschile si perde in se stessa. Parlando di sé, la Schiavone non ha lesinato scavare nel proprio animo, dichiarando: “la parola scritta impone il confronto con il mondo, obbligandoci a chiederci io chi sono?… Rispondendo, Non è mai tardi per manifestare ciò che sono!”. Proseguendo nella presentazione della propria visione poetica, Angela ha dichiarato, “la poesia deve emozionare”! Detta così sembrerebbe una banalità ma non lo è affatto in quanto per la poetessa – Angela direbbe, “per la poeta” – emozione è tutto ciò che suscita sentimenti e pensieri positivi in chi legge o ascolta i versi. Riaffidando alla poesia la funzione di estraneazione dell’individuo dalla “triste” quotidianità, dove “molte volte si è costretti a vivere in un ambiente composto da persone che non vogliono vederti vivere”; proiettandolo in un universo di visioni dove il dolore esistenziale è il propellente per trovare se stessi ed essere finalmente felici. Ossimoro per dimostrare che il poeta si nutre di sofferenze per partorire gioie sotto forma di versi. E di sofferenze Angela ne ha patite tante negli ultimi tempi. Come lei stessa ha ammesso con sincerità, ma senza mai sbilanciarsi, a conferma di quanto la propria poetica attinga dalle viscere dell’anima. Meritano un plauso le letture della scrittrice Wanda Marasco che ha declamato i versi della Schiavone, ma sarebbe meglio dire sussurrato, badando al ritmo e al tono di voce perché, come lei stessa ha ammesso, “le poesie non vanno urlate!”.

20181021_113334-300x225.jpg2

Per quanto concerne la poesia della romana Stefania Di Lino, di cui si sono letti brani tratti da LA PAROLA DETTA edito da La Vita Felice, l’alternanza sul palco con la Schiavone si è rivelata il giusto abbinamento per una mattinata all’insegna dei versi al femminile. Così come la Schiavone, la poesia della Di Lino è caratterizzata da una scrittura asciutta, scevra da manierismi, diretta, priva di punteggiatura; dove “le parole sono punti di sutura”, come ha evidenziato Floriana Coppola nel proprio intervento. E poiché le suture servono per richiudere le ferite, anche per la Di Lino la poesia è fondamentale per ricucire le piaghe dell’anima determinate dalle sofferenze della vita. Lesioni conseguenti alla forte sensibilità del poeta, quello vero,che lo spinge “a voler essere, non apparire”; ad anteporre la verità alla falsità dell’immagine truccata imposta dalla società odierna dove tutto, o quasi tutto, è taroccato per apparire bello malgrado sia privo di “vita”. Questa voglia di essere ad ogni costo della Di Lino – di affermare la propria interiorità -, è frutto di una visione etica che l’autrice ha della poesia. E lo specchio in cui si riflette per ritrovare se stessa è la figura materna nella quale ogni donna tende a volersi riconoscere nell’eterno dilemma esistenziale “cosa si è e cosa si vuole essere.” Parlando di questa ricerca interiore, la Di Lino giunge a citarsi : “la mia vita è piena di morti che erano tali anche quando erano vivi”; affermando un concetto già trasparso nell’intervento della Schiavone: “La poesia è uno strumento di scavo interiore senza sconti”.
Entrambe le poetesse hanno incentrato il proprio discorso poetico su come si possa essere morti pur essendo vivi di velata matrice evangelica, a conferma di quanto la poesia, a prescindere se uno ha un credo o no, possa risolversi in un potente martello capace di fare breccia nell’anima degli uomini fino a spingerli a ribellarsi al sistema per essere se stessi. A testimonianza di come le parole possano risolversi più potenti della spada, le storie di vita di molti poeti e scrittori, antichi e moderni, costretti a esiliare o a fuggire dal proprio paese in quanto con i propri scritti alimentavano, e tuttora alimentano, il livore delle masse verso chi governava e governa.

