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Il poeta e il boss (racconto)

(Foto di copertina: Caspar David Friedrich, Due uomini che contemplano la luna (1819; olio su tela, 34,9 x 43,8 cm; Ne York, The Metropolitan Museum of Art)

All’anagrafe il suo nome era Antonio C. ma fin da ragazzino tutti lo chiamavano ‘o poeta per via della sua innata verve a comporre versi, in qualunque occasione. Quando in famiglia c’era un evento importante, i familiari gli chiedevano una frase da scrivere su un biglietto d’auguri o da declamare durante una cerimonia. Tutto ciò lo faceva sentire importante. E ancora più importante iniziò a sentirsi quando, a scuola, prima i compagni di classe e poi anche i professori, venuti a conoscenza delle sue qualità poetiche, lo avvicinavano per chiedergli qualche verso da dedicare a una ragazza o a un ragazzo, a una donna o a un uomo, a un figlio o a una figlia.

Tutto andò per il verso giusto fino a quando non iniziò a lavorare. L’impatto con la realtà lavorativa gli svelò quanto fossero distanti tra loro il mondo del lavoro e quello della poesia. Se da un lato i colleghi lo cercavano perché scrivesse loro brevi frasi da riportare sui bigliettini d’auguri, dall’altro i titolari, temendo che lui sacrificasse il lavoro per la poesia trascinando anche gli altri, lo sorvegliavano nemmeno fosse il peggiore dei criminali. E non appena si presentò l’occasione per poter tagliare il personale senza incorrere nelle maglie della giustizia, il primo che fecero fuori fu lui.

Mentre i familiari e i gli amici si preoccupavano del suo futuro, lui sembrava non darci peso. Anziché impegnarsi nella ricerca di un nuovo lavoro, trascorreva giornate intere a passeggiare per le vie della città guardandosi circospetto intorno alla ricerca dell’ispirazione, fissando su di un quadernetto che portava nella tasca dei pantaloni i pensieri che gli sovvenivano. Non aveva alcuna difficoltà a ispirarsi in una bella donna che incrociava per strada, in un barbone ubriaco sdraiato sul marciapiede o in una torma schiamazzante di ragazzi che giocavano a per strada.

La sua presenza discreta e nello stesso tempo tangibile per via del suo fisico possente – era alto un metro e novanta e aveva un fisico da culturista, pur non avendo messo mai piede in palestra – per le vie dei quartieri, in particolar modo quelli dove la malavita era radicata, inizialmente suscitò preoccupazione al punto che le “vedette” lo seguivano come un’ombra temendo che fosse un Killer di un clan rivale o un infiltrato della polizia.

Quando fu chiaro a tutti che non era né l’uno né l’altro, ma solo uno “spostato”, uno che non ci stava con la testa, che scriveva poesie mentre camminava, tutti iniziarono a guardarlo con simpatia. Qualcuno addirittura iniziò a volergli bene.

Essendo una persona istruita qualcuno gli propose di dare lezioni ai ragazzini dei quartieri. Lui fu ben felice di fungere da istitutore e iniziò a collaborare con la parrocchia e con le associazioni di volontariato per il recupero dei ragazzi a rischio.

Tutto andò per il meglio fino a quando il figlio di un boss che seguiva con costanza le sue lezioni non iniziò anche lui ad appassionarsi alla poesia in maniera viscerale divenendo la sua “ombra” durante le sue lunghe e solitarie passeggiate che faceva per i vicoli.

Una mattina due uomini dai tratti somatici cruenti lo avvicinarono nei pressi di un bar e lo invitarono a seguirli. Intuendo che non poteva rifiutarsi, seppure a malincuore, ubbidì. Lo condussero in una palazzina dalla facciata fatiscente. Salirono la scalinata dagli enormi lastroni in pietra ed entrarono in un appartamento enorme, arredato in stile moderno che stonava con l’esterno sgarrupato dell’a’edificio. Era la residenza del boss del quartiere che lo attendava seduto su un trono dalle bordature di oro zecchino

<<Benvenuto, prufessò>>.

<<Grazie>>.

<<Prufessò, a me nun piace perdere tiempo, dunque vi spiego subito perché siete qui>>.

<<Posso immaginarlo>>.

