IL LIBRO: “RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA”

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In vendita su Amazon

“Raggiolo, frazione di Ortignano in provincia di Arezzo, a 10 km da Bibbiena, è un paese del Casentino Toscano arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, prospiciente il mistico pano-rama de La Verna dove San Francesco ricevette le stigmate. Circa venti anni fa mio suocero, il maestro Osvaldo Petricciuolo, vi acquistò una proprietà rurale che riadattò a casa d’arte per raccogliere parte della sua ricca produzione artistica. Per anni con la mia famiglia vi abbiamo trascorso l’estate. Là i miei figli sono cresciuti tra prati, boschi, ruscelli, respirando aria pura, mangiando cibi genuini, facendo i bagni nel fiume, pescando gamberi, giocando all’aperto con gli altri bambini. Ora che sono giovani Raggiolo per loro rappresenta un bagaglio di ricordi sbiaditi che cedono il passo a quelli eccitanti dell’adolescenza che hanno il nome di una ragazza cui si associa lo smarrimento e il rapimento per la scoperta dell’amore, le goliardate con gli amici, le occupazioni scolastiche, i nauseanti postumi della sbronza, l’impagabile sensazione di scoprirsi grandi in vacanza da soli con gli amici senza l’assillo dei genitori. Anche per me Raggiolo costituisce un bagaglio di ricordi, ma, diversamente dai miei figli, più vivi che mai, seppure riferiti all’epoca in cui loro erano piccoli.”

Così incomincia questa raccolta di pensieri e racconti dove il protagonista è Raggiolo, perla del Casentino Toscano, inserito nell’esclusiva lista dei borghi più belli d’Italia, in grado di trasfondere attraverso la magica atmosfera che vi si respira un mix emozionale, suscitando nell’animo umano ataviche reminiscenza che fanno riscoprire all’uomo quanto sia intimo il proprio rapporto con la natura. Suddiviso in tredici capitoli, il libro vuole essere un omaggio a un luogo dove la dimensione umana non si è ancora persa; un’oasi naturale in cui ogni individuo può rifugiarsi per ritrovare se stesso; uno scorcio di paradiso in terra.

Buona lettura

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E DI MAIO CONSEGNO’ L’ITALIA A SALVINI

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Ora che la crisi di governo è stata ufficialmente aperta da Salvini che, giustamente, non vede l’ora di capitalizzare la vittoria alle europee e sfruttare l’onda emotiva che scuote il paese a suo favore, come tra l’altro  affermerebbero i sondaggi che danno la Lega tra il 38/40% se si andasse a votare oggi, non resta che ringraziare Di Maio & c. se tra qualche mese ci ritroveremmo Salvini a Palazzo Chigi, e tutta una serie di Ministri, vice Ministri e Sottosegretari targati Lega a occupare le poltrone dei vari dicasteri. Ma soprattutto se ci ritroveremmo un paese diviso letteralmente in due tra nord e sud. Dove economicamente il nord primeggia e il sud boccheggia sempre più!

A chi come me aveva ingenuamente creduto nel M5S, non resta che fare mea culpa per averli votati.

Non è mai bello dover ammettere di aver preso una cantonata. Mi consola il fatto che in tempi non sospetti, precisamente il 2 aprile 2018, esattamente un mese dopo la clamorosa vittoria dei 5S alle politiche, quando solo si ventilava la remota possibilità che si formasse un’alleanza di governo 5S/Lega, sul mio blog scrissi una lettera aperta a Luigi Di Maio in cui palesavo i miei dubbi su una simile eventualità. Auspicando perfino un’alleanza con il PD, ma mai una con Salvini che del sud e del suo popolo ne aveva dette di cotte e di crude per poi magicamente illuminarsi sulla Via di Damasco, chiedendo scusa. Allargando il proprio bacino elettorale anche al mezzogiorno, ricavandone impensabili, per me, consensi.

In quella mia lettera a Di Maio, dopo aver espresso i miei dubbi e perplessità, concludevo: “Egregio Onorevole Luigi di Maio, un’alleanza con il Pd (di Renzi n.d.r.), seppure soffrendo, la potrei anche accettare. Una con la Lega proprio no. A quel punto, alle prossime elezioni, mi sa che anch’io farò parte del partito degli astenuti!”

A distanza di  un anno e mezzo, visto nel frattempo come è degenerata la situazione politica italiana, ritengo che attualmente  l’unica cosa che non debbano fare le persone di buon senso sia quella di astenersi dall’andare a votare alle prossime elezioni.

Così come un’inattesa affluenza di votanti bocciò la riforma costituzionale targata Boschi/Renzi, non è escluso che il partito degli astenuti, tuttora maggioranza relativa nel paese, non decida di turarsi il naso e tornare a votare per mandare all’aria i piani di Salvini.

Perché ciò avvenga non credo occorra la nascita di un nuovo soggetto politico che catalizzi su di sé i voti degli astenuti. Basta che tra gli attuali partiti presenti in Parlamento qualcuno di loro abbia il coraggio di liberarsi dalla zavorra che lo “blocca” nelle decisioni politiche, mettendo alla porta chi, pur non ricoprendo più il ruolo di Segretario, continua a volersi comportare come tale, spezzettando il partito, alimentando continue bagarre interne.

Se questo partito, alias il PD, avrà la forza di scucirsi da dosso una volta e per sempre il marchio Renzi, non è impensabile che il suo simbolo possa risultare polo d’attrazione per quei milioni di italiani che, delusi dalla politica, da anni non vanno più a votare. Ma lo fecero per bocciare la riforma costituzionale  varata, guarda caso, proprio dello statista di Rignano sull’Arno!

Per quanto riguarda il M5S, la cui palese incapacità a governare sta portando Salvini a Palazzo Chigi, non basterà certo il ritorno in campo di Di Battista per fargli riacquistare credibilità da parte dell’elettorato!

Di Battista è un ottimo arringatore di masse. Seppure riuscisse a evitare l’estinzione del movimento, risollevandone le sorti politiche,  è ormai evidente che le urla e i sit in vanno bene solo quando si è all’opposizione, per governare ci vuole ben altro! Se, come pare, Di Battista vuole riproporre nel M5S lo spirito delle origini, quello dei famosi vaffa per intenderci, tacitamente sta affermando che mai i 5S andranno al governo. In quanto, come si è visto, governare significa mediare, anteporre gli interessi dell’alleato di governo ai propri. A meno che alle prossime elezioni il M5S non riuscisse a prendere da solo oltre il 50% dei consensi. Un’utopia!

Se è vero che molte leggi  varate dall’attuale governo portano il marchio 5S, è altresì vero che in momenti determinanti i 5S sono venuti meno ai loro ideali, lasciando perplessi i propri elettori, attivisti e perfino alcuni rappresentanti parlamentari: no alla richiesta all’autorizzazione a procedere su Salvini per la vicenda Diciotti; approvazione del Decreto Sicurezza bis che punisce chi salva vite in mare; delegare al Parlamento la decisione sulla TAV, non facendo cadere il governo nel momento in cui la Lega era per il Sì e i 5S per il NO.

Un partito che si dichiara apertamente anti-sistema non può dare l’impressione d’essere a sua volta inchiodato alla poltrona. Un partito che afferma di voler aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, non può apparire a sua volta immischiato in squallidi giochi di potere.

Dispiace dirlo, Di Maio non si è dimostrato all’altezza della situazione: ha reso il movimento succube di Salvini, lasciando che l’alleato lo corrodesse fino al midollo per poi svilirlo!

All’indomani della debacle delle europee, quando il M5S dimezzò i voti rispetto alle politiche mentre la Lega li raddoppiò, il capo del movimento avrebbe dovuto avere un sussultò di dignità e dimettersi. Restare alla guida del movimento malgrado la disfatta, delegando a poche migliaia di iscritti sulla piattaforma Rosseau la decisione di restare o meno alla guida del movimento, è stato un gesto con cui ha dimostrato quanto poco conto tenesse dell’opinione dei milioni di elettori che lo avevano prima votato e poi voltato le spalle.

Oggi sulla schiena di Di Maio pende una responsabilità non da poco. Se Salvini dovesse andare al governo, dando una virata estremamente a destra al paese, spaccandolo in due tronconi con conseguenze tristemente prevedibili per il sud, sarà perché  Di Maio è voluto andare a ogni costo al governo con la Lega, quando lui stesso il 17 giugno del 2017 a “Porta A Porta” lucidamente affermava: “Io sono del sud. Faccio parte di quella Italia a cui la Lega diceva VESUVIO LAVALI COL FUOCO. Io non mi alleerò mai con la Lega“.

Magari si trattava di una controfigura!?…

 

SIGNATURE RERUM

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Di seguito un estratto dal mio ultimo romanzo SIGNATURE RERUM-IL SUSSURRO DELLA SIBILLA 

Entrai in libreria. Oltre alla commessa seduta dietro il bancone impegnata a risolvere un cruciverba, nel locale non c’era nessun altro. Salutai con un cenno del capo e mi avvicinai alle colonne di libri che si innalzavano dal pavimento. L’aspetto miserevole di molti volumi confermava la loro lunga gestazione in magazzino, non sminuendone però il valore trattandosi di testi autorevoli.

Ero accosciato davanti a una pila di volumi per leggerne i titoli sbiaditi sui frontespizi, quando una voce familiare mi salutò:

<<Buongiorno>>

Mi voltai a fissare l’atleta che quella mattina mi aveva svegliato facendo ginnastica in giardino.

<<Buongiorno>> feci rialzandomi prontamente.

<<Le chiedo ancora scusa per questa mattina.>>

<<Non crucciarti, sono mattiniero.>>

<<Anche a lei piace leggere?>>

<<Appena il lavoro me lo consente.>>

<<Che genere preferisce?>>

<<Romanzi.>>

<<Anch’io! Ha trovato qualcosa d’interessante?>>

<<Sono appena entrato…>>

<<Venga>> disse guidandomi verso una catasta di libri addossati a uno scaffale vicino al retrobottega. <<Qui sicuramente troverà qualcosa d’interessante.>>

Mi inginocchiai per visionare i volumi.

<<Le piacciono gli scrittori sudamericani?>>

<<Ho letto qualcosa di Marquez, Borges, Coelho. Ultimamente Jorge Amado.>>

<<Se non lo avesse già letto, legga questo, sicuramente le piacerà.>> Con cautela sfilò dalla colonna di libri un volume e me lo porse.

<<L’amore al tempo del colera>> lessi.

<<Tra i romanzi di Marquez, lo ritengo in assoluto il migliore!>>

<<Ho letto Cronaca di una morte annunciata e Cent’anni di solitudine, non mi hanno entusiasmato granché.>>

<<Lo legga>> insistette.

Lessi la trama sul retro di copertina.

Prediligendo i thriller sapevo che difficilmente mi sarebbe piaciuto. Tuttavia, notando l’ansia con cui la ragazza mi guardava, decisi di acquistarlo per non deluderla.

Mentre pagavo, il volto le s’illuminò di gioia. Per un attimo la sua freschezza cacciò via le angustie dal mio animo.

 

Usciti dal negozio, dirigendoci in piazza, facemmo le presentazioni.

<<Io sono Laura>> fece porgendomi la mano.

<<Io Riccardo, e dammi del tu>> sorrisi, ricambiando la stretta.

<<Che ci fai qui?>> chiese, reclinando il capo. Lo sguardo intelligente luccicò di vita. Le orbite si restringevano ai lati conferendole un vago aspetto orientale. La parabola del naso curvava a punta sulla bocca piccola e sensuale, separata dal mento poco accentuato da una ruga sottile. La giacca a vento le nascondeva il corpo.

<<Vivi qui?>> chiesi.

<<Sono ospite della sorella di mio padre, mi sto allenando per La Quattro Laghi>>

<<Cos’è?>>

<<Una mezza maratona che attraversa passa per i quattro laghi flegrei. Malgrado siano solo 21 chilometri, è massacrante a causa dei continui saliscendi. Alla scorsa edizione mi sono classificata sesta assoluta tra le donne.>>

<<Un buon piazzamento>> osservai.

<<Sì, considerando la tendinite che mi obbligò a stare ferma per quasi sei mesi. Alla prossima, però, punto al podio!>>

La voce decisa ne palesava il carattere determinato.

<<Studi?>>

<<Sono iscritta a giurisprudenza. Vorrei fare l’avvocato. Tu di cosa ti occupi?>>

<<Lavoro in banca. Faccio il consulente finanziario>>

<<Ossia?>>

<<Suggerisco alle persone come far fruttare i propri risparmi.>>

<<Un giorno verrò a trovarti!>>

<<Possiedi dei risparmi?>>

<<Non ho un euro>> disse scoppiando a ridere. La sua ilarità mi contagiò, risi anch’io.

 

Giungemmo nella piazza assordata dai veicoli provenienti dal lungomare. Al bivio una parte delle vetture deviava verso il centro mentre l’altra proseguiva in direzione Pozzuoli. Il traffico era regolato da un’affascinante vigilessa dai capelli biondi coadiuvata da una coppia di pensionati che, muniti di palette, bloccavano i veicoli per consentire l’attraversamento ai pedoni.

 

<<Io sono arrivata>> disse Laura, fermandosi davanti la palazzina dai muri scrostati. Fui tentato di dirle che ero stato bene in sua compagnia, che mi sarebbe piaciuto rivederla. Tacqui per non apparire ridicolo.

<<Grazie per il consiglio>> feci, mostrandole la busta contenete il libro di Marquez.

<<Spero ti piacerà!>> sorrise.

Ci lasciammo con una calorosa stretta di mano.

 

Pranzai in cucina. Avvolgendo gli spaghetti alla forchetta, ripensavo a Laura, alla sua vitalità, al suo entusiasmo. Conoscevo uomini molto più grandi di me che non avevano alcuna difficoltà ad intessere una relazione con una ragazza più giovane di loro. In alcuni casi, addirittura più giovani delle loro stesse figlie.

Quando ne parlavano, tutti ammettevano che avere accanto una donna giovane come per magia annullava il peso degli anni, dissolvendo il tedio del matrimonio. Alcuni non lesinavano ad arricchire i propri racconti con particolari intimi affinché si sapesse che erano ancora nel pieno del vigore fisico. Mentre ascoltavo le loro avventure boccaccesche, mi chiedevo cosa avrei fatto se anch’io avessi incontrato una ragazza disposta ad intrecciare una relazione con me. Istintivamente il pensiero ritornò a Laura.