 

 

 

 

 

 

Questa terza edizione di “La poesia al tempo del vino e delle rose” non poteva inaugurarsi in maniera più felice, a conferma di quanto Rossana Bazzano ci tenga ché il proprio caffè letterario si distingua per la qualità degli autori proposti.

Anteponendo la qualità alla quantità, difficilmente si sbaglia!

INTERVISTA ALLO SCRITTORE DAVIDE MORGANTI

L'immagine può contenere: 1 persona, spazio al chiuso

Di seguito ripropongo in versione integrale l’intervista allo scrittore Davide Morganti pubblicata su comunicare senza frontiere 


Professore di lettere, scrittore, sceneggiatore, giornalista sportivo, chi è Davide Morganti ?

Il mio vero cognome è Palmieri. Bisogna fare questa scissione. A scuola sono il professor Palmieri, fuori sono lo scrittore Morganti. Anche se a volte i miei alunni mi chiamano professor Morganti. Ovviamente per scherzare. È una scissione che ho fatto venir fuori solo negli ultimi tempi. Per anni non ho mai detto nulla. Perfino a scuola non sapevano di questa mia “dicotomia”. Quando la scoprivano e mi chiedevano perché ne tacessi, rispondevo che non vedevo la necessità di renderla pubblica essendo il professore Palmieri.

Nella precedente risposta hai messo in risalto il tuo rapporto con gli alunni. Approfondiamolo: come si rapportano i ragazzi con questo professore che è anche uno scrittore di livello?

Sono molto incuriositi e orgogliosi tanto che molte volte mi hanno chiesto di leggere in classe i miei libri. Ovviamente mi sono sempre rifiutato in quanto reputo scorretto che un insegnante spinga gli alunni ad acquistare i propri libri per poi leggerli in classe. Solo l’idea che debbano comprare un mio libro e che poi io debba commentare me stesso mi sembra fuori da ogni logica, non solo deontologica ma del saper vivere generale!

Come nasce il rapporto tra Morganti, pardon, Palmieri e la scrittura?

Fin da piccolo ho cercato un cognome diverso da Palmieri perché mi piaceva nascondermi. Poi scelsi Morganti perché mi piaceva il cognome  di mia nonna paterna. Pensa che questo cognome mi si è talmente appiccicato addosso che ci sono persone le quali, quando scoprono che mi chiamo Palmieri, restano stupite. Per rivendicare il mio cognome reale ho preteso che nella bandella di La Consonante Kappa comparisse anche Palmieri.

Veramente volevo sapere come nasce il tuo rapporto con la scrittura…

Ah, scusa!… Francamente non lo so, scrivo da quand’ero bambino. Avevo pressappoco undici anni. Lo considero un fatto naturale. Quando da bambino ti lasci catturare da una passione artistica, o da una passione in generale, non sai, seppure lo speri, che possa essere un qualcosa che continuerai a fare da grande. Almeno così era per me. Tanto che poi, man mano che crescevo, mi chiedevo, “ma scrivo perché è una cosa che fanno tanti adolescenti, o scrivo perché un domani posso ottenere un qualcosa di più a livello personale e professionale?” E, una volta che mi ero posto la domanda, mi rispondevo, “superata l’adolescenza, vedremo se effettivamente ho il bisogno di dire qualcosa o se sto attraversando una fase che vivono molti miei coetanei!?” Ma soprattutto mi sembrava impossibile di poter fare ciò che sognavo di fare. Anche perché siamo abituati – sarebbe meglio dire “educati” – a pensare che tutto ciò che sogniamo difficilmente si realizzerà. Non a caso le nostre disillusioni nascono con la befana che non esiste!

So che hai fatto studi teologici: ciò in passato avrà certamente influito sulla tua scrittura!? Influisce tuttora o stai cercando di uscirne?

Per carità, non voglio affatto uscirne, ma ci voglio rimanere sempre più incastrato dentro! La cultura teologica permea completamente quello che scrivo. Io sono anche laureato in filosofia però la teologia è quello che più si incastra nelle mie ossessioni religiose. Considera che oltre ad aver studiato teologia ho anche studiato ebraico in sinagoga, ho pregato con gli ebrei; è una cosa che mi attraversa parecchio.

