E’ MORTO RIINA: MORTO UN PAPA SE NE FA UN ALTRO

arrestation-toto-riina-620x430

Sbaglia chi pensasse che con la morte di Riina la mafia non esiste più, o quanto meno è in agonia. Secondo il dizionario online Treccani il vocabolo Mafia è un sostantivo femminile “con cui si designa il complesso di piccole associazioni criminose (dette cosche), segrete, a carattere iniziatico, rette dalla legge dell’omertà e regolate da complessi riti che richiamano quelle delle compagnie d’arme dei signori feudali, delle ronde delle corporazioni artigiane, ecc., sviluppatesi in Sicilia (spec. Occidentale) nel sec. 19°, soprattutto dopo la caduta del regno borbonico […]”.

Con il passare del tempo il termine mafia è stato esteso ad indicare una qualsiasi organizzazione criminale strutturata sul cosiddetto metodo mafioso di cui sopra.

Di conseguenza è evidente che la morte di Riina non sancisce affatto quella della mafia. Essa è la scomparsa di uno dei più potenti capi dell’organizzazione criminale denominata cosa nostra. Per cui, come avviene in una qualsiasi organizzazione, criminale e non, nel momento in cui si crea un vuoto in uno dei posti di comando, esso verrà occupato da un degno successore scelto dai rappresentanti alla guida della stessa. Nel caso di cosa nostra, a scegliere il successore di Riina saranno i membri della “cupola”.

È normale che la scomparsa di Riina faccia scalpore: stiamo parlando di colui che era denominato “capo dei capi”, occupando il trono di una tra le più potenti associazioni criminali mondiali; colui che ordinò le stragi di Capaci e di Via Amelio in cui morirono i giudici Falcone e Borsellino con le rispettive scorte; che diede il via alla stagioni delle stragi di mafia in Italia tra il 1992 e il 1993; che ordinò l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo, e che il corpo fosse sciolto nell’acido. Solo per citare gli episodi più eclatanti della vita criminale di Riina.

La sua morte ha lasciato un vuoto che quanto prima verrà occupato verosimilmente dal boss super latitante Matteo Messina Denaro.

La mafia è un’organizzazione. Riina ne era il capo. Morto un papa, se ne fa un altro.

ITALIA, ADDIO MONDIALE: NON TUTTO IL MALE VIEN PER NUOCERE

buffon-partita-italia-svezia

Sarei un ipocrita se dicessi che mi ha fatto piacere l’eliminazione della nazionale di calcio dai mondiali del 2018. Seppure fossi convinto, come tanti altri milioni di italiani, dell’inadeguatezza di Ventura nel ruolo di Ct – come allenatore non ha un palmares particolarmente brillante che ne giustificasse la scelta da parte dei vertici federali – confidavo che avrebbe almeno selezionato i giocatori tenendo conto delle indicazioni del campionato, convocando in nazionale i giocatori più in forma del momento. Purtroppo così non è stato, come ha confermato l’ira di De Rossi lunedì sera in panchina contro la Svezia quando, al collaboratore di Ventura che gli chiedeva di riscaldarsi per entrare in campo a metà della ripresa contro la Svezia, rispose “Ma che cazzo entro a fare?… Dovemo vincere non pareggià“.

Ecco, credo che quest’episodio sintetizzi il motivo per cui da lunedì il paese è nello sconforto.

All’indomani degli europei 2016 – dove l’Italia di Conte si fermò ai quarti battuta dalla Germania ai rigori; ma dopo aver sconfitto agli ottavi per 2 a 0 i campioni uscenti della Spagna, praticando un calcio brillante e efficace – per motivi economici si decise di affidare la guida dell’Italia calcistica a un allenatore che non avesse né il carisma né il palmares di Conte. Ma che, proprio in virtù di tali  limiti, si poteva ingaggiare a basso costo rispetto al predecessore, (Conte percepiva 1,6 milioni netti all’anno, Ventura “solo” 1,3 milioni all’anno senza bonus se si fosse qualificato per Russia 2018).

Non avendo però Ventura la forte personalità di Conte, sui giocatori, in particolare sui cosiddetti senatori, sembra che il Ct non abbia mai esercitato un influsso imperativo come si conviene a chi comanda. Se a ciò aggiungiamo le sue continue variazioni di schema di gioco nelle partite, amichevoli e ufficiali, giocate dalla sua nazionale, seppure risulta essere il primo Ct per media punti nelle qualificazioni mondiali, è altrettanto vero che la sua nazionale non ha mai divertito. Addirittura ha sofferto contro avversari modesti quali si presumeva fossero Albania, Israele, Macedonia, Liechtenstein e Svezia.

È vero, come affermava Ventura subito dopo la fine della fase a gironi in cui l’Italia s’era classificata seconda andando allo spareggio con la Svezia, che il secondo posto dietro la Spagna era nei programmi essendo gli iberici in questo momento superiori a noi. Ma la sconfitta di Madrid per 3 a 0, nella partita decisiva per l’assegnazione del primo posto nel girone e per la qualificazione diretta ai mondiali, delineò un quadro critico in fase di gioco e una pochezza di idee, già manifestatesi nelle precedenti sfide contro avversari di cui avremmo dovuto fare macelli e che invece soffrimmo più del dovuto, che immaginarsi di andare in Spagna e giocarsela alla pari con i padroni di casa fu un azzardo se non presunzione.

Dopo la debacle spagnola, tali limiti si manifestarono ulteriormente giocando con Israele e Albania contro cui vincemmo, ma stentando, per 1 a 0. Quindi con la Macedonia con cui pareggiammo 1 a 1, per giunta in casa.

L’eliminazione nel doppio pareggio contro la Svezia – 0 a 1 a Stoccolma, autogol di De Rossi;  0 a 0 a Milano – ha evidenziato tutti i limiti della squadra di Ventura e dunque quelli mentali, ovviamente in termini calcistici, del mister. La convocazione di Jorginho per lo spareggio di Milano con la Svezia, ultima spiaggia per staccare il biglietto a Russia 2018,  dopo averlo “snobbato” per ben due anni, malgrado l’ottimo rendimento del giocatore nel Napoli dimostrasse che era uno dei centrocampisti italiani più forti, sa non solo di beffa per il giocatore che, in possesso del doppio passaporto italiano e brasiliano, avrebbe anche potuto accettare la convocazione nella nazionale verde-oro e partecipare ai mondiali, ma ha il sapore di un disperato mea culpa da parte di Ventura per non averlo convocato prima.

