RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA

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PREMESSA DELL’AUTORE

Questo libro è articolato in tre sessioni. Nella prima, che va dal capitolo 1 all’11, sono raccolti una serie di articoli pubblicati nel corso degli anni sui miei blog LA VOCE DI KAYFA, LA VOCE DI KAYFA 2.0 e su diverse riviste online, in cui parlo in maniera estesa delle bellezze del paese e dei luoghi che lo circondano, nonché delle emozioni che mi suscita l’atmosfera che vi si respira; soffermandomi nel capitolo 9 sul santuario de La Verna e sulla figura di Maria Maddalena, dando spazio a considerazioni personali sulla Santa e sul suo legame con San Francesco d’Assisi e di quest’ultimo con i Templari. La prima sessione si chiude con la cronaca della visita alla CASA D’ARTE MUSEUM PETRICCIUOLIANA di un gruppo studenti veneziani del Liceo Artistico MARCO POLO.
Nella seconda sessione, rappresentata dal capitolo 12, sono raccolti quattro racconti ispirati dai miei soggiorni raggiolani, dove il soggetto, seppure sottinteso, è Raggiolo con i suoi abitanti.
Nell’ultima sessione, indicata con APPENDICE, mi è sembrato giusto riportare una serie di interviste da me effettuate per conto del sito di informazione con cui collaboro www.comunicaresenzafrontiere.it a persone che, a vario titolo, si impegnano per dare lustro al paese e tenerne vive la storia e le tradizioni.
Non escludo di aggiornare il volume in futuro, come del resto è già avvenuto per la presente edizione, rivedendolo e integrandovi nuovi articoli, racconti e interviste.
Buona lettura!

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SIGNATURE RERUM – IL SUSSURRO DELLA SIBILLA

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[…]Poggiai le valige sulla soglia della villa. Presi le chiavi dalla tasca del giubbotto e aprii l’ingresso del mio nuovo alloggio.
L’odore di chiuso ristagnante nell’ambiente testimoniava che la casa era disabitata da tempo. Ne fui sorpreso perché Stefania e Francesco amavano vivere lì. Soprattutto d’inverno, quando il tranquillo sciabordio del mare riecheggiava sulla spiaggia solitaria, permettendo di fare lunghe passeggiate sul bagnasciuga senza il pericolo di inciampare nei bagnanti stesi al sole; d’essere involontario(?) bersaglio di pallonate, o, peggio ancora, d’essere investiti dagli ombrelloni sradicati dal vento.
Entrambi concordavano che l’autunno e l’inverno erano le sta-gioni migliori per godere delle facoltà terapeutiche e spirituali del ma-re. Sostenevano che il mormorio delle onde dava voce a un mistero irrisolvibile, inducendo a una profonda riflessione su una questione, se-condo loro, fondamentale per capire la vita e l’uomo: qual è l’esatto momento in cui l’onda nasce e quello in cui muore. Tra quanti si tormentavano nella soluzione dell’enigma, vi era chi affermava che l’onda si forma nell’attimo in cui sembra morire, ossia quando si riversava sulla riva con un ultimo, rabbioso ruggito. A sostegno di questa tesi, costoro riferivano dell’allegra melodia che si levava dai filamenti di schiuma dell’onda morta allorché, insinuandosi tra i ciottoli sulla sabbia, rifluivano nel mare come anime finalmente libere dal vincolo corporale, pronte a librarsi nel cielo quasi rinascessero a nuova vita.
Sebbene il problema non avesse mai suscitato il mio interesse, quando spalancai le imposte del balcone nel salottino per cambiare aria alla casa, affacciandomi sulla spiaggia a osservare le onde rin-corrersi sul mare fui assalito dal dubbio: la morte non potrebbe essere il preludio di una nuova vita?[…]

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L’ENOLOGO ALESSIO BANDINELLI SI RACCONTA

ALESSIO

Alessio da quanto tempo svolgi l’attività di enologo?

Da vent’anni. Ho iniziato lavorando in piccole aziende vitivinicole. Poi, agli inizi del duemila, non appena laureato, ho intrapreso  l’attività a pieno regime.

Cosa ti ha spinto a scegliere questa professione?

Per quanto riguarda il lavoro, non ho mai avuto il sogno nel cassetto. Però mi sono sempre piaciuti i lavori attinenti all’agricoltura. Papà negli anni novanta era consigliere nazionale dell’ASI, associazione italiana sommelier, e andavamo in viaggio a visitare le cantine e le aziende vitivinicole. Di conseguenza a casa si sviluppava l’interesse per tutto ciò che riguardava il vino cui si abbinava un consumo intelligente che ti portava a fare un vero e proprio viaggio in un bicchiere. Degustando un buon bicchiere di vino, socchiudendo gli occhi mentre lo bevevi, riscoprivi gli odori e i sapori della terra da cui il vino proveniva. Attraverso quel viaggio degustativo ti veniva raccontata la storia del vino che bevevi e la storia di chi lo produceva.

Sì, ma esattamente la tua propensione a fare l’enologo da dove nasce?

Forse proprio da questa esperienza adolescenziale. Anche se non escludo che potesse esserci già qualcosa in me che si era messa inconsciamente in moto. Ad esempio dopo le medie scelsi di iscrivermi all’istituto agrario di Firenze in quanto sentivo che dovevo fare qualcosa che fosse attinente alla terra. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato un lavoro tangibile, vero. Un lavoro attraverso cui l’uomo producesse davvero con le proprie mani. E a ciò ho sempre associato l’agricoltura!

Tu oggi sei un libero professionista, ma in passato hai lavorato come dipendente presso grosse aziende. Ci spieghi come avviene questo passaggio?

È stato un percorso: ho prima studiato a Firenze poi ho avuto l’opportunità e la fortuna di formarmi in un’importante azienda trentina che produce milioni di bottiglie all’anno dove ho fatto  tutto la trafila dalla gavetta fino alla direzione tecnica. A quel punto mi son chiesto, “che si fa?”. È scattato un meccanismo per cui da otto anni  mi sono rimesso in discussione per vedere se fossi capace di fare qualcosa da solo. Penso sia la mia indole che mi porta a volermi rimettere periodicamente in gioco un po’ in tutte le cose che faccio. Oggi lavoro in quattro regioni d’Italia, seguo progetti interessanti e ambiziosi, ho presentato una domanda di brevetto sulla tecnica di vinificazione con i raspi, che spero verrà accettata. Tutto ciò mi gratifica, ma soprattutto mi stimola ad andare sempre avanti.

Tu sei molto legato a Raggiolo, ciò non ti ha mai portato a dar vita a un prodotto vinicolo che avesse come richiamo il paese?

Filosoficamente sarebbe una bella scommessa… Volendo essere realisti, qui a Raggiolo non sarebbe semplice impiantare una vite da cui poi trarre vino locale. Considera che siamo sull’Appennino, un territorio dove ci sono grossi magnati del vino: Biondi Santi per il Brunello, tanto per citarne uno. Persone che hanno investito tanto sul territorio. Non escludo che lo stesso un giorno non possa accadere anche a Raggiolo. Ma sarebbe un progetto molto ambizioso che richiederebbe un tale investimento di risorse e mezzi che, al momento, reputo impossibile da realizzarsi in quanto nella zona  non mi risulta ci  siano imprenditori  disposti a investire nella realizzazione di un’idea simile.

A proposito di ambizioni, quali sono le tua ambizioni come enologo?

Io vivo molto di soddisfazione. La riuscita di un progetto mi gratifica, mi soddisfa! L’ambizione sicuramente potrebbe essere quella di riuscire a realizzare il vino ideale. Ma fortunatamente non arriva mai, per cui sei sempre alla ricerca di nuovi orizzonti per crescere professionalmente e di riflesso anche come uomo.

Questa tua visione è comune agli artisti: ogni artista sa che la propria opera non sarà mai perfetta ma perfettibile, ossia migliorabile. In virtù di ciò, ti definiresti un artista?

Non lo so. Da tecnico della natura cerco di leggere i segnali della materia prima, di fare un’analisi della qualità delle uve prodotte nel corso degli anni e l’analisi del territorio. Tutti aspetti che mi consentono di vivere un legame profondo con la terra pur essendo appunto un tecnico.

Come sarà il vino del 2019?