Hai fatto un percorso, seppure alla lontana, simile a quello di Erri De Luca il quale ha studiato l’ebraico per poi studiare la Bibbia dalla lingua madre.

So che De Luca traduce dall’ebraico ma penso che abbiamo fatto percorsi distinti: questa mia passione teologica risale a quando avevo diciassette anni. Credo che De Luca abbia cominciato molto più tardi. Avevo anche pensato di iscrivermi al corso di ebraico con il professor Battioni che è uno dei coordinatori della Bibbia di Gerusalemme. Ma poi non se ne fece niente in quanto, oltre a  studiare, già insegnavo religione in una scuola elementare di Cavalleggeri; poi l’ho anche insegnato alle medie e alle superiori.

I bambini come vivevano questa figura laica che insegnava religione?

Mi amavano moltissimo: dicevano che ero divertente e severo. Io ho sempre creduto che un insegnante debba essere una sorta intrattenitore/attore. Ma deve trasmettere contenuti altissimi!

Il tuo ultimo romanzo, La Consonante Kappa, ha avuto degli ottimi riscontri di critica cui però non è corrisposto lo stesso riscontro di pubblico, molto probabilmente per via della complessa architettura del romanzo dove si incastrano più personaggi e più storie, da Gesù a Lenin, passando per la caduta del muro di Berlino. Perché questo mosaico?

Come tutti i libri, il mio si può amare, odiare, denigrare o meno. Mediamente il lettore è abituato a una storia che si sviluppa linearmente dall’inizio alla fine. Per quanto mi riguarda, non ho un dogma, ossia non mi sento obbligato a scrivere una storia in maniera “rettilinea”, dall’inizio alla fine sempre con gli stessi protagonisti. Cosa che ho fatto tranquillamente in altri miei libri, come ad esempio Moremò. Ma ci sono momenti storici in cui hai voglia di pluralità. Sapevo benissimo che rischio correvo impostando il romanzo così com’è strutturato, ero consapevole che, di riflesso, non avrei avuto folle oceaniche in libreria per acquistare il mio libro. Ma scriverlo così come è era quello che volevo. Fa niente che non entrerò in classifica!

Al cinema è uscito Caina, la trasposizione cinematografica del tuo omonimo romanzo, per la regia di Stefano Amatucci, interprete Luisa Amatucci, a cui hai collaborato per la sceneggiatura. Indossare i panni di sceneggiatore è stato più facile o difficile rispetto a quelli di scrittore?

Caina è un incastro tra il romanzo che ho pubblicato con Fandango e un testo teatrale che scrissi nel 2009 dal titolo “il trova cadaveri”. Su suggerimento di Stefano, ho preso  la xenofoba Caina e questo testo teatrale, dove il trova cadaveri è un maschio che raccoglie cadaveri dalla spiaggia, e li ho scecherati. All’epoca il testo fu rappresentato al teatro Elicantropo con Stefano Meglio per la regia di Mario Gerardi: il personaggio originale è grottesco, molto buffo. Diversamente da Caina,  cupa e drammatica che Luisa Amatucci ha reso in maniera magistrale.

In passato hai tenuto laboratori di scrittura creativa. Pensi che un laboratorio sia in grado di sfornare scrittori?

No, assolutamente! Quando li coordinavo, facevo presente ai partecipanti che si veniva per confrontarsi, per leggere insieme. Personalmente lo ritengo un esercizio per aguzzare la vista sulla pagina, sui libri, più che ad appagare velleità di scrittore. Anche se poi in seguito molti di coloro che mi seguivano mi hanno detto “Davide, c’è un prima e un dopo di te per come scrivo.” Questo ti fa piacere. E uno che me lo ha detto è stato lo scrittore per ragazzi Antonio Tammaro che scrive storie delicatissime.

 Attualmente hai laboratori a Pozzuoli?