La mancata qualificazione al mondiale non rappresenta solo una mortificazione a livello d’immagine per il calcio italiano e per il paese intero. Secondo uno stima, l’estromissione dal mondiale costerà complessivamente al paese circa 100 milioni di euro. Visto l’ammontare, forse non esagera chi la definisce “dramma sociale”, vedi Buffon subito dopo il pareggio di Milano con la Svezia.

Tuttavia con i tanti problemi che affliggono il paese, a partire dalla disoccupazione, giovanile e non, pensare che occorre la nazionale di calcio per risollevare, seppure per un attimo, gli animi depressi di una nazione perennemente sull’orlo del fallimento, sta a significare che il paese è già caduto nel baratro da diverso tempo. O comunque che noi italiani manchiamo di senso della misura. Non a caso  Churchill affermò: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”.

A proposito di questa dichiarazione poco lusinguiera dell’illustre statista inglese, potremmo dedurre che l’eliminazione dell’Italia non avrà certo fatto piacere alla politica, almeno a quella che è in malafede, in quanto, non potendo più confidare sul fatto che l’attenzione dell’opinione pubblica nei prossimi mesi sarà distratta dalla partecipazione della nazionale ai mondiali, sa che ora i cittadini guarderanno a lei con particolare attenzione. Soprattutto in vista delle elezioni.

E, in perfetta sintonia con i comportamenti dei politici italiani quando vengono accusati d’essere responsabili di un problema che affligge il paese, il Presidente della FIGC  Tavecchio ha esonerato Ventura ma non si è dimesso. Dando così ad intendere che il problema fosse esclusivamente l’allenatore e non anche chi lo mise in panchina, ossia egli stesso.

Dispiace che l’Italia non vada ai mondiali. Ma se ciò può servire a far sì che l’attenzione dei cittadini si concentri finalmente più sulle gesta di chi ha il compito di risolvere i problemi del paese anziché crearli, e non su quelle di chi scalcia per 90 minuti un pallone nel tentativo di infilarlo nella rete avversaria, che questa sconfitta sia la benvenuta.

Non tutto il male vien per nuocere!

 

L’ULTIMA NOTTE

51b6eVCdGcL

Con immenso piacere vi annuncio che è da oggi disponibile su Amazon l’ebook

L’ultima Notte

il romanzo breve, o racconto lungo, fate voi, che diede il titolo alla mia prima raccolta di racconti pubblicata nel 1995.

 “L’amore ha il potere di fissare il passato in eterno presente…” 

Questo è il tema conduttore della storia d’amore tra il giovane Kayfa e Miryam, donna matura e d’esperienza, che lo inizierà alle gioie e alle sofferenze dell’amore. Immersi in uno scenario da favola, i protagonisti vivono la loro passione senza freni, con la complicità del mare e dell’intimità della casa di lei. Fondamentale la figura di Omar, pescatore egiziano, che aiuterà Kayfa a districarsi nei meandri della mente e del cuore.

Di seguito un estratto del romanzo.

Buona lettura

PIERVINCENZI, IL GIORNALISMO E’ ESENTE DA DISCRIMINANTI TERRITORIALI

spada-9

All’indomani della testata sul naso ricevuta mentre intervistava Roberto Spada, uno dei membri della famiglia Spada che gestisce il traffico di attività illegali a Ostia,  sui presunti legami tra gli Spada e Casa Pound, il giornalista Daniele Piervincenzi, raccontando la vicenda a una collega della RAI ha dichiarato “certe cose te le aspetti in Sicilia, in Calabria, a Napoli, ma non a Ostia”.

A prescindere dall’incondizionata solidarietà al giornalista per il barbaro episodio di cui è stato vittima, le sue dichiarazioni stupiscono. Non mi risulta che  nessuna troupe televisiva o giornalista che si sia finora recato in terre di mafia e di camorra per fare un reportage sui traffici criminali e sul degrado sociale vigente, prima di inoltrarsi in quei territori, abbia indossato o debba indossare la pettorina con su contrassegnato PRESS, stampa, e l’elmetto come si usa quando ci si reca a fare un servizio in zone di guerra per non essere scambiati per un soldato nemico rischiando di cadere sul campo.

Di conseguenza, alla luce delle sue dichiarazioni, è probabile che anche per Piervincenzi a Roma la mafia non esiste, così come per i giudici che emisero la sentenza sull’inchiesta Mondo di Mezzo, strettamente legata a Mafia Capitale. Sentenza che suscitò il risentimento di Roberto Saviano che in un pezzo sull’Espresso spiegò invece perché anche Roma c’è la mafia.

Nel momento in cui ti rechi a intervistare colui che sai è il fratello di un boss – Roberto Spada è il fratello del boss Carmine Spada detto romoletto –  facendo domande “fastidiose” sui presunti rapporti tra il clan e il movimento politico di estrema destra Casa Pound che alle amministrative di domenica scorsa a Ostia ha preso il 9% di preferenze, probabilmente grazie proprio al sostegno degli Spada,  se non ti aspetti d’essere preso a capocciate sul naso, non puoi nemmeno pensare che ti accolga in pace con un mazzo di fiori o ti offra un caffè.

Come insegnano i vari inviati di Striscia la Notizia, delle Iene e di tante altre trasmissioni giornalistiche e non che nel corso degli anni sono stati vittime di vere e proprie aggressioni solo perché facevano servizi o domande scomode – emblematiche l’aggressione subita in un ristorante da Valerio Staffelli da parte dell’allora direttore di RAI FICTION Fabrizio Del Noce, a cui doveva consegnare il Tapiro, il quale prima gli strappò il microfono di mano e poi lo colpì violentemente con lo stesso sul naso, (per quel gesto Del Noce è stato condannato in appello a pagare 84 mila euro all’inviato di Striscia); quella dell’allora onorevole Luca Barbareschi all’inviato delle Iene che cercava di intervistarlo sul suo assenteismo in Parlamento; lo scalciare dell’allora Ministro della Difesa Ignazio La Russa Corrado a Formigli quando era ancora un inviato di Michele Santoro  -a un giornalista non serve recarsi in zone a rischio per essere aggredito o insultato mentre fa il proprio mestiere.