<<Ah, sì? Me fa piacere, accussì mi risparmiate ‘e perdere tiempo: vuje ‘a cca ve n’ata i’!>>.

<<Perché a vostro figlio piace la poesia?>>.

<<Pe’ meza vostra, mio figlio nun se sape fa rispettà!>>:

<<Vostro figlio ha un animo nobile, ha la poesia nel cuore>>.

<<E ‘sta cosa nun va bene>>.

<<Perché?>>.

Il boss scese dal trono, gli si fece incontro, lo prese per il braccio e lo portò davanti a un enorme specchio ovale.

<<Che vedite dinto ‘o specchio?>> domandò.

<<Voi e io>>.

<<Sulamente chesto?>>

<<Che altro dovrei vedere?>>

<<Na perzona elegante e nu pezzente!>>

<<Il pezzente sarei io?>>

<<E chi, sennò? Guardate comme site cunciate: tutto spuorco, paretite nu barbone!>>

<<L’abito non fa il monaco>>.

<<E chi l’ha ditta ‘sta strunzata?>> Il boss scoppiò a ridere, una risata grassa. <<Prufessò, l’abito fa il monaco pecché quand’ l’ommo veste elegante significa ca tene e sorde>>.

<<Per voi contano solo i soldi nella vita?>>

<<Pecché, ce sta coccosa cchiù importanete de’ sorde?>> Tacque e osservò a lungo le loro immagini riflesse nello specchio. <<Prufessò, nun voglio ca mio figlio fa ‘a stessa fina vostra. A ccà ve n’ata i’!>>.

<<Se mi rifiutassi?>>.

<<Significa ca teneti curaggio, ca ‘a morte nun ve fa appaura!>>.

<<Perché dovrei temere di morire? La morte è solo un cambiamento di stato, l’anima è immortale.>>

Il boss lo fissò a lungo. <<Dunque nun ve ne volete andare?>>

<<No!>> rispose deciso.

<<E va bene>>. Il boss si rivolse ai due guardaspalla che gli avevano portato il poeta. <<Accompagnate il signore alla porta>>.

Quando fu in strada il poeta tirò un lungo respiro. Poi si incamminò tra i vicoli. Era così preso dai suoi pensieri che non si avvide della motocicletta che sopraggiungeva alle sue spalle a folle velocità. Si voltò solo quando sentì il rombo assordante riecheggiargli nelle orecchie. Fu un attimo. L’ultima cosa che vide fu la motocicletta piombargli addosso e sbalzarlo lontano dopo un volo durante il quale gli passò davanti tutta la vita.

I funerali furono fatti con una colletta degli abitanti del quartiere. La chiesa era stracolma. A celebrare il rito funebre fu lo stesso prete che segnalava al poeta i ragazzi da recuperare.

<<Chiunque abbia fatto questo, non immagina il male che ha arrecato a se stesso. Antonio era un sant’uomo. E quando si toccano i santi, si tocca Dio. E Dio non solo è amore ma è anche vendetta!>> disse concludendo la sua omelia.

Alcuni giorni dopo i funerali, il boss iniziò a sognare il poeta demaclargli le sue poesie in maniera ossessiva. Quel sogno diventò un incubo tanto che il boss non riusciva più a dormire.

Stanco e spossato dalla vita insonne, il boss una mattina chiamò suo figlio.

<<Da domani sostituisci il poeta>>.

<<In che senso?>> domandò il ragazzo incredulo.

<<Ti occuperai tu di insegnare a leggere e a scrivere ai ragazzi del quartiere. Se davvero hai la poesia nell’anima, come lui diceva, non ti sarà difficile sostituirlo>>.

<<Sei stato tu!>> mormorò fissando il padre con lo sguardo iniettato di sangue. <<Sei stato tu a ucciderlo! Perché?>>.

<<Le domande non servono a niente. Da domani tu prenderai il suo posto>>.

<<Sì, ma a una condizione>>.

<<Quale?>>

<<Indosserò i suoi abiti!>>

Il boss lo fissò a lungo in silenzio. <<Va bene>> disse alla fine.

Quando il figlio andò via, il boss si avvicinò al mobile alle sue spalle. Aprì un cassetto, prese la pistola che vi era custodita, se la puntò alla tempia e tirò il grilletto. Lo sparò riecheggiò nella casa, ma lui era ancora vivo.