È presto per dirlo. Almeno in toscana abbiamo ancora un buon mese e mezzo di attesa per fare il Sangiovese. Allo stato attuale i segnali indicano che quest’annata dovrebbe essere buona. Ma, come dico sempre, “finché non c’ho l’uva in cantina, non te lo dico!”

PAOLO SCHIATTI, CUSTODE DELLE TRADIZIONI

foto paolo schiatti

Di seguito l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Intervista a Paolo Schiatti presidente della Brigata di Raggiolo la cui funzione è recuperare e salvaguardare le tradizioni di Raggiolo, perla del Casentino Toscano in provincia di Arezzo, arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, inserito nella ristretta lista dei Borghi più Belli d’Italia.

 

Dottor Schiatti da quanto è presidente della Brigata di Raggiolo?

Da quattro anni

Quando nasce la Brigata?

Venticinque anni fa, da un’idea di un gruppo di amici. Quattro amici al bar, letteralmente. L’intenzione era quella di dar vita a qualcosa che valorizzasse Raggiolo, arrestando la perdita delle tradizioni che si poteva intraprendere.

Vi proponete tipo pro loco o il vostro compito principale è quello di serbare le tradizioni del luogo?

Assolutamente serbare le tradizioni del luogo! Tant’è vero che abbiamo deciso di non essere una pro loco e di non avere questa identificazione neanche nel nome.

Quando nasce Raggiolo?

La prima notizia storicamente accertata è del 967, prima del mille, in epoca ottoniana. Da un documento del regesto di Camaldoli risulta una donazione dell’imperatore Ottone a un cavaliere, Goffredo di Ildebrando, di alcuni territori tra cui “villa raggiola”.

Il termine raggiolo evoca alla mente il raggio di sole. E’ questa l’origine del nome?

No, è solo un’assonanza! L’analisi linguistica della cattedra di glottologia dell’università di Firenze conduce in un’altra direzione. La definizione raggiolo, per tutta una questione complessa di lemmi, indicherebbe “il luogo degli spini”, ossia un sito di non facile accesso all’interno del bosco.

La sala in cui ci troviamo si chiama “sala dei corsi” in riferimento agli abitanti della corsica. Qual è il legame tra Raggiolo e i corsi?

Dopo il 400 a Raggiolo si insediò una comunità di corsi che ripopolò l’antico castello che era andato completamente distrutto. I corsi sono gli antenati dei raggiolatti, una discendenza di cui qui a Raggiolo si va molto fieri e diversi vocaboli tipici di Raggiolo sono di origine corsa.

Per secoli l’economia di Raggiolo si è mantenuta grazie alla raccolta delle castagne e dei prodotti che vi si  ricavavano. Voi ogni anno, tra fine ottobre e inizi di novembre, in piazza organizzate la festa della castagna…

La castagnatura, è un termine tecnico del casentino.

Questa tradizione inerente la castagna esiste tuttora, o sta scomparendo e voi vi proponete di recuperarla?

Esiste tuttora, ma in maniera minima rispetto al passato. Raggiolo è stata davvero la patria della castagna fino alla seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra. I documenti ritrovati all’università attestano che fin dal duecento i conti Guidi, ai quali apparteneva Guido Novello signore di Raggiolo tra il 1301 e il 1322, avevano selezionato una castagna tuttora esistente derivante da un tipo di castagno detto raggiolano: la castagna raggiolana. Consideri che il castagno non è un albero autoctono, ma fu importato dall’Asia dai romani. La sua estensione territoriale a livello nazionale è dovuta al fatto che è un albero da frutto. Ma soprattutto è un albero del pane: dalla farina di castagne si ottiene la polenta di castagne che rispetto a quella di mais ha la caratteristica fondamentale di essere proteica. Per generazioni a Raggiolo si è vissuto grazie alla farina di castagne.

La vostra ambizione è salvaguardare la storia e le tradizioni di Raggiolo. Turisticamente il paese sta avendo un grosso boom, non a caso è stato inserito nella lista dei borghi più belli d’Italia, e questo è sicuramente anche merito vostro. Come Brigata quali altri obiettivi vi siete proposti per portare avanti questa crescita?

Il discorso sarebbe lungo. Volendo essere sintetici, credo che alla base vi sarebbe l’esigenza di creare un’unità territoriale tra tutti i comuni edificati sul massiccio del Pratomagno. Una montagna straordinaria, con una bellezza paesaggistica unica, sulla cui cima si estende un’immensa prateria che per secoli è stata, unitamente alla Maremma, luogo di pascolo per le greggi all’epoca della transumanza; divide il Casentino dal Val d’Arno ed è circondato nel suo percorso dall’Arno. Ecco, reputo che questa sia la prima cosa da farsi, dare unità a questo mondo che ha una sua omogeneità territoriale culturale e urbanistica.

Quindi, se non ho frainteso,  tutto ciò richiederebbe non solo un impegno culturale ma anche politico!?

Sì,implica che i comuni collaborino insieme a un progetto territoriale che facesse emergere il Pratomagno in quanto tale. E dentro questo progetto fare in modo che le tradizioni dei singoli paesi venissero recuperate e salvaguardate. 

Di raggiolatti in paese ve ne sono sempre meno, mentre vi è un aumento esponenziale di turisti. Alla lunga ciò non potrebbe far cadere nel dimenticatoio la storia e le tradizioni di Raggiolo?

Certo, il rischio è reale! Ed è proprio per evitare che avvenga che come brigata ci siamo posti l’ambizioso compito di recuperare e tenere vive le antiche tradizioni del luogo e organizzare escursioni in posti dove si possono ammirare le meraviglie della natura che ci circonda. È giusto che il paese si incrementi turisticamente, ne beneficia tutta l’economia locale. L’importante è che tutto ciò non oscuri le origini e le tradizioni di Raggiolo! Finché potrò, mi impegnerò con tutte le mie forze perché la radici storico-culturali del paese non cadano nel dimenticatoio. Ovviamente con la collaborazione dei volontari della brigata, donne e uomini straordinari senza i quali tutto quel che abbiamo finora fatto sarebbe stato impossibile.

ESCURSIONE NELL’ALVEO DEL TEGGINA, SULLE ORME DEL FIUME

L'immagine può contenere: 4 persone, persone in piedi, albero, pianta, spazio all'aperto e natura

Da sinistra: Adelio Gambini, Franco Franceschini, Bruno Luddi, Paolo Schiatti, Lorenzo Venturini, Arturo Gambini.

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Alcuni giorni dopo l’escursione in notturna sul Pratomagno, passeggiando per Raggiolo incontrai Paolo Schiatti, una delle guide di quella salita. Dopo avermi chiesto come mi sentissi, mi comunicò che stavano organizzando un’escursione fin su la Pozza del Berluzzi, a circa 900 mt di altezza, per poi ridiscendere l’alveo del Teggina fino al Ponte della Prata, un chilometro e mezzo a valle; magari camminando nell’acqua come facevano da ragazzini.

Da come me la descrisse sembrò dovesse trattarsi di un’escursione priva di difficoltà, una passeggiata o poco meno.

 

L’appuntamento è alle 8,30 di mattina in piazza. Oltre me ci sono Lorenzo Venturini, Paolo Schiatti, Adelio e Arturo Gambini, Franco Franceschini e Bruno Luddi. Tutti abbiamo superato da tempo  i cinquant’anni. Il più giovane sono io che ho completato i cinquantacinque da poco.

L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi, albero, pianta, cielo, erba, spazio all'aperto e natura

Contrariamente a quanto mi era stato prospettato, che non si trattasse di una semplice passeggiata lo intuisco quando, arrivati alla pozza del Berluzzi, un’ampia vasca naturale in cui il fiume si raccoglie per poi riversarsi a valle in uno scenario da canyon, luogo prediletto dai pescatori di trote, Bruno ci fa sapere che lui e Franco ritorneranno indietro ché non se la sentono di seguirci.

 

L'immagine può contenere: pianta, albero, spazio all'aperto, acqua e natura

Istintivamente punto lo sguardo sull’enorme parete di roccia che si innalza davanti a noi e sugli enormi massi che invadono il letto del fiume, ostruendone in parte il cammino. Ci toccherà camminarci sopra e saltare dall’uno all’altro per arrivare al Ponte della Prata. Uno sforzo e un rischio notevoli che forse non si addicono a un gruppo di sessantenni come noi, seppure tutti ancora in una condizione fisica più che dignitosa.