Poiché per carattere tendo a razionalizzare qualunque evento turbi il mio equilibrio interiore, mi imposi di considerare le inquietudini suscitate in me da Laura come logica conseguenza del difficile momento sentimentale che stavo attraversando. Ritrovarmi da solo, dopo tanti anni vissuti con Monica, era un trauma difficile da superare. Sospettai che il mio inconscio si fosse messo alla ricerca della terapia con cui riempire quell’imprevisto vuoto esistenziale. Pertanto non potevo escludere considerasse Laura la medicina per risanare le fratture del mio animo. Ripudiando ogni forma di medicinale convinto che, alla lunga, può nuocere più dello stesso male da curare, convenni che era meglio la dimenticassi; che l’unica medicina efficace per fronteggiare il difficile il momento che stavo attraversando era il trascorrere del tempo.

Ricacciai Laura dalla mente.

 

L’incessante suono del campanello alla porta mi ridestò.

Mi ero addormentato sulla poltrona davanti al televisore acceso. Filtrando dai vetri del balcone, il tramonto stemperava nel salotto smorti bagliori di luce. Chiedendomi chi fosse, andai ad aprire.

<<Ciao!>>

Il sorriso di Laura rischiarò la sera.

<<Disturbo?>> domandò.

<<Nient’affatto>> feci sorpreso e felice nello stesso tempo.

<<Posso entrare?>>

<<Certo.>> Mi spostai di lato per farla passare.

<<Carino qui>> commentò guardandosi intorno. <<E’ casa tua?>>

<<Di mia sorella.>>

Sfilandosi il giubbotto di pelle, si avvicinò alla libreria, dando uno sguardo ai libri allineati sulle mensole.

<<Dammi la giacca>> dissi.

Mentre appoggiavo il giubbotto sullo schienale della poltrona, ammirai l’asciutta compattezza del suo fisico: il seno sodo gonfiava il maglione; le gambe lunghe e i glutei muscolosi riempivano di sensualità i jeans.

<<Sorpreso?>> mi sorrise sedendosi sulla poltrona, accavallando le gambe.

<<Abbastanza>> ammisi restando in piedi, cercando di non mostrarmi imbarazzato.

<<Sono stata da un’amica che abita da queste parti. Passando ho visto la luce accesa e ho pensato di passare a salutarti.>>

<<Hai fatto bene. Gradisci qualcosa da bere?>>

<<Cosa hai?>>

<<Coca, sprite, aranciata, birra, caffè…>> elencai come un cameriere.

<<Basta>> mi stoppò divertita. <<Una coca va benissimo!>>

Seduti in poltrona, l’uno di fronte all’altra, sorseggiando la lattina di Coca Cola, Laura mi parlò della sua passione per la corsa.

<<Praticamente corro da quando ero bambina. In qualunque stagione e con qualsiasi tempo. Per me correre è vita. Non riesco a immaginarmi la mia esistenza senza la corsa. Correre mi ha insegnato a limare le spigolature del mio carattere. Per natura sono impulsiva, esuberante, aggressiva. Correndo ho imparato a frenare questi aspetti del mio essere. Quando si corre per tanti chilometri bisogna avere il buonsenso di non bruciare subito le energie altrimenti si rischia di fermarsi per strada, di non raggiungere la meta. Nella vita accade, più o meno, la stessa cosa: per realizzare un obiettivo devi partire piano per non disperdere le energie e l’entusiasmo. Senza energie ed entusiasmo non si va da nessuna parte!>>

<<Tu ne hai da vendere, di entusiasmo!>> osservai.

<<L’entusiasmo in me è fisiologico. Fa parte del mio DNA. Qualunque cosa faccia, anche la più sciocca, è sostenuta sempre dall’entusiasmo. Sai perché tante persone sono infelici?>>

<<Perché?>>

<<Perché mancano di entusiasmo. Puoi essere ricco sfondato, avere tante amanti più di Casanova, successo nel lavoro, avere la possibilità di poter viaggiare in ogni angolo del mondo, ma se manchi d’entusiasmo sei una macchina senza benzina che ha bisogno d’essere spinta dagli altri per continuare a procedere. Io non ho un soldo, non ho niente a parte l’entusiasmo, eppure sono felice. Solo il pensiero che un giorno potrei avere bisogno del sostegno degli altri per vivere mi fa stare male.>>

Abbozzai un sorriso.

<<Sono qui per ritrovare l’entusiasmo>> confessai.

<<Lo so, l’ho capito quando in libreria ti ho visto inginocchiato davanti a quella catasta di libri. Solo chi è alla disperata ricerca di qualcosa avrebbe scorso i volumi con la tua stessa frenesia. Quel che tutti cercano nella vita, senza sapere esattamente cosa, è l’entusiasmo!>>

<<Dovresti fare la psicologa invece dell’avvocato.>>

<<Valutare giuridicamente è un’analisi psicologica! Il carattere delle persone, il loro modo d’essere lo determini dal comportamento, non certo da ciò che pensano. Se ci limitassimo a giudicare le persone solo da ciò pensano rischieremmo di fare i processi alle intenzioni, rovinando la gente onesta. E sai perché?>>

<<No!>>

<<Il pensiero è come un fiume, mentre scorre trasporta con sé di tutto, sia il buono che il marcio. Sta a noi decidere cosa salvare dall’acqua e cosa invece lasciare che la corrente porti via con sé. Questa scelta rivela chi davvero siamo, essendo l’origine delle nostre azioni-. Tutto il resto pensieri e parole al vento. Non possiamo giudicare una persona né per il suo modo di pensare né perché ha detto una frase fuori luogo in un momento di rabbia o di disperazione. Siamo esseri umani, non dei: nostro dovere è limitarci a valutare i fatti!>>

Tanta saggezza in quel fiore in germoglio mi disarmò.

Mi alzai e andai al balcone. I bagliori delle case illuminate sulla dorsale del promontorio di Capo Miseno sembravano candeline accese su una torta in una stanza buia. Da dietro l’insenatura apparve il transitante bagliore delle luci di un traghetto diretto alle isole. All’orizzonte, adagiata sul mare, Capri dormiva tranquilla vegliata dal proprio faro che a intervalli regolari squarciava il buio segnalandone la presenza ai naviganti perché ne rispettassero il sonno.

Fissai Laura.

<<Credi che riuscirò a trovare l’entusiasmo?>> chiesi.

<<Si trova sempre ciò che ci appartiene … Adesso devo proprio andare, oggi ho studiato poco e voglio recuperare.>>

Si alzò porgendomi la lattina vuota.

<<Sei certo che non ti infastidisco se continuo ad allenarmi nel tuo giardino?>> domandò mentre l’aiutavo ad infilare il giubbotto.

<<Mi offendo se non la fai!>>

<<Pratichi qualche sport?>>

<<Vado in palestra tre volte a settimana. Niente d’impegnativo. Giusto un po’ di ginnastica e di pesi per tenermi in forma.>>

<<Ti piacerebbe correre con me?>>

<<Non ho l’occorrente!>>

<<Ti piacerebbe?>> insistette.

<<Certo che sì!>>

<<Vedi, soffochi l’entusiasmo per un motivo futile. Ho un amico che vende articoli sportivi. Se vuoi, domani ti porto da lui.>>

<<Va bene.>>

L’accompagnai alla porta.

Laura balzò in sella al motorino parcheggiato davanti casa e l’avviò.

<<A domani>> fece infilandosi il casco.

<<A domani>> le feci eco salutandola con la mano.

 

Mentre ero in cucina a preparare la cena, all’improvviso mi sovvenne come un flash l’immagine di mio cognato che giocava a tennis.

Come un forsennato iniziai a rovistare la casa da cima a fondo. Sembravo un investigatore che percepisce a pochi passi da sé la prova schiacciante per inchiodare il colpevole ma non riesce a trovarla. Dove potevano essere? Fissai la scalinata che saliva in soffitta. Un lampo mi attraversò la mente. Salii di corsa la rampa di scale. Aprii la porta del solaio e accesi la luce, rischiarando l’interno. La fioca lampadina illuminò la cassetta degli arnesi, le biciclette dei bambini e le scope appoggiate al muro dirimpetto, il pacco di giornali ingialliti poggiato su una sedia sgangherata, due barattoli di pittura sistemati in un angolo l’uno sull’altro, dei pennelli induriti. L’armadietto a sinistra attirò la mia attenzione. Mi avvicinai e lo aprii senza indugio. Una fila di scatole di scarpe era allineata sul ripiano centrale. Scelsi quella di una nota marca di articoli sportivi. La scoperchiai: esultai alla vista delle scarpe da tennis. Io e mio cognato calzavamo lo stesso numero. Guardai nuovamente nell’armadietto: sulla scansia in alto era appoggiata una fila di buste di cellophane contenenti indumenti sportivi. Le svuotai una ad una sul pavimento fino a quando non trovai la tuta da ginnastica di Francesco.

 

L’umidità del mattino mi penetrava nelle ossa.

In prossimità del cancello della villa, saltellavo sulla sabbia con le braccia penzoloni per riscaldarmi, scrutando sulla battigia alla ricerca di Laura.

<<Volere è potere!>> risuonò di spalle la sua voce. Mi voltai.

<<Buongiorno>> la salutai.

<<Sei qui da molto?>>

Guardai l’orologio al polso.

<<Una ventina di minuti.>>

<<Se avessi saputo che m’aspettavi, avrei aumentato l’andatura.>>

<<Non preoccuparti.>>

Mi fissò i piedi.

<<Quelle non vanno bene>> fece fissando le scarpette da tennis che calzavo. <<Sono dure e hanno la pianta stretta. Per correre servono scarpe come queste>> Alzò il piede mostrandomi le sue. <<Leggere, con la pianta larga in modo che il peso del corpo sia ammortizzato interamente dal piede senza sforzo.>>

<<Allora non si corre?>>

<<Certo che corriamo, ma, appena puoi, compra delle scarpe adatte altrimenti ti infortunerai, garantito!>>

Iniziammo a riscaldarci. Afferrando una mano alla ringhiera, stringevamo l’altra mano al collo del piede, piegando la gamba all’interno in modo da toccare col tallone la natica. Restavamo in quella posizione per diversi secondi per poi fare lo stesso con l’altra gamba. Terminati gli esercizi, Laura si piantò al mio cospetto.

<<Unisci le gambe; flettiti sul busto senza piegare le ginocchia e cerca di toccarti con le mani le punta dei piedi come faccio io>>. Così dicendo s’inarcò sulle gambe tese, poggiando sul terreno i palmi delle mani. Restò in quella posizione per un tempo interminabile.

<<Adesso provaci tu>> fece rialzandosi.

Inarcai il busto, flettendo leggermente le ginocchia.

<<Se pieghi le ginocchia sbagli l’esercizio.>>

<<Non ci riesco>> gemetti. Il sangue mi andava alla testa.

<<Sei legato>> disse tastandomi le cosce: il tocco delle sue mani mi eccitò. Mi premette la mano sulla schiena perché mi flettessi meglio sul busto. Provai un dolore lancinante.

 

Corremmo una buona mezz’ora sul lungomare, parlando di noi.

Di tanto in tanto Laura interrompeva la conversazione, preoccupata delle mie condizioni fisiche.

<<Tutto bene?>> mi chiedeva premurosa.

<<Tutto ok!>> rispondevo strizzando l’occhio.

Al rientro, in giardino, dopo aver fatto gli esercizi di scarico, mi fece sdraiare con la schiena sulla panca, controllando che eseguissi correttamente gli addominali.

Feci la mia bella figura in quanto in palestra mi sottoponevo a massacranti serie di addominali per bruciare i grassi, reggendo un peso sull’addome.

<<Bravo>> si complimentò.

Toccò a lei.

Sollevandosi sul busto la tesa muscolatura delle cosce si delineò sotto la calzamaglia. Involontariamente posai lo sguardo al tessuto aderente sotto cui si delineava il pube. Il respiro le gonfiò il seno.

<<Stanca?>> feci cercando di nascondere il turbamento suscitatomi dalla sua femminilità.

<<Per niente>> disse alzandosi. <<Ci vendiamo domani alle sette?>> domandò sistemandosi ai fianchi l’elastico della tuta.

<<Perfetto!>> risposi.

Inaspettatamente, prima di andare via, mi baciò sulla guancia.

 

Uscito dalla doccia, indossai l’accappatoio di spugna e rientrai in camera da letto. Aprii l’armadio per prendere i pantaloni. Lo specchio all’interno dell’anta rifletté la mia immagine. Accostai la faccia al vetro: qualche timida ruga solcava le estremità degli occhi. Slacciai la cinta dell’accappatoio, riflettendo il corpo nudo nello specchio. Indietreggiai di qualche passo per analizzarmi a figura intera nel vetro. Tutto sommato potevo ritenermi soddisfatto, non avevo il benché minimo accenno di pancia. Le gambe erano toniche. I pettorali definiti in modo giusto. I bicipiti manifestavano forza. Forse qualche eccesso di grasso ai fianchi …

<<Ma che sto facendo?>> pensai ad un tratto ad alta voce, provando vergogna di me stesso.

Con un colpo secco richiusi l’armadio. Mi stavo comportando alla stregua di quegli uomini che ogni giorno, mattina e sera, si mirano nello specchio terrorizzati dal pensiero di scorgere sul proprio corpo i segni del tempo. Era la prima volta che mi comportavo in quel modo ridicolo. Proprio io che non perdevo occasione di replicare a chi si lamentava del passare degli anni:  <<Le uniche certezze della vita sono il passato e la morte. Tutto il resto è solo speranza e mistero!>>

 

La mia passione per i miti virgiliani risaliva all’epoca del liceo. Tra i tanti episodi delle gesta di Enea prediligevo l’incontro tra l’eroe latino e la sibilla cumana. Cuma distava pochi chilometri da Bacoli. La giornata tersa, riscaldata da un tiepido sole, mi invogliò a visitare l’Acropoli.