Con la pistola tra le mani si parò davanti allo specchio. Il vetro non rifletteva la sua immagina.

<<Ma allora sono morto>> mormorò tra i denti.

<<No, non sei morto>>. Il poeta apparve al suo fianco. <<Te l’avevo detto, la morte è solo un cambiamento di stato. L’anima è immortale.>> Con lo sguardo indicò il corpo riverso sul pavimento in una pozza di sangue.

<<E ora che succederà?>> domandò il boss fissando il proprio cadavere.

<<Nulla. Fortunatamente ti sei lasciato intimorire dal sognarmi ripetutamente e alla fine hai messo da parte le tue reticenze e la tua prosopopea, permettendo a tuo figlio di seguire la sua strada. Ti sembrerà strano ma con questo gesto hai salvato te stesso. Ma non basterà per garantirti una vita serena nella prossima esistenza>>.

<<Cosa devo fare?>>

<<Andare in sogno a tutti quelli che erano ai tuoi ordini e infondere nelle loro anime pensieri d’amore>>.

<<Pensi davvero che basterà loro sognarmi per abbandonare il crimine?>>.

<<I sogni sono il linguaggio dell’anima. Tu coltiva i loro sogni con messaggi d’amore e vedrai come cambieranno strada.>>

<<Grazie!>> mormorò il boss.

<<Non devi ringraziare me ma te stesso!>>

<<Me stesso?>> domandò incredulo.

<<Anche tu da ragazzo, come tuo figlio, sognavi di essere un poeta, ma poi il tuo sogno lo hai chiuso a chiave nel cassetto perdendolo di vista.>>

<<Sì, è vero, mio padre mi impose di diventare un boss come lui e non ho mai più né scritto né letto poesie.>>

<<Ma la tua anima il tuo sogno da ragazzo non lo ha mai perso di vista e, con tua moglie avete concepito vostro figlio, quel sogno lo ha trasfuso in lui perché si realizzasse.>>

Il boss sorrise.

<<Te l’ho detto>> continuò il poeta <<l’anima non muore mai e con lei i nostri sogni. La morte non esiste, è solo un cambiamento di stato. Così come quando, dopo morti, ritorneremo a vivere in nuovi corpi, così i nostri sogni cambieranno di stato realizzandosi nelle vite successive o attraverso noi stessi o mediante i nostri figli. Gli uomini non sono altro che sogni in eterna espansione in quanto la vita non è altro che un sogno infinito.>>

Detto ciò sia lui che il boss si dissolsero come nebbia al sole.

Il nuovo giorno stava per nascere, un nuovo sogno stava per cominciare.

Quelle scarpette che ora pendono mestamente al chiodo sono il libro che le contengono perché queste storie sono parte della mia vita. Averle vissute lo considero un privilegio, un regalo della vita. Nulla e nessuno può cancellarle, nemmeno l’osteopenia.

Scarpette appese al chiodo ma i ricordi restano vivi.

Chiunque pratichi sport da quando era ragazzo e, raggiunta una certa età, continua inesorabilmente a praticarlo, nel corso degli anni si sarà sicuramente sentito ripetere ironicamente, “ma quando ti decidi ad appendere le scarpette al chiodo?”, se gioca a calcio o corre. Oppure, “ma quando ti decidi ad appendere al chiodo …” qualsiasi altro oggetto caratterizzi la propria passione sportiva.

Io che corro, anzi correvo, dall’età di diciannove anni – tra poco meno di un mese compirò sessant’anni – questa frase me la sono sentita ripetere centinaia di volte. E la mia risposta è stata sempre la stessa, “chi si ferma è perduto!”.

Ora che a causa di un’osteopenia che mi sta lentamente consumando l’osso della caviglia sinistra sono costretto a dover appendere per forza maggiore le scarpette al chiodo, quella frase mi riecheggia in testa in maniera ossessiva come se fosse una sorta di maledizione lanciatami inconsapevolmente e in buona fede da chi ironizzava sulla mia passione sportiva.

Per anni, da solo o con agli amici, ho macinato chilometri con il solo intento di stare bene fisicamente, rilassarmi mentalmente e divertirmi.  Fu grazie alla corsa che conobbi Gennaro con cui mi sono allenato per oltre vent’anni, cementando un’amicizia tuttora viva. E fu sempre grazie alla corsa che successivamente conobbi gli amici della Pozzuoli Marathon e mi accostai all’agonismo.