Qualunque giornalista ponga domande scomode e insistenti rischia di restare vittima di un aggressione da parte dell’intervistato, indipendentemente dal ruolo sociale che quest’ultimo ricopre. Semplicemente perché a nessuno piace che si rendano pubbliche le proprie colpe, intrallazzi o contraddizioni.

Al di là se la mafia a Roma esiste oppure no – sembrerebbe proprio di sì visto come sono strutturate le varie organizzazioni criminali che presidiano il territorio laziale – è inequivocabile che il rischio di aggressione è contemplato tra i rischi in cui può incorrere un giornalista.

Dispiace che Piervincenzi ne faccia una discriminante territoriale.

UN PESCE DI NOME MATTEO

un pesce di nome matteo renzi

I politici italiani non finiscono mai di stupire. Quando uno pensa di averle viste tutte o quasi, ecco che ti si presenta una situazione in cui il loro comportamento appare pressoché paradossale, se non addirittura surreale.

Mi riferisco al modo in cui Renzi e i rappresentanti del Pd stanno reagendo alla scoppola siciliana dell’altro ieri. Anziché soffermarsi ad analizzare la bruciante, ma prevista, sconfitta alle regionali di Sicilia, dove il candidato del Pd Micari ha preso poco meno del 19% (18,70%) – più che doppiato dal vincitore del centrodestra Musumeci, con quasi il 40% di preferenze (39,80) e poco meno che doppiato dal candidato del M5S Cancelleri con poco meno del 35% di preferenze (34,70%) – Renzi e i suoi pare si preoccupino di più dell’annullamento da parte di Di Maio del faccia a faccia televisivo previsto per questa sera su La Sette a Di Martedi da Floris che non dell’esito elettorale.

Secondo Renzi Di Maio ha paura. Dal canto suo il leader del M5S si giustifica affermando che, dopo l’ennesima batosta elettorale suo Pd, è evidente che la leadership di Renzi è in forte discussione.

Pur stigmatizzando come poco elegante la decisione di Di Maio, molti esperti di comunicazione e commentatori politici l’hanno approvata – Carlo Freccero l’ha definita addirittura “geniale” – convenendo che il confronto fa comodo sempre a chi è in svantaggio, mai a chi è in vantaggio.

In questo campo fa scuola il Berlusconi dei “vecchi” tempi il quale in campagna elettorale si rifiutava sempre di confrontarsi con l’avversario politico quando sapeva d’essere favorito nei sondaggi. Viceversa non si faceva scrupoli di sfidarlo pubblicamente quando le proiezioni lo davano indietro.

Essendo Renzi da sempre considerato dagli esperti di comunicazione allo stesso livello di Berlusconi per quanto concerne la propria capacità comunicativa – alcuni lo considerano perfino superiore all’ex cavaliere – stupisce che il segretario del Pd, possa aver abboccato come un pesce all’esca tesagli da Di Maio.

In tanti, commentando il dietro front di Di Maio e le relative motivazioni, si sono chiesti perché il leader del M5S avesse proposto il faccia a faccia per poi disdirlo visto che da settimane tutti i sondaggi davano come probabile risultato quello che poi s’è delineato all’atto degli scrutini?!

Sapendo che il Pd avrebbe preso una sonora scoppola, tanto da mettere in discussione la leadership di Renzi, non si comprende il cambio di rotta di Di Maio se non leggendolo come una trappola tesa al segretario del Pd, confidando che l’egocentrismo di cui è preda il segretario Pd non avrebbe saputo resistere alla possibilità di surclassare pubblicamente l’avversario. Magari deridendone l’incapacità interpretativa delle email , le lacune storiche e geografiche, l’erroneo utilizzo del congiuntivo e il fatto di essere stato eletto candidato premier da poche migliaia di click. Mentre lui, Renzi, alle primarie, era stato rieletto segretario con quasi due milioni di voti, a conferma di quanto antidemocratico sia il M5S rispetto al democratico Pd.

Annullando lo scontro televisivo, Di Maio ha letteralmente ridicolizzato Renzi. Il quale questa sera si recherà comunque da Floris. Presumibilmente per commentare l’ennesima mazzata elettorale del Pd sotto la sua segreteria. Ma c’è da scommettere che il segretario Pd prima di tutto non perderà l’occasione per irridere quel “coniglio” di Di Maio e il M5S. Magari eludendo, per quanto gli sarà possibile, le contestazioni o le domande di chi metterà in discussione il suo modo autarchico di gestione del partito.

Comunque vada, un dato è inconfutabile: annullando l’incontro perché ritiene che non sia più Renzi il vero leader del Pd, Di Maio ha messo uno sgambetto non da poco al già caracollante cammino di Renzi verso le elezioni politiche del 2018.

La vittoria di Musumeci alle elezioni siciliane è un ottimo argomento per la campagna elettorale di Di Maio. Ovunque andrà il candidato Premier del M5S potrà presentarsi come unico vero argine al ritorno del berlusconismo nel paese visto che Renzi, politicamente parlando, si muove sempre più in sintonia con le politiche dell’ex cavaliere. Addirittura alcune scelte del suo governo, jobs act o la riforma costituzionale poi bocciata dagli italiani con il referendum del 4 dicembre, da molti esperti sono considerate di chiara ispirazione berlusconiana.

Se accettando il confronto con Di Maio, Renzi pensava che il leader M5S si offrisse inopinatamente ai suoi “artigli” per lasciarsi scarnificare come un agnellino sacrificale, l’improvviso (?) rifiuto fa passare il segretario del Pd come un pesce che ha abboccato all’amo dell’avversario senza possibilità di liberarsi.

Un “pesce” di nome Matteo Renzi!