 

Risalivo il viale che conduceva agli scavi, attorniato da una calca di ragazzini festosi in gita scolastica. In prossimità dell’ampia sala d’ingresso scavata nel tufo della collina su cui gli antichi avevano edificato il sacro sito, levai lo sguardo alla cima del monte. La fitta vegetazione ammantava le pendici, nascondendo agli sguardi i resti del tempio di Giove eretto sull’apice. Entrando nell’ampia sala di tufo che come un limbo separava la biglietteria dal sito archeologico, osservai i piccoli loculi scavati nelle pareti dove anticamente alloggiavano le lucerne. Non appena fui nel parco, mi accostai alla ringhiera alla mia destra e mi affacciai nel canalone sottostante da dove proveniva l’eco dei colombi annidati nelle spaccature della rupe. Sotto di me si apriva uno slargo dove un ingresso scavato nella pietra conduceva nella città sotterranea. Ammirando quel suggestivo scenario, la fantasia cominciò a galoppare: mi domandai se il complesso archeologico non fosse opera dei Cimmeri, il misterioso popolo delle tenebre, per dar vita ai loro rituali sacri. E solo dopo l’avvento dei colonizzatori greci e successivamente dei romani aveva assunto i connotati attuali con i resti dei templi di Apollo e di Giove. Dubbioso mi incamminai verso il viale alberato che rasentava il margine della collina delimitato da una lunga staccionata in ferro. Al di sotto della terrazza la fitta vegetazione della foresta di Cuma si estendeva fino ai margini della spiaggia del Fusaro. All’orizzonte, ammantata da una sottile foschia, Ischia appariva come una misteriosa signora col velo calato sul viso per nascondersi agli sguardi degli uomini.

Contemplai il suggestivo panorama quasi fossi rapito in mistica ebbrezza: non c’era da stupirsi se gli antichi avessero scelto quel luogo per onorare gli dei e se Virgilio vi avesse fatto sbarcare Enea, gettando i semi della civiltà romana. Pochi siti al mondo suscitavano malie tanto intense nella fantasia degli uomini come quel luogo la cui eterna instabilità del sottosuolo, battezzata bradisismo, caratterizzata dal periodico innalzamento e abbassamento del suolo, lo accomunava simbolicamente alla vita con i suoi alti e bassi. I periodici sommovimenti della terra, unitamente alle esalazioni dei gas che dal suolo si libravano nell’aria alterando i sensi, agli sguardi degli antichi dovettero apparire come manifestazione di una volontà suprema che aveva prescelto quel luogo per manifestarsi e comunicare con gli uomini. Da qui la scelta di edificare il sito in onore del Nume.

Fissai le pigre onde del mare svolgersi sulla spiaggia. Respirai profondamente. Senza indugio mi diressi all’antro della sibilla imboccando l’oscuro corridoio che trafiggeva la collina alle mie spalle.

Man mano che avanzavo nelle tenebre accompagnato dall’eco dei miei passi, osservando la forma del corridoio che ricordava vagamente una vagina, ebbi la sensazione di inoltrarmi nell’intimità della terra. Avanzando in quel grembo tufaceo, più volte fui colto dalla sensazione che occhi invisibili mi spiassero. Attraverso gli enormi squarci laterali intagliati sul fianco dell’antro, fasci di luce provenienti dall’esterno laceravano il buio, proiettando la mia ombra sulla parete opposta. Timoroso avanzai incontro all’ignoto fino a quando non giunsi nella sala della sibilla. Il moncone di pilastro templare posto dinanzi al tabernacolo dove la pitonessa vaticinava, accresceva di mistero l’atmosfera.

Dai meandri della memoria mi sovvenne alla mente la storia della sibilla cumana: la sibilla era una splendida fanciulla. Affascinato dalla sua bellezza Apollo, pur di averla come sacerdotessa, la tentò in ogni modo, offrendosi di esaudirne qualunque desiderio. La donna raccolse una manciata di sabbia e chiese di vivere tanti anni quanti fossero i granelli di sabbia racchiusi nel pugno. Ma dimenticò di chiedere anche il dono dell’eterna giovinezza. Il dio l’accontentò. Con lo scorrere del tempo, la sibilla scoprì d’essere caduta vittima della propria vanità e del cinismo del nume: il suo aspetto si ridusse sempre di più a quello di una larva fino a scomparire, restando percepibile solo la voce. A quel punto il dio le promise di farla restare eternamente giovane a patto che lei avesse giaciuto con lui. Pur di non perdere la propria purezza, la sibilla rifiutò. Ecco il motivo per cui, ancora oggi, c’è chi sostiene che è possibile ascoltarne la voce.

In quell’attimo una voce di donna sorse dal nulla, sussurrandomi: <<L’entusiasmo è il motore della vita. Chi soffoca l’entusiasmo uccide se stesso. Ogni uomo è un dio in embrione che solo vivendo ha modo di manifestare la propria grandezza!>>

Istintivamente mi guardai intorno alla ricerca di Laura. Intorno a me solo silenzio e oscurità. La sibilla aveva vaticinato. Era compito mio penetrare il senso delle sue parole. […]

Se vuoi conoscere come si svilupperà la storia tra Riccardo e Laura non ti resta che acquistare il libro cliccando qui

L’ULTIMA NOTTE

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Di seguito i primi due capitoli de L’ULTIMA NOTTE in vendita su Amazon

 

Prologo

 

Dal ripiano del tavolo, la lampada illuminava l’interno della capanna, proiettando sulla parete l’ombra del vecchio pescatore intento a  scrivere su un quaderno. Avvolto in una nuvola di fumo che gli usciva dalle narici, con le ciglia corrucciate rilesse, schiacciando sulle assi del pavimento il mozzicone di un sigaro.

” L’amore ha il potere di fissare il passato in eterno presente.”

Trasse un profondo respiro. Chiuse il quaderno e si alzò, avvicinandosi alla finestra dove, da dietro ai vetri graffiati dalla pioggia, imperversava la tempesta.

Un fulmine tracciò nell’aria una scarica luminosa che squarciò le tenebre, illuminando, in lontananza, il mare ingrossato infrangersi sulla scogliera sottostante. Seguì l’assordante boato di un tuono. Da dietro alla capanna, Julab, il suo cane, prese ad abbaiare. Sorrise pensando all’animale con cui da tempo condivideva la solitaria esistenza.

Da una vita viveva in quella capanna, mai aveva assistito a una burrasca tanto violenta.

“Forse è un segno”, pensò. E, scrollando il capo, allontanandosi, si andò a sdraiare sul letto affiancato alla parete su cui si apriva la finestra.

Con le mani dietro alla nuca, fissava il soffitto da cui giungevano i rumori delle tegole tormentate dal vento e dalla pioggia. Un tuono, più fragoroso del precedente, inondò la capanna. La struttura di legno e lamiera vibrò, al punto che le stoviglie appese al muro caddero al suolo in maniera assordante.

Percependo il freddo entrargli nelle ossa, l’uomo si infilò sotto la coperta, rannicchiato nel tentativo di scaldarsi.

La fiammella della lampada cominciò ad affievolirsi.

Si alzò per raggiungere la mensola su cui erano disposti, ordinatamente, un rasoio, un pennello da barba, dei libri ammonticchiati l’uno sull’altro, una vaso di terracotta e una rudimentale clessidra che aveva costruito da giovane, unendo e strozzando con la pece i colli di due bottiglie, dopo averne riempita una a metà con la sabbia. Da dietro al vaso ne prese una più  corta, rivestita di uno spesso strato di polvere e ragnatele, in cui vi era dell’olio. Quindi si avvicinò al tavolo e prese da un cassetto una candela e una scatola di cerini. Accese la candela, versò un po’ di cera sul tavolo e la fissò. Assicurandosi così la luce mentre cambiava il combustibile alla lampada. Accese un altro fiammifero, accostandolo allo stoppino, manovrando con sapienza il regolatore della fiamma per sprigionare un fascio di luce pulita.

Con un soffio spense la candela riponendola nel cassetto.

 

La tempesta, intanto, aumentava d’ intensità.

Preoccupato, ritornò alla finestra, per accertarsi che Julab se ne stesse al riparo nella cuccia. Appoggiò il naso sul vetro, nel tentativo di sconfiggere il fitto velo di pioggia che rendeva impossibile distinguere quanto accadeva fuori in quel momento.

Lo spegnersi della lampada gettò la capanna nel buio.

“Accidenti.”, borbottò, raggiungendo il tavolo per prendere i cerini. Ne trovò un paio, accatastati di fianco alla lampada e ne strofinò  uno sul ruvido del pavimento. L’ umidità del legno vanificò ogni tentativo.

– Perché ti ostini ad accendere? -, domandò una voce alle sue spalle.

Un bagliore rischiarò il sorriso sul volto dell’uomo. Si girò in direzione della voce per vedere a chi apparteneva, ma un’ improvvisa pesantezza agli occhi lo costrinse a chiudere le palpebre. Quando le riaprì, un’ombra indistinta, nebbiosa era lì alla finestra.

– Allora. Cosa aspetti? -, domandò, tracciando dei segni sul vetro opaco. Segni che sembravano rivolti al mare.

Nella mente del vecchio, i ricordi di un passato lontanissimo tornarono  a ravvivarsi con frenesia.

 

I

 

Il sole, alto nel cielo, generava riflessi cristallini sul mare che circondava l’isola, simile a una collana di perle. I raggi illuminavano le case basse, esaltandone i colori pastello.

Dalle finestre aperte, l’astro entrava nelle case riscaldando ogni angolo. Nell’ aria l’accattivante aroma della primavera accarezzava le creature col suo dolce tepore, inducendole ad amarsi. Nulla e nessuno sapeva resistere a quella malia.

Tutta la natura si crogiolava nell’ebbrezza dell’abbraccio creativo.

Maschi e femmine giocavano a un perpetuo rincorrersi e sfuggirsi, per  ritrovarsi, rapiti dall’oblio dell’estasi amorosa.

Approfittando della splendida giornata, i suoi genitori decisero di uscire in barca per andare a pesca. Kayfa rinunciò, perché aspettava Raoul con il quale si doveva allenare per la gara di nuoto che si sarebbe svolta tra due settimane.

Udendo il battente picchiare alla porta, convinto che fosse l’amico, uscì dal bagno. Andò ad aprire senza la preoccupazione di coprirsi.

Sull’uscio, avvolta in un coloratissimo pareo, e con un braccio infilato in un cesto colmo di frutta, c’era Miryam, un’amica della madre. Una donna splendida, nel pieno della sua maturità. I capelli, neri e setosi, le scendevano lungo la schiena fino ai glutei. Sotto il delicato indumento, il suo corpo sinuoso, dalle generose forme, svettava armoniosamente al sole, offrendo al calore dei raggi la robustezza e la fragranza dei seni color pesca. Il viso della donna, anch’ esso rischiarato dal sole, era privo di trucco.

Kayfa restò per qualche istante confuso.

Quando si accorse che lei l’osservava con interesse, per nulla imbarazzata da quella situazione, d’istinto si portò le mani tra le gambe per celare le proprie nudità.

Intenerita da quel gesto, gli sfiorò il viso con una carezza.

– Mi scusi –   balbettò , visibilmente turbato.

La donna scosse il capo, lasciando intendere che non doveva preoccuparsi.

– Posso entrare? –   domandò, continuando ad accarezzargli la guancia con la mano.

– Mamma non è in casa – fece con voce tremante.

– Non fa niente – rispose, avanzando sulla soglia. Una volta entrata, gli fece cenno di chiudere la porta, scivolandogli con la punta delle dita lungo il collo, fino a sfiorargli il  torace glabro e muscoloso. Soffermandosi a solleticargli i capezzoli che avevano assunto il caratteristico tono violaceo dell’eccitazione.

Il corpo del giovane  era tutto un fremito mentre la donna, che nel frattempo si era liberata del cesto poggiandolo su un tavolino al centro della sala, gli  massaggiava con voluttà il petto, passandogli, di tanto in tanto,  una mano tra i capelli bagnati.

– Ora sono qui per te – gli sussurrò in un orecchio, mordendogli il lobo, sorridendogli maliziosamente. In quell’istante, Kayfa comprese che stava per diventare uomo.

 

Le gambe presero a tremare e le viscere a rivoltarsi nell’addome.

Cercò nei meandri della mente qualunque cosa potesse tornargli utile per mascherare la propria inesperienza.

Come d’abitudine per i ragazzi della sua età, ascoltava con interesse i discorsi dei più grandi relativi al sesso, in modo da farsi una cultura a cui poter attingere al momento opportuno onde evitare figuracce.

Il momento era giunto.

– Allora, cosa aspetti? –  chiese lei con voce sommessa, slacciandosi il pareo e fissandolo intensamente con due occhi neri e scintillanti. Offrendo al suo sguardo intimorito lo splendore naturale del suo corpo maturo.

 

” La stringi forte tra le braccia e la baci lungo il collo, mentre con le mani le sfiori i fianchi.”, ricordava aver sentito dire da qualcuno.  “Quando la baci, appoggi delicatamente le tue labbra sulle sue, schiudendole in modo che le vostre lingue si incrocino, è bellissimo!”, aveva sentito da qualcun altro. Ma la cosa più importante l’ascoltò da Omar, il pescatore di spugne con il quale spesso si fermava a dialogare. Facendosi coraggio, una mattina, approfittando che Omar gli stava raccontando delle proprie avventure amorose da giovane, aveva trovato la forza di chiedergli cosa bisognava fare quando si incontrava una donna per la prima volta.

“Non preoccuparti figliolo”, lo rassicurò. “Quando anche per te giungerà il momento, lasciati guidare dal cuore. Ma, soprattutto, lascia che a guidarti sia lei, chiunque essa sia. Le donne imparano presto e sanno essere delle maestre giudiziose. Non ti preoccupare e sii naturale. Solo così potrai essere certo che tutto andrà bene. Voler apparire ciò che non si è nella vita si risolve sempre contro noi stessi”.

 

Adesso, quelle parole gli ritornavano in mente, fissando Miryam che si accostava a sé con il suo corpo profumato di mare al suo, desiderosa di essere posseduta. Accarezzandolo tra le gambe al fine di stimolarne la virilità, ridotta a un pezzetto di carne raggrinzita.