Non sono mai stato assillato dal tempo. Tuttavia devo ammettere che anche io, soprattutto in gara, mentre correvo lanciavo uno sguardo al cronometro. È inutile negarlo, corsa e tempo sono un mix imprescindibile. Il risultato finale testimonia se i sacrifici che hai fatto in allenamento hanno dato i loro frutti. Quando corri, prima di tutto ti confronti con te stesso. E l’esito del confronto è sancito dal tempo in cui chiudi la gara, ti piaccia o meno. Un secondo in più o in meno rispetto alla prestazione precedente hanno un valore inestimabile che può comprendere solo chi corre.

Al di là delle sfumature agonistiche, personalmente la corsa ha sempre rappresentato un momento di aggregazione e di divertimento. Ricordo con piacevole nostalgia le uscite mattutine con Gennaro; quelle con il gruppo di Luisa del quale faceva parte il compianto Peppe.  Le uscite domenicali con gli amici della Pozzuoli Marathon. Il pianto di gioia di Paolo durante l’ultimo lungo in vista della maratona di Roma, la sua prima maratona. Non credeva a se stesso, dopo oltre venticinque chilometri di corsa, di avere nelle gambe la forza di accelerare senza alcuna fatica: “Vince’, le gambe vanno, le gambe vanno!” urlava felice come un ragazzino con le lacrime agli occhi.

Non dimenticherò mai la dura confessione di un amico, del rancore che nutriva verso il padre per avergli imposto di andare a lavorare subito dopo aver completato la terza media mentre agli altri fratelli aveva permesso di diplomarsi e di intraprendere delle attività professionali di tutto rispetto. A un certo punto, mentre raccontava, iniziò a piangere chiedendosi “Perché? Perché solo a me ha fatto questo?”.

Non dimenticherò mai le tante sfide che inscenavamo tra di noi mentre ci allenavamo e gli sfottò al termine della “competizione”.

Non dimenticherò mai la mia prima Napoli–Pompei di 28 km; le difficoltà organizzative che la caratterizzarono e la scostumatezza di una vigilessa che, mentre transitavamo per Torre Annunziata, anziché fermare il traffico per farci passare, ci mandò candidamente a quel paese.

Non dimenticherò mai la gioia che provai quando tagliai il traguardo della Coast to Coast (Sorrento –Amalfi) Un’emozione indescrivibile testimoniata dal mio sorriso immortalato dal fotografo di gara all’arrivo dopo 34 km di corsa di cui oltre venti sui tornanti della costiera amalfitana.

Non dimenticherò mai la mia prima maratona. Decisi di correrla a Napoli, motivando quella scelta con il presupposto che, se non l’avessi terminata, avrei preso la metro per tornare a casa. In quell’occasione ad affiancarmi c’era Nunzio, amico di tante avventure in gara con il quale feci anche un pellegrinaggio a piedi da Pozzuoli a Pompei. Un momento indimenticabile che, purtroppo, non potrò ripetere sempre a causa di questa maledetta osteopenia.

Non dimenticherò mai le lunghe corse tra le colline del Casentino Toscano quando con la famiglia mi trasferivo a Raggiolo, in provincia di Arezzo, – cosa che faccio tuttora – per trascorrere le vacanze estive. Una mattina di agosto, in previsione della maratona di Firenze che si sarebbe svolta a fine novembre, corsi poco meno di trenta chilometri. Partii da San Piero in Frassino; risalii verso Poppi per poi proseguire per Bibbiena. A Bibbiena salii fin su il paese per poi scendere dal versante opposto a Corsalone e ritornare a San Piero. Un’emozione unica ma una stanchezza non da poco!

Non dimenticherò mai le risate a Telese dove eravamo per la 10 km. Pioveva a dirotto e, in attesa che si facesse l’orario della partenza, ci riparammo in uno dei gazebo allestiti per i top runner. A un certo punto entrò una hostess e cortesemente ci chiese di uscire perché quelle erano le postazione per i top runner. “Signorina, lì c’è il signor Punziano”, dissi risentito indicandogli Nunzio. “Signor Punziano, mi scusi, non l’avevo riconosciuta” rispose lei intimidita. “Non si preoccupi” rispose lui con aria di sufficienza, seduto sul divano con le gamba accavallate come se davvero fosse stato un top. Quando la poverina uscì ci fu una risata corale.