QUANDO ITALO CALVINO DERISE QUEL FASCISTA DI EUGENIO SCALFARI

Il giornalista ed editorialista Eugenio Scalfari durante l'incontro in occasione di Biennale Democrazia questa mattina 15 aprile 2011 al Teatro Carignano di Torino. /ANSA/DI MARCO

Dopo aver letto su IL FATTO QUOTIDIANO di ieri un articolo di Fabrizio D’Esposito intitolato

IL FASCISTELLUM SCALFARI che, prendendo a sua volta spunto da un articolo di Dario Borso presente sull’attuale numero di MICROMEGA dal titolo EUGENIO SCALFARI E IL VIVAIO GIOVANILE FASCISTA in cui si raccontano le imberbi simpatie fasciste di Eugenio Scalfari, mente sopraffina dell’intellighenzia di sinistra, fondatore de L’Espresso e di Repubblica, disposto a tutto pur di affermarsi come giornalista; suscitando per questo l’indignazione di Italo Calvino, suo compagno di banco, che in uno scambio epistolare del 21 giugno 1942 giunge a definirlo Pagliaccio –   “Me ne frego che tu ti offenda e mi risponda con lettere aspramente risentite (oltre che scemo sei pure diventato permaloso), quello che ho da dirti (e te lo dico per il tuo bene) si compendia in una sola parola: PAGLIACCIO! […] Chiunque ti legga, vedendo uno che fa sfoggio di erudizione ad ogni sillaba, che fa di tutto perché i suoi concetti appaiano il meno chiari e determinati possibile, non può fare a meno di credere che tu sia un IGNORANTE che ripete pappagallescamente frasi e termini raffazzonati a casaccio.” – mi aspettavo che questa mattina nel suo editoriale su Repubblica il decano dei giornalisti italiani rispondesse, se non a D’Esposito il cui torto potrebbe essere ai suoi occhi  quello di scrivere su un quotidiano di matrice grillino quale secondo lui sarebbe IL FATTO e dunque a lui inviso, almeno a D’Orso e al direttore di MICROMEGA Paolo Floris d’Arcais il quale, nel presentare il pezzo “incriminato”, pur riconoscendosi debitore nei confronti di Scalfari per le tante opportunità lavorative che gli ha concesso in passato, conclude scrivendo, “Quello che mi premerebbe passasse come messaggio, è che tutti sbagliamo, soprattutto in gioventù, ma la maturità dell’adulto, per non dire dell’anziano, sta nell’ammettere i propri errori, e non per se stesso, ma per le generazioni a venire (altrimenti a tramandarsi è la finzione ecc.).

Diversamente da quanto ci si poteva aspettare, nel suo pezzo di questa mattina Scalfari non fa il benché minimo accenno alla vicenda, neppure per vie traverse, (eppure a pubblicare lettere con gli sfottò e gli insulti a lui diretti da Calvino è un periodico dello stesso gruppo editoriale dell’Espresso e Repubblica quindi è improbabile che Scalfari non sia a conoscenza del’articolo…). Dando così l’impressione al lettore di voler esorcizzare, stendendo un velo di pietoso silenzio sul caso, gli scheletri nell’armadio derivanti dal suo lontano passato, condivisi con un altro grande vecchio della sinistra italiana, Giorgio Napolitano,  il quale, come Scalfari, anche lui da giovane faceva parte del GUF.

Poiché ogniqualvolta Scalfari appare in video, l’ultima alcune settimane fa a Di Martedì da Floris, non si lascia sfuggire l’occasione di attaccare il M5S e il suo fondatore, Beppe Grillo, definendoli implicitamente o esplicitamente fascisti .

Ora che MICROMEGA ha reso note alcune lettere di Calvino, anteponendo la collaborazione di Scalfari con giornali fascisti rispetto alla cronologia ufficiale data da egli stesso – quindi dimostrando che solo successivamente il giornalista scrisse per Roma Fascista, mentre precedentemente già collaborava per Gioventù Italica e Conquiste d’Impero – è evidente che un minimo d’imbarazzo debba cogliere l’intero centrosinistra italiano. Non fosse altro perché alcuni giorni fa, durante la trasmissione radiofonica UN GIORNO DA PECORA Piero Fassino ha dichiarato che il direttore de Il Fatto, Marco Travaglio, “viene dal FUAN”, fronte universitario fascista, suscitando l’ironica smentita  di Travaglio in un editoriale dal titolo emblematico ABBIAMO UNA BALLA. In cui tra l’altro ci fa sapere che querelerà Fassino che nel frattempo s’è scusato per la gaffe.

Che Il Fatto, rispetto a tanti altri giornali, dia fastidio ai poteri forti perché, non ricevendo finanziamenti pubblici ma donazioni dagli stessi lettori, pubblica tutte le notizie, anche quelle che possono danneggiare il M5S, è un fatto risaputo. Quello che lascia perplessi è come sia possibile che uno scoop come quello di MICROMEGA finora sia passato praticamente in sordina, se si esclude l’articolo originale e il riassunto che se ne dà su IL FATTO.

La storia recente ci insegna che nessun “monumento” è eterno.

Non è escluso che nei prossimi giorni su Repubblica Scalfari non affronti l’argomento, non sarebbe infatti la prima volta che il giornalista la domenica pubblica un dettagliato editoriale politico e nei giorni successivi un pezzo in cui riprende gli argomenti tralasciati in quello precedente.

Penso che una risposta, o quanto meno un chiarimento Scalfari lo debba.

Lui che avuto il privilegio di intervistare Papa Francesco, in nome della Verità con la vi maiuscola deve una spiegazione. O quanto meno fare pubblica ammenda. Per quanto possa valere la mia opinione, penso che,  malgrado la veneranda età e i tanti indiscutibili meriti professionali, una personalità come la sua non può permettersi che le macchie del passato possano infangarne l’onorabilità, mettendone in discussione la credibilità.

LAZIO, ANNA FRANK NON E’ IL PRIMO SFREGIO ALLA MEMORIA

lazio anna frank

Che gli italiani abbiano la memoria corta, anzi cortissima, è cosa nota ormai da tempo – diversamente non si spiegherebbe come sia possibile che, malgrado i disastri compiuti nel passato, in Parlamento e al governo vengano eletti sempre gli stessi partiti e gli stessi personaggi. In quest’ultimo caso ciò avveniva fino a quando ai cittadini era garantito il loro diritto costituzionale di eleggere il candidato, non solo la lista. Delegando alle segreterie di partito la scelta antidemocratica e anticostituzionale di stabilire chi deve sedere in Parlamento, come accade dal 2005.