L'immagine può contenere: pianta, spazio all'aperto, natura e acqua

Dopo aver salutato Franco e Bruno, ci incamminiamo in quello scenario cinematografico che mi ricorda tanto il Signore Degli Anelli, con pareti rocciose che si elevano maestose al cielo nella perpetua penombra della fitta boscaglia e alberi che si piegano su di noi come se si inchinassero in segno di riverenza al fiume.

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Di tanto in tanto il grido di un uccello squarcia il silenzio: non mi stupirei se all’improvviso tra i cespugli  apparisse uno gnomo, un elfo o una fata…

Molte rocce affioranti dall’acqua sono schizzate di bianco come se si trattasse di pittura: “Sono gli escrementi dei rapaci che vengono qui ad abbeverarsi dopo il pasto”, mi spiega Lorenzo. A confermarlo è la carogna di una talpa riversa sulla sponda poco sopra di noi.

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Man mano che scendiamo verso valle, il percorso diventa sempre più impegnativo, obbligandoci a veri e propri equilibrismi tra alberi e rocce per passare da una sponda all’altra. Il fiume sfila veloce sotto di noi incuneandosi in ogni spiraglio, intonando una dolce melodia amplificata dal silenzio in cui siamo immersi .

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Mentre balziamo sulle rocce, Paolo indica le ampie chiazze  rosse che si riflettono dall’acqua facendola sembra sangue: “E’ ferro”, spiega, spostando lo sguardo su delle pietre asciutte ricoperte da un manto rossastro. Mi racconta che all’epoca dei longobardi a Raggiolo c’erano tante miniere di ferro, alcune rimaste in vita fino a molti anni fa, di cui tuttora si serba il ricordo nel nome del luogo ove sorgevano.

L'immagine può contenere: spazio all'aperto, acqua e cibo

Notando la mia incertezza nel muovermi sull’acciottolato umido, mi ammonisce a non mettere i piedi sulle pietre bagnate o ricoperte di muschio perché rischierei di scivolare. In effetti basta poggiare il piede su un masso bagnato e l’equilibrio diventa subito precario. Avendo calzato le scarpe da running, la suola di gomma aumenta notevolmente il rischio di scivolare. Divarico le gambe per cercare di non perdere l’equilibrio e vado avanti.

Tra di noi il più agile è Adelio, che è anche il più anziano: salta da una roccia all’altra come un capriolo. Guardarlo muoversi con tale facilità su quel ponte sconnesso di rocce non penseresti che abbia settant’uno anni… Va avanti e indietro come un ragazzino per individuare la strada migliore da seguire.

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Adelio Gambini

Strada è un eufemismo! L’unica “strada” che converrebbe prendere per non rischiare di farsi male sarebbe quella del fiume: immergersi con i piedi nell’acqua e proseguire tra i flutti fino a quando la “strada” non diventi percorribile. Pare che da ragazzi facessero così…

Per quanto mi riguarda provo a stare dietro ad Adelio, gli altri si attardano per scattare foto o ammirare il panorama circostante.

Osservando un enorme masso riverso nell’acqua, Adelio mi spiega che, come tanti altri, fu trascinato lì dall’alluvione del 58. All’epoca lui aveva nove anni: “per giorni venne giù tanta acqua da far temere che Dio avesse inviato in terra un nuovo diluvio!”

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Riprendiamo il cammino. Impreco contro me stesso per essermi portato il bastone. La sua presenza, rivelatasi fondamentale durante l’ascensione al Pratomagno, ora risulta un impedimento. Più volte faccio il pensiero di liberarmene. Mi trattengo, non sapendo cosa mi aspetta più avanti.

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Anche Paolo e Lorenzo mostrano un’agilità non comune nel saltare sulle pietre. Entrambi coltivano la passione per il tracking, quindi sono abituati a gestire simili situazioni.

Arriviamo in un punto dove è praticamente impossibile proseguire nell’alveo. L’unica soluzione è salire sul fianco sterrato del bosco, facendo attenzione a non scivolare cadendo di sotto.

Ci arrampichiamo per poi ridiscendere. Adelio scivola con i piedi di traverso sul terreno sfaldato con un’agilità da fare invidia, lo imito. Seppure a fatica, arrivo su uno spuntone di roccia. La naturalezza con cui balza sul terreno sotto di noi testimonia quanto sia abituato a cose del genere. Mi guardo intorno alla ricerca di un appiglio. Davanti a me un grosso ramo si protende nel vuoto. Penso di afferrarlo per appendermi in modo da calarmi a mia volta di sotto. Non appena lo agguanto, cede di schianto. Casco sul fondo senza alcuna conseguenze. Mi rialzo, rassicurando gli altri che va tutto bene.

Proseguiamo il nostro cammino, se si può chiamare cammino quell’inferno di pietre e massi…

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Risalendo tra gli alberi, mi benedico per aver tenuto il bastone: quell’appoggio si sta rivelando fondamentale ora che siamo costretti ad avanzare nella vegetazione sovrastante il fiume in quanto nell’alveo è impossibile procedere per via degli enormi massi di cui è ingombro.

È proprio vero, ogni impedimento è giovamento!

Seppure al Ponte della Prata non manchi molto, la fatica incomincia a farsi sentire.

Quando arriviamo al ponte, Lorenzo è scuro in viso: risalendo verso il ponte è scivolato in acqua e accusa un risentimento alla caviglia e alla mano.

Paolo ci chiede se volessimo proseguire fin giù al paese. Né Lorenzo né io ce la sentiamo. Anche Arturo preferisce seguirci sul sentiero che conduce a Raggiolo.

Manco a dirlo, Adelio gli fa compagnia!

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Mentre rientriamo, ripensando alla mia caduta, non posso fare a meno di riandare con la mente allo sventurato escursionista francese che ha perso la vita poche settimane fa nel parco del Pollino. Quando è caduto nel burrone, era da solo. Chissà, probabilmente se fosse stato in compagnia si sarebbe salvato!

A parte lo spavento per la caduta e un leggero risentimento alla gamba, non rimpiango di aver partecipato all’escursione.

Era quello l’unico modo per vedere posti che diversamente mai avrei potuto ammirare.

Certo la caduta poteva rivelarsi ben più grave, ma, quando si decide di intraprendere un’avventura, bisogna mettere in conto l’imprevisto e cercare di fare di tutto per prevenirlo o limitarne i danni ponendo la massima attenzione a quel che si fa.

Non sapremo mai se il povero escursionista francese l’avesse messo a sua volta in conto. Al di là delle tante, ipotetiche sbavature nei soccorsi, forse intraprendere da solo un’escursione come la sua è stata un’imprudenza…

Per quanto riguarda noi credo di poter affermare, senza rischio di smentita, di aver dimostrato che l’incoscienza non è un elemento puramente anagrafico. Anche a sessant’anni si può essere incoscienti come dei ragazzini. Ma solo così puoi vivere qualcosa di unico, di irripetibile.

L’importante è poterlo poi raccontare con il sorriso sulle labbra, facendo autoironia. Significa che all’incoscienza hai saputo dosare la giusta dose di buonsenso!

IL LIBRO: “RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA”

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“Raggiolo, frazione di Ortignano in provincia di Arezzo, a 10 km da Bibbiena, è un paese del Casentino Toscano arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, prospiciente il mistico pano-rama de La Verna dove San Francesco ricevette le stigmate. Circa venti anni fa mio suocero, il maestro Osvaldo Petricciuolo, vi acquistò una proprietà rurale che riadattò a casa d’arte per raccogliere parte della sua ricca produzione artistica. Per anni con la mia famiglia vi abbiamo trascorso l’estate. Là i miei figli sono cresciuti tra prati, boschi, ruscelli, respirando aria pura, mangiando cibi genuini, facendo i bagni nel fiume, pescando gamberi, giocando all’aperto con gli altri bambini. Ora che sono giovani Raggiolo per loro rappresenta un bagaglio di ricordi sbiaditi che cedono il passo a quelli eccitanti dell’adolescenza che hanno il nome di una ragazza cui si associa lo smarrimento e il rapimento per la scoperta dell’amore, le goliardate con gli amici, le occupazioni scolastiche, i nauseanti postumi della sbronza, l’impagabile sensazione di scoprirsi grandi in vacanza da soli con gli amici senza l’assillo dei genitori. Anche per me Raggiolo costituisce un bagaglio di ricordi, ma, diversamente dai miei figli, più vivi che mai, seppure riferiti all’epoca in cui loro erano piccoli.”