Non più .  A Napoli i laboratori di scrittura sono frequentati da tantissime persone. Evidentemente ai puteolani, ovviamente, parlo in generale, interessa ben altro. Magari rimpinzarsi più lo stomaco che la mente. O addirittura non interessa Davide Morganti, vallo a sapè!?

Quali sono gli scrittori su cui ti sei formato?

Da bambino Dostoevskij, Kafka e Strindberg. Da adulto stilisticamente mi hanno condizionato Albert Caraco e Federico Dozzi. La ricerca sulla musicalità della frase è durata parecchi anni. E ci sono scrittori che effettivamente  mi hanno indirizzato. La scrittura è un esercizio di ricerca! Non immagini quanto mi fa piacere quando chi ha letto un mio libro mi fa presente che, leggendo, aveva la sensazione che fosse stato scritto da più persone. Uno scrittore deve adeguare lo stile alla storia altrimenti fa tutto uguale, uno yogurt. E là sta la fatica: costruire storia, personaggi e stile. Ora che ci penso, un altro autore che mi piace molto è Winfriend Sebald, ha una scrittura ipnotica!

Ultima domanda, a cosa stai lavorando?

Su suggerimento di Gianfranco Di Fiore, uno scrittore bravissimo, ho ripreso dei romanzi vecchi, del 2007, del 2010 e 2017, e sto cercando di incastrarli per farne un unico romanzo. Inoltre ho anche altri due nuovi romanzi a cui lavorare. Ma non si può fare tutto!

Chiudo la mia intervista con :”Non sono mai riuscito a comprendere in che modo, in paradiso, un uomo si possa considerare beato senza sentire la sua santità diminuire sapendo che altrove, all’inferno, c’è qualcuno che soffre” dal romanzo “La Consonante K” di Davide Morganti.

UN UOMO TRA SPERANZA E NAUFRAGIO

260px-Stöwer_Titanic

Spaventa sempre qualunque cambiamento comporti la perdita di una “sicurezza” radicata nel tempo. Spaventa sempre perché, all’improvviso, dopo anni vissuti con la certezza di poter gestire senza particolari problemi una famiglia, improvvisamente ti riscopri a pensare che, quanto prima, sarai costretto a rimetterti nuovamente in gioco sul mercato del lavoro, nemmeno avessi vent’anni; a dover iniziare a guardarti di nuovo intorno alla ricerca di un’attività che ti consenta, prima di tutto, di dare un senso alla tua vita, con l’amara consapevolezza che ormai da tempo il tuo sguardo e la tua mente non sono più allenati a cogliere aspetti, sfumature, diversità del mondo esterno, che un tempo avresti individuato all’istante o poco più, aiutandoti a compiere quella che ti sarebbe sembrata la scelta più giusta in sintonia con le tue esigenze personali, per crescere e affermarti come uomo, per conquistare dignità!

Nel momento in cui il vento del cambiamento inizia a far sentire sempre più forte il proprio pesante respiro, ti domandi se sarai nuovamente in grado, ora che hai un’età, a districarti con abilità tra i suoi soffi; se saprai orientare la tua barca con prontezza, determinazione e sagacia affinché il vento ne gonfi le vele, spingendola verso ignoti orizzonti con l’obiettivo di rifarti una vita.

Sai bene che, rispetto al passato, quando navigatore solitario, ti divertivi volutamente a spostarti da “un’isola” all’altra, con la preoccupazione di dover salvaguardare solo alla tua incolumità anziché pure a quella dei passeggeri a bordo, oggi la condizione è completamente ribaltata: seppure i passeggeri sono giovani, forti e sempre più vaccinati alle avversità della vita, e dimostrano di sapersi muovere da soli nel mare esistenziale senza bisogno dell’ausilio di chi indichi loro la rotta giusta da seguire; seppure hai accanto un monolite di donna che, pur avendo sofferto tanto, non si è mai lasciata schiacciare dalle avversità della vita, ma ha sempre reagito con forza, coraggio e capacità uscendone vincitrice, comunque sei consapevole che il cambiamento che sta per approssimarsi modificherà in maniera radicale il tuo modo di vivere, imponendoti di rispolverare dal baule dell’animo quegli aspetti del tuo carattere necessari per costruirti una vita, atrofizzati dalla falsa sicurezza, cementata negli anni, di vivere a bordo di un “piroscafo” reputato inaffondabile. E che invece, come il Titanic, si è dimostrato di una fragilità disarmante,- complice l’ingenuità?, l’incapacità?, la fiducia mal riposta? del nocchiero, sempre più agonizzante in un oceano plumbeo, mantenuto a galla da promesse, accordi, speranze vane che stanno per cedere la presa, lasciando che la nave affondi.