Per cui stupisce il clamore che da giorni sta suscitando la deplorevole vicenda delle figurine con l’immagine di Anna Frank, uno dei simboli della shoa, con la maglietta della Roma attaccate sulle pareti dello stadio Olimpico, domenica scorsa durante Lazio-Cagliari, da uno sparuto gruppo di ultras. E non fanno che gettare benzina sul fuoco le smentite e le minacce di querela del presidente Lotito a proposito di un audio “rubato”, pubblicato da Il Messaggero, dove distintamente si sente la sua voce affermare “famo ‘sta sceneggiata” mentre si starebbe recando alla sinagoga di Roma per deporvi una corona di fiore in onore delle vittime della shoa al fine di sedare la polemica scatenata dalle figurine.

Dovrebbe essere noto, quasi, a tutti che l’estrema frangia di tifosi laziali politicamente è legata all’estrema destra. Non a caso Gianfranco Fini, il delfino di Giorgio Almirante segretario dell’allora MSI, seppure non estremista di destra, era tifoso laziale. Così come dovrebbe essere noto a tanti che in un passato non molto lontano alcuni calciatori della Lazio si sono lasciati andare sul campo in gesti e situazioni poco attinenti allo sport ma molto alla politica.

Ci siamo forse dimenticati di quando, durante Lazio-Bari del 30 gennaio 2000, l’allora giocatore della Lazio Sinisa Mihajlovic, oggi allenatore del Torino, si recò a ringraziare la curva nord per lo striscione su cui era scritto onore alla tigre Arkan, chiaro riferimento al criminale di guerra serbo Zeljco Raznatovic, accusato di genocidio e di crimini contro l’umanità, assassinato due settimane prima, amico di Sinisa?

Ci siamo forse dimenticati dei “saluti romani” di Paolo Di Canio, giocatore simbolo della Lazio, durante un derby e un Livorno – Lazio del 2005?

Certo, Di Canio s’è poi pentito sia di quei gesti che del tatuaggio inneggiante al DUX che aveva sul bicipite che gli costò l’allontanamento da SKY come commentatore. Ma tutti questi eventi tradiscono inequivocabilmente la matrice di estrema destra della tifoseria laziale.

Pertanto perché sorprendersi per l’affissione di figurine che offendono la memoria di Anna Frank e di tutte le vittime dell’olocausto quando a tutti dovrebbe essere ben noto l’orientamento politico per lo meno degli ultras laziali?

Chi, pur condannando il gesto delle figurine, contemporaneamente biasima chi ha gettato nel Tevere la corona di fiori posta da Lotito all’ingresso della sinagoga, a mio avviso, commette un imperdonabile errore di valutazione in quanto tende a equiparare tra di loro due episodi totalmente diversi. Infatti, indipendentemente se Lotito avesse detto o no “vamo fa ‘sta sceneggiata”, come può una comunità, o, nel caso specifico, qualche suo membro, tollerare un omaggio del genere senza pensare che si tratta solo di un gesto di facciata teso a placare gli animi – e, seppure così fosse stato, comunque non ci sarebbe niente di male, anzi… – una garbata presa in giro da parte di chi, per (de)formazione culturale, odierebbe a morte gli ebrei e i “diversi” in generale al pari dei fascisti del ventennio mussoliniano?

Passando di palo in frasca, ma restando sempre in tema di offese razziste, giusto per rinfrescare la memoria a quanti l’abbiano labile, i fischi e gli insulti che accolgono il leader della Lega Salvini quando viene a “mendicare” voti al sud non sono pregiudiziali ma la naturale risposta da parte di chi da quella stessa persona è stato poco prima offeso, deriso, umiliato perché “napoletano” e “puzzolente”. Stupisce che Salvini si sbalordisca quando a Napoli o in altre città del sud lo accolgano a fischi e con lanci di uova, non facendolo parlare, costringendolo a andare via malgrado si fosse pubblicamente scusato per quegli insulti.

La realpolitik, o la diplomazia, chiamatela come vi fa più comodo, in certi casi è peggio di un cerino acceso in una santabarbara!

Anche perché, me ne accorgo solo ora, la memoria di molti italiani, contrariamente a quanto ho affermato all’inizio, non è poi tanto corta come qualcuno potrebbe pensare.

CROLLO DI SANTA CROCE, CON RENZI NON SE NE PARLA

crollo santa croce

Ieri pomeriggio, poco prima delle 15, un capitello della basilica di Santa Croce a Firenze s’è staccato da un’altezza di trenta metro ed è crollato al suolo uccidendo un turista spagnolo, Daniel Testor Schnell di 52 anni, davanti alla moglie rimasta illesa.

Ieri sera alle 20,30 Matteo Renzi, segretario del Pd nonché ex sindaco del capoluogo toscano e prima ancora presidente della Provincia di Firenze, è stato ospite su La Sette a OTTO E MEZZO per essere intervistato dalla Gruber, con l’ausilio di Beppe Servegnini, sul viaggio in treno che sta compiendo in giro per l’Italia in vista dei prossimi appuntamenti  elettorali, in primis le regionali in Sicilia ad inizio novembre.

Ora, essendo la tragedia di Firenze avvenuta nel primo pomeriggio, mentre la trasmissione della Gruber è andata in onda in prima serata, poco più di cinque ore dopo il dramma, è impossibile che la Gruber e i suoi ospiti non ne fossero a conoscenza. Anche perché da tempo la notizia circolava in rete, facendo il giro del mondo.

Da seria professionista dell’informazione qual è, ci aspettavamo che la Gruber approfittasse della presenza di Renzi per chiedergli un parere su quanto era avvenuto a Santa Croce. Così come altrettanto pensavamo facesse Servegnini. Invece entrambi i giornalisti non hanno minimente accennato al crollo tanto che quanti non ne erano ancora a conoscenza mai avrebbero immaginato cosa fosse successo a Firenze quello stesso pomeriggio.

Mi si potrebbe obiettare che non essendo il crollo di Santa Croce  attinente con il tema della puntata, il presunto attacco di Renzi al governatore della Banca d’Italia Visco, per questo non vi si è fatto il minimo riferimento . In tal caso replicherei che non sarebbe stata la prima volta che la conduttrice chiedeva un parere a un ospite su un fatto di cronaca totalmente avulso dall’oggetto della discussione. Se a ciò aggiungiamo i precedenti ruoli istituzionali occupati da Renzi in ambito fiorentino, seppure le responsabilità del crollo non sono del sindaco Nardella, da molti ritenuto  l’avatar di Renzi alla guida del comune toscano, ma della sovrintendenza ai beni culturali, sorprende che né la Gruber né Servegnini abbiano sentito l’impulso di conoscere il parere di Renzi sul crollo di quel pomeriggio.

