INCIPIT DEL MIO PROSSIMO ROMANZO

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Di seguito l’incipit del nuovo romanzo che spero di pubblicare per la fine dell’anno. 

PROLOGO

All’orizzonte il tramonto srotolava sul mare un tappeto di stelle. L’ombra del promontorio spruzzato di viti si stemperava sull’acqua increspata dallo zefiro. L’incanto del sogno, frammisto all’aria fragrante di sale e agrumi, spingeva le barche, dalle vele ingravidate dal vento, oltre i limiti del mondo.

Avanzando a piedi nudi sulla battigia, il ragazzo osservava le onde inseguirsi sul mare come pagine di un libro sfogliate velocemente, da cui sciamavano nella sua mente desiderosa d’emozioni leggendarie città, continenti scomparsi o lontani, civiltà misteriose, uomini senza scrupoli, maghi bianchi e neri, donne prodighe d’amore. Ciononostante, un’arcana forza lo legava alla collina che s’innalzava alle proprie spalle.

Tutte le mattine scendeva sulla spiaggia a mirare le imbarcazioni dirigersi verso l’ignoto. Quando il fischio del treno si levava attraverso la vegetazione che ammantava l’altura, un sorriso amaro ne feriva il volto.

Una sera, mentre rientrava a casa, salendo il sentiero che conduceva al podere di famiglia, trovò una stella marina. Rigirandola a lungo tra le mani, pensò fosse il destino d’ogni creatura che sfuggiva al proprio mondo inaridirsi fino a morirne. Quel pensiero accrebbe in lui la rabbia. Di slancio si girò e gettò la stella nel vuoto in direzione del mare.

Osservando i propri sogni dissolversi nell’aria, si chiese se un giorno li avrebbe ritrovati…

CAPITOLO I

Il treno a diesel, sferragliando, si arrestò sui binari della piccola stazione di campagna. Impaurito dallo stridore dei freni, uno stormo di tortore schizzò via in volo dagli alberi.

Sul margine del marciapiede assolato lo attendeva il capostazione dal viso tondo e gioviale da cui si effondeva un profondo senso di tranquillità, prerogativa di quanti vivono in luoghi ameni e nelle cui anime sembrano trasfondersi la purezza e la leggerezza della quieta atmosfera che respirano.

Il ferroviere, impettito nell’uniforme di stoffa leggera colore del cielo all’imbrunire che pareva essergli stata cucita addosso, osservava l’uomo, la donna e il ragazzo con lo zaino sulle spalle uscire dalla sala d’attesa per raggiungere l’ultima carrozza.

– Abbi cura di te! – sospirò la donna, guardando con tristezza il figlio aprire lo sportello. Gli occhi verdi, resi umidi dall’emozione, scintillavano al sole come gemme preziose.

– Non temere, mamma – la rassicurò – Appena arrivo ti chiamo – aggiunse tirando fuori dalla tasca dei pantaloni il cellulare.

– Allora, hai deciso dove andare? – chiese il padre fissandolo negli occhi.

– Deciderò strada facendo – rispose pensieroso, abbassando la maniglia.

Il ragazzo assomigliava in maniera impressionante alla madre, tuttavia il tratto degli occhi ricalcava il disegno paterno.

– Qualunque cosa ti accada, ricorda che potrai sempre contare su di noi! – disse l’uomo, dando l’impressione di pronunciare quelle parole per pura formalità.

– Non temere – mormorò lui, spingendo con rabbia lo sportello. – Non mi accadrà nulla di spiacevole!

– Lo spero! – La sprezzante risposta sortì l’effetto di una stilettata al cuore del giovane.

– In carrozza, si parte! – La voce del capostazione pose fine ai saluti. Con un profondo respiro il ragazzo si aggrappò al corrimano e di slancio salì nel vagone. Richiuse lo sportello dietro di sé e si avviò nello scompartimento che si apriva al proprio sguardo.

Al fischio del capostazione il convoglio cominciò a muoversi a scossoni inoltrandosi lentamente nella fitta vegetazione che cresceva ai margini delle rotaie, lasciandosi alle spalle l’uomo e la donna che lo fissavano allontanarsi tra le fronde portando via con sé il loro unico figlio nato dopo cinque anni di matrimonio. Il tardo concepimento non era frutto né di una scelta ponderata da entrambi, né conseguente a un problema di fertilità, ma semplicemente perché la vita aveva voluto così, impedendogli di mettere al mondo quella prole numerosa che sognavano da fidanzati. Com’era accaduto ai genitori di suo padre, i quali avevano concepito il loro unico figlio subito dopo il matrimonio e poi più nulla, seppure entrambi fossero sani e desiderassero averne altri. Uno dei tanti misteri della vita che segnano l’esistenza di molte coppie, privandole del piacere di una famiglia numerosa.

Con le mani strette ai tiranti dello zaino, il ragazzo entrò nella carrozza deserta.

Osservò le fila di sedili tristemente vuoti, separate dallo stretto corridoio che immetteva nello scompartimento successivo, chiedendosi se anche in quello non ci fosse nessuno.

La curiosità lo spinse a varcare la soglia.

Avanzando tra la schiera di poltroncine, si domandò se quel deserto non giustificasse le perplessità del padre sulla sua decisione di partire quando gliela aveva comunicata…

Sdraiati all’ombra di un ulivo secolare dal tronco nerboruto, padre e figlio riposavano dopo aver lavorato l’intera mattinata a spianare una terrazza di terra sotto il sole. Con aria soddisfatta, i volti abbronzati solcati da gocce di sudore, gustavano il pollo alla cacciatora cucinato dalla madre innaffiandolo con lunghe sorsate di vino bianco, tenuto al fresco nella borsa termica sistemata tra le radici dell’albero.

Figliolo, un giorno tutto questo sarà tuo! – fece orgoglioso l’uomo, abbracciando con lo sguardo il vigneto che si estendeva a vista d’occhio sulla collina.

Il mare era solcato da uno sciame di windsurf; all’orizzonte, un’isola si stagliava nel cielo terso.

Guarda che meraviglia! – mormorò, mostrando al figlio il grappolo d’uva tratto dalla cesta al fianco. Staccò un chicco e, stringendolo tra le dita, trafisse con lo sguardo la sottile cuticola che lo ricopriva.