Come gli altri componenti dell’equipaggio, saresti tentato di abbandonare il piroscafo per salire a bordo di una scialuppa di salvataggio e allontanarti sempre di più da quella realtà agonizzate, da quel mare assassino. Ma quello scafo in declino, piaccia o meno, rappresenta una parte importante della tua vita. Così come una parte importante della tua vita è rappresentata dai superstiti dell’equipaggio: uomini con cui hai condiviso più della metà della tua vita, con i quali hai riso, pianto, urlato di rabbia e di gioia, mangiato e giocato, ti sei incazzato e hai fatto incazzare. Persone che mai avresti pensato fossero per te tanto importanti e invece, quando ormai imbarcare acqua è diventata una condizione irreversibile, scopri che sono un pezzo importante di te, che il solo pensiero di dovertene staccare ti fa stare male perché, sia nel bene che nel male, i rapporti umani sono formativi, soprattutto quelli di lunga durata.

Nel momento in cui la barca affonda, scopri che tanti erano i falsi ufficiali che la governavano, che non si sono fatti scrupoli di abbandonarla per salire a bordo di un’altra stabile e sicura non appena la vostra ha iniziato a dare inequivocabili segni di cedimento, fregandosene del suo onesto equipaggio in balia degli elementi. Inizialmente sei portato a giustificarli questi marinai da “mare piatto”; pensi che al loro posto avresti fatto altrettanto. Ma quando poi ti soffermi a pensare alle cause del naufragio, la rabbia ti coglie in quanto ti accorgi che alcuni di quei capitani, seppure in piccola parte, sono corresponsabili del disastro.

La senti la rabbia salire dal profondo dell’anima per esplodere in tutta la propria potenza in un urlo e in un pugno che soffochi in gola e che domini stringendo le dita nella mano fino a farti male perché, tutto sommato, sei convinto che “finché c’è vita c’è speranza”. Ma nel momento in cui pensi ciò, sei anche consapevole che la tua speranza è solo un modo vile per rifiutare la sempre più evidente realtà dell’ormai prossimo naufragio.

A quel punto senti il mare alla gola; fatichi a respirare, a tenere la testa fuori dall’acqua. Ma ormai quel che resta del relitto si impenna in un ultimo, disperato, sussulto di vita. Per poi inabissarsi a testa in giù, trascinando con sé nei fondali le speranze tradite di chi, come te, su quel bastimento aveva costruito la propria vita, dato corpo alle proprie speranze, a quelle della sua donna e dei propri figli.

Aggrappato come un disperato alla ringhiera a poppa con le gambe che si agitano nel vuoto, osservi sotto di te il nero vortice fagocitare con ingordigia la nave nei fondali. Un’ultima, vana speranza ti coglie mentre vai a fondo, chiedendoti se quei fondali non rappresentassero il traumatico varco a un mondo migliore cui diversamente non avresti avuto accesso!? Un mondo dove finalmente avrai la possibilità di dare corpo ai tuoi sogni!?…

È proprio vero, la speranza è l’ultima a morire!