Così incomincia questa raccolta di pensieri e racconti dove il protagonista è Raggiolo, perla del Casentino Toscano, inserito nell’esclusiva lista dei borghi più belli d’Italia, in grado di trasfondere attraverso la magica atmosfera che vi si respira un mix emozionale, suscitando nell’animo umano ataviche reminiscenza che fanno riscoprire all’uomo quanto sia intimo il proprio rapporto con la natura. Suddiviso in tredici capitoli, il libro vuole essere un omaggio a un luogo dove la dimensione umana non si è ancora persa; un’oasi naturale in cui ogni individuo può rifugiarsi per ritrovare se stesso; uno scorcio di paradiso in terra.

Buona lettura

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ESCURSIONE IN NOTTURNA DA RAGGIOLO AL PRATOMAGNO: LA VOCE DELLE EMOZIONI

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Fino e l’altro ieri la prima e unica volta che da Raggiolo ero salito al Pratomagno a piedi fu nel 2001. Allora l’appuntamento in piazza fu alle 7 del mattino.

Se non ricordo male impiegammo più di tre ore per raggiungere la Croce posta in cima a 1570 m di altezza. Un’ascesa di mille metri che culminò con una gustosa grigliata di carni e salsicce sui barbecue del rifugio. Mia moglie e i miei figli mi raggiunsero in auto insieme ai familiari degli altri escursionisti.

Per anni mi ero ripromesso di ripetere quell’esperienza. Tuttavia una serie di eventi, pigrizia inclusa, mi avevano sempre indotto a rimandarla.

Quest’anno, pochi giorni dopo esserci stabiliti a Raggiolo, con mia moglie decidemmo di fare un picnic al Pratomagno. Una volta arrivati con l’auto nei pressi del rifugio, ci incamminammo a piedi sul sentiero che per un chilometro taglia i campi fino alla Croce.

Convinta di non farcela, a metà percorso mia moglie disse di avviarmi, che mi avrebbe aspettato sul prato. Conoscendola, non obiettai. Giunto in cima, dopo circa una ventina di minuti, la sentii chiamarmi chiedendo da dove si salisse.

È indescrivibile la gioia che le si dipinse in viso quando, affacciandosi dalla ringhiera che cinge la Croce, ammirò l’immensità del panorama estendersi all’orizzonte.

“Che meraviglia…” sussurrò.

A seguito di quella piacevole esperienza, sapendo che da sette anni in paese organizzano una scalata in notturna al Pratomagno, mi ripromisi che quest’anno ci avrei partecipato.

Data fissata, 11 agosto!

Il raduno in piazza è alle 1.30 di notte. Decido di cenare presto per andare a letto alle nove in modo da dormire 2/3 ore. Per rischiare di non svegliarmi all’ora stabilita, attivo la sveglia. Mi alzerò in contemporaneo con il trillo.

In piazza davanti all’ingresso della chiesa si raduna un gruppo di venticinque persone senza distinzioni di età, si va dai ventenni ai sessantenni. A guidarci saranno Lorenzo Venturini, Paolo Schiatti e Massimo Ristori. Alcuni di noi hanno sulla fronte una torcia elettrica per rischiarare la salita.

Prima di muoverci facciamo la foto di gruppo. Nonostante l’ammonimento di Paolo di non chiacchierare mentre attraversiamo il paese per non disturbare chi dorme, nelle nostre vene scorre tanta di quell’adrenalina che è impossibile non fare qualche battuta a voce alta. Come poi sapremo al rientro, le nostre voci sveglieranno più di un raggiolato.

Non appena ci lasciamo alle spalle le luci di Raggiolo e imbocchiamo la strada sterrata che conduce al bivio con il sentiero del CAI, accendiamo le torce. D’incanto le tenebre vengono trafitte da tanti fasci luminosi. Le guide si sono divise rispettivamente in testa, al centro e in coda al gruppo in maniera da assicurarsi che nessuno resti dietro.

Spediti ci inoltriamo nelle tenebre, scrutandoci intorno per individuare eventuali presenze animali tra i cespugli. Cammino affiancando Lorenzo, il capocordata, rischiarando con la torcia che ho sulla fronte la strada davanti a noi. Mentre avanziamo, intravedo in un cespuglio due piccoli riflessi che subito spariscono: gli occhi di un animale riverberati dalla torcia.

Mentre ci inerpichiamo, ogni tanto mi volto dietro per controllare che gli altri ci seguano. Ho la sensazione che il gruppo si stia sfilacciando. La conferma arriva dai messaggi via radio tra Lorenzo e Massimo che lo esorta a rallentare.

Dopo due ore di cammino, giungiamo davanti a un cumulo di pietre sormontato da una croce con su scritto “AL PORO MONDO”. Lorenzo ci invita a raccogliere un sasso e gettarlo sul mucchio. Paolo ci spiega che quella sorta di lapide fu apposta lì molto tempo fa in ricordo di un poveraccio detto Mondo, probabilmente il diminutivo di Sigismondo, morto a causa di un fulmine.

Terminato il racconto, riprendiamo il cammino, fermandoci poco più avanti per rifocillarci. Apro lo zaino e prendo il panino che mi ero portato da casa insieme a un tramezzino e a delle barrette di cioccolata di cui una l’ho condivisa con qualche escursionista mentre salivamo. Anche gli altri ne approfittano per ristorarsi.

Non pensavo che alle tre e mezza di notte si potesse avere così tanta fame. Chiaro sintomo della fatica che stiamo affrontando nel salire.

La pausa dura un quarto d’ora. La voce di Paolo ci esorta a rimetterci in cammino. Prima di infilarmi lo zaino in spalla, traggo il giubbino e lo indosso: seppure sono sudato, il fresco si fa sentire.

Riprendiamo la scalata con l’obiettivo di giungere alla Pozza Nera prima delle cinque in modo da riposarci sui prati per poi affrontare gli ultimi tre chilometri che conducono alla Croce.

Mentre proseguiamo, la strada incomincia a dissolversi nel buio: devo cambiare le pile alla torcia.

Il silenzio che ci avvolge è surreale. A romperlo è il volo di un uccello che si libra dai rami spaventato dal nostro sopravvenire.

Dal walkie talkie di Lorenzo sopraggiunge la voce metallica di Massimo: chiede di fermarci ad aspettarli, una signora è in difficoltà. Lorenzo gli risponde che siamo quasi giunti alla Pozza Nera, li aspetteremo lì.

All’improvviso il sentiero si biforca in un bivio. Dopo un attimo di indecisione, Lorenzo svolta a sinistra. Lasciamo lo sterrato e iniziamo ad avanzare su un manto di foglie secche. Il silenzio della notte è rotto dal calpestio dei nostri passi su quel tappeto naturale.

Pochi metri e Lorenzo capisce di aver sbagliato strada. Non è preoccupato, siamo in prossimità della meta. Poco dopo ci troviamo al cospetto della staccionata che delimita i Prati!

Mentre noi escursionisti ci sediamo sull’erba per riposarci e cambiarci le magliette, Lorenzo torna indietro per accertarsi che gli altri non abbiano problemi.

Dopo essermi cambiato, mi stendo sul prato e fisso il firmamento sopra di me. Con lo sguardo individuo la cintura di Orione. Lorenzo e gli altri ci raggiungono. Gli chiedo notizie della signora: ha avuto grosse difficoltà alle gambe, ma si è ripresa.

Dopo essersi cambiato si siede sull’erba, prende lo smartphone e attiva l’applicazione che gli consente di individuare la posizione delle stelle nel cielo.

Lo spettacolo di pois luminosi che bucano la notte è di una bellezza straordinaria che solo in montagna si può godere. Sembra di toccare il cielo con un dito. Allungo idealmente la mano verso le stelle e mi diverto a unirle l’una con l’altra con la punta del dito disegnando immaginarie figure, come si fa con i puntini numerati dei giochi enigmistici. Restiamo sdraiati a chiacchierare sul prato per una mezz’ora. Il sonno mi coglie all’improvviso. Faccio fatica a tenere gli occhi aperti. A ridestarmi dal torpore è la voce di Paolo: ci sollecita a muoverci per raggiungere la croce adorna di luci in lontananza se vogliamo vedere l’alba.