Queste viti sono tanto rigogliose per via del sole che scalda la terra su cui crescono, rendendola magica – disse raccogliendo un pugno di terreno. – Nei loro chicchi è racchiuso l’amore e la fatica con cui, da sempre, gli uomini la curano. – Allargò il palmo, disperdendo il terriccio nel vento. – Questo è il segreto che fa sì che il vino ottenuto allontani i dispiaceri di quanti vi cercano conforto senza bruciarne le menti e i cuori. – Schiacciò il chicco tra le dita: un’appiccicosa poltiglia rossastra aderì ai polpastrelli. Con gesti misurati dall’esperienza, sfregò tra loro le estremità umide di succo per determinare dalla viscosità la gradazione del vino che se ne sarebbe ottenuto e quindi la qualità. Un denso filamento si tese tra il pollice e l’indice. L’uomo sorrise: quell’annata sarebbe stata ottima. Staccò un altro chicco e l’offrì al figlio che lo assaggiò senza entusiasmo.

Allora? – domandò impaziente.

Sembra buona – disse lui, masticando distrattamente.

Offeso, il padre si drizzò sulla schiena.

Ma che dici? Quest’uva è ottima! Da anni non ne avevamo di così dolce. Il vino che ne ricaveremo sarà un vero nettare degli dei!

Il ragazzo non lo ascoltava. In lontananza, tra gli alberi, filtrava la densa scia di fumo nero del treno subito seguita dal fischio. Fin da bambino ne restava sempre rapito.

Mi ascolti? – chiese l’uomo.

Sì! – rispose il figlio, fissandone con decisione il viso corrucciato – E sappi che non ho alcuna intenzione di sacrificare la mia vita su questa terra. Io voglio conoscere il mondo e confrontarmi con gli altri. Papà, ho voglia di vivere, non di vegetare come una pianta, in eterno, nello stesso luogo, lasciando che il sole e l’aratro traccino il mio cammino. Il futuro voglio costruirlo da solo con le mie mani! – aggiunse, mostrando i palmi callosi.

Il padre li osservò con attenzione. Alla stessa età i suoi non erano così, la loro rudezza testimoniava che suo figlio, malgrado odiasse lavorare la terra, quando impugnava la vanga e l’aratro dava l’anima.

Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato – mormorò rassegnato. – Da che sei nato, tuo nonno non fa che ripetere che sei uno spirito libero; che un giorno avresti rinnegato le tue origini contadine – Parlando, con rimpianto fissava il manto di viti ricoprire la collina. – In cuor mio speravo si sbagliasse: ho sacrificato l’intera vita per ottenere ciò. – Sospirò profondamente. – Chissà il dolore di tua madre quando le comunicherai la tua decisione!

Ora ti preoccupi di lei? – sibilò tra i denti il ragazzo, piegando leggermente il capo – Eppure, quando ti rechi a quelle maledette fiere lasciandola sola per intere settimane, non te ne curi per niente, vero? Come non ti preoccupi di regalarle una breve vacanza perché per te esiste solo la vigna. Forse temi che, andando io via, sarai costretto a dedicarle più tempo? Rilassati, quando ieri le ho parlato mi ha benedetto, dicendo di non preoccuparmi per lei perché il suo posto è al tuo fianco, ed è pronta ad accettare qualunque cosa perché ti ama. Sì, ha detto che ti ama! Parole che tu non le hai mai rivolto perché ami soltanto questa dannata terra!

La voce improvvisamente si frantumò in un pianto. Si girò di fianco per non concedere al padre la soddisfazione di vederlo singhiozzare come un bambino.

L’uomo levò lo sguardo tra le foglie dell’ulivo. Il vento accarezzò le fronde. Con aria assente tornò a fissare i filari di viti sulla collina.

Quando partirai? – domandò.

Subito dopo l’esame di maturità! – rispose portandosi le ginocchia al petto per poggiarvi il mento, il viso segnato dalle lacrime.

Era iscritto al liceo scientifico con un ottimo rendimento tanto da far sperare che all’esame potesse prendere il massimo. Una volta diplomatosi, sapeva che le attese del padre prevedevano s’iscrivesse alla facoltà di agraria in modo da poter applicare alla cura della vigna le conoscenze acquisite con gli studi, consentendo all’azienda di famiglia quel salto di qualità che avrebbe permesso di avviare una vera propria impresa di vini, puntando non solo al mercato locale e nazionale, ma anche a quello estero. Lui avrebbe voluto invece iscriversi a medicina, malgrado consapevole che superare i test d’ingresso non fosse semplice e che, seppure li avesse superati, il corso di studi sarebbe stato lungo e complesso. Sua madre, nel momento in cui le aveva confidato la propria intenzione di tentare l’ingresso a quella facoltà, gli aveva suggerito di non essere avventato nella scelta; di pensare a diplomarsi e poi ne avrebbero riparlato, magari dopo il viaggio che aveva deciso di intraprendere subito dopo la maturità. Secondo lei non era improbabile che, una volta libero dagli impegni per la preparazione dell’esame, viaggiando, avrebbe avuto modo di schiarirsi le idee e decidere sulla scelta giusta da compiere. In cuor suo anche lei avrebbe preferito che s’iscrivesse ad agraria, ma sapendo quanto il figlio le fosse legato, non glielo aveva detto per non condizionarlo.

 

Andrai via da solo o con qualche amico? – domandò suo padre

Penso da solo: ho bisogno di riflettere sul mio futuro!

Hai anche la mia benedizione! – disse l’uomo, alzandosi di scatto per riprendere il lavoro, incurante del sole a picco.

CAPITOLO II

– Resterai via molto? – chiese la madre, fissando il figlio riempire lo zaino.

– Non saprei – rispose, pressando il carico nel sacco. Si girò a guardarla, il viso della donna era il ritratto della sofferenza.

Le andò incontro e la strinse a sé.

– Mi raccomando, chiama, non fare come tuo solito che dimentichi il cellulare spento o addirittura di ricaricarlo – mormorò.

Per tutta risposta lui si sciolse dall’abbraccio e le indicò con il dito il telefonino e il caricatore sul letto tra le cose che avrebbe portato con sé.

– Perché vuoi andare via? – sussurrò lei, abbracciandolo forte.