Intuendo che per lui quella era la prima volta, Miryam tramutò se stessa in vergine, riacquistando spiritualmente la purezza donata in gioventù a un uomo che, dopo averla sposata, regalandole l’illusione dell’amore, successivamente, alle morbide onde del suo corpo aveva preferito quelle fredde del mare. Abbandonandola a un solitario destino su quell’isola, su cui, per vivere, era stata spesso costretta a cedere  alle lusinghe di quanti smaniavano di giacere con lei. Nutrendo un profondo rancore verso la vita che si era mostrata così crudele nei suoi confronti, privandola della madre, morta nel darla alla luce, e poi del padre, scomparso in mare durante una tempesta quando non aveva ancora un anno. Costringendola a vivere con la nonna materna fino al giorno del matrimonio, e in seguito da sola.

L’unica persona che non l’aveva mai abbandonata, niente affatto preoccupata della fama che l’accompagnava, era la madre di Kayfa.

 

Appassionatamente, senza tregua, si amarono fino a che i contorni dell’ orizzonte assunsero il tono purpureo del tramonto, ora in cui i pescatori rientravano.

Ravvivandosi i capelli con le mani, Miryam si alzò dal pavimento che aveva funto da giaciglio.

Nella stanza, il profumo dei loro corpi si mischiava a quello del mare proveniente dalla finestra, con la tenda di paglia prudentemente abbassata per evitare che sguardi indiscreti sorprendessero la loro intimità.

Un solo momento di panico li aveva colti: quando Raoul bussò con insistenza alla porta.

* * *

– Mio Dio. E’ Raoul – gemette Kayfa, nell’udire la voce dell’ amico gridare il suo nome –  Dovevamo andare ad allenarci -, aggiunse con espressione sognante, risultato delle carezze e dei baci con cui Miryam lo stordiva cavalcandogli il ventre.

– Lascia che bussi – mormorò estatica, riversando la cascata di capelli corvini sul viso di lui che accennò a un timido moto di ribellione per divincolarsi dalla stretta. Sortendo, invece, l’effetto di accrescere l’eccitazione di entrambi fino al culmine del piacere.

II

 

I raggi del sole attraversavano le liste della tenda, proiettando sul corpo di Miryam tanti punti luminosi, dando l’ impressione che la sua pelle fosse maculata al pari di un leopardo.

– Sei bellissima – fece Kayfa, steso sul pavimento con le mani giunte   dietro la nuca, ammirandola riavvolgersi nel pareo.

– Anche tu – rispose, accostando la punta dell’indice alle labbra. Posandola, quindi, su quelle di lui, in un ipotetico bacio.

– Quando ci rivediamo? – chiese Kayfa, sedendosi sul pavimento con le gambe incrociate.

– Al più presto – rispose, passandosi le mani lungo i fianchi perché l’indumento aderisse ai lineamenti del suo corpo – Adesso devo andare – aggiunse, chinandosi a baciare sulla fronte il giovane amante.

– Quando ci rivediamo? – chiese nuovamente Kayfa, balzando in piedi e afferrandole i polsi, preoccupato di non farle male.

Sorridendo, Miryam accostò le labbra alle sue:

– Domani alle quattro – sussurrò – Vicino allo “scoglio dei gabbiani” – E lo baciò con passione prima di avviarsi verso la porta. Aprendola, dopo essersi assicurata che non sopraggiungeva nessuno.

 

– Allora, come è andata? – chiese sua madre, entrando nella stanza dove  Kayfa, seduto sul letto, leggeva un libro.

– Non tanto bene – mentì, continuando a fissare le pagine aperte.

– Che significa “non tanto bene”? – chiese, baciandolo sulla fronte – Tu e Raoul avete per caso litigato? –  e si sedette sul bordo del letto in attesa di spiegazioni.

– Ho avvertito un malessere – continuò a mentire, chiudendo il libro e cercando di sfuggire lo sguardo perplesso con cui la donna lo fissava.

– Mio Dio – esclamò allarmata, prendendogli tra le dita il mento per osservare il viso – Hai un’aria affaticata – ammise. Istintivamente allungò la mano sulla fronte per controllare se avesse la febbre – E cosa ti sei sentito? –  riprese, tranquillizzata dal fresco percepito sui polpastrelli.

– Mal di stomaco – Kayfa sentì il sangue affluirgli alla testa per la rabbia e la vergogna che provava in quel momento. Prima di allora non aveva mai mentito a sua madre.

– Cosa hai mangiato questa mattina a colazione? – incalzò lei.

– Tè e biscotti – si affrettò a rispondere.

–  Evidentemente ti avrà fatto male qualcosa che hai mangiato ieri sera a cena –   concluse. E si alzò per avviarsi presso la finestra spalancata sulla baia, da dove giungeva il frinire delle cicale.

Le stelle bucavano il terso cielo della sera. Si appoggiò con le mani al davanzale per ammirare il panorama.

– E’ stata una splendida giornata – sospirò.

In lontananza, un peschereccio illuminato lanciò un “urlo”.

– La pesca è stata abbondante e tuo padre è ancora giù al porto per trattare il prezzo del pesce. Non immagini quanto sia felice.   .

– Sono contento – sorrise Kayfa portandosi al suo fianco.

– Ho visto sul tavolino dell’ingresso il cesto per la frutta che avevo prestato a Miryam. Quando è passata? – domandò, sistemandosi la gonna sul davanti.

Kayfa si sforzò di controllare l’imbarazzo che provava – Questa mattina, sul tardi – rispose deglutendo.

– Miryam è una carissima ragazza – sorrise lei – Peccato non sia stata baciata dalla fortuna. Non è cattiva come dicono, sai? – concluse, uscendo dalla stanza.

– Sì mamma – mormorò, rivolto all’arco d’argento che si stagliava nel cielo.

 

Distesi sul bagnasciuga, i corpi nudi di Miryam e Kayfa, travolti dalla passione, erano in balia delle carezze del mare.

Di tanto in tanto un gabbiano planava sullo spuntone di roccia lavica, dietro cui si erano dati appuntamento il giorno prima, per librarsi in volo  appena posava lo sguardo sulla strana creatura a due teste che si dimenava nell’acqua con degli strani suoni  gutturali.

Scossi dalle convulsioni dell’amore, i due amanti si fissavano con occhi sbarrati. Le mani intrecciate in una stretta morsa, che si allentò nell’ attimo in cui il flusso umorale defluì dai canali naturali, disperdendo nel vento l’acuta nota dell’ incanto d’amore.

 

– E’ stato splendido – sussurrò Miryam, sdraiata su di un fianco nell’ acqua, scorrendo con la punta delle dita i tratti acerbi di lui.

Immerso con la schiena nel ribollio della risacca, Kayfa ammirava le evoluzioni di un gabbiano. Udendo quelle parole, rivolse lo sguardo a Miryam che lo fissava con un dolce sorriso su cui si stemperavano gocce di mare, passandole una mano tra i capelli bagnati intrisi di sabbia e salsedine.

– I tuoi capelli hanno bisogno di una sistemata – mormorò.

La donna esaminò con cura una ciocca.

– Che importa – dichiarò divertita. Con impeto si gettò su di lui, abbracciandolo in modo che le loro guance si sfiorassero.

Da lontano, smorzati dal mare, giungevano gli echi delle voci dei pescatori che issavano le reti.

– Sei felice? – chiese Miryam con un sorriso, sfiorandogli l’orecchio con le labbra.

– Tanto. E tu? – le domandò tenendosi sui gomiti e fissandola con intensità negli occhi.

–  Abbastanza –  ammise lei, dopo un istante di riflessione.

–  Come abbastanza? – scattò preoccupato.

– Stupido – rise – Certo che sono felice – E spingendolo con la schiena nell’ acqua, lo baciò con passione.

Ancora una volta, i loro corpi si intrecciarono nei sussulti dell’amore. Questa volta fu Kayfa a sottomettere la natura di lei. Miryam lo lasciò fare, desiderosa di essere schiava del suo ardore, gemendo di piacere  all’ardire con cui il giovane le violava l’ intimo. L’apice li travolse all’unisono. Le labbra, unite in un caloroso bacio, trasfusero nelle loro anime l’armoniosa melodia che si levò dall’ esaltazione dei sensi. I cuori vibrarono in un ritmo assordante che si placò allorché l’ultimo sussulto di piacere scosse i due amanti.

Esausti, si accasciarono felici nell’acqua cristallina.

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IL LIBRO: LE MIE RAGAZZE-RAGAZZE ROM SCRIVONO

le mie ragazze

Le chiamerò semplicemente le mie ragazze perché dopo gli incontri tenuti nell’IPM di Nisida da fine giugno agli inizi di luglio del 2006 per impartire loro qualche nozione di scrittura creativa, non posso che considerarle tali. Ovviamente mie non va inteso come aggettivo possessivo, bensì deve intendersi in chiave spirituale.

Nelle sei settimane in cui ci siamo incontrati, ognuna di loro, a modo suo, mi ha dato qualcosa. Ognuna di loro col suo sorriso, la sua tristezza, la sua voce, il suo silenzio mi ha aiutato a capire, anche se solo in minima parte, un mondo a me noto solo attraverso le immagini stereotipate di bambini/e, ragazze/i ferme/i ai semafori che cercano di lavarti il vetro del parabrezza o di venderti un pacchetto di fazzolettini di carta vestiti in maniera trasandata e puzzolente; di gruppi di donne con neonati tra le braccia accovacciate per a terra mangiare con le mani sudice cibi di dubbia qualità e provenienza, la cui vista da lontano ti disgusta al punto da indurti ad attraversare la strada.

Sembrerà strano ma Le Mie Ragazze mi obbligarono a cercare di comprendere quest’esistenza volutamente vissuta senza pentimenti ai margini della società. Frutto di una cultura popolare per noi inammissibile che riconosce nel vagabondaggio, nell’accattonaggio e, molto spesso, nel furto gli unici mezzi di sostentamento. Una cultura dove i bambini piccoli sono un mezzo per attuare tali principi in quanto non sono perseguibili dalla legge.

Le mie ragazze non avevano più di diciassette anni. Alcune erano davvero belle, altre avevano un fascino magnetico. Quando discutevamo, la loro allegria era così contagiosa che a stento riuscivo a frenare l’ilarità per non dare di me un’immagine faceta, rischiando di perdere l’ascendente che avevo su di loro. Forse qualcuna ha iniziato anche a volermi bene, o a vedermi con occhi “diversi”…

Quest’ultimo aspetto lo percepivo dall’intensità di alcuni sguardi… In quei momenti mi sentivo in imbarazzo!

Quando iniziai gli incontri avevo messo in conto anche quella possibilità in quanto alla loro età qualsiasi ragazza è già donna. Figuriamoci loro che non sanno cosa significhi l’infanzia; che non appena hanno le loro prime regole vengono date in spose affinché mettano al mondo dei figli; che in quel caso specifico restano a lungo imprigionate senza alcuna possibilità d’incontrare un coetaneo, se non sotto stretta sorveglianza e in momenti particolari.

Rientrando a casa, ripensando a quegli sguardi di desiderio e alle frasi allusive che spesso li accompagnavano, sorridevo lusingato. Ma il compiacimento si arrestava lì. Esistono limiti che alla mente non è concesso oltrepassare!

Le mie ragazze erano belle! E ancor più belle erano l’ultimo sabato che ci vedemmo. Dai lori volti traspariva speranza di libertà per via della discussione in parlamento sull’approvazione dell’indulto. Qualcuna già sognava di riabbracciare il marito e i figli – avete letto bene, “il marito e i figli”; qualcun’altra sognava di cambiare vita; qualcun’altra, più realisticamente, sperava di rientrare in carcere il più tardi possibile perché “rubare appartiene al mio DNA”. Disse proprio così!

Fu bello condividere con loro quelle settimane, leggere sui lori volti e nei loro sguardi le continue mutazioni delle loro anime. E’ stato bello sapere che per un momento le loro menti hanno pensato in maniera diversa dal solito, meditando sugli errori commessi, (cosa che già facevano prima di incontrare me, ma in maniera differente. Almeno così dissero…).

Fu bello essere lì con loro illuminandomi dei loro sorrisi, commuovendomi delle loro lacrime, raccogliere nel mio cuore i loro pentimenti, la loro rabbia, la loro voglia di vivere, di amare, di sentirsi donne.

Fu bello ricevere i loro baci sulle guance prima di andare via per sempre.

Fu commovente sentire alle mie spalle, mentre m’incamminavo per l’ultima volta verso l’uscita, la voce di una di loro sussurrare “Addio istruttore!”

Se volete leggere l’intero diario di quelle 6 settimane non vi resta che acquistare il libro. Sono convinto che non ve ne pentirete.

Buona lettura!

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CIAO, LUCIANO!

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Tra ieri e oggi ci hanno lasciato, a distanza di poco più di ventiquattro ore l’uno dall’altro, Andrea Camilleri, il papà del commissario Montalbano, e poi Luciano De Crescenzo, l’autore di Così Parlò Bellavista.

Se sulla scomparsa dello scrittore siciliano ho taciuto per una questione di pudore, rispetto e dignità personale non avendo letto praticamente nulla di suo se non qualche estratto dai suoi romanzi e qualche articolo apparso sui giornali, altrettanto non farò per De Crescenzo di cui ho letto praticamente quasi tutto, a partire da ZIO CARDELLINO il suo romanzo di esordio, a COSI’ PARLO’ BELLAVISTA che lo rese famoso in tutto il mondo, alla sua autobiografia STORIA DI LUCIANO DE CRESCENZO SCRITTA DA LUI MEDESIMO, unitamente a tutti i testi sulla STORIA DELLA FILOSOFIA GRECA.

Posso dirlo senza essere tacciato di piaggeria, fu proprio grazie ai suoi libri sulla filosofia che mi sono appassionato a questa disciplina: la semplicità della sua scrittura, unitamente alla sua innata ironia e indiscussa capacità di rendere comprensibili le cose difficili anche a chi non possedesse l’ABC, ne hanno sancito la grandezza letteraria, a prescindere da quanto ne dicessero gli addetti ai lavori, ossia i professori di filosofia, per fortuna non tutti, che vedevano De Crescenzo come il fumo negli occhi perché, a loro dire, s’era addentrato in un campo che non gli apparteneva, usurpandoli dello scettro della sapienza. Una sorta di moderno Prometeo, reo di  aver rubato la sacra fiamma della conoscenza dall’Olimpo per offrirla agli uomini!