Non dimenticherò mai i tuffi a mare, subito dopo corso, la domenica mattina sul lungomare di Pozzuoli; le risate e le imprecazioni al termine di una gara; la ricerca disperata di un bagno o di un luogo appartato per svotare la vescica prima della partenza.

Non dimenticherò mai la mattina che con Gennaro intavolammo una lunga discussione su quello che entrambi reputavamo fosse il significato della vita. Per oltre un’ora, mentre correvamo, discutemmo in maniera appassionata, esponendo ognuno le proprie considerazioni. La discussione evaporò al sole nel momento in cui i nostri sguardi si posarono su due bei culi di donna che correvano davanti a noi. In un attimo Platone e la spiritualità lasciarono spazio a ragionamenti e commenti ben più pratici …

Non dimenticherò mai la telefonata allarmata di un amico che mi annunciava il decesso in allenamento di un runner di nostra conoscenza. Decesso poi smentito dallo stesso runner quando un amico chiamò a casa sua per accertarsi di quanto fondata fosse la notizia.

Non dimenticherò mai la telefonata in cui mi si annunciò che lo stesso runner oggetto della falsa notizia di alcuni mesi prima quella mattina era stato colto da un malore ed era grave in ospedale: ci lasciò dopo un mese trascorso in terapia intensiva. Paradossi della vita!

Non dimenticherò mai quella volta che, dopo quasi due settimane di stop forzato dovuto a un’influenza, seppure non fossi guarito del tutto, decisi che l’indomani mattina sarei andato a correre. Mentre mi preparavo gli indumenti per la corsa, il mio secongenito che all’epoca avrà avuto tre/quattro anni mi spiava da dietro la porta. All’improvviso corse in cucina dalla mamma e disse, “Mamma, menomale, papà è guarito, domani va a correre!”.

La corsa è stata non solo il termometro con cui misurare il mio stato di salute, ma anche il mezzo attraverso cui scaricare le tensioni della quotidianità. Quelle volte che rientravo da lavoro incazzato nero e bastava una sciocchezza perché esplodessi in maniera rabbiosa, mia moglie mi suggeriva – per essere siceri più che un suggerimento era un’imposizione -, “Perché non vai a correre?”. Sapeva che quello era l’unico modo che avevo per rilassarmi. In effetti, man mano che correvo, era come se mi alleggerissi dai pensieri e dai problemi della quotidianità, lasciando dietro di me un’invisibile scia di negatività. Quando rientravo a casa da quelle sgambate terapeutiche in cui forzavo sull’acceleratore per sconfiggere il mondo ero talmente rilassato che sembravo un agnellino.

Non dimenticherò mai lo stop obbligatorio imposto dal governo ai runner per arginare il covid. Durante il lockdown, la mattina mi alzavo all’alba, scendevo di casa e correvo facendo un’infinità di giri intorno al palazzo con la consapevolezza che dietro alle finestre qualcuno mi spiava, riconoscendo in me un potenziale untore da denunciare alle autorità. Una cosa alienante ma mai come, penso, dovesse essere correre sul balcone o in casa come in quel periodo fecero tanti runner. Qualcuno, addirittura, correndo tra le pareti domestiche, riuscì a completare una maratona: allucinante!

Non dimenticherò mai la gioia che provai quando il governo finalmente decretò che si poteva tornare a correre in strada, seppure imponendo tutta una serie di misure restrittive. Come al solito con cli amici ci davamo appuntamento giù Via Napoli, ma non dovevamo correre in più di due altrimenti rapppresentavamo un gruppo e potevamo essere sanzionati dalle autorità che vigilavano in strada. Per cui corrrevamo defilati uno dietro l’altro, alternandoci al fianco per scambiare quattro chiacchiere, tenendoci distanziati di un metro, come imposto all’epoca dalla legge, per non correre il rischio di infettarci, essere fermati e denunciati. Oggi tutto ciò sembra un’assurdità ma all’epoca era necessario per fronteggiare il “nemico” invisibile.