– L’uomo che vive nell’ignoranza è come l’uva che cresce su un terreno eternamente ombreggiato: il vino che se ne ricaverà sarà pallido, privo di forza e di carattere! La voce rimbombò nella stanza.

La donna e il ragazzo si volsero a fissare l’imponente figura del nonno impettita sotto l’arco della porta, con le mani intrecciate sul bastone dal manico intarsiato a testa d’aquila fisso davanti ai piedi.

– Non tormentarlo con le tue lacrime – disse l’anziano alla nuora – Non gravare il travaglio del suo animo. Aspetta che l’uva maturi. Solo allora conoscerai la qualità del vino e saprai se siete stati bravi nel produrlo. – Con passo incerto, appoggiandosi al bastone, il vegliardo avanzò incontro alla nuora e al nipote che lo fissavano intimoriti. Nella mano recava una conchiglia…

 

Le feluche, spinte dalla brezza verso il mare, scivolavano sul fiume accompagnate dallo sguardo di Sirio splendente in cielo; il quarto di luna rifletteva sull’acqua le ruvide ombre delle vele. All’estremità del molo la luce del faro fendeva la scura superficie, spianando alle barche il cammino nelle tenebre.

Affacciato alla balaustra del postale ancorato nella rada, il giovane mozzo osservava amareggiato le luci della città riflettersi in lontananza. Avrebbe preferito approdare direttamente ad Alessandria d’Egitto per riviverne i fasti trasmessi dalle antiche mura e dai monumenti lasciati dai faraoni in eredità ai posteri. In particolare il suo pensiero andava al leggendario faro considerato tra le sette meraviglie del mondo dell’epoca, la cui torre si innalzava nel cielo, così si raccontava, per 120 metri, e alla mitica biblioteca in cui erano conservati oltre 700 mila papiri, distrutta nel 280 d.C. dall’imperatore Aureliano durante il saccheggio della città. Ogni volta che ripensava a quei drammatici eventi, non poteva fare a meno di domandarsi se davvero tutti i papiri fossero andati distrutti o se molti non fossero stati messi in salvo dai curatori della biblioteca. E, in quel caso, se molte opere dell’antichità di cui si era persa ogni traccia, divenendo a loro volta leggenda perché citate da autori classici che dichiaravano di averle consultate, non fossero tuttora conservate in luoghi ignoti. Così come, tutte le volte che ripensava all’Egitto, non poteva fare a meno di andare con la mente alle piramidi e alla sfinge, chiedendosi chissà quali misteri conservassero nelle proprie viscere di pietra. Allo stesso tempo, misteriosa era la loro origine: la sua fervida fantasia si rifiutava di accettare che a costruirle fossero stati gli antichi egizi utilizzando tronchi, barconi di papiro e carrucole su cui trasportare e innalzare le migliaia di enormi massi di calcare, ognuno dal peso di diverse tonnellate, che le costituivano. Di chissà quale oscura civiltà le piramidi erano invece testimonianza! Magari della mitica Atlantide di cui per primo aveva parlato Platone nel Crizia e nel Timeo, citando il suo antenato Solone: egli riferiva di aver sentito raccontare di quel continente e della sua scomparsa nel mare, a seguito di un tremendo cataclisma, dai sacerdoti della città di Sais nel delta del Nilo che facevano risalire i fatti a un tempo remoto in cui gli dei dimoravano sulla terra.

L’eco della voce del muezzin che invocava la grandezza di Allah ruppe la notte. Il ragazzo chiuse gli occhi e inspirò profondamente affinché quella voce trasportata dal vento del deserto gli ravvivasse l’anima.

Improvvisamente le  grida disperate  di donna giunsero da poppa, sfumando il sogno.

D’istinto il giovane attraversò di corsa il ponte della nave, senza mai staccare lo sguardo dal mare. Era quasi arrivato, quando nell’acqua distinse il bambino trascinato dalla corrente verso il piroscafo che si stava lentamente allontanando dalla banchina. Pochi attimi ancora e le eliche del bastimento l’avrebbero maciullato. Senza indugio si tuffò nelle tenebre e, nuotando con forti bracciate, lo raggiunse cingendogli un braccio al collo. Incurante dei gorghi delle eliche che lentamente li risucchiavano, prese a nuotare come un folle, tirandosi appresso il bimbo nell’angoscioso tentativo di respingere la morte incombente.

Sul molo, la madre disperata fissava la scena.

Avvinghiati in un vortice, il ragazzo e il bambino si volsero a fissare terrorizzati il minaccioso roteare delle eliche, sempre più vicine, mentre erano sovrastati dall’acqua.

A un tratto, il bagliore del faro rischiarò il lato poppiero del piroscafo, consentendo al marinaio che dirigeva le manovre d’individuare tra i flutti i corpi dei due sventurati.

Tutto a babordo, tutto a babordo! Uomo in mare, uomo in mare! – urlò al timoniere affacciato all’oblò della sala comandi che subito, con un colpo secco al timone, virò, calando simultaneamente la leva sul pannello dei comandi per fermare le macchine.

Sebbene i motori si fossero spenti, per inerzia la nave continuò a spostarsi nell’acqua, arrivando a ridosso del ragazzo e del bambino, arrestandosi con l’elica alle loro spalle.

Un applauso si levò dal piroscafo e dal battello. Il pianto disperato della donna si trasformò in lacrime di gioia.

Per premiare il valore del mozzo, il comandante gli concesse un giorno di libertà, consentendogli di visitare Alessandria.

Circondato dai banchi dei mercanti assiepati nel bazar, il giovane volgeva lo sguardo sulle imponenti cupole moresche che, svettando tra i tetti delle case costruite con mattoni di fango e paglia, si ergevano al cielo come funghi giganteschi. Avanzando tra la folla si guardava intorno stordito dal caleidoscopio di colori, profumi e voci del mercato. Nell’aria l’acre odore dei narghilè, fumati dai negozianti seduti sulla soglia delle botteghe, si mischiava all’intenso aroma delle spezie e delle essenze profumate racchiuse nei sacchi e nelle piccole ampolle di vetro soffiato, esposte ordinatamente sui banchi.

Ciao! – risuonò di spalle la voce di donna.