Se con Camilleri se ne è andato un pezzo di Sicilia, con De Crescenzo se ne va un pezzo di Napoli. Quella città che lui amava e odiava al tempo stesso a causa delle tante contraddizioni che la caratterizzano, che lui seppe mettere in luce nel suo capolavoro letterario COSI’ PARLO’ BELLAVISTA. E che anni dopo ebbe l’ardire, ma anche la straordinaria capacità, di trasporre in versione cinematografica nel doppio ruolo di regista/attore, dimostrando la propria versatilità artistica. A distanza di anni, tuttora quel film viene spesso replicato da qualche emittente napoletana e, come i film di Totò, lo si rivede sempre con piacere.

Se del privato di Camilleri si sa poco o nulla, di De Crescenzo s’è saputo molto essendo stato oggetto di gossip per le tante storie d’amore che ha vissuto con star nazionali e internazionali. Una su tutte Isabella Rossellini!

Ero poco più che quindicenne quando lessi COSI’ PARLO’ BELLAVISTA: comprai il libro in una cartolibreria a Portici dove eravamo in visita dai genitori di papà. Quando uscii con il libro tra le mani e glielo mostrai, papà disse, “All’interno si racconta l’episodio di quando, mentre era da Minale – Minale è il negozio di giocattoli dove papà ha lavorato per oltre quaranta anni – per degli acquisti, gli rubarono degli oggetti dall’auto parcheggiata a Piazza Mercato!”’. Quell’episodio è stato trasposto nel film con la magistrale interpretazione di Riccardo Pazzaglia nella scena del Cavalluccio Rosso.

Pur conoscendolo come si può conoscere un cliente affezionato, di De Crescenzo papà ne parlava con rispetto, definendolo un signore sorridente e disponibile con tutti.

Da ieri la Sicilia è in lutto per la scomparsa di Camilleri, da oggi Napoli lo è per quella di De Crescenzo. Ma non avendo l’arte confini, tra ieri e oggi in lutto è il mondo intero dell’arte e della cultura nazionale e mondiale.

Speriamo che il Senato, così come ieri ha tributato un minuto di silenzio allo scrittore siciliano, altrettanto faccia oggi per la scomparsa di De Crescenzo. Entrambi con le loro opere hanno contribuito a rendere grande l’Italia.

A dispetto di alcuni politici che con le loro sbruffonate e cialtronerie non fanno altro che gettare fango sulla nazione!

CIAO, LUCIANO!

 

Vincenzo Giarritiello

INCIPIT DEL MIO PROSSIMO ROMANZO

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Di seguito l’incipit del nuovo romanzo che spero di pubblicare per la fine dell’anno. 

PROLOGO

All’orizzonte il tramonto srotolava sul mare un tappeto di stelle. L’ombra del promontorio spruzzato di viti si stemperava sull’acqua increspata dallo zefiro. L’incanto del sogno, frammisto all’aria fragrante di sale e agrumi, spingeva le barche, dalle vele ingravidate dal vento, oltre i limiti del mondo.

Avanzando a piedi nudi sulla battigia, il ragazzo osservava le onde inseguirsi sul mare come pagine di un libro sfogliate velocemente, da cui sciamavano nella sua mente desiderosa d’emozioni leggendarie città, continenti scomparsi o lontani, civiltà misteriose, uomini senza scrupoli, maghi bianchi e neri, donne prodighe d’amore. Ciononostante, un’arcana forza lo legava alla collina che s’innalzava alle proprie spalle.

Tutte le mattine scendeva sulla spiaggia a mirare le imbarcazioni dirigersi verso l’ignoto. Quando il fischio del treno si levava attraverso la vegetazione che ammantava l’altura, un sorriso amaro ne feriva il volto.

Una sera, mentre rientrava a casa, salendo il sentiero che conduceva al podere di famiglia, trovò una stella marina. Rigirandola a lungo tra le mani, pensò fosse il destino d’ogni creatura che sfuggiva al proprio mondo inaridirsi fino a morirne. Quel pensiero accrebbe in lui la rabbia. Di slancio si girò e gettò la stella nel vuoto in direzione del mare.

Osservando i propri sogni dissolversi nell’aria, si chiese se un giorno li avrebbe ritrovati…

CAPITOLO I

Il treno a diesel, sferragliando, si arrestò sui binari della piccola stazione di campagna. Impaurito dallo stridore dei freni, uno stormo di tortore schizzò via in volo dagli alberi.

Sul margine del marciapiede assolato lo attendeva il capostazione dal viso tondo e gioviale da cui si effondeva un profondo senso di tranquillità, prerogativa di quanti vivono in luoghi ameni e nelle cui anime sembrano trasfondersi la purezza e la leggerezza della quieta atmosfera che respirano.

Il ferroviere, impettito nell’uniforme di stoffa leggera colore del cielo all’imbrunire che pareva essergli stata cucita addosso, osservava l’uomo, la donna e il ragazzo con lo zaino sulle spalle uscire dalla sala d’attesa per raggiungere l’ultima carrozza.

– Abbi cura di te! – sospirò la donna, guardando con tristezza il figlio aprire lo sportello. Gli occhi verdi, resi umidi dall’emozione, scintillavano al sole come gemme preziose.

– Non temere, mamma – la rassicurò – Appena arrivo ti chiamo – aggiunse tirando fuori dalla tasca dei pantaloni il cellulare.

– Allora, hai deciso dove andare? – chiese il padre fissandolo negli occhi.

– Deciderò strada facendo – rispose pensieroso, abbassando la maniglia.

Il ragazzo assomigliava in maniera impressionante alla madre, tuttavia il tratto degli occhi ricalcava il disegno paterno.

– Qualunque cosa ti accada, ricorda che potrai sempre contare su di noi! – disse l’uomo, dando l’impressione di pronunciare quelle parole per pura formalità.

– Non temere – mormorò lui, spingendo con rabbia lo sportello. – Non mi accadrà nulla di spiacevole!

– Lo spero! – La sprezzante risposta sortì l’effetto di una stilettata al cuore del giovane.

– In carrozza, si parte! – La voce del capostazione pose fine ai saluti. Con un profondo respiro il ragazzo si aggrappò al corrimano e di slancio salì nel vagone. Richiuse lo sportello dietro di sé e si avviò nello scompartimento che si apriva al proprio sguardo.

Al fischio del capostazione il convoglio cominciò a muoversi a scossoni inoltrandosi lentamente nella fitta vegetazione che cresceva ai margini delle rotaie, lasciandosi alle spalle l’uomo e la donna che lo fissavano allontanarsi tra le fronde portando via con sé il loro unico figlio nato dopo cinque anni di matrimonio. Il tardo concepimento non era frutto né di una scelta ponderata da entrambi, né conseguente a un problema di fertilità, ma semplicemente perché la vita aveva voluto così, impedendogli di mettere al mondo quella prole numerosa che sognavano da fidanzati. Com’era accaduto ai genitori di suo padre, i quali avevano concepito il loro unico figlio subito dopo il matrimonio e poi più nulla, seppure entrambi fossero sani e desiderassero averne altri. Uno dei tanti misteri della vita che segnano l’esistenza di molte coppie, privandole del piacere di una famiglia numerosa.

Con le mani strette ai tiranti dello zaino, il ragazzo entrò nella carrozza deserta.

Osservò le fila di sedili tristemente vuoti, separate dallo stretto corridoio che immetteva nello scompartimento successivo, chiedendosi se anche in quello non ci fosse nessuno.

La curiosità lo spinse a varcare la soglia.

Avanzando tra la schiera di poltroncine, si domandò se quel deserto non giustificasse le perplessità del padre sulla sua decisione di partire quando gliela aveva comunicata…

Sdraiati all’ombra di un ulivo secolare dal tronco nerboruto, padre e figlio riposavano dopo aver lavorato l’intera mattinata a spianare una terrazza di terra sotto il sole. Con aria soddisfatta, i volti abbronzati solcati da gocce di sudore, gustavano il pollo alla cacciatora cucinato dalla madre innaffiandolo con lunghe sorsate di vino bianco, tenuto al fresco nella borsa termica sistemata tra le radici dell’albero.

Figliolo, un giorno tutto questo sarà tuo! – fece orgoglioso l’uomo, abbracciando con lo sguardo il vigneto che si estendeva a vista d’occhio sulla collina.

Il mare era solcato da uno sciame di windsurf; all’orizzonte, un’isola si stagliava nel cielo terso.

Guarda che meraviglia! – mormorò, mostrando al figlio il grappolo d’uva tratto dalla cesta al fianco. Staccò un chicco e, stringendolo tra le dita, trafisse con lo sguardo la sottile cuticola che lo ricopriva.

Queste viti sono tanto rigogliose per via del sole che scalda la terra su cui crescono, rendendola magica – disse raccogliendo un pugno di terreno. – Nei loro chicchi è racchiuso l’amore e la fatica con cui, da sempre, gli uomini la curano. – Allargò il palmo, disperdendo il terriccio nel vento. – Questo è il segreto che fa sì che il vino ottenuto allontani i dispiaceri di quanti vi cercano conforto senza bruciarne le menti e i cuori. – Schiacciò il chicco tra le dita: un’appiccicosa poltiglia rossastra aderì ai polpastrelli. Con gesti misurati dall’esperienza, sfregò tra loro le estremità umide di succo per determinare dalla viscosità la gradazione del vino che se ne sarebbe ottenuto e quindi la qualità. Un denso filamento si tese tra il pollice e l’indice. L’uomo sorrise: quell’annata sarebbe stata ottima. Staccò un altro chicco e l’offrì al figlio che lo assaggiò senza entusiasmo.

Allora? – domandò impaziente.

Sembra buona – disse lui, masticando distrattamente.

Offeso, il padre si drizzò sulla schiena.

Ma che dici? Quest’uva è ottima! Da anni non ne avevamo di così dolce. Il vino che ne ricaveremo sarà un vero nettare degli dei!

Il ragazzo non lo ascoltava. In lontananza, tra gli alberi, filtrava la densa scia di fumo nero del treno subito seguita dal fischio. Fin da bambino ne restava sempre rapito.

Mi ascolti? – chiese l’uomo.

Sì! – rispose il figlio, fissandone con decisione il viso corrucciato – E sappi che non ho alcuna intenzione di sacrificare la mia vita su questa terra. Io voglio conoscere il mondo e confrontarmi con gli altri. Papà, ho voglia di vivere, non di vegetare come una pianta, in eterno, nello stesso luogo, lasciando che il sole e l’aratro traccino il mio cammino. Il futuro voglio costruirlo da solo con le mie mani! – aggiunse, mostrando i palmi callosi.

Il padre li osservò con attenzione. Alla stessa età i suoi non erano così, la loro rudezza testimoniava che suo figlio, malgrado odiasse lavorare la terra, quando impugnava la vanga e l’aratro dava l’anima.

Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato – mormorò rassegnato. – Da che sei nato, tuo nonno non fa che ripetere che sei uno spirito libero; che un giorno avresti rinnegato le tue origini contadine – Parlando, con rimpianto fissava il manto di viti ricoprire la collina. – In cuor mio speravo si sbagliasse: ho sacrificato l’intera vita per ottenere ciò. – Sospirò profondamente. – Chissà il dolore di tua madre quando le comunicherai la tua decisione!

Ora ti preoccupi di lei? – sibilò tra i denti il ragazzo, piegando leggermente il capo – Eppure, quando ti rechi a quelle maledette fiere lasciandola sola per intere settimane, non te ne curi per niente, vero? Come non ti preoccupi di regalarle una breve vacanza perché per te esiste solo la vigna. Forse temi che, andando io via, sarai costretto a dedicarle più tempo? Rilassati, quando ieri le ho parlato mi ha benedetto, dicendo di non preoccuparmi per lei perché il suo posto è al tuo fianco, ed è pronta ad accettare qualunque cosa perché ti ama. Sì, ha detto che ti ama! Parole che tu non le hai mai rivolto perché ami soltanto questa dannata terra!

La voce improvvisamente si frantumò in un pianto. Si girò di fianco per non concedere al padre la soddisfazione di vederlo singhiozzare come un bambino.

L’uomo levò lo sguardo tra le foglie dell’ulivo. Il vento accarezzò le fronde. Con aria assente tornò a fissare i filari di viti sulla collina.

Quando partirai? – domandò.

Subito dopo l’esame di maturità! – rispose portandosi le ginocchia al petto per poggiarvi il mento, il viso segnato dalle lacrime.

Era iscritto al liceo scientifico con un ottimo rendimento tanto da far sperare che all’esame potesse prendere il massimo. Una volta diplomatosi, sapeva che le attese del padre prevedevano s’iscrivesse alla facoltà di agraria in modo da poter applicare alla cura della vigna le conoscenze acquisite con gli studi, consentendo all’azienda di famiglia quel salto di qualità che avrebbe permesso di avviare una vera propria impresa di vini, puntando non solo al mercato locale e nazionale, ma anche a quello estero. Lui avrebbe voluto invece iscriversi a medicina, malgrado consapevole che superare i test d’ingresso non fosse semplice e che, seppure li avesse superati, il corso di studi sarebbe stato lungo e complesso. Sua madre, nel momento in cui le aveva confidato la propria intenzione di tentare l’ingresso a quella facoltà, gli aveva suggerito di non essere avventato nella scelta; di pensare a diplomarsi e poi ne avrebbero riparlato, magari dopo il viaggio che aveva deciso di intraprendere subito dopo la maturità. Secondo lei non era improbabile che, una volta libero dagli impegni per la preparazione dell’esame, viaggiando, avrebbe avuto modo di schiarirsi le idee e decidere sulla scelta giusta da compiere. In cuor suo anche lei avrebbe preferito che s’iscrivesse ad agraria, ma sapendo quanto il figlio le fosse legato, non glielo aveva detto per non condizionarlo.

 

Andrai via da solo o con qualche amico? – domandò suo padre

Penso da solo: ho bisogno di riflettere sul mio futuro!

Hai anche la mia benedizione! – disse l’uomo, alzandosi di scatto per riprendere il lavoro, incurante del sole a picco.

CAPITOLO II

– Resterai via molto? – chiese la madre, fissando il figlio riempire lo zaino.

– Non saprei – rispose, pressando il carico nel sacco. Si girò a guardarla, il viso della donna era il ritratto della sofferenza.

Le andò incontro e la strinse a sé.

– Mi raccomando, chiama, non fare come tuo solito che dimentichi il cellulare spento o addirittura di ricaricarlo – mormorò.