Questa mattina tutti i giornali riportano in prima pagina la notizia di quanto è avvenuto ieri a Firenze, giustamente  senza alcun commento che tiri in ballo, seppure di sfuggita, il sindaco Nardella e l’amministrazione del comune targata Pd.

In tal senso, però, mi è impossibile non fare dietrologia e non immaginare cosa sarebbero stati capaci di scrivere tanti di quegli stessi giornali, o lo spazio che avrebbero dedicato alla tragedia molti telegiornali pubblici e privati, se un fatto del genere fosse accaduto a Roma, Torino, Livorno o in qualsiasi altra città amministrata  da un sindaco del M5S. Come minimo avrebbe attribuito le responsabilità del crollo alla Raggi, alla Appendino, a Nogarin o a chi di dovere, usando il crollo e la conseguente morte del turista come tragica metafora per dimostrare l’incapacità a governare del M5S; pur sapendo che la gestione del patrimonio artistico non è di competenza dei comuni bensì delle sovrintendenze, quindi del governo. Nella fattispecie del Ministero dei beni culturali il cui vertice è occupato da Dario Franceschini del Pd.

C’è da sperare che l’attenzione assolutamente cronachistica, priva di alcuna polemica politica, riservata dai media nostrani alla vicenda di Santa Croce sia dovuta al senso deontologico dei giornalisti e non invece un velato silenzio per non disturbare il manovratore alla spasmodica ricerca di consensi elettorali sulle rotaie.

CARUANA GALIZIA, MORIRE PER LA VERITA’

caruana galizia

Quanti conoscono i fatti non possono non associare il barbaro assassinio dell’altro ieri della giornalista blogger maltese Daphne Caruana Galizia con quello della giornalista russa Anna Politkovskaja avvenuto il 7 ottobre del 2006.

Entrambe erano impegnate a denunciare e smascherare la corruzione che, a loro dire, alligna nel governo maltese di Muscat e in quello russo sotto l’egida di Putin.

Due donne coraggio niente affatto intimorite a cercare il marcio laddove mai avrebbero dovuto mettere il naso malgrado avessero ricevuto  ripetute minacce di morte.

I sacrifici di Daphne, di Anna e di tanti altri giornalisti che hanno pagato con la vita la loro lotta per l’affermazione della verità troverebbe il giusto riconoscimento se tutti gli altri loro colleghi si impegnassero a fungere da cani da guardia del potere, reale funzione del giornalismo, anziché esserne meri cantori.

Ad esempio in Italia, a parte alcune eccezioni, la sensazione è che il mondo dell’informazione si guardi bene dal fare le pulci al potere.

Soprattutto perché molti quotidiani ricevono contributi dallo Stato e le rete televisive della Rai fungono da cassa di risonanza dei partiti che se le spartiscono a seconda delle maggioranze di governo che si alternano alle elezioni mentre un’emittente di Stato dovrebbe essere pluralista, libera dai partiti, per svolgere al meglio la propria funzione informativa/ formativa dei cittadini.

Anche in Italia, in passato, ci sono stati giornalisti che hanno pagato con la vita per loro inchieste sui torbidi  legami tra terrorismo, mafia e politica : Mauro Rostagno, Giovanni Spampinato, Giancarlo Siani.

A conferma che anche in un paese come il nostro, agli ultimi posti nelle classifiche per la libertà di stampa, esistono professionisti coraggiosi, per lo più freelance non asserviti alle grandi testate, che non si fanno scrupoli di indagare nel profondo laddove altri si limitano a un’affacciatina di facciata giusto per dimostrare che anche loro si interessano alla vicenda. Per poi lasciarla cadere nel dimenticatoio, amplificandone altre che non meriterebbero la stessa attenzione al solo scopo di obliare dalla mente dei lettori quella che invece il Sistema vuole dimentichino.

Un esempio su tutti è il suicidio di David Rossi, manager del Monte Paschi di Siena. Da alcuni giorni è in libreria per le edizioni Controcorrente IL CASO DAVID ROSSI IL SUICIDIO IMPERFETTO, autore il giornalista David Vecchi, in cui si evidenzia la fretta con cui la vicenda è stata liquidata e archiviata come suicidio, seppure sarebbero tanti i punti oscuri che farebbero invece ritenere che il manager non si sarebbe ucciso ma sarebbe stato ucciso. Probabilmente perché deciso a svelare i tanti retroscena che si nasconderebbero dietro al crack della banca senese …

Affinché non risultino vani i sacrifici della Caruana Galizia, della Politkovskaja e di tutti quei giornalisti che mettono a repentaglio la propria vita al fine di smascherare il marcio che si annida nelle stanze del potere sarebbe opportuno che il giornalismo metta da parte i panni del ruffiano e indossi quelli a lui più confaceti di inquisitore del potere.

Fino a quando la maggioranza dei giornalisti italiani offrirà ai lettori notizie edulcorate, tronche o taroccate per favorire quel partito, quel politico o semplicemente per mettere in cattiva luce una forza politica antisistema o un giudice pervia del colore dei propri calzini e per i suoi comportamenti “stravaganti”, tipo fumare una sigaretta in vestaglia solo perché si è permesso di giudicare contro il proprio editore  – come accadde al giudice Raimondo Mesiano, il quale, probabilmente perché reo di aver condannato la Fininvest di Berlusconi a risarcire con 750 milioni il gruppo CIR di De Benedetti, fu spiato da una troupe di Mattino 5 e  irriso per il  colore dei suoi calzini e per i suoi comportamenti “stravaganti” che di nulla avevano di eccentrico – nel nostro paese la libertà di stampa sarà poco meno di un’utopia contrariamente a quanto previsto dalla Costituzione!