Rimettiamo gli zaini in spalla e ci incamminiamo sul sentiero che si distende in un continuo saliscendi disseminato da larghe chiazze di sterco delle bianche vacche dormienti sull’erba poco distanti da noi. Qualcuno gli si avvicina con l’intento di scattare una foto disturbandone il sonno. Infastidita, una mucca si alza in tutta la sua imponenza. Meglio allontanarci, non si sa mai…

Ancora qualche centinaio di metri e raggiungeremo la Croce. A est in lontananza il cielo colora di rosa la cresta dell’Appennino tosco/emiliano.

Affrettiamo il passo per raggiungere la Croce.

Quando arriviamo in prossimità della cima, i prati sono disseminati di gente che ha trascorso la notte in tenda o nei sacchi a pelo. Qualcuno si aggira tra la folla offrendo caffè caldo e dolci artigianali. Lorenzo e io ne approfittiamo per mangiare un pezzo di torta

Da un fuoristrada della comunità montana scendono i musicisti che suoneranno in onore della Croce: oggi è la sua festa. A dire il vero la si sarebbe dovuta festeggiare il 28 luglio, ma il maltempo costrinse gli organizzatori a posticipare la data.

Arrivati ai piedi della Croce, con Lorenzo ci facciamo un selfie. Quindi a nostra volta volgiamo lo sguardo all’orizzonte per ammirare l’incanto dell’alba.

Un vento leggero ravviva l’aria. Chi ce l’ha si alza il cappuccio sul capo.

Lo spettacolo di colori e luci che si offre ai nostri sguardi è pura magia. Il confine tra cielo e terra, tracciato all’orizzonte dal profilo dell’Appennino, è un esplosione di lucei arancione frammista all’azzurro del cielo che rischiara sempre più man mano che il sole si alza. Una macchia arancione si allarga oltre i monti quasi fosse il bagliore di un’esplosione atomica. Per fortuna è solo l’incedere prepotente della vita che torna a occupare il proprio trono regale, strappandolo alle tenebre. Rapiti restiamo a osservare i riverberi di luce saettare al di là dei monti, rischiarando lo scenario sottostante man mano che l’astro di luce si inerpica su nel cielo. La vita torna ad affacciarsi nel mondo in tutto il suo splendore!

Lorenzo dà un’occhiata all’orologio, mi fa cenno che s’è fatto tardi.

Ci avviamo sul sentiero che conduce al rifugio da dove imboccheremo la strada del ritorno. Dei nostri non c’è traccia. Lorenzo si mette in contatto telefonico con Paolo per sapere dove si trovano: sono alla Croce ad assistere al concerto. Ci diamo appuntamento lì al rifugio.

Nell’attesa ci stendiamo al sole su un quadrato d’erba. Mi distendo utilizzando lo zaino a mo’ di cuscino. Se non fosse per Lorenzo che mi avverte dell’arrivo del gruppo, me ne resterei a dormire.

Fatta colazione dall’ambulante che vende caffè e brioche, ci incamminiamo verso casa.

Il gruppo s‘è dimezzato. La metà tornerà a Raggiolo facendosi dare un passaggio da parenti e amici giunti in auto.

Prima di incamminarci nella boscaglia, Paolo spiega che all’andata abbiamo “seguito” il corso del Barbozzaia, ora invece scenderemo dal versante del Teggina, i due fiume che scorrono ai lati del paese. In seguito, riferendosi al periglioso sentiero cosparso di pietre e massi che ci obbligano a continui equilibrismi per non inciampare, Paolo ci spiegherà che anticamente i contadini nei loro spostamenti montani, per tracciare la via più comoda, si facevano precedere da un mulo, animale che per istinto è in grado di individuare il percorso meno disagiato. Ascoltandolo mi sovviene l’immagine degli alpini e dei loro muli durante la Prima guerra Mondiale.

Dopo circa un chilometro arriviamo a Casa Buite, un rifugio usato in passato dai pastori durante la transumanza. Tuttora è utilizzato da qualche boscaiolo o cacciatore, come svelano gli oggetti di epoca moderna posti sul mobiletto all’ingresso e i letti allestiti sul pavimento nell’altra stanza.

La discesa, lunga quasi dieci chilometri, mette a dura prova ginocchia e piedi. Le scarpe si inzaccherano guadando i rigagnoli che si frappongono al nostro incedere.

Lorenzo allunga il passo, deve rientrare a casa prima delle dieci.

Finalmente alle dieci in punto anche noi arriviamo in paese. Ci salutiamo orgogliosi, complimentandoci l’uno con l’altro per l’avventura condivisa.

Mentre attraverso il centro storico, più di un raggiolato mi saluta chiedendomi come è andata.

“E stata dura, ma ne è valsa la pena!” sorrido, stringendogli calorosamente la mano.

Avviandomi verso casa, non posso fare a meno di pensare che l’esperienza appena vissuta è l’ennesima metafora esistenziale attraverso cui la vita comunica all’uomo che per arrivare in alto occorrono sacrifici e perseveranza. E che più in alto si arriva, più probabile è il rischio di farsi male quando si scende!

La Croce è lassù, avvolta nel silenzio e nell’immensità del cielo. Sta a noi decidere se vale la pena raggiungerla!

 

 

 

RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA

diga del piano

 

 

 

 

 

 

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Nonostante siano più di vent’anni che veniamo in vacanza a Raggiolo, ogni anno questo luogo d’incanto riesce a regalarci sempre nuove emozioni. Sarà lo scenario naturale in cui è immerso, l’aria salubre che anche nelle ore più calde ti regala un pizzico di frescura, il silenzio rotto dal frinire delle cicale e dall’eterno scroscio dei fiumi che si riversano dal Pratomagno, fatto sta che in quest’oasi arroccata sulle montagne del Casentino Toscano riesci davvero a lasciarti alle spalle le problematiche quotidiane.

Dal momento in cui iniziammo a venirci con regolarità per soggiornarvi d’estate almeno per una settimana, uno dei piaceri che mi concedetti fu il bagno nel Barbozzaia.

Durante le ripetute escursioni al fiume con i bambini e mia moglie, avevo adocchiato una vasca naturale dove era possibile immergersi fino al collo. Ogni volta che posavo lo sguardo in quella pozza d’acqua limpida, ribollente per la forza della corrente, mi ripromettevo di tuffarmi.

Una mattina, dopo aver corso per i monti, rientrando in paese, mi allungai fino al fiume deciso a fare il bagno.

Mi inoltrai nella boscaglia, salii su un largo spuntone di roccia rasente la riva, mi tolsi maglietta e scarpetta e immersi le gambe nell’acqua fino alle ginocchia. Un brivido mi colse lungo la schiena. Istintivamente fui tentato di risalire, ma la voglia di bagnarmi in quella risplendente limpidezza mi persuase ad avanzare.

Nel momento in cui l’acqua mi arrivò al petto, non ci pensai una volta di più, mi tuffai. L’impatto fu terribile. L’acqua era talmente fredda che, rialzandomi di scatto per risalire sulla roccia, ebbi la sensazione di non essere bagnato, ma di essere avvolto in un’invisibile accappatoio gelato.

Da quel giorno il bagno nel Barbozzaia divenne un rito che si replicava ogni anno. Col tempo riuscii a coinvolgere anche i miei figli e mia moglie.

Anni dopo, grazie a un abitante del posto a  conoscenza di quella mia follia, così definiva simpaticamente la mia passione di fare il bagno nel fiume, venni a conoscenza della Diga del Piano, dove scorre il fiume  Teggina, immersa nella boscaglia sul versante opposto del paese. La vasca,  ben più ampia di quella del Barbozzaia, permette di tuffarsi e nuotare per un breve tratto, raggiungendo la cascatella alimentata dal salto del fiume sotto cui è possibile concedersi il piacere di un idromassaggio naturale.

Negli ultimi tre anni che siamo venuti a Raggiolo a causa del tempo inclemente o per altri motivi, non abbiamo avuto modo di rinnovare la follia.

Oggi la giornata calda e assolata ci ha permesso finalmente di bagnarci in quell’acqua  così chiara da distinguere il fondale.

All’iniziale apnea che ti coglie riemergendo nella pozza gelata, si sostituisce la piacevole sensazione di un brivido vitale diffuso per tutto il corpo che ti manda l’adrenalina alle stelle.

Nel momento in cui infreddolito esci dall’acqua e  ti siedi sul masso al centro della vasca per prendere il sole, i raggi filtranti la fitta vegetazione, attraversando le fronde, trafiggono l’acqua creando tutto intorno un gioco di luci, naturale corredo allo scenario fiabesco.