 

IL FOTOGRAFO DI SCENA GIANNI BICCARI SI RACCONTA

biccari

Di seguito ripropongo in versione integrale l’intervista al fotografo di scena Gianni Biccari pubblicata su www.comunicaresenzafrontiere.it

—————————————————————————————————————————————

Dal 4 al 14 ottobre, escluso il martedì, al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli – è in corso la mostra fotografica EMOZIONI E PALCOSCENICO 1988-2018 di Gianni Biccari, curata dallo storico della fotografia Luca Sorbo. Una carrellata di 47 scatti, scelti tra circa quindicimila negativi, con cui l’artista, per anni fotografo di scena, ripercorre la storia del teatro napoletano. Per l’occasione, abbiamo posto alcune domande a Biccari.

Questa mostra celebra la tua attività trentennale di fotografo di scena, perché questa passione per il teatro?

Mi è sempre piaciuto il mondo dello spettacolo ma essendo timido ho trovato un “modo” che mi consentisse di frequentarlo senza confrontarmi direttamente con il pubblico, dandomi nello stesso tempo la possibilità di abbinare fotografia e teatro,  due mie grandi passioni.

Malgrado ti definisci timido, fai parte di una compagnia di teatro amatoriale con cui saltuariamente ti diverti a recitare. Solcare il palcoscenico ti ha aiutato e ti aiuta nella tua attività di fotografo di scena?

Assolutamente sì! Recitando ho imparato i tempi, la mimica, la controscena: tutte cose che quando sono dietro le quinte o ai piedi del palco per fotografare mi aiutano a cogliere il momento topico della recitazione e a immortalarlo nello scatto.

Facciamo un bel passo indietro, come nasce la tua passione per la fotografia?

Alla fotografia mi sono approcciato relativamente tardi, precisamente agli inizi degli anni ottanti quando avevo poco più di vent’anni. Avendo avuto la fortuna di iniziare a lavorare molto giovane, la consapevolezza di poter contare su uno stipendio, senza avere particolari spese quali affitto, bollette in scadenza e quant’altro, poteva indurmi ad adagiarmi sugli allori. Nel momento in cui capii che stavo entrando in questa condizione oziosa, mi dissi che dovevo trovarmi un interesse alternativo al lavoro che mi consentisse di impegnare in maniera costruttiva il tempo libero. Il caso volle che mi capitasse tra le mani un almanacco di fotografia. Sfogliandolo, restai talmente affascinato dalle immagini riprodotte che decisi di provare a mia volta a fotografare. Da allora la fotografia è diventata una seconda pelle che non ho mai più dismesso, contrariamente al mio solito di non terminare ciò che comincio.

Tra le foto esposte, vedo che ci manca quella con Giorgio Albertazzi: non è esposta in quanto Albertazzi non apparteneva alla tradizione del teatro napoletano?

No, il motivo è un altro. Poiché la mostra vuole celebrare il teatro come luogo dove ha vita lo spettacolo, con il curatore della mostra, lo storico della fotografia Luca Sorbo, abbiamo adattato le fotografie allo spazio e abbiamo immaginato che ogni parete fosse un palcoscenico e che le fotografie dialogassero tra loro come in una scena teatrale. Purtroppo la foto di Albertazzi, così come tante altre che, aimè, ho dovuto sacrificare,  non si sposava con questa strategia di allestimento. Ma è sul catalogo insieme alle altre. Mi è doveroso ricordare che il catalogo è impreziosito dalla prefazione di Giulio Baffi. 

Un’altra tua grande passione è la corsa: sei un runner e hai nel tuo palmares tante maratone e mezze maratone terminate. Pensi che correre tanti chilometri e per tanto tempo possa averti temprato alla pazienza e, di conseguenza, possa averti inconsciamente insegnato che bisogna  portare a compimento ciò che si comincia ad ogni costo?

Assolutamente sì. Soprattutto quelle discipline che hai citato e che conosci bene perché anche tu sei un runner con delle maratone all’attivo. La corsa di resistenza ti tempra. Ma non solo: la corsa per me è un pensatoio. Soprattutto quando corro da solo, cosa che si ripete spesso negli ultimi tempi, penso molto, progetto. E proprio durante le mie ultime uscite in solitario ho molto pensato a questa mostra.