Lui si girò. Rapito, ammirò lo splendido viso sorridergli, adornato dalla folta chioma ramata. Attraverso la lunga veste di veli rossi traspariva la sua seducente femminilità.

Con voce rotta dall’emozione, pensando si trattasse di una prostituta alla ricerca di clienti, arrossendo, rispose al saluto. Il pensiero che finalmente anche per lui fosse giunto il momento di diventare uomo lo mise in agitazione.

Non farti strane idee – disse lei, divertita, leggendogli nella mente – Volevo ringraziarti per quel che hai fatto questa notte: salvare una vita umana rischiando la propria è un nobile gesto, indelebile agli occhi degli dei. Questa è la ricompensa che meriti! – Così dicendo, allungò il braccio verso il giovane, tendendogli la mano aperta.

Una conchiglia? – si meravigliò lui, mirando la spirale di madreperla rilucere come un serpente aggrovigliato su se stesso nel palmo della donna.

Tutte le volte che ascolterai la melodia racchiusa, i tuoi sogni si realizzeranno.

Titubante, s’impossessò della conchiglia e la accostò all’orecchio. Un dolce suono gli penetrò l’animo, cancellando le inquietudini che lo turbavano.

Chiuse gli occhi, abbandonandosi alla melodia. Quando li riaprì la donna era scomparsa.

– Tieni! – disse il nonno, offrendo la conchiglia al nipote. Tenendola tra le mani, lui la alzò al soffitto ammirandola luccicare alla luce del lampadario. Un’energia indescrivibile s’irradiò dal guscio, inondandogli mente e cuore. Con cura la avvolse in uno straccio per proteggerla da eventuali urti e la ripose in una delle tasche laterali dello zaino. Percepì che quell’oggetto gli avrebbe portato fortuna, o almeno si sarebbe rivelato fondamentale per il viaggio; ma non sapeva spiegarsi perché…

CAPITOLO III

Il ragazzo entrò nello scompartimento successivo, anch’esso vuoto.

Fu tentato di andare oltre, ma sulle spalle il peso dello zaino incominciava a farsi sentire. Lo sfilò e lo poggiò sul pavimento davanti a sé per poi sedersi accanto al finestrino. Attraverso i vetri, il paesaggio verdeggiante si scioglieva allo sguardo come un film.

Di tanto in tanto il ramo di una pianta cresciuta sul margine dei binari graffiava i vetri. Trasse di tasca il cellulare per controllare se ci fossero messaggi da parte di quei pochi amici che aveva: solo cinque in cui gli si augurava “in bocca al lupo”, o “buon viaggio”.

I sacrifici con cui si divideva tra lo studio e la vigna gli avevano talmente condizionato l’esistenza da impedirgli di coltivare le normali amicizie di un ragazzo della sua età, tanto che a diciotto anni si ritrovava ad avere per lo più conoscenti con cui saltuariamente gli capitava di incontrarsi il sabato sera nella piazza del paese per fare quattro chiacchiere, bevendo una birra o mangiando un panino in un pub. A parte ciò, mai era riuscito ad avere un vero amico con cui confidarsi. Per quanto invece riguardava le ragazze, peggio che mai. Seppure le classi che aveva frequentato fossero state miste, non era mai riuscito a instaurare con qualcuna delle compagne un rapporto che andasse oltre la scuola, malgrado ci fosse una con cui gli sarebbe piaciuto ritrovarsi da solo: si chiamava Claudia, sedeva due file di banchi davanti a lui. Capelli lunghi, viso tondo, occhietti furbi, bassina, fisico proporzionato, era stata in classe con lui dal primo anno del liceo, ma mai gli aveva dato a intendere di piacerle…

Una mattina, poco prima della fine del primo quadrimestre del terzo anno, non appena suonò la campanella, Claudia gli si affiancò chiedendogli se quel pomeriggio potesse andare a studiare da lei per aiutarla a ripassare matematica, materia in cui lui primeggiava. Ascoltandola, non gli sembrò vero che quella ragazza, piaciutagli dalla prima volta che l’aveva vista, gli chiedesse di studiare insieme. D’impulso rispose di sì, dimenticando che per quel pomeriggio aveva promesso al padre che lo avrebbe aiutato alla vigna. Quando tornò a casa, euforico si sedette a tavola. Mentre pranzavano, ascoltando il padre anticipargli il lavoro che avrebbero svolto a breve, quasi si sentì male. << Papà >> disse, << più tardi un’amica mi ha chiesto di passare da lei per aiutarla in matematica >>. << Ovviamente le hai risposto di no >> osservò  l’uomo con sguardo gelido. << Le ho detto di sì >>, rispose fissando il piatto. << Hai fatto male >> riprese il genitore. << Lo sai bene che mi sono organizzato il lavoro per questo pomeriggio perché potevo contare sul tuo aiuto. Mi dispiace, la chiami e le dici che non puoi andarci >>. La madre intervenne in sua difesa offrendosi di sostituirsi a lui, ma il padre fu inflessibile: << Niente da fare, mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato, non può rifiutarsi per correre dietro a una smorfiosa! >>. La donna cercò di replicare, chiedendo il supporto del suocero che in silenzio assisteva alla scena. Anche lui fu del parere che il nipote dovesse onorare l’impegno preso con il padre perché gli uomini veri non disattendono la parola data. Per evitare ulteriori discussioni il ragazzo disse alla madre di non preoccuparsi, che avrebbe telefonato alla sua amica inventandosi una scusa. Quindi prese il cellulare dalla tasca, si alzò dalla tavola e andò a telefonare nella sua stanza. Ascoltandolo mentre cercava di giustificarsi, dall’altro lato dell’apparecchio Claudia rimase in silenzio. Alla fine disse solo, << Va bene, ciao! >>.

Il giorno dopo fuori scuola non lo degnò di uno sguardo e quando, prima di entrare in classe, lui si avvicinò per spiegarsi, lo respinse come se fosse un appestato. Ma l’umiliazione più grande la subì quando, alcuni giorni dopo, la sorprese ad amoreggiare con il bullo della classe il quale non si stancava mai di lanciare frecciatine al suo indirizzo, definendolo “zotico”, suscitando l’ilarità di tutti, lei compresa.