Per tutta risposta lui si sciolse dall’abbraccio e le indicò con il dito il telefonino e il caricatore sul letto tra le cose che avrebbe portato con sé.

– Perché vuoi andare via? – sussurrò lei, abbracciandolo forte.

– L’uomo che vive nell’ignoranza è come l’uva che cresce su un terreno eternamente ombreggiato: il vino che se ne ricaverà sarà pallido, privo di forza e di carattere! La voce rimbombò nella stanza.

La donna e il ragazzo si volsero a fissare l’imponente figura del nonno impettita sotto l’arco della porta, con le mani intrecciate sul bastone dal manico intarsiato a testa d’aquila fisso davanti ai piedi.

– Non tormentarlo con le tue lacrime – disse l’anziano alla nuora – Non gravare il travaglio del suo animo. Aspetta che l’uva maturi. Solo allora conoscerai la qualità del vino e saprai se siete stati bravi nel produrlo. – Con passo incerto, appoggiandosi al bastone, il vegliardo avanzò incontro alla nuora e al nipote che lo fissavano intimoriti. Nella mano recava una conchiglia…

 

Le feluche, spinte dalla brezza verso il mare, scivolavano sul fiume accompagnate dallo sguardo di Sirio splendente in cielo; il quarto di luna rifletteva sull’acqua le ruvide ombre delle vele. All’estremità del molo la luce del faro fendeva la scura superficie, spianando alle barche il cammino nelle tenebre.

Affacciato alla balaustra del postale ancorato nella rada, il giovane mozzo osservava amareggiato le luci della città riflettersi in lontananza. Avrebbe preferito approdare direttamente ad Alessandria d’Egitto per riviverne i fasti trasmessi dalle antiche mura e dai monumenti lasciati dai faraoni in eredità ai posteri. In particolare il suo pensiero andava al leggendario faro considerato tra le sette meraviglie del mondo dell’epoca, la cui torre si innalzava nel cielo, così si raccontava, per 120 metri, e alla mitica biblioteca in cui erano conservati oltre 700 mila papiri, distrutta nel 280 d.C. dall’imperatore Aureliano durante il saccheggio della città. Ogni volta che ripensava a quei drammatici eventi, non poteva fare a meno di domandarsi se davvero tutti i papiri fossero andati distrutti o se molti non fossero stati messi in salvo dai curatori della biblioteca. E, in quel caso, se molte opere dell’antichità di cui si era persa ogni traccia, divenendo a loro volta leggenda perché citate da autori classici che dichiaravano di averle consultate, non fossero tuttora conservate in luoghi ignoti. Così come, tutte le volte che ripensava all’Egitto, non poteva fare a meno di andare con la mente alle piramidi e alla sfinge, chiedendosi chissà quali misteri conservassero nelle proprie viscere di pietra. Allo stesso tempo, misteriosa era la loro origine: la sua fervida fantasia si rifiutava di accettare che a costruirle fossero stati gli antichi egizi utilizzando tronchi, barconi di papiro e carrucole su cui trasportare e innalzare le migliaia di enormi massi di calcare, ognuno dal peso di diverse tonnellate, che le costituivano. Di chissà quale oscura civiltà le piramidi erano invece testimonianza! Magari della mitica Atlantide di cui per primo aveva parlato Platone nel Crizia e nel Timeo, citando il suo antenato Solone: egli riferiva di aver sentito raccontare di quel continente e della sua scomparsa nel mare, a seguito di un tremendo cataclisma, dai sacerdoti della città di Sais nel delta del Nilo che facevano risalire i fatti a un tempo remoto in cui gli dei dimoravano sulla terra.

L’eco della voce del muezzin che invocava la grandezza di Allah ruppe la notte. Il ragazzo chiuse gli occhi e inspirò profondamente affinché quella voce trasportata dal vento del deserto gli ravvivasse l’anima.

Improvvisamente le  grida disperate  di donna giunsero da poppa, sfumando il sogno.

D’istinto il giovane attraversò di corsa il ponte della nave, senza mai staccare lo sguardo dal mare. Era quasi arrivato, quando nell’acqua distinse il bambino trascinato dalla corrente verso il piroscafo che si stava lentamente allontanando dalla banchina. Pochi attimi ancora e le eliche del bastimento l’avrebbero maciullato. Senza indugio si tuffò nelle tenebre e, nuotando con forti bracciate, lo raggiunse cingendogli un braccio al collo. Incurante dei gorghi delle eliche che lentamente li risucchiavano, prese a nuotare come un folle, tirandosi appresso il bimbo nell’angoscioso tentativo di respingere la morte incombente.

Sul molo, la madre disperata fissava la scena.

Avvinghiati in un vortice, il ragazzo e il bambino si volsero a fissare terrorizzati il minaccioso roteare delle eliche, sempre più vicine, mentre erano sovrastati dall’acqua.

A un tratto, il bagliore del faro rischiarò il lato poppiero del piroscafo, consentendo al marinaio che dirigeva le manovre d’individuare tra i flutti i corpi dei due sventurati.

Tutto a babordo, tutto a babordo! Uomo in mare, uomo in mare! – urlò al timoniere affacciato all’oblò della sala comandi che subito, con un colpo secco al timone, virò, calando simultaneamente la leva sul pannello dei comandi per fermare le macchine.

Sebbene i motori si fossero spenti, per inerzia la nave continuò a spostarsi nell’acqua, arrivando a ridosso del ragazzo e del bambino, arrestandosi con l’elica alle loro spalle.

Un applauso si levò dal piroscafo e dal battello. Il pianto disperato della donna si trasformò in lacrime di gioia.

Per premiare il valore del mozzo, il comandante gli concesse un giorno di libertà, consentendogli di visitare Alessandria.

Circondato dai banchi dei mercanti assiepati nel bazar, il giovane volgeva lo sguardo sulle imponenti cupole moresche che, svettando tra i tetti delle case costruite con mattoni di fango e paglia, si ergevano al cielo come funghi giganteschi. Avanzando tra la folla si guardava intorno stordito dal caleidoscopio di colori, profumi e voci del mercato. Nell’aria l’acre odore dei narghilè, fumati dai negozianti seduti sulla soglia delle botteghe, si mischiava all’intenso aroma delle spezie e delle essenze profumate racchiuse nei sacchi e nelle piccole ampolle di vetro soffiato, esposte ordinatamente sui banchi.

Ciao! – risuonò di spalle la voce di donna.

Lui si girò. Rapito, ammirò lo splendido viso sorridergli, adornato dalla folta chioma ramata. Attraverso la lunga veste di veli rossi traspariva la sua seducente femminilità.

Con voce rotta dall’emozione, pensando si trattasse di una prostituta alla ricerca di clienti, arrossendo, rispose al saluto. Il pensiero che finalmente anche per lui fosse giunto il momento di diventare uomo lo mise in agitazione.

Non farti strane idee – disse lei, divertita, leggendogli nella mente – Volevo ringraziarti per quel che hai fatto questa notte: salvare una vita umana rischiando la propria è un nobile gesto, indelebile agli occhi degli dei. Questa è la ricompensa che meriti! – Così dicendo, allungò il braccio verso il giovane, tendendogli la mano aperta.

Una conchiglia? – si meravigliò lui, mirando la spirale di madreperla rilucere come un serpente aggrovigliato su se stesso nel palmo della donna.

Tutte le volte che ascolterai la melodia racchiusa, i tuoi sogni si realizzeranno.

Titubante, s’impossessò della conchiglia e la accostò all’orecchio. Un dolce suono gli penetrò l’animo, cancellando le inquietudini che lo turbavano.

Chiuse gli occhi, abbandonandosi alla melodia. Quando li riaprì la donna era scomparsa.

– Tieni! – disse il nonno, offrendo la conchiglia al nipote. Tenendola tra le mani, lui la alzò al soffitto ammirandola luccicare alla luce del lampadario. Un’energia indescrivibile s’irradiò dal guscio, inondandogli mente e cuore. Con cura la avvolse in uno straccio per proteggerla da eventuali urti e la ripose in una delle tasche laterali dello zaino. Percepì che quell’oggetto gli avrebbe portato fortuna, o almeno si sarebbe rivelato fondamentale per il viaggio; ma non sapeva spiegarsi perché…

CAPITOLO III

Il ragazzo entrò nello scompartimento successivo, anch’esso vuoto.

Fu tentato di andare oltre, ma sulle spalle il peso dello zaino incominciava a farsi sentire. Lo sfilò e lo poggiò sul pavimento davanti a sé per poi sedersi accanto al finestrino. Attraverso i vetri, il paesaggio verdeggiante si scioglieva allo sguardo come un film.

Di tanto in tanto il ramo di una pianta cresciuta sul margine dei binari graffiava i vetri. Trasse di tasca il cellulare per controllare se ci fossero messaggi da parte di quei pochi amici che aveva: solo cinque in cui gli si augurava “in bocca al lupo”, o “buon viaggio”.

I sacrifici con cui si divideva tra lo studio e la vigna gli avevano talmente condizionato l’esistenza da impedirgli di coltivare le normali amicizie di un ragazzo della sua età, tanto che a diciotto anni si ritrovava ad avere per lo più conoscenti con cui saltuariamente gli capitava di incontrarsi il sabato sera nella piazza del paese per fare quattro chiacchiere, bevendo una birra o mangiando un panino in un pub. A parte ciò, mai era riuscito ad avere un vero amico con cui confidarsi. Per quanto invece riguardava le ragazze, peggio che mai. Seppure le classi che aveva frequentato fossero state miste, non era mai riuscito a instaurare con qualcuna delle compagne un rapporto che andasse oltre la scuola, malgrado ci fosse una con cui gli sarebbe piaciuto ritrovarsi da solo: si chiamava Claudia, sedeva due file di banchi davanti a lui. Capelli lunghi, viso tondo, occhietti furbi, bassina, fisico proporzionato, era stata in classe con lui dal primo anno del liceo, ma mai gli aveva dato a intendere di piacerle…

Una mattina, poco prima della fine del primo quadrimestre del terzo anno, non appena suonò la campanella, Claudia gli si affiancò chiedendogli se quel pomeriggio potesse andare a studiare da lei per aiutarla a ripassare matematica, materia in cui lui primeggiava. Ascoltandola, non gli sembrò vero che quella ragazza, piaciutagli dalla prima volta che l’aveva vista, gli chiedesse di studiare insieme. D’impulso rispose di sì, dimenticando che per quel pomeriggio aveva promesso al padre che lo avrebbe aiutato alla vigna. Quando tornò a casa, euforico si sedette a tavola. Mentre pranzavano, ascoltando il padre anticipargli il lavoro che avrebbero svolto a breve, quasi si sentì male. << Papà >> disse, << più tardi un’amica mi ha chiesto di passare da lei per aiutarla in matematica >>. << Ovviamente le hai risposto di no >> osservò  l’uomo con sguardo gelido. << Le ho detto di sì >>, rispose fissando il piatto. << Hai fatto male >> riprese il genitore. << Lo sai bene che mi sono organizzato il lavoro per questo pomeriggio perché potevo contare sul tuo aiuto. Mi dispiace, la chiami e le dici che non puoi andarci >>. La madre intervenne in sua difesa offrendosi di sostituirsi a lui, ma il padre fu inflessibile: << Niente da fare, mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato, non può rifiutarsi per correre dietro a una smorfiosa! >>. La donna cercò di replicare, chiedendo il supporto del suocero che in silenzio assisteva alla scena. Anche lui fu del parere che il nipote dovesse onorare l’impegno preso con il padre perché gli uomini veri non disattendono la parola data. Per evitare ulteriori discussioni il ragazzo disse alla madre di non preoccuparsi, che avrebbe telefonato alla sua amica inventandosi una scusa. Quindi prese il cellulare dalla tasca, si alzò dalla tavola e andò a telefonare nella sua stanza. Ascoltandolo mentre cercava di giustificarsi, dall’altro lato dell’apparecchio Claudia rimase in silenzio. Alla fine disse solo, << Va bene, ciao! >>.

Il giorno dopo fuori scuola non lo degnò di uno sguardo e quando, prima di entrare in classe, lui si avvicinò per spiegarsi, lo respinse come se fosse un appestato. Ma l’umiliazione più grande la subì quando, alcuni giorni dopo, la sorprese ad amoreggiare con il bullo della classe il quale non si stancava mai di lanciare frecciatine al suo indirizzo, definendolo “zotico”, suscitando l’ilarità di tutti, lei compresa.

In realtà c’era un’altra ragazza che gli piaceva molto. Si chiamava Veronica, era figlia di un colono che collaborava con il padre durante la vendemmia. Alta quanto lui, bene in carne, aveva il viso lentigginoso cui si sposava una folta chioma rossa raccolta in una lunga treccia dietro alla nuca. Quando era tempo di vendemmia, insieme agli altri figli dei contadini, Veronica accompagnava il papà e la mamma perché quel momento rappresentava per tutti un gioco. In quelle giornate di festa, il ragazzo non perdeva occasione per osservarla di sfuggita e quando capitava che i loro sguardi s’incrociassero, entrambi volgevano subito gli occhi da un’altra parte, arrossendo. Alla madre non era sfuggito che Veronica e suo figlio si piacessero, in cuor suo sperava che lui si decidesse ad avvicinarla per esternarle i propri sentimenti. Vedendo la ritrosia del figlio nel fare il primo passo, convinta fosse timidezza, in più di un’occasione aveva cercato di infondergli coraggio dicendo, << Quando una persona ci piace, non dobbiamo vergognarci di farglielo capire. Spesso la timidezza è l’ostacolo più difficile da superare per essere felici! >>. Ascoltandola, pur comprendendo perfettamente a cosa la madre alludesse, il ragazzo non rispondeva, limitandosi a fare spallucce. Malgrado fosse consapevole di piacere a Veronica tanto quanto lei piaceva a lui, le  si teneva lontano temendo che, una volta insieme, avrebbe dovuto dire addio all’idea di viaggiare, essendo la ragazza  molto legata alla famiglia e al lavoro nei campi. Tuttavia non poteva negare che spesso pensava a lei, chiedendosi che sapore avessero i suoi baci e quale profumo emanasse il suo corpo…

Notando che la spia rossa del cellulare lampeggiava, fu colto dal dubbio di aver dimenticato a casa il caricatore. Seccato sbuffò, sapeva che senza ricevere sue notizie la madre si sarebbe allarmata, ma era certo che, alla fine, un modo per ricaricarlo lo avrebbe trovato. Rilassandosi nella poltrona, fissò lo sguardo oltre il vetro del finestrino per ammirare il panorama. Improvvisamente lo colse la stanchezza. Senza accorgersene, si addormentò.