Poiché le scarpette vanno cambiate mediamente ogni 500/600 chilometri in quanto la suola, consumandosi, perde l’ammortizzazione diventando pericolosa per le articolazioni, negli anni di scarpette ne ho cambiate un bel po’. Ogni paio che ho calzato lo considero un quaderno su cui ho scritto le mie storie di runner.

Quelle scarpette che ora pendono mestamente al chiodo sono il libro che le contengono tutte perché queste storie sono parte della mia vita. Averle vissute lo considero un privilegio, un regalo della vita. Nulla e nessuno può cancellarle, nemmeno l’osteopenia.

L’ultima cosa che i suoi occhi stanchi di dolore videro fu lo sguardo commosso dei veterinari che le avevano provate tutte per strapparlo alla morte, dopo le orrende ferite inferte da mani di mostro per appropriarsi della sua pelliccia. Non si sa se per rivenderla o per il semplice gusto di scuoiarlo vivo. Abbandonato agonizzante sul marciapiede, il caso volle che a trovarlo in quelle pietose condizioni fosse un veterinario del canile municipale che subito lo avvolse in una coperta e lo portò in ambulatorio per cercare di curarlo con il sostegno dei colleghi.

IN RICORDO DI LEONE VITTIMA DELLA CRUDELTA’ UMANA

L’ultima cosa che i suoi occhi stanchi di dolore videro fu lo sguardo commosso dei veterinari che le avevano provate tutte per strapparlo alla morte, dopo le orrende ferite inferte da mani di mostro per appropriarsi della sua pelliccia. Non si sa se per rivenderla o per il semplice gusto di scuoiarlo vivo. Abbandonato agonizzante sul marciapiede, il caso volle che a trovarlo in quelle pietose condizioni fosse un veterinario del canile municipale che subito lo avvolse in una coperta e lo portò in ambulatorio per cercare di curarlo con il sostegno dei colleghi.

Per la tenacia con cui l’animale rispondeva alle cure, tradendo la propria voglia di vivere a ogni costo, lo avevano ribattezzato Leone. Fasciato di bende come una mummia, aveva lottato per quattro giorni tra la vita e la morte, alimentando la speranza che ce l’avrebbe fatta a sopravvivere. Purtroppo non fu cosi. Nel momento in cui esalò l’ultimo respiro, mani amorose ne ricomposero il corpo per poi fotografarlo e diffondere la foto sui social a testimonianza che, fortunatamente, nel mondo non vivono solo criminali e mostri. Ma anche anime sensibili che riconoscono agli animali pari dignità degli esseri umani. […]

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Dopo aver portato a termine senza tanti patemi la Napoli-Pompei, prima di stabilire se fosse il caso o meno di iscrivermi alla maratona di Napoli che si sarebbe corsa a febbraio del 2014, mi iscrissi alla Coast to Coast/Sorrento-Amalfi di metà dicembre: 32 km di cui oltre 20 lungo i tornanti e i saliscendi della costiera amalfitana.

Coast to Coast/Sorrento-Amalfi, una sconfinata emozione

Dopo aver portato a termine senza tanti patemi la Napoli-Pompei, prima di stabilire se fosse il caso o meno di iscrivermi alla maratona di Napoli che si sarebbe corsa a febbraio del 2014, mi iscrissi alla Coast to Coast/Sorrento-Amalfi di metà dicembre: 32 km di cui oltre 20 lungo i tornanti e i saliscendi della costiera amalfitana.

Finora quella resta in assoluto la gara più bella a cui abbia partecipato. Bella non tanto per lo scenario mozzafiato in cui si svolse – quando sei in gara, soprattutto in una tosta come la Coast To Coast, concentrato come sei a gestire le energie per non rischiare di restare a secco di benzina prima dell’arrivo, del panorama te ne preoccupi relativamente – quanto per le emozioni che mi regalò.

Ancora oggi quando ripenso a quei 32 km mi coglie una profonda emozione.

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Due settimane fa ci ha improvvisamente lasciati Gioia, la gattina randagia che adottammo – sarebbe più corretto dire “ci adottò” visto che i gatti scelgono loro il padrone. Una scomparsa improvvisa che ha lasciato un vuoto che nessuno immaginava fosse così intenso al punto da apparire quasi incolmabile.

Probabilmente molti, leggendomi, penseranno che stia esagerando. Se davvero così fosse, costoro sappiano che non li biasimo perché il primo a stupirsene sono io stesso.