NON PIU’ DOMENICA E’ SEMPRE DOMENICA

domenica_no_grazie

Che io ricordi, fino a poco più di trent’anni fa la domenica era ancora, a tutti gli effetti, un giorno di festa. Per cui il sabato le casalinghe, inclusa mamma, scendevano due volte al giorno per fare la spesa: la mattina, quella giornaliera; il pomeriggio, quella per il giorno dopo poiché, essendo festa, i negozi sarebbero stati irrimediabilmente chiusi. Escluse le pasticcerie e i barbieri che quel giorno facevano mezza giornata per restare chiusi il lunedì. Inoltre, trattandosi della spesa per un giorno festivo, la sporta per la domenica era sempre molto più consistente di quella degli altri giorni. Soprattutto perché la presenza in casa per l’intera giornata del capofamiglia oltre ad imporre d’essere onorata, rappresentava l’elemento coagulante affinché quel giorno la famiglia si ritrovasse unita intorno alla tavola, trascorrendovi l’intero pomeriggio a chiacchierare di tutto e di più. In sottofondo le voci radiofoniche dei cronisti di Tutto Il Calcio Minuto per Minuto che aggiornavano sui risultati del campionato di calcio, permettendo a quanti avessero giocato la schedina di controllare i risultati delle partite nell’eventualità avessero fatto un tredici milionario che gli avrebbe cambiato per sempre la vita, ovviamente in meglio.

Tutto questo dava seguito a una  serie di rituali che iniziavano con il levarsi all’alba delle donne di casa per mettere sul fuoco la pentola con il ragù di carne, la cui lenta cottura richiedeva delle ore. Il graduale diffondersi nell’appartamento dell’aroma del sugo in ebollizione aveva il potere di ricordare a quanti eventualmente se ne fossero dimenticati che quel giorno era domenica e quindi, non dovendo andare a lavoro, ci si poteva attardare nel letto per dormire un po’ di più. O semplicemente ci si poteva rigirare tra le lenzuola, concedendosi i un attimo di relax da soli, in compagnia della moglie e dei figli piccoli per i quali la domenica era sinonimo di felicità perché potevano stare insieme al papà e alla mamma tutta la giornata.

Quasi sempre, unitamente al ragù, in famiglia si accompagnava l’usanza degli gnocchi di patate fatti in casa. La preparazione di quei grumi di pasta era un vero spasso per noi bambini. Con occhi spalancati e stupiti come chissà a quale strabiliante magia assistessimo, osservavamo le donne di casa impastare con le mani sul tavolo della cucina la farina e le patate fino a ad ottenerne una pasta molle e compatta che veniva stesa sul tavolo con il mattarello, facendola poi scivolare tra le mani affusolandola in maniera da creare un lungo “serpente” di sfoglia che veniva spezzettato col coltello in tanti pezzettini che, dopo essere passati singolarmente sulle punte della forchetta per assumere la caratteristica forma attorcigliata degli gnocchi, venivano raccolti nel piatto e trasferiti in camera da letto dove erano distribuiti sul letto previamente ricoperto con un lenzuolo a protezione del talamo per evitare che si sporcasse di farina.

Come si conviene a un qualsiasi giorno di festa, la domenica ci si vestiva eleganti anche solo se si doveva  andare a messa, comprare il giornale o in pasticceria per acquistare  l’immancabile cartoccio di paste la cui immancabile presenza a tavola ribadiva l’eccezionalità di quel dì.

In  quel giorno “speciale” era d’obbligo apparecchiare la tavola con il servizio “buono” di piatti, bicchieri e posate. E al desco veniva sempre aggiunta qualche sedia in più perché tradizione imponeva che la domenica, così come per tutte le altre festività,  i familiari andassero a trovare i parenti  per ricompattare la famiglia “divisa” dai vari matrimoni.

Ovviamente vi era anche chi la domenica aveva l’abitudine di recarsi allo stadio per assistere alla partita, portando con sé i figli o lasciandoli in custodia alla moglie o ai suoceri. Permettendo in quel modo alle mogli di riposare, magari trascorrendo la giornata a casa della mamma, della sorella o standosene semplicemente da sole a casa. Oppure c’era chi, avendo disponibilità economica, ne approfittava per andare a ristorante con la famiglia rendendo quel giorno ulteriormente speciale.

Personalmente ritengo che a svilire la sacralità della domenica, accomunandola sempre più un giorno come un altro, sia stato l’avvento dei grandi centri commerciali la cui apertura domenicale, inizialmente fino alle 14, successivamente estesa all’intera giornata, indusse molti commercianti, a partire dagli alimentari, ad aprire anche di domenica – inizialmente tenendo le saracinesche abbassate a metà, fingendo in quel modo di essere aperti solo per sistemare il negozio, rigorosamente chiusi al pubblico, cui in realtà vendevano ogni cosa, in modo da evitare, se passavano i vigili e i finanzieri per un controllo, di incorre in qualche sanzione considerato che all’epoca la domenica era obbligatoria la chiusura degli esercizi commerciali. Inizialmente questa pessima abitudine venne attuata da molti negozianti per appagare la propria avidità con la complicità dei clienti cui, facendo comodo l’opportunità di poter fare la spesa anche di domenica, non si preoccupavano che in quel modo si rendevano complici di un evasore fiscale in quanto, non potendo esercitare il commercio di domenica, i negosianti non rilasciavano alcuno scontrino fiscale. Oggi più che mai i commercianti restano aperti di domenica allo scopo di fronteggiare l’egemonia dei grandi centri commerciali e dei cinesi.

Se ancora non lo avete fatto, quando di domenica vi capita di entrare in un negozio, provate a osservare bene in viso l’espressione dei commessi e delle commesse. Noterete che per lo più vi sorridono con le labbra in maniera formale. Gli occhi sono tristi o quanto meno freddi, a testimonianza che la loro anima in quel frangente soffre perché vorrebbero essere altrove. Magari a casa con la propria famiglia. O insieme al proprio amore. Oppure semplicemente a riposarsi dopo una stressante settimana lavorativa.

Attualmente è sempre più forte la sensazione che, con la scusa della crisi economica, molti esercizi commerciali, a partire dalle grandi catene di distribuzione, impongono dei veri e propri ricatti ai loro stipendiati, tipo “o ti adegui a questi orari di lavoro, oppure te ne vai”. La cosa più grave, a mio avviso, è che sempre più esercizi commerciali, al momento solo quelli appartenenti alle grandi catene di distribuzione,  si stanno lasciando corrompere da quel virus proveniente dalla Cina di restare aperti h 24. Costringendo i propri dipendenti a svendere la propria dignità di esseri umani per uno stipendio che a volte è perfino inferiore rispetto quello previsto dal contratto sindacale.