Abbandonandoti alla fantasia, chiudendo gli occhi e liberando la mente dai pensieri, hai la percezione di trovarti in un’altra dimensione; in un luogo fuori dal tempo dove l’attimo è l’unica unità temporale.

Forse a ciò si riferivano i latini affermando Carpe Diem, cogli l’attimo: avere la forza e la capacità di vivere intensamente il momento, lasciandosi rapire anima, mente e corpo dalle emozioni dell’istante.  

Per magia lo scosciare dell’acqua si tramuta in una voce melodiosa e misteriosa che ti parla di un passato ancestrale dove l’uomo viveva in simbiosi con la natura, riconoscendole un ruolo primordiale nella gerarchia dei valori esistenziali.

Un’epoca in cui gli individui non abusavano né disprezzavano la natura, ma la rispettavano traendovi il necessario sostentamento per vivere:  cibo, indumenti, materiali per costruire case, armi e utensili. Un’epoca in cui l’uomo si serviva della natura con rispetto e intelligenza, anziché ferirla e distruggerla solo per il gusto di affermare se stesso e la propria cupidigia. Non avvedendosi che così facendo non distrugge solo lei, ma se stesso essendo egli parte integrante della natura.

Ammaliato da quelle sensazioni, riaprendo gli occhi, guardando il paesaggio incontaminato sorriderti, ti viene istintivo chiederti se l’Eden non fosse così.

A quel punto non puoi fare  ameno di pensare “Raggiolo, uno scorcio di Paradiso in terra!”

L’ULTIMA NOTTE

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Di seguito i primi due capitoli de L’ULTIMA NOTTE in vendita su Amazon

 

Prologo

 

Dal ripiano del tavolo, la lampada illuminava l’interno della capanna, proiettando sulla parete l’ombra del vecchio pescatore intento a  scrivere su un quaderno. Avvolto in una nuvola di fumo che gli usciva dalle narici, con le ciglia corrucciate rilesse, schiacciando sulle assi del pavimento il mozzicone di un sigaro.

” L’amore ha il potere di fissare il passato in eterno presente.”

Trasse un profondo respiro. Chiuse il quaderno e si alzò, avvicinandosi alla finestra dove, da dietro ai vetri graffiati dalla pioggia, imperversava la tempesta.

Un fulmine tracciò nell’aria una scarica luminosa che squarciò le tenebre, illuminando, in lontananza, il mare ingrossato infrangersi sulla scogliera sottostante. Seguì l’assordante boato di un tuono. Da dietro alla capanna, Julab, il suo cane, prese ad abbaiare. Sorrise pensando all’animale con cui da tempo condivideva la solitaria esistenza.

Da una vita viveva in quella capanna, mai aveva assistito a una burrasca tanto violenta.

“Forse è un segno”, pensò. E, scrollando il capo, allontanandosi, si andò a sdraiare sul letto affiancato alla parete su cui si apriva la finestra.

Con le mani dietro alla nuca, fissava il soffitto da cui giungevano i rumori delle tegole tormentate dal vento e dalla pioggia. Un tuono, più fragoroso del precedente, inondò la capanna. La struttura di legno e lamiera vibrò, al punto che le stoviglie appese al muro caddero al suolo in maniera assordante.

Percependo il freddo entrargli nelle ossa, l’uomo si infilò sotto la coperta, rannicchiato nel tentativo di scaldarsi.

La fiammella della lampada cominciò ad affievolirsi.

Si alzò per raggiungere la mensola su cui erano disposti, ordinatamente, un rasoio, un pennello da barba, dei libri ammonticchiati l’uno sull’altro, una vaso di terracotta e una rudimentale clessidra che aveva costruito da giovane, unendo e strozzando con la pece i colli di due bottiglie, dopo averne riempita una a metà con la sabbia. Da dietro al vaso ne prese una più  corta, rivestita di uno spesso strato di polvere e ragnatele, in cui vi era dell’olio. Quindi si avvicinò al tavolo e prese da un cassetto una candela e una scatola di cerini. Accese la candela, versò un po’ di cera sul tavolo e la fissò. Assicurandosi così la luce mentre cambiava il combustibile alla lampada. Accese un altro fiammifero, accostandolo allo stoppino, manovrando con sapienza il regolatore della fiamma per sprigionare un fascio di luce pulita.

Con un soffio spense la candela riponendola nel cassetto.

 

La tempesta, intanto, aumentava d’ intensità.

Preoccupato, ritornò alla finestra, per accertarsi che Julab se ne stesse al riparo nella cuccia. Appoggiò il naso sul vetro, nel tentativo di sconfiggere il fitto velo di pioggia che rendeva impossibile distinguere quanto accadeva fuori in quel momento.

Lo spegnersi della lampada gettò la capanna nel buio.

“Accidenti.”, borbottò, raggiungendo il tavolo per prendere i cerini. Ne trovò un paio, accatastati di fianco alla lampada e ne strofinò  uno sul ruvido del pavimento. L’ umidità del legno vanificò ogni tentativo.

– Perché ti ostini ad accendere? -, domandò una voce alle sue spalle.

Un bagliore rischiarò il sorriso sul volto dell’uomo. Si girò in direzione della voce per vedere a chi apparteneva, ma un’ improvvisa pesantezza agli occhi lo costrinse a chiudere le palpebre. Quando le riaprì, un’ombra indistinta, nebbiosa era lì alla finestra.

– Allora. Cosa aspetti? -, domandò, tracciando dei segni sul vetro opaco. Segni che sembravano rivolti al mare.

Nella mente del vecchio, i ricordi di un passato lontanissimo tornarono  a ravvivarsi con frenesia.

 

I

 

Il sole, alto nel cielo, generava riflessi cristallini sul mare che circondava l’isola, simile a una collana di perle. I raggi illuminavano le case basse, esaltandone i colori pastello.

Dalle finestre aperte, l’astro entrava nelle case riscaldando ogni angolo. Nell’ aria l’accattivante aroma della primavera accarezzava le creature col suo dolce tepore, inducendole ad amarsi. Nulla e nessuno sapeva resistere a quella malia.

Tutta la natura si crogiolava nell’ebbrezza dell’abbraccio creativo.

Maschi e femmine giocavano a un perpetuo rincorrersi e sfuggirsi, per  ritrovarsi, rapiti dall’oblio dell’estasi amorosa.

Approfittando della splendida giornata, i suoi genitori decisero di uscire in barca per andare a pesca. Kayfa rinunciò, perché aspettava Raoul con il quale si doveva allenare per la gara di nuoto che si sarebbe svolta tra due settimane.

Udendo il battente picchiare alla porta, convinto che fosse l’amico, uscì dal bagno. Andò ad aprire senza la preoccupazione di coprirsi.

Sull’uscio, avvolta in un coloratissimo pareo, e con un braccio infilato in un cesto colmo di frutta, c’era Miryam, un’amica della madre. Una donna splendida, nel pieno della sua maturità. I capelli, neri e setosi, le scendevano lungo la schiena fino ai glutei. Sotto il delicato indumento, il suo corpo sinuoso, dalle generose forme, svettava armoniosamente al sole, offrendo al calore dei raggi la robustezza e la fragranza dei seni color pesca. Il viso della donna, anch’ esso rischiarato dal sole, era privo di trucco.

Kayfa restò per qualche istante confuso.

Quando si accorse che lei l’osservava con interesse, per nulla imbarazzata da quella situazione, d’istinto si portò le mani tra le gambe per celare le proprie nudità.

Intenerita da quel gesto, gli sfiorò il viso con una carezza.

– Mi scusi –   balbettò , visibilmente turbato.

La donna scosse il capo, lasciando intendere che non doveva preoccuparsi.

– Posso entrare? –   domandò, continuando ad accarezzargli la guancia con la mano.

– Mamma non è in casa – fece con voce tremante.

– Non fa niente – rispose, avanzando sulla soglia. Una volta entrata, gli fece cenno di chiudere la porta, scivolandogli con la punta delle dita lungo il collo, fino a sfiorargli il  torace glabro e muscoloso. Soffermandosi a solleticargli i capezzoli che avevano assunto il caratteristico tono violaceo dell’eccitazione.

Il corpo del giovane  era tutto un fremito mentre la donna, che nel frattempo si era liberata del cesto poggiandolo su un tavolino al centro della sala, gli  massaggiava con voluttà il petto, passandogli, di tanto in tanto,  una mano tra i capelli bagnati.