In realtà c’era un’altra ragazza che gli piaceva molto. Si chiamava Veronica, era figlia di un colono che collaborava con il padre durante la vendemmia. Alta quanto lui, bene in carne, aveva il viso lentigginoso cui si sposava una folta chioma rossa raccolta in una lunga treccia dietro alla nuca. Quando era tempo di vendemmia, insieme agli altri figli dei contadini, Veronica accompagnava il papà e la mamma perché quel momento rappresentava per tutti un gioco. In quelle giornate di festa, il ragazzo non perdeva occasione per osservarla di sfuggita e quando capitava che i loro sguardi s’incrociassero, entrambi volgevano subito gli occhi da un’altra parte, arrossendo. Alla madre non era sfuggito che Veronica e suo figlio si piacessero, in cuor suo sperava che lui si decidesse ad avvicinarla per esternarle i propri sentimenti. Vedendo la ritrosia del figlio nel fare il primo passo, convinta fosse timidezza, in più di un’occasione aveva cercato di infondergli coraggio dicendo, << Quando una persona ci piace, non dobbiamo vergognarci di farglielo capire. Spesso la timidezza è l’ostacolo più difficile da superare per essere felici! >>. Ascoltandola, pur comprendendo perfettamente a cosa la madre alludesse, il ragazzo non rispondeva, limitandosi a fare spallucce. Malgrado fosse consapevole di piacere a Veronica tanto quanto lei piaceva a lui, le  si teneva lontano temendo che, una volta insieme, avrebbe dovuto dire addio all’idea di viaggiare, essendo la ragazza  molto legata alla famiglia e al lavoro nei campi. Tuttavia non poteva negare che spesso pensava a lei, chiedendosi che sapore avessero i suoi baci e quale profumo emanasse il suo corpo…

Notando che la spia rossa del cellulare lampeggiava, fu colto dal dubbio di aver dimenticato a casa il caricatore. Seccato sbuffò, sapeva che senza ricevere sue notizie la madre si sarebbe allarmata, ma era certo che, alla fine, un modo per ricaricarlo lo avrebbe trovato. Rilassandosi nella poltrona, fissò lo sguardo oltre il vetro del finestrino per ammirare il panorama. Improvvisamente lo colse la stanchezza. Senza accorgersene, si addormentò.

Fu svegliato da un sordo fruscio. Lentamente riaprì gli occhi: di fronte gli sedeva uno strano personaggio impegnato a mischiare un mazzo di carte dall’insolita lunghezza.

– Ben trovato! – disse l’uomo con voce baritonale, interrompendo per un istante il vorticare delle carte tra le dita.

Il ragazzo si drizzò sul sedile. Stropicciandosi gli occhi, notò che vestiva in maniera insolita: portava un cappello dalle larghe tese che ricordavano un otto adagiato di fianco. Sulla spalla era addossato il mantello di fine velluto rosso, non certo adatto per la bella stagione da poco incominciata. Lui si preoccupò: se l’uomo avesse avuto brutte intenzioni, nello scompartimento non c’era nessuno cui avrebbe potuto chiedere aiuto.

All’improvviso lo scenario nella cornice del finestrino cambiò: alla verde prateria subentrarono le effervescenti onde del mare solcate da un cutter. La barca, con le vele spiegate al vento, in ali di schiuma puntava dritta verso lo spuntone di roccia che dalla costa declinava a mare, sparendovi dietro.

Giganteschi megaliti rosa, sulle cui cime nei loro nidi gli uccelli stavano accovacciati al sole, s’innalzavano dall’acqua su nel cielo tracciato da uno stormo di anatre.

Guardando quel paesaggio incantevole, il ragazzo sospirò.

Sprofondò la schiena nel sedile e, emozionato, ammirò di là dal vetro il panorama in continuo mutamento come le immagini di un documentario.

– Magnifico, vero? – La voce dell’uomo lo strappò a quel piacere.

– Già! – Stupito, fissava il cavaliere in groppa al bianco destriero, apparso all’improvviso dal nulla, galoppare sulla spiaggia dorata.

– Non hai la sensazione di trovarti in un’altra dimensione? – chiese lo strano personaggio. Anziché rispondere, incantato, il ragazzo continuò a seguire con la punta dell’occhio il cavaliere lanciare lo stallone al galoppo sulla battigia.

– Non ti sembra di trovarti in un universo dove la realtà è in continuo mutamento, subordinata alla fantasia? – suggerì l’uomo, mischiando le carte.

– Sì – ammise, volgendo per un istante lo sguardo su di lui.

– E’ la prima volta che viaggi, vero?

– Sì – rispose, tornando a fissare il mare increspato dal vento.

– Preferisci il mare o la montagna? – chiese.

– Entrambi!

– Impossibile! Al mondo esistono due tipi di persone, chi ama il mare e chi la montagna. Tu a quale categoria appartieni?

Il ragazzo cercò di rimettere ordine nella propria testa. Fissava con attenzione il paesaggio modificarsi davanti a sé man mano che il convoglio, rallentando, avanzava tra la fitta boscaglia ai margini dei binari. Lentamente il paesaggio marino lasciò il posto a quello campestre.

Tra i rami di un grosso fico distinse una merla imboccare i pulcini nel nido intrecciato nel tronco.

Appena il mare tornò visibile, intravide tre donne nude correre allegramente tra le onde, schizzandosi a vicenda l’acqua con i piedi e le mani. Seppur lontane, riuscì a focalizzarne i seni e gli scuri cespugli dei pubi.

Interessato si drizzò sul sedile per osservarle meglio.

Con uno strappo violento il treno imboccò la curva, inoltrandosi nuovamente nella fitta boscaglia, sottraendo allo sguardo la piacevole visione.

– Belle, vero? – disse l’uomo, abbozzando un sorriso eloquente.

Solo allora il ragazzo ricordò di non essere solo.

Turbato, abbassò gli occhi sulle scarpe dell’altro: anch’esse erano di velluto porpora come il mantello; la foggia, dalla punta leggermente piegata verso l’interno, ricordava quelle di un principe orientale o del genio della lampada.

– Mica devi vergognarti! – fece lui, divertito del suo imbarazzo – Non c’è nulla di più elettrizzante per lo sguardo maschile di una bella donna nuda intenta nell’intimità naturale dei propri gesti, inconsapevole d’essere osservata!

