SIGNATURE RERUM – IL SUSSURRO DELLA SIBILLA

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[…]Poggiai le valige sulla soglia della villa. Presi le chiavi dalla tasca del giubbotto e aprii l’ingresso del mio nuovo alloggio.
L’odore di chiuso ristagnante nell’ambiente testimoniava che la casa era disabitata da tempo. Ne fui sorpreso perché Stefania e Francesco amavano vivere lì. Soprattutto d’inverno, quando il tranquillo sciabordio del mare riecheggiava sulla spiaggia solitaria, permettendo di fare lunghe passeggiate sul bagnasciuga senza il pericolo di inciampare nei bagnanti stesi al sole; d’essere involontario(?) bersaglio di pallonate, o, peggio ancora, d’essere investiti dagli ombrelloni sradicati dal vento.
Entrambi concordavano che l’autunno e l’inverno erano le sta-gioni migliori per godere delle facoltà terapeutiche e spirituali del ma-re. Sostenevano che il mormorio delle onde dava voce a un mistero irrisolvibile, inducendo a una profonda riflessione su una questione, se-condo loro, fondamentale per capire la vita e l’uomo: qual è l’esatto momento in cui l’onda nasce e quello in cui muore. Tra quanti si tormentavano nella soluzione dell’enigma, vi era chi affermava che l’onda si forma nell’attimo in cui sembra morire, ossia quando si riversava sulla riva con un ultimo, rabbioso ruggito. A sostegno di questa tesi, costoro riferivano dell’allegra melodia che si levava dai filamenti di schiuma dell’onda morta allorché, insinuandosi tra i ciottoli sulla sabbia, rifluivano nel mare come anime finalmente libere dal vincolo corporale, pronte a librarsi nel cielo quasi rinascessero a nuova vita.
Sebbene il problema non avesse mai suscitato il mio interesse, quando spalancai le imposte del balcone nel salottino per cambiare aria alla casa, affacciandomi sulla spiaggia a osservare le onde rin-corrersi sul mare fui assalito dal dubbio: la morte non potrebbe essere il preludio di una nuova vita?[…]

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CODICE GIALLO

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Pubblico con piacere il  racconto con cui la poetessa/scrittrice fiorentina Clara Cecchi  ha voluto celebrare la giornata contro la violenza sulle donne.


Ho un codice giallo, pur ferita e contusa devo aspettare, non sono a rischio di vita, mi hanno detto.

Dal posto di guardia il poliziotto mi squadra, insospettito dai miei ripetuti lividi. Lo so che ha già capito, come tutti qui…non è la prima volta.

Ho dolori ovunque e voglio urlare la mia rabbia: stavolta lo denuncio, quel bastardo! Prendo fiato. Gli volto le spalle ma so che lui è lì, dietro il vetro mi fissa, un sorriso di avvertimento: il vecchio terrore mi riassale e mi stringe la gola, mi serra le labbra. Non ho scampo. Lo sguardo perso dietro la finestra aperta, vorrei essere una foglia, libera di volare via in questo vento d’autunno.

Invece sono un codice giallo e devo aspettare ancora una volta, e poi ci sarà un’altra volta, e dopo un’altra ancora, io lo so bene, finché non diventerà rosso come il mio sangue.

Allora se mi voglio salvare devo affrontarlo, respiro, raccolgo tutto il mio coraggio e mi volto, lo guardo dritto negli occhi. Frugo fin dentro ogni piega del suo volto immobile, affondo dentro ogni piaga infetta di questo non amore malato. E all’improvviso, come per miracolo, lo vedo per quello che è: un piccolo uomo meschino, un vigliacco degno solo del mio disprezzo. Non ha più potere su di me ora, questa nuova meravigliosa consapevolezza si fa spazio fra l’angoscia e il dolore.

Lo scruto con occhi finalmente disincantati, incredula di tanto amore che ho sparso su di lui, come semi sulla terra brulla che a primavera germoglia fiori e frutta, ma io invece ho raccolto solo violenza. Un amore usato e abusato: non lo permetterò mai più, a nessuno e a nessun costo.

Lo giuro a questa nuova me stessa appena nata mentre gli volto le spalle e mi avvio verso il poliziotto in attesa, lo sguardo dritto davanti a me per non cedere alla paura.

Finalmente libera mi sembra quasi di volare, così in alto che potrei sfiorare perfino il cielo.

claraClara Cecchi