Fu svegliato da un sordo fruscio. Lentamente riaprì gli occhi: di fronte gli sedeva uno strano personaggio impegnato a mischiare un mazzo di carte dall’insolita lunghezza.

– Ben trovato! – disse l’uomo con voce baritonale, interrompendo per un istante il vorticare delle carte tra le dita.

Il ragazzo si drizzò sul sedile. Stropicciandosi gli occhi, notò che vestiva in maniera insolita: portava un cappello dalle larghe tese che ricordavano un otto adagiato di fianco. Sulla spalla era addossato il mantello di fine velluto rosso, non certo adatto per la bella stagione da poco incominciata. Lui si preoccupò: se l’uomo avesse avuto brutte intenzioni, nello scompartimento non c’era nessuno cui avrebbe potuto chiedere aiuto.

All’improvviso lo scenario nella cornice del finestrino cambiò: alla verde prateria subentrarono le effervescenti onde del mare solcate da un cutter. La barca, con le vele spiegate al vento, in ali di schiuma puntava dritta verso lo spuntone di roccia che dalla costa declinava a mare, sparendovi dietro.

Giganteschi megaliti rosa, sulle cui cime nei loro nidi gli uccelli stavano accovacciati al sole, s’innalzavano dall’acqua su nel cielo tracciato da uno stormo di anatre.

Guardando quel paesaggio incantevole, il ragazzo sospirò.

Sprofondò la schiena nel sedile e, emozionato, ammirò di là dal vetro il panorama in continuo mutamento come le immagini di un documentario.

– Magnifico, vero? – La voce dell’uomo lo strappò a quel piacere.

– Già! – Stupito, fissava il cavaliere in groppa al bianco destriero, apparso all’improvviso dal nulla, galoppare sulla spiaggia dorata.

– Non hai la sensazione di trovarti in un’altra dimensione? – chiese lo strano personaggio. Anziché rispondere, incantato, il ragazzo continuò a seguire con la punta dell’occhio il cavaliere lanciare lo stallone al galoppo sulla battigia.

– Non ti sembra di trovarti in un universo dove la realtà è in continuo mutamento, subordinata alla fantasia? – suggerì l’uomo, mischiando le carte.

– Sì – ammise, volgendo per un istante lo sguardo su di lui.

– E’ la prima volta che viaggi, vero?

– Sì – rispose, tornando a fissare il mare increspato dal vento.

– Preferisci il mare o la montagna? – chiese.

– Entrambi!

– Impossibile! Al mondo esistono due tipi di persone, chi ama il mare e chi la montagna. Tu a quale categoria appartieni?

Il ragazzo cercò di rimettere ordine nella propria testa. Fissava con attenzione il paesaggio modificarsi davanti a sé man mano che il convoglio, rallentando, avanzava tra la fitta boscaglia ai margini dei binari. Lentamente il paesaggio marino lasciò il posto a quello campestre.

Tra i rami di un grosso fico distinse una merla imboccare i pulcini nel nido intrecciato nel tronco.

Appena il mare tornò visibile, intravide tre donne nude correre allegramente tra le onde, schizzandosi a vicenda l’acqua con i piedi e le mani. Seppur lontane, riuscì a focalizzarne i seni e gli scuri cespugli dei pubi.

Interessato si drizzò sul sedile per osservarle meglio.

Con uno strappo violento il treno imboccò la curva, inoltrandosi nuovamente nella fitta boscaglia, sottraendo allo sguardo la piacevole visione.

– Belle, vero? – disse l’uomo, abbozzando un sorriso eloquente.

Solo allora il ragazzo ricordò di non essere solo.

Turbato, abbassò gli occhi sulle scarpe dell’altro: anch’esse erano di velluto porpora come il mantello; la foggia, dalla punta leggermente piegata verso l’interno, ricordava quelle di un principe orientale o del genio della lampada.

– Mica devi vergognarti! – fece lui, divertito del suo imbarazzo – Non c’è nulla di più elettrizzante per lo sguardo maschile di una bella donna nuda intenta nell’intimità naturale dei propri gesti, inconsapevole d’essere osservata!

Udendo quelle parole, il ragazzo si rasserenò.

– Perché non si possono preferire insieme il mare e la montagna? – chiese, accennando un sorriso.

– Al mare appartengono gli individui, alla montagna le persone: tu ti senti individuo o persona? – domandò l’uomo, divenendo improvvisamente serio.

– Qual è la differenza? – chiese, grattandosi la testa. Aveva sempre considerato individuo e persona sinonimi l’uno dell’altra.*

– Non conosci il latino, vero?

Un fitto cespuglio di more graffiò il finestrino.

– No! – arrossì.

L’uomo respirò profondamente.

– Individuo deriva dal latino individuus che significa <<indivisibile>>. Persona dal latino persona, termine con cui, nell’antica Roma, ci si riferiva a un tipo di maschera utilizzata dagli attori nelle rappresentazioni teatrali. A sua volta, persona è originata dall’unione di per, che significa attraverso, e sonare, ossia suonare, ed è il termine con cui gli antichi denotavano la parte interpretata dall’attore nel dramma. Da ciò deduciamo che dichiararsi individui significa ammettere la propria indivisibilità dalla massa, trascendendo l’aspetto personale che rappresenta la maschera di cui ci disfiamo quando smettiamo di recitare il nostro ruolo sul palcoscenico della vita per tornare al sicuro tra le pareti di casa, lontano dagli sguardi altrui.

Con gli occhi luccicanti il ragazzo si raddrizzò sul sedile. Nella sua mente risuonarono le parole che il nonno ripeteva sempre mostrandogli un grappolo d’uva: <<Ricorda, figliolo, l’umanità non è altro che una moltitudine di grappoli da cui ricavare il vino della creazione. Per questo motivo ognuno di noi ha il dovere nella vita di svolgere al meglio il proprio compito, per quanto umile esso sia, al fine di evitare che il vino diventi aceto. Senza mai dimenticare che il proprio operato, sia nel bene sia nel male, influenzerà in maniera imprescindibile l’esistenza di tutti coloro con cui s’interagirà. Per il diletto del palato, un grappolo lo si può mangiare, gustandolo chicco dopo chicco, ma per quello dell’anima, cioè il vino, bisogna riunire nel tino tutti i grappoli e schiacciarli affinché le specifiche essenze si mischino tra di loro fino a confondersi, dandone vita a un’unica del tutto nuova che racchiuda in sé le caratteristiche delle singole anime che l’hanno generata. >>

Ogniqualvolta lo ascoltava ripetere quelle misteriose parole, si chiedeva cosa volesse significare, ricorrendo al padre nella speranza gli svelasse l’arcano.

<< Papà cosa voleva dire il nonno? >> chiedeva. << Devi arrivarci da solo >> gli rispondeva, lasciandolo con il dubbio, dipananto in parte dalla madre che, sorridendo, lo rassicurava: << Non affliggerti, al momento opportuno tutto ti sarà chiaro! >>.

– Preferisco il mare! – asserì convinto il ragazzo, raddrizzandosi sul sedile.

MUSEO DI NAPOLI, FINALMENTE SI MUOVE QUALCOSA. SPERIAMO SI MUOVANO ANCHE LE ISTITUZIONI.

Di seguito l’articolo integrale pubblicato su comunicaresenzafrontiere

Seppure a fatica e tra mille insidie, il Museo di Napoli, fondato e curato da Gaetano Bonelli, sta cominciando a farsi conoscere dai napoletani e dai turisti. Questo soprattutto grazie al passaparola di quanti, dopo averlo visitato, restandone affascinati, si attivano per farlo conoscere ad amici e parenti.

Allestito in uno spazio di 200 mq nella Casa dello Scugnizzo in Piazzetta San Gennaro a Materdei 3 per gentile concessione del dottor Antonio Lanzaro Presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo, Il Museo di Napoli, sarebbe meglio dire la Collezione Bonelli, consta di oltre diecimila pezzi originali tra locandine teatrali, bandi pubblici del regno borbonico e unitario, manifesti pubblicitari, foto, oggetti, documenti e tant’altro, raccolti dal curatore in oltre trentacinque anni di ricerche iniziate quando aveva appena dodici anni girando tra rigattieri e mercatini dell’antiquariato.

Il modo con cui Bonelli accoglie i visitatori è familiare, tipicamente napoletano. Prima di spalancare le porte di quella che lui a giusta ragione definisce la “stanza delle meraviglie”, li fa accomodare nel suo studio per spiegargli cosa stanno per vedere, non lesinando di “chiamare” il bar per offrirgli il caffè.

Dopo la dettagliata spiegazione, non avulsa da riferimenti critici verso le istituzioni le quali, pur avendo in più occasioni pubblicamente riconosciuto il valore storico e l’assoluta unicità della collezione, non sono mai andate al di là delle parole di prammatica o di qualche mera pergamena di encomio, l’ingresso nella sala espositiva catapulta gli ospiti in uno straordinario universo di ricordi cristallizzati nelle cornici alle pareti, nelle bacheche e nelle teche che adornano lo spazio dove è raccolta solo una minima parte dell’intera collezione, (dei locali a disposizione, al momento ne è utilizzato soltanto uno).

Nelle due ore di visita Bonelli spiega ogni singolo pezzo, partendo dal citofono di fine ottocento alla parete d’ingresso, abbinandovi aneddoti storici per sancire quanto fosse avanzato il Regno di Napoli rispetto all’Italia preunitaria. Scopriamo così che i veri inventori della mongolfiera furono i napoletani Vincenzo Lunardi e Tiberio Cavallo i quali non registrarono l’invenzione, consentendo ai fratelli francesi Montgolfier di appropriarsi del brevetto; che l’inventore della forchetta, la posata che quotidianamente usiamo a tavola per mangiare, fu Giovanni Spadaccini, gran ciambellano di corte, su ordine di re Ferdinando II di Borbone il quale, amando la pizza e gli spaghetti, chiese che si inventasse un oggetto che gli consentisse di mangiare quando era a corte ciò di cui era ghiotto senza servirsi delle mani, come era invece solito fare quando si travestiva da popolano e se ne andava in giro per la città; che Napoli aveva fabbriche di carte da gioco, di figurine di calciatori, di sigari per nulla inferiori come qualità ai toscani e agli avana, di guanti famosi in tutto il mondo, di birra e di cessi tutte ai primi posti in Europa.

Quelli di Bonelli non sono i vaneggiamenti di un nostalgico borbonico, ma di chi, nel corso degli anni, ha sacrificato la propria vita a Napoli, raccogliendo pazientemente, spendendo per giunta una fortuna, pezzi di ogni sorta che riguardassero la città. Preoccupandosi di unire l’utile al dilettevole, approfondendo in maniera certosina la storia di ogni singolo pezzo perché convinto che avrebbe acquistato valore agli occhi delle persone se fosse stato accompagnato da un pedigree.

Da grande affabulatore qual è Bonelli incanta i visitatori animando con le parole bottiglie, biglietti del tram e biglietti per piroscafi diretti oltreoceano – la White Star, la casa armatrice del Titanic, aveva navi che partivano da Napoli per le Americhe – caffettiere “napoletane”, mattonelle, timbri e matrici per carte da gioco tutte rigorosamente di produzione napoletana. Dimostrando che fin poco dopo la fine della seconda guerra mondiale Napoli continuava ad avere tante eccellenze che lentamente sono andate a scomparire, soprattutto per l’incapacità degli stessi napoletani di apprezzare quanto avevano, probabilmente perché ignoravano e tuttora ignorano la gloriosa storia della loro città. Forse perché indotti in questo da ambienti politici e culturali autoreferenziali che hanno fatto di tutto, e continuano a farlo, per cancellare ogni traccia del celebre passato di Napoli Capitale senza però proporre alternative concrete e costruttive in grado di rilanciare la città.

Oltre a oggetti e stampe di ogni genere, la Collezione Bonelli si fregia di documenti del Banco di Napoli che nemmeno la Fondazione Banco di Napoli possiede, a conferma della vastità del lavoro svolto dal suo curatore nel corso degli anni. Anche in questo caso tale lavoro è stato pubblicamente riconosciuto dai responsabili della fondazione in visita al museo per visionare quanto vi è raccolto.

Se vogliamo dirla tutta, la Collezione Bonelli è un libro sulla storia di Napoli scritto con gli oggetti quotidiani che hanno segnato gli ultimi centosessanta anni della città cui le istituzioni locali dovrebbero il giusto riconoscimento. Magari mostrandosi altrettanto sensibili come la Fondazione Casa dello Scugnizzo, mettendo a disposizione dei locali in un luogo storico dove poter esporre in maniera permanente l’intera collezione, dando modo a Napoli di fregiarsi di un Museo che la celebri in maniera così puntuale, cosa che nessun’altra città al mondo può vantare, e ai turisti di iniziare finalmente a comprendere cosa è Napoli.

Se è vero che bisogna conoscere il passato per comprendere il presente, acquisire la consapevolezza di quanto fosse all’avanguardia ed economicamente ricca la Napoli preunitaria rispetto al resto dell’Italia dell’epoca cozza con l’attualità dove appare una città in perenne disfacimento civile, sociale, urbanistico e strutturale, alla disperata ricerca di una propria identità; una città che fatica a decollare, malgrado gli sforzi delle varie amministrazioni succedutesi nel corso degli anni, dove i diritti dei cittadini garantiti dalla Costituzione qui diventano concessioni per pochi intimi da strapparsi con i denti, spesso rimettendoci qualcosa.

La Collezione Bonelli ci racconta di una Napoli al top. Com’è possibile che, all’indomani dell’unità, quella perla del mediterraneo, terza potenza economica e militare dell’epoca, sia diventata lo spettro di se stessa?

Onore alla Collezione Bonelli, la sua esistenza è una medicina per non dimenticare e, soprattutto, per ritornare a ricordare.

Chi di dovere si impegni affinché questa medicina sia disponibile per tutti, non solo per pochi privilegiati.