Gioia la micetta bellella

Due settimane fa ci ha improvvisamente lasciati Gioia, la gattina randagia che adottammo – sarebbe più corretto dire “ci adottò” visto che i gatti scelgono loro il padrone. Una scomparsa improvvisa che ha lasciato un vuoto che nessuno immaginava fosse così intenso al punto da apparire quasi incolmabile.

Probabilmente molti, leggendomi, penseranno che stia esagerando. Se davvero così fosse, costoro sappiano che non li biasimo perché il primo a stupirsene sono io stesso.

Da che ero bambino, fino all’età di oltre vent’anni, ho vissuto in casa prima con un cane e un gatto e poi con un altro cane. Quindi vivere con un animale domestico per me è un’abitudine, eppure la scomparsa di Gioia mi ha profondamente turbato come invece non fu quella degli altri.

Forse perché mentre loro morirono di vecchiaia, Gioia è scomparsa all’improvviso nel giro di quattro giorni a causa di un linfoma che le aveva perforato la cistifellea procurandole un travaso di bile, come scoprimmo quando fummo costretti a ricoverarla di urgenza in un ospedale per animali.

Dal primo istante che a fine settembre di 6 anni fa fece la sua comparsa sul balcone di casa perché la sfamassimo – a prendersi cura di lei fu mia moglie – Gioia diventò subito un membro della famiglia e tale è stata e sarà per sempre.

Mai fummo sfiorati dal pensiero, soprattutto d’estate quando partivamo per le vacanza, di lasciarla da sola tanto era abituata a stare in strada. Ovunque andassimo, se in casa non c’era qualcuno che si occupasse di lei, la caricavamo nel trasportino e la portavamo con noi. […]

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Quando, bambino, camminando per i boschi in compagnia del nonno, si divertiva a staccare una foglia da un ramo o un ramo da un albero, o a cogliere un fiore dal prato, l’anziano lo rimproverava:

La voce della natura

Quando, bambino, camminando per i boschi in compagnia del nonno, si divertiva a staccare una foglia da un ramo, un ramo da un albero, a cogliere un fiore da un prato, l’anziano lo rimproverava:

<<Perché vuoi far del male alla natura? Non lo capisci che, così facendo, l’albero soffre?>>

<<Ma nonno è solo un albero!>> rispondeva stupito.

<<No, è una creatura vivente!>>

<<Ma se non parla né cammina?>>

<<Come puoi esserne sicuro, tu conosci la natura? Sai distinguerne le infinite voci e movimenti?>> […]

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Condannata a vivere

Condannata a vivere

Il racconto che segue appartiene alla raccolta di racconti L’UOMO CHE REALIZZAVA I SOGNI pubblicata con Amazon a dicembre 2019.

Mentre nella sala congressi del lussuoso albergo di Davos era in corso la conferenza sulla globalizzazione e sul preoccupante aumento demografico nei paesi sottosviluppati, in un remoto casolare di montagna, al confine tra Svizzera e Italia, un gruppo di sconosciuti discuteva intorno ad un tavolo rotondo. Il lampadario sospeso a mezz’aria proiettava sulle pareti le grottesche ombre dei presenti. Il fuoco del camino riscaldava l’ambiente. La discussione durò tutta la notte. All’alba, quando i primi raggi di un tiepido sole svelavano le cime innevate delle alpi, i partecipanti all’assise si alzarono soddisfatti stringendosi calorosamente le mani. Ognuno fissava compiaciuto il proprio segretario riporre nella ventiquattrore le copie del documento messo a punto.

Sul marciapiede il manifesto pubblicitario ritraeva l’uomo nel lettino d’ospedale, il volto pallido e scarno, lo sguardo spento, la maschera dell’ossigeno sul viso, la flebo nel braccio. La scheletrica mano stringeva quella della donna dall’aria triste al suo fianco. Entrambi fissavano con dolore l’obiettivo fotografico. A margine del manifesto, la didascalia recitava: CONDANNATO A VIVERE. Di lato alla foto era scritto: Philip J… nato il 23.06.1980; affetto da tumore linfatico. MALATO TERMINALE. […]

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Il racconto che segue trae spunto da un episodio veramente accaduto molti anni fa in un paese dell’entroterra campano. Il protagonista, ribattezzato dagli amici “il cavaliere” per i suoi modi distinti, purtroppo non c’è più, resta la sua indimenticabile simpatia.