– Ora sono qui per te – gli sussurrò in un orecchio, mordendogli il lobo, sorridendogli maliziosamente. In quell’istante, Kayfa comprese che stava per diventare uomo.

 

Le gambe presero a tremare e le viscere a rivoltarsi nell’addome.

Cercò nei meandri della mente qualunque cosa potesse tornargli utile per mascherare la propria inesperienza.

Come d’abitudine per i ragazzi della sua età, ascoltava con interesse i discorsi dei più grandi relativi al sesso, in modo da farsi una cultura a cui poter attingere al momento opportuno onde evitare figuracce.

Il momento era giunto.

– Allora, cosa aspetti? –  chiese lei con voce sommessa, slacciandosi il pareo e fissandolo intensamente con due occhi neri e scintillanti. Offrendo al suo sguardo intimorito lo splendore naturale del suo corpo maturo.

 

” La stringi forte tra le braccia e la baci lungo il collo, mentre con le mani le sfiori i fianchi.”, ricordava aver sentito dire da qualcuno.  “Quando la baci, appoggi delicatamente le tue labbra sulle sue, schiudendole in modo che le vostre lingue si incrocino, è bellissimo!”, aveva sentito da qualcun altro. Ma la cosa più importante l’ascoltò da Omar, il pescatore di spugne con il quale spesso si fermava a dialogare. Facendosi coraggio, una mattina, approfittando che Omar gli stava raccontando delle proprie avventure amorose da giovane, aveva trovato la forza di chiedergli cosa bisognava fare quando si incontrava una donna per la prima volta.

“Non preoccuparti figliolo”, lo rassicurò. “Quando anche per te giungerà il momento, lasciati guidare dal cuore. Ma, soprattutto, lascia che a guidarti sia lei, chiunque essa sia. Le donne imparano presto e sanno essere delle maestre giudiziose. Non ti preoccupare e sii naturale. Solo così potrai essere certo che tutto andrà bene. Voler apparire ciò che non si è nella vita si risolve sempre contro noi stessi”.

 

Adesso, quelle parole gli ritornavano in mente, fissando Miryam che si accostava a sé con il suo corpo profumato di mare al suo, desiderosa di essere posseduta. Accarezzandolo tra le gambe al fine di stimolarne la virilità, ridotta a un pezzetto di carne raggrinzita.

Intuendo che per lui quella era la prima volta, Miryam tramutò se stessa in vergine, riacquistando spiritualmente la purezza donata in gioventù a un uomo che, dopo averla sposata, regalandole l’illusione dell’amore, successivamente, alle morbide onde del suo corpo aveva preferito quelle fredde del mare. Abbandonandola a un solitario destino su quell’isola, su cui, per vivere, era stata spesso costretta a cedere  alle lusinghe di quanti smaniavano di giacere con lei. Nutrendo un profondo rancore verso la vita che si era mostrata così crudele nei suoi confronti, privandola della madre, morta nel darla alla luce, e poi del padre, scomparso in mare durante una tempesta quando non aveva ancora un anno. Costringendola a vivere con la nonna materna fino al giorno del matrimonio, e in seguito da sola.

L’unica persona che non l’aveva mai abbandonata, niente affatto preoccupata della fama che l’accompagnava, era la madre di Kayfa.

 

Appassionatamente, senza tregua, si amarono fino a che i contorni dell’ orizzonte assunsero il tono purpureo del tramonto, ora in cui i pescatori rientravano.

Ravvivandosi i capelli con le mani, Miryam si alzò dal pavimento che aveva funto da giaciglio.

Nella stanza, il profumo dei loro corpi si mischiava a quello del mare proveniente dalla finestra, con la tenda di paglia prudentemente abbassata per evitare che sguardi indiscreti sorprendessero la loro intimità.

Un solo momento di panico li aveva colti: quando Raoul bussò con insistenza alla porta.

* * *

– Mio Dio. E’ Raoul – gemette Kayfa, nell’udire la voce dell’ amico gridare il suo nome –  Dovevamo andare ad allenarci -, aggiunse con espressione sognante, risultato delle carezze e dei baci con cui Miryam lo stordiva cavalcandogli il ventre.

– Lascia che bussi – mormorò estatica, riversando la cascata di capelli corvini sul viso di lui che accennò a un timido moto di ribellione per divincolarsi dalla stretta. Sortendo, invece, l’effetto di accrescere l’eccitazione di entrambi fino al culmine del piacere.

II

 

I raggi del sole attraversavano le liste della tenda, proiettando sul corpo di Miryam tanti punti luminosi, dando l’ impressione che la sua pelle fosse maculata al pari di un leopardo.

– Sei bellissima – fece Kayfa, steso sul pavimento con le mani giunte   dietro la nuca, ammirandola riavvolgersi nel pareo.

– Anche tu – rispose, accostando la punta dell’indice alle labbra. Posandola, quindi, su quelle di lui, in un ipotetico bacio.

– Quando ci rivediamo? – chiese Kayfa, sedendosi sul pavimento con le gambe incrociate.

– Al più presto – rispose, passandosi le mani lungo i fianchi perché l’indumento aderisse ai lineamenti del suo corpo – Adesso devo andare – aggiunse, chinandosi a baciare sulla fronte il giovane amante.

– Quando ci rivediamo? – chiese nuovamente Kayfa, balzando in piedi e afferrandole i polsi, preoccupato di non farle male.

Sorridendo, Miryam accostò le labbra alle sue:

– Domani alle quattro – sussurrò – Vicino allo “scoglio dei gabbiani” – E lo baciò con passione prima di avviarsi verso la porta. Aprendola, dopo essersi assicurata che non sopraggiungeva nessuno.

 

– Allora, come è andata? – chiese sua madre, entrando nella stanza dove  Kayfa, seduto sul letto, leggeva un libro.

– Non tanto bene – mentì, continuando a fissare le pagine aperte.

– Che significa “non tanto bene”? – chiese, baciandolo sulla fronte – Tu e Raoul avete per caso litigato? –  e si sedette sul bordo del letto in attesa di spiegazioni.

– Ho avvertito un malessere – continuò a mentire, chiudendo il libro e cercando di sfuggire lo sguardo perplesso con cui la donna lo fissava.

– Mio Dio – esclamò allarmata, prendendogli tra le dita il mento per osservare il viso – Hai un’aria affaticata – ammise. Istintivamente allungò la mano sulla fronte per controllare se avesse la febbre – E cosa ti sei sentito? –  riprese, tranquillizzata dal fresco percepito sui polpastrelli.

– Mal di stomaco – Kayfa sentì il sangue affluirgli alla testa per la rabbia e la vergogna che provava in quel momento. Prima di allora non aveva mai mentito a sua madre.

– Cosa hai mangiato questa mattina a colazione? – incalzò lei.

– Tè e biscotti – si affrettò a rispondere.

–  Evidentemente ti avrà fatto male qualcosa che hai mangiato ieri sera a cena –   concluse. E si alzò per avviarsi presso la finestra spalancata sulla baia, da dove giungeva il frinire delle cicale.

Le stelle bucavano il terso cielo della sera. Si appoggiò con le mani al davanzale per ammirare il panorama.

– E’ stata una splendida giornata – sospirò.

In lontananza, un peschereccio illuminato lanciò un “urlo”.

– La pesca è stata abbondante e tuo padre è ancora giù al porto per trattare il prezzo del pesce. Non immagini quanto sia felice.   .

– Sono contento – sorrise Kayfa portandosi al suo fianco.

– Ho visto sul tavolino dell’ingresso il cesto per la frutta che avevo prestato a Miryam. Quando è passata? – domandò, sistemandosi la gonna sul davanti.

Kayfa si sforzò di controllare l’imbarazzo che provava – Questa mattina, sul tardi – rispose deglutendo.

– Miryam è una carissima ragazza – sorrise lei – Peccato non sia stata baciata dalla fortuna. Non è cattiva come dicono, sai? – concluse, uscendo dalla stanza.

– Sì mamma – mormorò, rivolto all’arco d’argento che si stagliava nel cielo.

 

Distesi sul bagnasciuga, i corpi nudi di Miryam e Kayfa, travolti dalla passione, erano in balia delle carezze del mare.

Di tanto in tanto un gabbiano planava sullo spuntone di roccia lavica, dietro cui si erano dati appuntamento il giorno prima, per librarsi in volo  appena posava lo sguardo sulla strana creatura a due teste che si dimenava nell’acqua con degli strani suoni  gutturali.