All’allestimento della mostra hanno collaborato tua moglie Geny e tuo figlio Matteo, anche lui appassionato di teatro, autore dei video proiettati nei monitor in sala. Possiamo dire che, contrariamente a quanto spesso accade a chi, coltivando una passione, è costretto a sacrificare la famiglia, nel tuo caso la fotografia si è risolta  in ulteriore collante per il consolidamento degli affetti familiari?

Senza dubbio! Senza la mia famiglia non avrei fatto nulla, non avrei avuto nemmeno l’input per immaginare una cosa del genere. E poi sono fortunato perché, oltre a sostenermi moralmente,  mia moglie  e mio figlio collaborano attivamente: con Geny abbiamo assemblato le cornici che vedete esposte in sala; Matteo ha curato i testi e i  video. È stato un bel gioco di squadra, coordinato in maniera magistrale da Luca Sorbo, di cui vado orgoglioso! 

All’inaugurazione della mostra erano presenti molti degli artisti immortalati nelle foto, le reazioni come sono state?

Le reazioni sono state entusiasmanti. Ma il momento in cui ho capito di aver fatto davvero un buon lavoro è stato quando, il giorno dopo, uno di loro, di cui mai farò il nome, mi ha chiamato facendomi i complimenti, rammaricandosi che non avevo messo anche una sua fotografia, dicendo, “però ‘na fotografia mia ‘a putive mettere!” Quando un grande dello spettacolo ti dice una cosa del genere, vuol dire che hai fatto qualcosa di bello! Ovviamente anche a lui ho spiegato il criterio di allestimento e mi sono ripromesso di integrare nei successivi allestimenti della mostra una sua foto: su  trentamila negativi a mia disposizione, per questa esposizione ne ho visionati poco meno della metà. Sono certo che negli altri ci sarà una sua foto che si sposa con il progetto in atto.

Sabato prossimo terrai una sorta di visita guidata in cui spiegherai al pubblico la genesi di ogni singolo scatto, come ti è venuta questa simpatica idea?

Non volevo fare un incontro tradizionale con il pubblico, tipo conferenza, dove, alla lunga, la gente si annoia. Insieme a Luca Sorbo abbiamo pensato che sarebbe stato più interessante parlare di me, della mia esperienza. Ma soprattutto parlare delle fotografie, guardandole e commentandole dal vivo.

L’avvento del digitale ha mandato in pensione il vecchio rollino fotografico. Nostalgia del rollino?

Indubbiamente la plasticità e il disegno della grana della pellicola sono irripetibili anche con il computer. Ma bisogna dire che il digitale ti dà tanti altri vantaggi, soprattutto per la sua versatilità. Tuttavia io credo molto nell’interazione tra digitale e rollino. Io uso molto la commistione tra i due procedimenti, digitalizzo i tanti negativi che ho per poi lavorarci in maniera digitale. Ma solo per migliorali. Non mi piace ritoccare in maniera eclatante una foto. L’istante dello scatto non va alterato! Tuttavia riconosco che l’avvento del digitale ha ammortizzato in maniera enorme i costi di produzione: prima per conoscere la qualità di una foto, dovevi chiuderti in camera oscura, sviluppare e attendere lo sviluppo. Oggi con il digitale, usufruendo di una memorycard puoi archiviare fino a 5 mila scatti e, avviando una sequenza motorizzata di scatti, puoi essere certo che  una buono ci sarà.

Dopo Napoli, la mostra prevede un percorso itinerante, quali città toccherà?

Ad aprile del prossimo anno dovrebbe andare a Orvieto Fotografie, una kermesse di fotografia  internazionale, e siamo in contatto con parecchi festival sia di teatro che di fotografia.

Cosa farà Biccari da grande?

Nel frattempo si deve riposare, l’allestimento di questa mostra mi ha sfiancato. Poi vorrei ricominciare a correre con maggiore assiduità e costanza. Invece, per quanto riguarda la fotografia, ho diverse cose in mente ma per ora non anticipo niente. Lo scoprirete vivendo!