La presa di coscienza è la sveglia perché ogni popolo si rimbocchi le maniche e si dia da fare per costruire una società migliore per i propri figli!

Premesso che questa sveglia la si voglia dare davvero…

 

Vincenzo Giarritiello

 

IL ROGO DI “NOTRE DAME” DE PARIS, TRA REALTA’ E FANTASIA

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A seguire le considerazioni sul rogo di Notre Dame pubblicate su comunicaresenzafrontiere

Ieri sera mentre guardavo incredulo alla televisione l’incendio di Notre Dame a Parigi, il crollo della guglia mi ha ricordato quello delle “torri gemelle” di New York dell’11 settembre 2001. Con la differenza, non da poco, che mentre quella tragedia fu causata da un attentato di matrice islamica dove perirono poco meno di 3 mila persone, l’incendio di Notre Dame non ha prodotto né vittime né feriti e sarebbe da addebitarsi quasi sicuramente a negligenza umana, non a caso gli inquirenti hanno aperto un’inchiesta per incendio colposo escludendo il terrorismo.

Se per molti, non solo per i parigini, Notre Dame rappresentava un simbolo della cristianità, e dunque il suo rogo è una ferita mortale al cuore della Chiesa e dei suoi milioni di fedeli, per me essa effigiava un “libro di pietra”, definizione adottata dallo scrittore francese Victor Hugo nel suo capolavoro IL GOBBO DI NOTRE DAME. Nel libro quinto del secondo capitolo intitolato QUESTO UCCIDERA’ QUELLO, con “questo” lo scrittore si riferisce ai libri di carta prodotti mediante l’invenzione della stampa, mentre con “quello” ai libri di pietra come le cattedrali e Templi dell’antichità, sulle cui mura i costruttori avrebbero inciso sotto forma di sculture messaggi in codice racchiudendovi i misteri dell’umanità. Tali messaggi sarebbero decodificabili solo dagli iniziati, ossia coloro che abbandonano la vita comune e dopo un lungo cammino catartico fatto di studio, lavoro, preghiera e di una condotta di morigerata, assurgono al grado di INIZIATO.

Ovviamente Hugo non fu il solo a intuire – sarebbe più giusto dire “sapere” – che le cattedrali gotiche erano Templi sulle cui pareti gli antichi avevano inciso messaggi in codice. Un altro che affrontò in maniera dettagliata il tema fu l’alchimista francese Fulcanelli che scrisse due saggi, IL MISTERO DELLE CATTEDRALI e LE DIMORE FILOSOFALI, dove asseriva con l’ausilio di foto e dipinti che sulle pareti della Cattedrale di Chartres e di altre cattedrali gotiche francesi, inclusa Notre Dame a Parigi, i fregi scolpiti sulle mure e sulle colonne svelassero il mistero della Grande Opera, ossia come realizzare la trasmutazione alchemica del “piombo” in “oro”. Dove il piombo simboleggia l’uomo schiavo della materialità, mentre l’oro l’uomo spiritualizzato, cioè chiunque sacrifica la materia per elevarsi spiritualmente. Ma non solo: tali fregi, come ad esempio quelli presenti in molti templi egizi, testimonierebbero che gli antichi erano in possesso di profonde conoscenze scientifiche, ad esempio come produrre e utilizzare l’energia elettrica…

La precedente lunga premessa era indispensabile per giustificare la riproposizione su questa “pagina” delle considerazioni che scrissi sul mio blog quattro anni fa, subito dopo aver letto IL GOBBO DI NOTRE DAME. Spero sia un buon auspicio affinché in tempi brevi Notre Dame sia nuovamente riconsegnata all’umanità in tutto il suo splendore artistico, religioso e iniziatico.

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Di libri sull’ermetismo ne ho letti tanti. Così come ne ho letti diversi sul significato ermetico delle cattedrali gotiche e degli antichi insediamenti archeologici quali la piana di Giza in Egitto con le sue misteriose piramidi e la sfinge. Ogni autore, analizzando quei siti millenari, sembra faccia chissà quali scoperte legate alle origine della civiltà umana; alla presunta esistenza in un lontano passato di una civiltà tecnologicamente avanzata nella quale molti identificano l’Atlantide di cui parla Platone nel Timeo e nel Crizia.

Perfino il Fulcanelli, famoso per IL MISTERO DELLE CATTEDRALI, analizzando i portali e le statue di Notre Dames de Paris, giunge alla conclusione che quei simboli racchiuderebbero il segreto della Pietra Filosofale e farebbero riferimento a un antico passato dell’umanità sepolto nella sabbia del deserto…

Poi leggi NOTRE DAMES DE PARIS di Victor Hugo e ti rendi conto che lo scrittore francese è stato l’antesignano di tali teorie e studi; che il Fulcanelli e tutti gli altri che hanno successivamente affrontato l’argomento gli hanno semplicemente fatto il verso, prendendo spunto dal suo grandioso romanzo…

Addirittura nel 2° capitolo del libro 5° intitolato QUESTO UCCIDERà QUELLO, parlando dei “libri di pietra” uccisi da quelli stampati, riferendosi ai monumenti dell’antichità costruiti con gli stessi criteri filosofici con cui successivamente furono edificate le cattedrali gotiche, in rapporto alle piramidi d’Egitto Hugo suppone che sulla loro superficie “sono scivolate le acque del diluvio”.

Tesi che oggi tende sempre più ad accreditarsi grazie alle moderne strumentazioni atte a misurare l’età dei monumenti, anticipando di migliaia di anni la costruzione delle piramidi e della sfinge. Questa ipotesi è avvalorata negli ultimi anni dall’archeo-astronomia, neo-disciplina scientifica grazie alla quale, attraverso sofisticati software, è possibile risalire all’esatta posizione delle stelle in cielo migliaia di anni fa.

Mediante questa nuova tecnica di ricerca, prendendo in esame la piana di Ghiza con le sue piramidi e il Nilo, più studiosi sono giunti alla conclusione che il sito riproporrebbe in terra l’esatta disposizione della costellazione di Orione” così com’era circa 10.300 anni fa: le tre piramidi riprodurrebbero quella che all’epoca era l’esatta posizione in cielo delle tre stelle che ne formano la “cintura” mentre il Nilo l’equivalente posizione della Via Lattea.

Tesi ampiamente discussa e suffragata dallo scrittore britannico Graham Hancock nel suo best seller IMPRONTE DEGLI DEI. Hancock addirittura riferisce che le scanalature sulla sfinge sarebbero conseguenza dell’erosione dell’acqua e risalirebbero a oltre 9 mila anni fa, epoca dell’ultima glaciazione, dunque di un vero e proprio diluvio che si abbatté sulla terra. Inoltre egli ipotizza che la testa originale della sfinge non sarebbe quella attuale ritraente il volto del faraone Chefren, bensì tutta la struttura, non solo il corpo, in origine riproducesse un leone in riferimento alla costellazione del Leone in cui sorgeva il sole circa 10.500 anni fa. Solo successivamente, circa 2500 anni, la testa della sfinge sarebbe stata modificata in quella che conosciamo oggi…

Fantasie? Probabile! Una cosa è certa, nel suo romanzo Victor Hugo, seppure en passant, afferma che le acque del diluvio sarebbero scivolate sulle pareti delle piramidi…

Come faceva lo scrittore francese a conoscere una possibile verità che solo negli ultimi vent’anni sta tendendo ad affermarsi, seppure osteggiata dall’archeologia ufficiale?

Potere della sua geniale fantasia o che?…

Vincenzo Giarritiello

RAFFAELE BENDANDI, UN GENIO DISCONOSCIUTO PERCHE’ FALEGNAME

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Andando a ritroso nel mio blog ho ritrovato questo post che scrissi il 12 marzo del 2011, all’indomani del devastante terremoto che colpì il Giappone causando danni alla centrale atomica di Fukushima, in cui  esponevo delle considerazioni personali riguardanti l’eventualità di prevedere i terremoti…  Mi piace riproporlo.

Ogniqualvolta un terremoto devastante come quello che ieri ha colpito il Giappone, cui è seguito uno tsnunami ancora più distruttivo, scuote a morte un’area della terra, puntualmente l’indomani ci si interroga sulla possibilità concreta di poter prevedere i terremoti in maniera da avvertire la popolazione salvando un gran numero di vite. Secondo la comunità scientifica ciò non è possibile, e anche se lo fosse, sarebbe difficile individuare con precisione assoluta l’area e l’esatto momento in cui l’evento catastrofico si manifesterebbe, evacuando in tempo la zona interessata. A sostegno di questa tesi molti prendono come riferimento proprio il Giappone, terra dei terremoti per antonomasia, all’avanguardia nel campo delle costruzioni antisismiche, ma del tutto inerme di fronte all’imprevedibilità della natura. Tant’è che, escludendo la fuga radioattiva dalla centrale nucleare di Fukushima segnata dal sisma, i danni maggiori  li ha fatti lo tsnunami che si è abbattuto sulle coste del nord-est del paese spazzando via interi villaggi, strade e ferrovie, lasciandosi alle spalle un “mare” di morte e distruzione.

Alcune settimane prima del terremoto del 6 aprile 2009 che distrusse L’Aquila e comuni limitrofi, per intensità mille volte inferiore a quello del Giappone ma che provocò più crolli e vittime per colpa della disonestà di chi vi costruì case e palazzi facendo la cresta sui materiali di costruzione, il ricercatore Gianpaolo Giuliani avvertì le autorità che per la fine di marzo vi sarebbe stato un violento terremoto nell’aquilano. La sua previsione si basava sui dati ricavati dai rivelatori di gas randon da lui stesso sistemati nell’area di Sulmona in quanto ritiene, e pare non sia il solo, che poco prima di un sisma aumentino a dismisura le emissioni di questo tipo di gas nelle aree che saranno interessate dall’evento.  Giuliani si beccò una denuncia per procurato allarme ma poi il terremoto del 6 aprile dimostrò che la sua previsione non era sbagliata ma solo anticipata di circa una settimana.

Caso ancora più eclatante è quello del faentino Raffaele Bendandi il quale, osservando le maree, risultato dell’influsso gravitazionale della luna sulla terra, teorizzò che la combinzione dell’influsso lunare con quello del sole e di altri pianeti poteva determinare rivoluzioni sulla crosta terrestre tali da dare vita ai terremoti.

Secondo Bendandi “l’origine dei terremoti è prettamente cosmica”, e avverrebbe “quando nel giro mensile di una rivoluzione lunare l’azione del nostro satellite va a sommarsi a quella di altri pianeti” (per ascoltare Bendandi enunciare la sua teoria spostare su 6,50 il contatore del filmato tratto da Voyager). Per cui i terremoti sarebbero prevedibilissimi… A sostegno di queste sue speculazioni vi sono dati a dir poco inequivocabili che ne attesterebbero la validità – Bendandi previde diversi terremoti, tra cui quello del Friuli del 1976. Tuttavia nessuno gli dette mai ascolto. Eppure, anche in questo caso, la comunità scientifica pare non tenere affatto conto dei suoi studi, forse perché Bendandi applicava l’astronomia e l’astrologia alla geologia, commettendo un’eresia agli occhi degli scienziati.

Tra le 100 previsioni  di terremoti che Bendandi ci avrebbe lasciato, almeno 60 riguarderebbero l’Italia. Tra queste ve ne sarebbero almeno due che prevedono due forti terremoti nel Lazio rispettivamente l’11 maggio del 2011 e un altro ancora più devastante il 5/6 aprile del 2012 in concomitanza con altri eventi sismici che sconvolgerebbero in quel periodo l’intero pianeta tanto che in molti associano la previsione di Bendandi alla profezia dei maya secondo cui la fine del mondo si verificherebbe il 21 dicembre del 2012.

Tralasciando l’aspetto profetico, sta di fatto che negli ultimi trent’anni anche degli studiosi americani hanno elaborato una teoria per prevedere i terremoti in base agli influssi planetari sulla terra a conferma che Bendandi non era un visionario ma uno scienziato vero il cui unico torto fu quello di essere un falegname autodidatta sottostimato dai baroni della scienza.

Quanti hanno letto IL MULINO DI AMLETO di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend o IMPRONTE DEGLI DEI e CIVILTA’ SOMMERSE dello studioso inglese Graham Hancoock conoscono la teoria scientifica secondo cui, periodicamente, esattamente ogni 13 mila anni, a causa della precessione degli equinozi che determina uno squilibrio tra l’orizzonte terrestre e quello astronomico, avverrebbe un’inversione dei poli con conseguenti cataclismi epocali dove tutto ciò che geograficamente era al nord si sposterebbe al sud e viceversa. In rapporto a questa teoria il mitico continente di Atlantide non si sarebbe inabissato ma “semplicemente” sarebbe l’attuale Antartide!

Sembra che applicando la sua teoria a circa 20 mila terremoti avvenuti in passato per verificarne l’attendibilità, Bendandi calcolò che nel 10420 a.c. si verificò un evento catastrofico di dimensioni inimmaginabili tale da determinare l’inversione dei poli e probabilmente la distruzione di Atlantide dovuto all’insolita convergenza sulla terra dell’influsso di più pianeti la quale avviene ciclicamente ogni 13mila anni per cui la prossima si ripresenterebbe poco dopo il 2500.

Fantasie? Non proprio visto che finanche la stessa scienza ufficiale ammette la possibilità che nel corso dei millenni periodicamente possono manifestarsi eventi simili in rapporto alla precessione degli equinozi…

Ritornando al discorso iniziale, ossia alla possibilità  di poter prevedere i terremoti, la smentita categorica da parte degli scienziati su questa eventualità lascia interdetti. Non fosse altro perché sia le teorie di Bendandi, sia quelle più recenti, ma non nuove, di Giuliani sul gas randon vengono messe al bando a prescindere, senza essere prima verificate come si conviene. È come se un medico desse per scontato che una malattia non potrà mai curarsi, trascurando il valore essenziale della ricerca per migliorare il tenore di vita e la salute dell’umanità. Alimentando il dubbio che, anziché non potersi prevedere, i terremoti non li si vogliano prevedere. E se così fosse, perché?…

E’ evidente che a ogni distruzione consegue una ricostruzione che mette in moto una marea di soldi e di interessi privati a scapito della comunità ferita: terremoti dell’Irpinia e de L’Aquila docet!