Scossi dalle convulsioni dell’amore, i due amanti si fissavano con occhi sbarrati. Le mani intrecciate in una stretta morsa, che si allentò nell’ attimo in cui il flusso umorale defluì dai canali naturali, disperdendo nel vento l’acuta nota dell’ incanto d’amore.

 

– E’ stato splendido – sussurrò Miryam, sdraiata su di un fianco nell’ acqua, scorrendo con la punta delle dita i tratti acerbi di lui.

Immerso con la schiena nel ribollio della risacca, Kayfa ammirava le evoluzioni di un gabbiano. Udendo quelle parole, rivolse lo sguardo a Miryam che lo fissava con un dolce sorriso su cui si stemperavano gocce di mare, passandole una mano tra i capelli bagnati intrisi di sabbia e salsedine.

– I tuoi capelli hanno bisogno di una sistemata – mormorò.

La donna esaminò con cura una ciocca.

– Che importa – dichiarò divertita. Con impeto si gettò su di lui, abbracciandolo in modo che le loro guance si sfiorassero.

Da lontano, smorzati dal mare, giungevano gli echi delle voci dei pescatori che issavano le reti.

– Sei felice? – chiese Miryam con un sorriso, sfiorandogli l’orecchio con le labbra.

– Tanto. E tu? – le domandò tenendosi sui gomiti e fissandola con intensità negli occhi.

–  Abbastanza –  ammise lei, dopo un istante di riflessione.

–  Come abbastanza? – scattò preoccupato.

– Stupido – rise – Certo che sono felice – E spingendolo con la schiena nell’ acqua, lo baciò con passione.

Ancora una volta, i loro corpi si intrecciarono nei sussulti dell’amore. Questa volta fu Kayfa a sottomettere la natura di lei. Miryam lo lasciò fare, desiderosa di essere schiava del suo ardore, gemendo di piacere  all’ardire con cui il giovane le violava l’ intimo. L’apice li travolse all’unisono. Le labbra, unite in un caloroso bacio, trasfusero nelle loro anime l’armoniosa melodia che si levò dall’ esaltazione dei sensi. I cuori vibrarono in un ritmo assordante che si placò allorché l’ultimo sussulto di piacere scosse i due amanti.

Esausti, si accasciarono felici nell’acqua cristallina.

Se ti è piaciuto quanto hai letto fin qui e vuoi scoprire come finirà la storia d’amore tra Kayfa e Miryam, puoi ordinare direttamente il libro cliccando qui 

 

IL PIACERE DI CORRERE A RAGGIOLO

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Di seguito la versione integrale dell’articolo  pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Sono ormai circa venticinque anni che ogni estate con la mia famiglia passiamo un periodo di vacanza a Raggiolo dove mio suocero, il pittore/regista Osvaldo Petricciuolo,  comprò e ristrutturò un casolare di campagna dando vita alla casa d’arte museum petricciuolana in cui sono conservate molte delle sue opere d’arte.

Situato nel Casentino Toscano, a cinquanta chilometri d’Arezzo in direzione Firenze, Raggiolo sorge sulle pendici del Pratomagno, “una dorsale montuosa che si innalza tra il Valdarno superiore e il Casentino a nord-ovest della città di Arezzo”. Posto a 750 metri sul livello del mare, è lambito ai fianchi da due fiumi, il Barbozzaia e il Teggina, le cui limpide acque si incontrano a valle in località Il Mulino per proseguire insieme il loro corso fino a Bibbiena per poi tuffarsi nell’Arno arricchendone l’alveo.

Da quando con regolarità iniziammo a venire in vacanze a Raggiolo, nutrendo fin da ragazzo la passione per la corsa, immancabilmente prima di partire metto in valigia le scarpette e gli indumenti da runner in maniera da allenarmi al fresco, respirando finalmente aria pulita.

Sia che ci fermassimo una settimana, quindici giorni o addirittura un mese come quest’anno, ogni volta che siamo in vacanza a Raggiolo, almeno per tre/quattro giorni, esco di casa intorno alle 7 del mattino per scendere in macchina a Ortignano. Dopo aver parcheggiato l’auto nello spazio antistante la fabbrica di abiti per bambini, parto dal Municipio per arrivare come minimo fino al bivio con la statale per Firenze e tornare indietro per complessivi dieci chilometri.

Essendo il percorso caratterizzato da continui tornanti e ripetuti strappi in salita, quei dieci chilometri hanno un potenziale di fatica superiore alla distanza effettiva. Se poi decidessi di partire direttamente da Raggiolo per arrivare fino a San Piero In Frassino e risalire, i dodici chilometri del percorso vanno divisi nei quattro chilometri di discesa iniziale, nei quattro chilometri di falsopiano complessivi tra andata e ritorno tra Ortignano e San Piero, e nei quattro chilometri di salita finale che da Ortignano conducono alla piazza di Raggiolo, di cui gli ultimi settecento metri con una pendenza del 10%.

Per quanti amano lo sport all’aria aperta, in particolare correre, Raggiolo è l’ideale per abbinare all’attività sportiva il piacere di ritrovarsi immersi nella natura, respirando ossigeno a pieni polmoni anche ad agosto inoltrato quando in città l’afa mista allo smog fanno boccheggiare; magari incrociando, mentre si corre, uno scoiattolo che ti taglia la strada, o rischiare di calpestare la sagoma di un rospo o di un serpente spiaccicati sull’asfalto da un veicolo mentre si godevano impavidamente il sole sulla carreggiata.

 Partire in piena estate alle 7 del mattino con una temperatura di 15/18 gradi e correre per circa un’ora sotto i 20 gradi è un piacere che solo chi corre può comprendere e apprezzare. Per quanto in città puoi decidere di andare a correre quando è ancora buio nella speranza di godere un po’ di fresco, anche a quell’ora il caldo e, soprattutto, l’elevato tasso di umidità rendono praticamente impossibile lo sforzo fisico. In quei momenti ti ritrovi a sudare e ad ansimare nemmeno fossi in una sauna, maledicendo te stesso per essere voluto per forza scendere. A quel punto, per fronteggiare l’afa, inizi a fare gli allunghi, alternandoli con la camminata veloce, nella speranza di regalarti un minino di frescura grazie al venticello che ti avvolge mentre spingi sulle gambe.

Macché, nemmeno in quel caso riesci a mitigare la calura.

Correre di mattina  a Raggiolo, o in qualsiasi altro luogo di collina o di montagna, è una fortuna. Ritengo sia un dovere di ogni runner cogliere al volo tale opportunità, non appena gli si presentasse l’occasione.

In città facciamo tanti sacrifici pur di ritagliarci uno spazio di tempo libero per correre, per sentirci liberi, – spesso la mattina presto o la sera non appena rientriamo da lavoro,  soprattutto d’inverno sia che faccia freddo, piova o nevichi – che non avrebbe senso non approfittare di un soggiorno di qualche settimana in un luogo come Raggiolo per appagare la propria passione in condizioni ottimali.

Ovviamente non è detto che si debba essere per forza un runner o uno sportivo per apprezzare il piacere di respirare la frizzantezza dell’aria. Basta semplicemente aver voglia di fare una passeggiata salubre di pochi chilometri, magari anche nel tardo pomeriggio quando il sole si approssima al tramonto e l’aria inizia a rinfrescare, per godere ciò che per chi vive in città è da considerarsi un vero e proprio privilegio, anzi un miraggio!

Per quanto mi riguarda, essendo un runner, se venissi a Raggiolo e non portassi con me l’attrezzatura per la corsa, sarebbe come se un amante della pesca andasse in vacanza in una località di mare particolarmente pescosa e non portasse con se la canna da pesca o l’attrezzatura da sub, fucile incluso.

So bene che chi non coltiva la passione per la corsa considera un folle chi come me, anche in villeggiatura, si alza presto al mattino per macinare chilometri sull’asfalto o sullo sterrato. Mentre potrebbe starsene tranquillamente a letto fino e tardi; oppure in giardino immerso nella sdraio a leggere un buon libro,  fare un cruciverba; o semplicemente godersi il relax, perdendo lo sguardo e la mente nella vastità del panorama che si stende all’orizzonte.

Le passioni vanno sempre coltivate, soprattutto quando si ha la possibilità di poterlo fare in un ambiente consono, sognato tutto l’anno.

Non approfittarne equivarrebbe a un crimine.

Buone vacanze!