Udendo quelle parole, il ragazzo si rasserenò.

– Perché non si possono preferire insieme il mare e la montagna? – chiese, accennando un sorriso.

– Al mare appartengono gli individui, alla montagna le persone: tu ti senti individuo o persona? – domandò l’uomo, divenendo improvvisamente serio.

– Qual è la differenza? – chiese, grattandosi la testa. Aveva sempre considerato individuo e persona sinonimi l’uno dell’altra.*

– Non conosci il latino, vero?

Un fitto cespuglio di more graffiò il finestrino.

– No! – arrossì.

L’uomo respirò profondamente.

– Individuo deriva dal latino individuus che significa <<indivisibile>>. Persona dal latino persona, termine con cui, nell’antica Roma, ci si riferiva a un tipo di maschera utilizzata dagli attori nelle rappresentazioni teatrali. A sua volta, persona è originata dall’unione di per, che significa attraverso, e sonare, ossia suonare, ed è il termine con cui gli antichi denotavano la parte interpretata dall’attore nel dramma. Da ciò deduciamo che dichiararsi individui significa ammettere la propria indivisibilità dalla massa, trascendendo l’aspetto personale che rappresenta la maschera di cui ci disfiamo quando smettiamo di recitare il nostro ruolo sul palcoscenico della vita per tornare al sicuro tra le pareti di casa, lontano dagli sguardi altrui.

Con gli occhi luccicanti il ragazzo si raddrizzò sul sedile. Nella sua mente risuonarono le parole che il nonno ripeteva sempre mostrandogli un grappolo d’uva: <<Ricorda, figliolo, l’umanità non è altro che una moltitudine di grappoli da cui ricavare il vino della creazione. Per questo motivo ognuno di noi ha il dovere nella vita di svolgere al meglio il proprio compito, per quanto umile esso sia, al fine di evitare che il vino diventi aceto. Senza mai dimenticare che il proprio operato, sia nel bene sia nel male, influenzerà in maniera imprescindibile l’esistenza di tutti coloro con cui s’interagirà. Per il diletto del palato, un grappolo lo si può mangiare, gustandolo chicco dopo chicco, ma per quello dell’anima, cioè il vino, bisogna riunire nel tino tutti i grappoli e schiacciarli affinché le specifiche essenze si mischino tra di loro fino a confondersi, dandone vita a un’unica del tutto nuova che racchiuda in sé le caratteristiche delle singole anime che l’hanno generata. >>

Ogniqualvolta lo ascoltava ripetere quelle misteriose parole, si chiedeva cosa volesse significare, ricorrendo al padre nella speranza gli svelasse l’arcano.

<< Papà cosa voleva dire il nonno? >> chiedeva. << Devi arrivarci da solo >> gli rispondeva, lasciandolo con il dubbio, dipananto in parte dalla madre che, sorridendo, lo rassicurava: << Non affliggerti, al momento opportuno tutto ti sarà chiaro! >>.

– Preferisco il mare! – asserì convinto il ragazzo, raddrizzandosi sul sedile.

IL GRAAL A NAPOLI TRA REALTA’ E FANTASIA

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

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Napoli

Sabato 29 giugno, presso l’Antisala dei Baroni al Maschio Angioino, la IVI ha organizzato il convegno IL GRAAL TRA STORIA, MITO E PSICOLOGIA. Relatori:  Afro de Falco, Clementina Gily, Vittorio Del Tufo, Adolfo Ferraro, Salvatore Forte.

Nonostante il caldo torrido della giornata, un folto pubblico ha gremito la sala a dimostrazione dell’interesse e della curiosità suscitati dal mito del Graal, la coppa dell’ultima cena dove, stando alla leggenda, Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo.

Ma cosa esattamente è il Graal e quale motivo lo legherebbe a Napoli e al Maschio Angioino?

Rispondere alla prima domanda è difficile. Seppure da secoli il Graal viene identificato nella coppa dell’ultima cena, in diversi testi medievali che per la prima volta vi fanno accenno esso assume connotazioni diverse.

Si parte da una testa decollata, recata su di un piatto d’oro da un gruppo di ancelle durante una celebrazione sacra, nella quale molti identificano la testa di San Giovanni Battista. In questo caso forte sarebbe il richiamo al misterioso baphometto adorato dai templari. In altri testi il Graal rappresenterebbe invece una pietra, precisamente il diadema posto al centro della fronte di Lucifero e dalla quale si staccò cadendo sulla terra durante la battaglia tra gli angeli del bene contro quelli del male. Per altri ancora il Graal sarebbe la coppa con la quale Gesù celebrò l’ultima cena e in cui Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo quando fu posto in croce.

Come si evince dai diversi aspetti che il Graal assume in svariate trattazioni e tradizioni, è difficile dargli una precisa caratterizzazione.

Tuttavia, grazie alla bravura dei conferenzieri, chiunque abbia seguito con attenzione i loro interventi avrà maturato la convinzione che il Graal, qualunque cosa sia, è intimamente legato alla crescita interiore dell’individuo.

A riguardo fondamentali gli interventi della professoressa Gily e del professor Adolfo Ferrara i quali, citando rispettivamente Bruno e Jung, hanno dimostrato come la ricerca del Graal sia connessa allo sviluppo interiore dell’essere: l’uomo, attraverso il cammino tracciato dai sacri testi e mediante la purezza dei sentimenti, percorrerebbe il “sentiero” in grado di elevarlo dallo stato di animalità a quello di spirituale riconquistando l’originale status divino perso con la cacciata dall’Eden di Adamo ed Eva.

Tale “cammino” sarebbe simboleggiato dagli alchimisti con l’appellativo di Grande Opera.

All’alchima ha fatto esplicitamente riferimento il regista Afro de Falco proiettando delle slide che riproducevano diversi simboli che utilizziamo col pc o coi telefonini, soffermandosi su un simbolo composto da una croce sovrastante una sfera che ufficialmente rappresenta il simbolo della cristianità, ma che in alchimia simboleggia l’antimonio, ovvero il metallo da cui ha inizio l’opera alchemica. Guarda caso tale simbolo compare nel fregio dell’università Federico II, precisamente nella mano sinistra dell’imperatore a dimostrazione (?) che anche lo Stupor Mundi era un iniziato ai Grandi Misteri.