Senza considerare che alcune aziende avrebbero, (in questo caso l’uso del condizionale è d’obbligo dato che si tratta di voci di corridoio) la cattiva abitudine di far firmare ai propri dipendenti la busta paga il cui importo rispecchia esattamente quanto gli è dovuto ma poi, nella realtà, corrispondono un importo inferiore. In questo modo pagano meno tasse a scapito dei dipendenti ch invece pagano le tasse fino all’ultimo centesimo, intascando meno di quanto gli compete visto che il datore di lavoro gli decurta dall’importo segnato sulla busta paga quanto pagato di tasse sulla sua persona fisica di dipendente.

Purtroppo nessuno, o pochissimi, hanno il coraggio di denunciare tali abusi perché, sempre più spesso, chi denuncia, alla fine commette un clamoroso autogol in quanto, oltre a perdere il lavoro, senza testimoni pronti a sostenere le proprie accuse, si rischia di incorrere in una denuncia per diffamazione e dover poi risarcire economicamente gli stessi suoi sfruttatori.

Ritornando alla domenica, per tante persone essa resta un giorno di festa perché contrassegnata in rosso sul calendario. Nella realtà è ormai declassata a un giorno qualunque. Anzi peggiore degli altri in quanto, mentre tanti in quel giorno riposano, loro sono costretti a dover lavorare per soddisfare le esigenze di chi quel giorno, riposando, ne approfitta per fare spese.

Sarebbe bello se la domenica e tutti gli altri giorni festivi in cui i centri commerciali e tanti negozi sono aperti, non ci recassimo a fare spese. Non solo  per onorare  la festività, ma prima di tutto per solidarietà verso quanti sono costretti a lavorare anche nelle festività.

Ed è forse la mancanza di solidarietà tra le persone il nocciolo della questione. Di questo vocabolo, solidarietà, così ricco di significati filantropici vi è un abuso indiscriminato, a partire dai politici.  A parole tutti siamo propensi alla solidarietà verso chi soffre davvero. Purtroppo però, come sempre più spesso confermano i fatti di cronaca nera, la solidarietà è solo un piacevole diversivo dietro cui si nascondono i più gretti interessi criminali. Un caso per tutti Mafia Capitale, laddove uno degli intercettati, Salvatore Buzzi, successivamente condannato a 19 anni, in una telefonata non si faceva scrupoli ad affermare “gli immigrati rendono più della droga”. Nessuno scrupolo dunque a fare soldi sulla pelle dei disperati, alla faccia della solidarietà.

A tale proposito qualcuno, a proposito dello schiavismo, obietterà che esso esiste da che esiste l’uomo, citando gli ebrei schiavi in Egitto dei racconti biblici; la schiavitù ai tempi dell’antica Roma; lo schiavismo per cui fu combattuta la guerra di secessione in America. In tempi più recenti, sempre in America, la differenza razziale tra bianchi e negri  esistita fino agli sessanta del secolo corso, anche se  oggi non è che vada meglio. Oppure l’apartheid in Sudafrica. Qualcun altro sosterrà che “da sempre il dio denaro prevale su tutto e tutti”, anche sulle festività religiose, (da tempo Natale ha del tutto perso i caratteri della religiosità assumendo quelli prosaici dell’orgia consumistica). Qualcuno tirerà le somme di tutto ciò, concludendo che quanti lavorano di domenica non è vero che sono sfruttati in quanto sono, o sarebbero?, tutelati dai turni.

Per carità, nulla da eccepire. Probabilmente è davvero così. Ma a questo punto sarebbe il caso che le autorità preposte controllassero effettivamente quanti di quegli esercizi commerciali aperti di domenica e nei giorni di festa retribuiscono a norma di legge i propri dipendenti.

Se uno deve sacrificarsi è giusto che lo faccia in cambio dell’adeguato compenso. Se invece, oltre a essere costretto a lavorare quando gli altri si riposano, deve anche subire l’onta di una paga da miseria, le cose cambiano: il lavoro deve nobilitare l’uomo non umiliarlo.

Tuttavia se pensiamo che sull’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz vi era scritto “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi), non fatichiamo a comprendere perché, proprio attraverso il lavoro, molti uomini tendono a far sì che altri perdano la propria dignità di essere umani trattandoli alla stregua di schiavi.

Fino a trent’anni fa o poco più, la domenica era il giorno in cui gli uomini lo dedicavano a se stessi o alla famiglia, godendosi il meritato riposo dopo una settimana di duro lavoro.

Man mano che si è andati avanti con i tempi, l’uomo si è completamente assuefatto alla volontà del mercato. Subendone il fascino ipnotico soprattutto grazie all’avvento delle televisioni private le quali, attraverso la programmazione di trasmissioni e telefilm prodotti in contesti sociali completamente sucubi del sistema capitalistico – uno su tutti il modello americano riproposto nel nostro paese dalle televisioni berlusconiane – hanno fatto sì che tanti individui strutturassero la propria esistenza a totale imitazione di quelle realtà sociali dove nessuno sa che ti ricoverano in ospedale solo se hai una carta di credito o un’assicurazione sulla vita. Diversamente puoi tranquillamente morire.

Trasformare la domenica da giorno di preghiera in onore del Dio dei cieli a giorno di preghiera in onore del dio denaro, entrando non più nelle chiese con tutta la famiglia per ascoltare la messa seguendo la liturgia sui foglietti distribuiti sui banchi, bensì andando con la famiglia a fare spese nei centri commerciali leggendo tra le mani i volantini delle offerte speciali, il passo non è affatto lungo.

Oramai la domenica è anch’essa tributata al dio denaro. Volendo fare un ragionamento esasperato, l’ulteriore dimostrazione è data dalle partite di calcio le quali, da qunato c’è stato l’avvento delle televisioni private, si svolgono in diversi orarie e giorni della settimana per soddisfare le esigenze economiche delle emittenti che trasmettono le partite alle quali lo svolgersi delle gare non più solo di domenica e in un unico orario, bensì spalmato in giorni e orari diversi della settimana garantisce la possibilità di un’offerta più vasta di spazi pubblicitari a costi variabili a seconda dell’importanza dei match e dell’ora in cui si trsmette accrescendo i propri introiti pubblicitari.

Diversamente da quanto cantava Mario Riva, da tempo non più Domenica E’ Sempre Domenica!