GIOIA, LA MIA GATTA

Mia moglie con Gioia la prima volta che la gatta salì sul balcone di casa
Mia moglie con Gioia la prima volta che la gatta salì sul balcone di casa

La mia gatta si chiama Gioia, anche se è improprio definirla mia. Come tutti gli animali randagi che hanno la fortuna di essere accolti in casa, non appena fu nel nostro appartamento, anche lei si scelse un padrone: mia moglie che per diverse sere, senza che io ne sapessi nulla, le portava da mangiare e da bere sotto il balcone di casa dove lei si posizionava miagolando nella speranza che qualcuno la sfamasse.

Prima di proseguire nel racconto della venuta di Gioia devo però fare un passo indietro di alcuni mesi. […]

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SIGNATURE RERUM – IL SUSSURRO DELLA SIBILLA

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[…]Poggiai le valige sulla soglia della villa. Presi le chiavi dalla tasca del giubbotto e aprii l’ingresso del mio nuovo alloggio.
L’odore di chiuso ristagnante nell’ambiente testimoniava che la casa era disabitata da tempo. Ne fui sorpreso perché Stefania e Francesco amavano vivere lì. Soprattutto d’inverno, quando il tranquillo sciabordio del mare riecheggiava sulla spiaggia solitaria, permettendo di fare lunghe passeggiate sul bagnasciuga senza il pericolo di inciampare nei bagnanti stesi al sole; d’essere involontario(?) bersaglio di pallonate, o, peggio ancora, d’essere investiti dagli ombrelloni sradicati dal vento.
Entrambi concordavano che l’autunno e l’inverno erano le sta-gioni migliori per godere delle facoltà terapeutiche e spirituali del ma-re. Sostenevano che il mormorio delle onde dava voce a un mistero irrisolvibile, inducendo a una profonda riflessione su una questione, se-condo loro, fondamentale per capire la vita e l’uomo: qual è l’esatto momento in cui l’onda nasce e quello in cui muore. Tra quanti si tormentavano nella soluzione dell’enigma, vi era chi affermava che l’onda si forma nell’attimo in cui sembra morire, ossia quando si riversava sulla riva con un ultimo, rabbioso ruggito. A sostegno di questa tesi, costoro riferivano dell’allegra melodia che si levava dai filamenti di schiuma dell’onda morta allorché, insinuandosi tra i ciottoli sulla sabbia, rifluivano nel mare come anime finalmente libere dal vincolo corporale, pronte a librarsi nel cielo quasi rinascessero a nuova vita.
Sebbene il problema non avesse mai suscitato il mio interesse, quando spalancai le imposte del balcone nel salottino per cambiare aria alla casa, affacciandomi sulla spiaggia a osservare le onde rin-corrersi sul mare fui assalito dal dubbio: la morte non potrebbe essere il preludio di una nuova vita?[…]

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ESCURSIONE NELL’ALVEO DEL TEGGINA, SULLE ORME DEL FIUME

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Da sinistra: Adelio Gambini, Franco Franceschini, Bruno Luddi, Paolo Schiatti, Lorenzo Venturini, Arturo Gambini.

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Alcuni giorni dopo l’escursione in notturna sul Pratomagno, passeggiando per Raggiolo incontrai Paolo Schiatti, una delle guide di quella salita. Dopo avermi chiesto come mi sentissi, mi comunicò che stavano organizzando un’escursione fin su la Pozza del Berluzzi, a circa 900 mt di altezza, per poi ridiscendere l’alveo del Teggina fino al Ponte della Prata, un chilometro e mezzo a valle; magari camminando nell’acqua come facevano da ragazzini.

Da come me la descrisse sembrò dovesse trattarsi di un’escursione priva di difficoltà, una passeggiata o poco meno.

 

L’appuntamento è alle 8,30 di mattina in piazza. Oltre me ci sono Lorenzo Venturini, Paolo Schiatti, Adelio e Arturo Gambini, Franco Franceschini e Bruno Luddi. Tutti abbiamo superato da tempo  i cinquant’anni. Il più giovane sono io che ho completato i cinquantacinque da poco.

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Contrariamente a quanto mi era stato prospettato, che non si trattasse di una semplice passeggiata lo intuisco quando, arrivati alla pozza del Berluzzi, un’ampia vasca naturale in cui il fiume si raccoglie per poi riversarsi a valle in uno scenario da canyon, luogo prediletto dai pescatori di trote, Bruno ci fa sapere che lui e Franco ritorneranno indietro ché non se la sentono di seguirci.

 

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Istintivamente punto lo sguardo sull’enorme parete di roccia che si innalza davanti a noi e sugli enormi massi che invadono il letto del fiume, ostruendone in parte il cammino. Ci toccherà camminarci sopra e saltare dall’uno all’altro per arrivare al Ponte della Prata. Uno sforzo e un rischio notevoli che forse non si addicono a un gruppo di sessantenni come noi, seppure tutti ancora in una condizione fisica più che dignitosa.

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Dopo aver salutato Franco e Bruno, ci incamminiamo in quello scenario cinematografico che mi ricorda tanto il Signore Degli Anelli, con pareti rocciose che si elevano maestose al cielo nella perpetua penombra della fitta boscaglia e alberi che si piegano su di noi come se si inchinassero in segno di riverenza al fiume.