La cambiale (racconto)

l racconto che segue trae spunto da un episodio veramente accaduto molti anni fa in un paese dell’entroterra campano. Il protagonista, ribattezzato dagli amici “il cavaliere” per i suoi modi distinti, purtroppo non c’è più, resta la sua indimenticabile simpatia.

Asciugandosi con il fazzolettino la fronte imperlata di sudore, la cartella di finta pelle stretta sotto braccio, l’uomo scorse attentamente i cognomi degli inquilini sulle targhette del citofono. Individuato il nome che cercava, stringendo tra le dita il kleenex, pigiò il pulsante.

“Chi è?” risuonò la voce di donna.

“Sono l’esattore comunale, cerco il sig. …?”

Il cancello si aprì automaticamente.

Mentre si accingeva ad entrare nell’atrio, l’ufficiale giudiziario tornò sui suoi passi e risuonò al citofono.

“Sì?” chiese nuovamente la voce di donna.

“Che piano?”

“Terzo!”

L’ascensore era guasta da una vita, fu costretto a salire a piedi. Affannando per le rampe, fermandosi a ogni pianerottolo per riprendere fiato, l’uomo si domandava perché chi aveva progettato quei prefabbricati avesse ideato delle scale così erte. […]

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Dal primo momento che era scoppiata la pandemia, pur essendo un medico generico, come tanti suoi colleghi si era messo a disposizione per assistere gli ammalati. Con la mascherina sul viso andava a casa di ogni paziente e lo curava attenendosi scrupolosamente ai protocolli prescritti dal ministero.

L’araba fenice

Dal primo momento che era scoppiata la pandemia, pur essendo un medico generico, come tanti suoi colleghi si era messo a disposizione per assistere gli ammalati. Con la mascherina sul viso andava a casa di ogni paziente e lo curava attenendosi scrupolosamente ai protocolli prescritti dal ministero.

Malgrado si impegnasse con tutto se stesso per sconfiggere quella che i media avevano definito la “peste del XXI secolo”, molti anziani, dopo una dolorosa agonia distesi sulle barelle in terapia intensiva e in subintensiva, erano deceduti senza nemmeno il conforto di avere accanto i propri cari, costretti a salutarli attraverso i display dei telefonini facendo loro una videochiamata aiutati dagli infermieri.

Da fervido credente nella scienza, del tutto agnostico, alternava sarcasmo e fastidio verso chi affermava che il virus fosse la punizione inviata da Dio in terra per punire l’umanità dei propri peccati. Quando ascoltava una simile affermazione, di riflesso gli veniva di rispondere che, se davvero fosse stato così, non si capiva perché il male mietesse vittime tra gli anziani e quanti era affetti da patologie pregresse, anziché scatenarsi contro chi compiva i peggiori crimini. […]

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Il seguente racconto fa parte de La Scelta, la racconta di racconti che pubblicai con le Edizioni Tracce

Chiunque avesse conosciuto Eusebio il pescatore ne parlava con devoto rispetto, ammonendo chi lo definiva “un uomo di mare!” che “Eusebio è il mare!”

Breve storia di Eusebio il pescatore

Il seguente racconto fa parte de La Scelta, la racconta di racconti che pubblicai con le Edizioni Tracce

Chiunque avesse conosciuto Eusebio il pescatore ne parlava con devoto rispetto, ammonendo chi lo definiva “un uomo di mare!” che “Eusebio è il mare!”

L’intera esistenza trascorsa a regolare il proprio respiro col flusso e riflusso delle maree, induceva Eusebio ad affermare: “Solo vivendo il mare ci si rende conto che la vita e la morte sono cucite insieme da un esile filo, pronto a spezzarsi in qualunque momento, e senza preavviso!”, indicando l’orizzonte lontano.

In quelle parole sussurrate mentre intrecciava le reti o armeggiava intorno a una nassa, non traspariva né tristezza né amarezza. Solo accettazione per un destino segnato ancora prima di nascere.

Eusebio, come ogni uomo di mare, era cosciente della sorte che l’attendeva, ma non se ne preoccupava più del dovuto perché sapeva che “il mare, prima o poi, inghiotte ciò che rese!” […]

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