Alla domanda quale rapporto ci sarebbe tra il Maschio Angioino e il Graal, hanno cercato di rispondere il giornalista Vittorio del Tufo e Salvatore Forte con il suo intervento conclusivo.

Da giornalista, studioso e saggista Del Tufo si è “limitato” a delineare l’excursus storico che portò a Napoli gli Aragonesi, precisamente Alfonso d’Aragona il cui ingresso trionfale in città è scolpito sull’arco di trionfo del portale d’ingresso del castello.

Parlando di Alfonso d’Aragona, sia del Tufo che Forte ne hanno evidenziato la magnanimità – non a caso era denominato il Magnanimo – e le capacità amministrative sia economiche che politiche.

Mentre il giornalista ha fondato il proprio intervento sugli eventi storici, Forte è andato al di là della storia ufficiale, proponendo una serie di immagini e versi di epoca rinascimentale appartenenti alla tradizione dei Fedeli d’Amore – un gruppo di poeti devoti all’Amore identificato nella figura femminile, ma che attraverso versi criptati si scambiavano messaggi politici e religiosi in contrasto con le idee ufficiali propugnate dalla chiesa del tempo – dai quali, secondo lui, si evincerebbe che il Graal, almeno per un certo periodo, ebbe la sua sede nella città di Partenope.

A supporto di questa suggestiva ipotesi anche Forte si è avvalso di slide, offrendo al pubblico immagini che a suo parere attesterebbero la presenza del Graal a Napoli per poi essere probabilmente trasferito, poco dopo la metà del XVII secolo, nel monastero di Santa Maria di Poblet quando furono traslate in spagna le spoglie di Alfonso d’Aragona.

A ulteriore sostegno della sua tesi, Forte ha fatto riferimento a un gioco di luce che avverrebbe all’interno della Sala dei Baroni durante il solstizio d’Estate: filtrando attraverso un punto in alto alla  sala, il sole proietterebbe sulla parete prospiciente l’immagine di un libro aperto. L’apparizione di questo libro di luce nel momento in cui il sole è al suo apice potrebbe significare che il castello è un libro di pietra sulle cui facciate e mura le sapienti mani degli scalpellini hanno impresso simboli la cui interpretazione è possibile solo agli iniziati. In tal senso il Maschio Angioino si rivelerebbe come una delle tante “dimore filosofali” cui fa riferimento il Fulcanelli in una sua opera dall’omonimo titolo, e che lo scrittore francese Victor Hugo ne IL GOBBO DI NOTRE DAME definisce “libri di pietra” comprensibili solo a chi fosse iniziato ai sacri misteri. Oppure che gli aragonesi, nella fattispecie Alfonso d’Aragona, erano in possesso di una conoscenza di luce, la conoscenza sacra cui si dichiaravano depositari i Fedeli d’Amore, i Templari, i Rosacroce, e in tempi remoti gli antichi egizi e tante altre civiltà del passato che ci hanno lasciato monumentali vestigia dal significato impenetrabile, la cui edificazione sarebbe stata impossibile con i mezzi e conoscenze ufficiali dell’epoca in cui furono erette…

Giochi di luce di questo genere avvengono in diversi templi e cattedrali sparsi per il mondo. Uno è il tempio egizio di Abu Simbel dove durante il solstizio d’estate, a una certa ora, il sole penetra all’interno illuminando la statua del faraone avallandone l’origine solare, e dunque affermandone la natura divina.

Se davvero il Graal abbia un intimo legame con gli aragonesi e la città di Napoli, probabilmente non lo sapremo mai. Di certo il convegno ha aperto nuovi orizzonti di approfondimento per quanti amano studiare la città e i suoi misteri.

Secondo un detto alchemico, “l’alchimista attua la trasmutazione di se stesso mentre opera”. In virtù di ciò, non possiamo escludere che chiunque si ponesse seriamente alla ricerca del legame tra Napoli e il Graal, attraverso lo studio, non riuscirebbe a migliorare se stesso come individuo. Se ciò avvenisse, chiunque subisse questa catarsi potrebbe affermare di avere trovato la pietra filosofale, oppure il Graal, fate voi!

Vincenzo Giarritiello

 

IL ROGO DI “NOTRE DAME” DE PARIS, TRA REALTA’ E FANTASIA

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A seguire le considerazioni sul rogo di Notre Dame pubblicate su comunicaresenzafrontiere

Ieri sera mentre guardavo incredulo alla televisione l’incendio di Notre Dame a Parigi, il crollo della guglia mi ha ricordato quello delle “torri gemelle” di New York dell’11 settembre 2001. Con la differenza, non da poco, che mentre quella tragedia fu causata da un attentato di matrice islamica dove perirono poco meno di 3 mila persone, l’incendio di Notre Dame non ha prodotto né vittime né feriti e sarebbe da addebitarsi quasi sicuramente a negligenza umana, non a caso gli inquirenti hanno aperto un’inchiesta per incendio colposo escludendo il terrorismo.

Se per molti, non solo per i parigini, Notre Dame rappresentava un simbolo della cristianità, e dunque il suo rogo è una ferita mortale al cuore della Chiesa e dei suoi milioni di fedeli, per me essa effigiava un “libro di pietra”, definizione adottata dallo scrittore francese Victor Hugo nel suo capolavoro IL GOBBO DI NOTRE DAME. Nel libro quinto del secondo capitolo intitolato QUESTO UCCIDERA’ QUELLO, con “questo” lo scrittore si riferisce ai libri di carta prodotti mediante l’invenzione della stampa, mentre con “quello” ai libri di pietra come le cattedrali e Templi dell’antichità, sulle cui mura i costruttori avrebbero inciso sotto forma di sculture messaggi in codice racchiudendovi i misteri dell’umanità. Tali messaggi sarebbero decodificabili solo dagli iniziati, ossia coloro che abbandonano la vita comune e dopo un lungo cammino catartico fatto di studio, lavoro, preghiera e di una condotta di morigerata, assurgono al grado di INIZIATO.

Ovviamente Hugo non fu il solo a intuire – sarebbe più giusto dire “sapere” – che le cattedrali gotiche erano Templi sulle cui pareti gli antichi avevano inciso messaggi in codice. Un altro che affrontò in maniera dettagliata il tema fu l’alchimista francese Fulcanelli che scrisse due saggi, IL MISTERO DELLE CATTEDRALI e LE DIMORE FILOSOFALI, dove asseriva con l’ausilio di foto e dipinti che sulle pareti della Cattedrale di Chartres e di altre cattedrali gotiche francesi, inclusa Notre Dame a Parigi, i fregi scolpiti sulle mure e sulle colonne svelassero il mistero della Grande Opera, ossia come realizzare la trasmutazione alchemica del “piombo” in “oro”. Dove il piombo simboleggia l’uomo schiavo della materialità, mentre l’oro l’uomo spiritualizzato, cioè chiunque sacrifica la materia per elevarsi spiritualmente. Ma non solo: tali fregi, come ad esempio quelli presenti in molti templi egizi, testimonierebbero che gli antichi erano in possesso di profonde conoscenze scientifiche, ad esempio come produrre e utilizzare l’energia elettrica…

La precedente lunga premessa era indispensabile per giustificare la riproposizione su questa “pagina” delle considerazioni che scrissi sul mio blog quattro anni fa, subito dopo aver letto IL GOBBO DI NOTRE DAME. Spero sia un buon auspicio affinché in tempi brevi Notre Dame sia nuovamente riconsegnata all’umanità in tutto il suo splendore artistico, religioso e iniziatico.

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Di libri sull’ermetismo ne ho letti tanti. Così come ne ho letti diversi sul significato ermetico delle cattedrali gotiche e degli antichi insediamenti archeologici quali la piana di Giza in Egitto con le sue misteriose piramidi e la sfinge. Ogni autore, analizzando quei siti millenari, sembra faccia chissà quali scoperte legate alle origine della civiltà umana; alla presunta esistenza in un lontano passato di una civiltà tecnologicamente avanzata nella quale molti identificano l’Atlantide di cui parla Platone nel Timeo e nel Crizia.

Perfino il Fulcanelli, famoso per IL MISTERO DELLE CATTEDRALI, analizzando i portali e le statue di Notre Dames de Paris, giunge alla conclusione che quei simboli racchiuderebbero il segreto della Pietra Filosofale e farebbero riferimento a un antico passato dell’umanità sepolto nella sabbia del deserto…

Poi leggi NOTRE DAMES DE PARIS di Victor Hugo e ti rendi conto che lo scrittore francese è stato l’antesignano di tali teorie e studi; che il Fulcanelli e tutti gli altri che hanno successivamente affrontato l’argomento gli hanno semplicemente fatto il verso, prendendo spunto dal suo grandioso romanzo…

Addirittura nel 2° capitolo del libro 5° intitolato QUESTO UCCIDERà QUELLO, parlando dei “libri di pietra” uccisi da quelli stampati, riferendosi ai monumenti dell’antichità costruiti con gli stessi criteri filosofici con cui successivamente furono edificate le cattedrali gotiche, in rapporto alle piramidi d’Egitto Hugo suppone che sulla loro superficie “sono scivolate le acque del diluvio”.

Tesi che oggi tende sempre più ad accreditarsi grazie alle moderne strumentazioni atte a misurare l’età dei monumenti, anticipando di migliaia di anni la costruzione delle piramidi e della sfinge. Questa ipotesi è avvalorata negli ultimi anni dall’archeo-astronomia, neo-disciplina scientifica grazie alla quale, attraverso sofisticati software, è possibile risalire all’esatta posizione delle stelle in cielo migliaia di anni fa.

Mediante questa nuova tecnica di ricerca, prendendo in esame la piana di Ghiza con le sue piramidi e il Nilo, più studiosi sono giunti alla conclusione che il sito riproporrebbe in terra l’esatta disposizione della costellazione di Orione” così com’era circa 10.300 anni fa: le tre piramidi riprodurrebbero quella che all’epoca era l’esatta posizione in cielo delle tre stelle che ne formano la “cintura” mentre il Nilo l’equivalente posizione della Via Lattea.

Tesi ampiamente discussa e suffragata dallo scrittore britannico Graham Hancock nel suo best seller IMPRONTE DEGLI DEI. Hancock addirittura riferisce che le scanalature sulla sfinge sarebbero conseguenza dell’erosione dell’acqua e risalirebbero a oltre 9 mila anni fa, epoca dell’ultima glaciazione, dunque di un vero e proprio diluvio che si abbatté sulla terra. Inoltre egli ipotizza che la testa originale della sfinge non sarebbe quella attuale ritraente il volto del faraone Chefren, bensì tutta la struttura, non solo il corpo, in origine riproducesse un leone in riferimento alla costellazione del Leone in cui sorgeva il sole circa 10.500 anni fa. Solo successivamente, circa 2500 anni, la testa della sfinge sarebbe stata modificata in quella che conosciamo oggi…

Fantasie? Probabile! Una cosa è certa, nel suo romanzo Victor Hugo, seppure en passant, afferma che le acque del diluvio sarebbero scivolate sulle pareti delle piramidi…

Come faceva lo scrittore francese a conoscere una possibile verità che solo negli ultimi vent’anni sta tendendo ad affermarsi, seppure osteggiata dall’archeologia ufficiale?

Potere della sua geniale fantasia o che?…

Vincenzo Giarritiello

NAPOLI, VIA DEI MILLE 78

Chiusura Libreria Marotta (via dei Mille Napoli)

Ogni volta che mi capita di camminare per Via dei Mille e passare davanti al civico 78, mi coglie un senso di nostalgia misto ad amarezza: laddove oggi sorge un negozio di macchine da caffè, fino a poco meno di vent’anni fa c’era la Libreria Marotta, una delle librerie storiche di Napoli, sede delle edizioni Tommaso Marotta Editore con cui nel 1997 pubblicai L’Ultima Notte, la mia prima raccolta di racconti. E dove per circa tre anni frequentai il laboratorio di scrittura creativa coordinato dallo scrittore Nando Vitali, allora direttore editoriale della casa editrice. In quegli attimi mi è impossibile tenere a freno le emozioni, evitando che i ricordi riaffiorino come magma incandescente dai cassetti della memoria, riscaldando mente e cuore. [..]

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