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Di tanto in tanto il grido di un uccello squarcia il silenzio: non mi stupirei se all’improvviso tra i cespugli  apparisse uno gnomo, un elfo o una fata…

Molte rocce affioranti dall’acqua sono schizzate di bianco come se si trattasse di pittura: “Sono gli escrementi dei rapaci che vengono qui ad abbeverarsi dopo il pasto”, mi spiega Lorenzo. A confermarlo è la carogna di una talpa riversa sulla sponda poco sopra di noi.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

 

Man mano che scendiamo verso valle, il percorso diventa sempre più impegnativo, obbligandoci a veri e propri equilibrismi tra alberi e rocce per passare da una sponda all’altra. Il fiume sfila veloce sotto di noi incuneandosi in ogni spiraglio, intonando una dolce melodia amplificata dal silenzio in cui siamo immersi .

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Mentre balziamo sulle rocce, Paolo indica le ampie chiazze  rosse che si riflettono dall’acqua facendola sembra sangue: “E’ ferro”, spiega, spostando lo sguardo su delle pietre asciutte ricoperte da un manto rossastro. Mi racconta che all’epoca dei longobardi a Raggiolo c’erano tante miniere di ferro, alcune rimaste in vita fino a molti anni fa, di cui tuttora si serba il ricordo nel nome del luogo ove sorgevano.

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Notando la mia incertezza nel muovermi sull’acciottolato umido, mi ammonisce a non mettere i piedi sulle pietre bagnate o ricoperte di muschio perché rischierei di scivolare. In effetti basta poggiare il piede su un masso bagnato e l’equilibrio diventa subito precario. Avendo calzato le scarpe da running, la suola di gomma aumenta notevolmente il rischio di scivolare. Divarico le gambe per cercare di non perdere l’equilibrio e vado avanti.

Tra di noi il più agile è Adelio, che è anche il più anziano: salta da una roccia all’altra come un capriolo. Guardarlo muoversi con tale facilità su quel ponte sconnesso di rocce non penseresti che abbia settant’uno anni… Va avanti e indietro come un ragazzino per individuare la strada migliore da seguire.

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Adelio Gambini

Strada è un eufemismo! L’unica “strada” che converrebbe prendere per non rischiare di farsi male sarebbe quella del fiume: immergersi con i piedi nell’acqua e proseguire tra i flutti fino a quando la “strada” non diventi percorribile. Pare che da ragazzi facessero così…

Per quanto mi riguarda provo a stare dietro ad Adelio, gli altri si attardano per scattare foto o ammirare il panorama circostante.

Osservando un enorme masso riverso nell’acqua, Adelio mi spiega che, come tanti altri, fu trascinato lì dall’alluvione del 58. All’epoca lui aveva nove anni: “per giorni venne giù tanta acqua da far temere che Dio avesse inviato in terra un nuovo diluvio!”

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Riprendiamo il cammino. Impreco contro me stesso per essermi portato il bastone. La sua presenza, rivelatasi fondamentale durante l’ascensione al Pratomagno, ora risulta un impedimento. Più volte faccio il pensiero di liberarmene. Mi trattengo, non sapendo cosa mi aspetta più avanti.

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Anche Paolo e Lorenzo mostrano un’agilità non comune nel saltare sulle pietre. Entrambi coltivano la passione per il tracking, quindi sono abituati a gestire simili situazioni.

Arriviamo in un punto dove è praticamente impossibile proseguire nell’alveo. L’unica soluzione è salire sul fianco sterrato del bosco, facendo attenzione a non scivolare cadendo di sotto.

Ci arrampichiamo per poi ridiscendere. Adelio scivola con i piedi di traverso sul terreno sfaldato con un’agilità da fare invidia, lo imito. Seppure a fatica, arrivo su uno spuntone di roccia. La naturalezza con cui balza sul terreno sotto di noi testimonia quanto sia abituato a cose del genere. Mi guardo intorno alla ricerca di un appiglio. Davanti a me un grosso ramo si protende nel vuoto. Penso di afferrarlo per appendermi in modo da calarmi a mia volta di sotto. Non appena lo agguanto, cede di schianto. Casco sul fondo senza alcuna conseguenze. Mi rialzo, rassicurando gli altri che va tutto bene.

Proseguiamo il nostro cammino, se si può chiamare cammino quell’inferno di pietre e massi…

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Risalendo tra gli alberi, mi benedico per aver tenuto il bastone: quell’appoggio si sta rivelando fondamentale ora che siamo costretti ad avanzare nella vegetazione sovrastante il fiume in quanto nell’alveo è impossibile procedere per via degli enormi massi di cui è ingombro.

È proprio vero, ogni impedimento è giovamento!

Seppure al Ponte della Prata non manchi molto, la fatica incomincia a farsi sentire.

Quando arriviamo al ponte, Lorenzo è scuro in viso: risalendo verso il ponte è scivolato in acqua e accusa un risentimento alla caviglia e alla mano.

Paolo ci chiede se volessimo proseguire fin giù al paese. Né Lorenzo né io ce la sentiamo. Anche Arturo preferisce seguirci sul sentiero che conduce a Raggiolo.

Manco a dirlo, Adelio gli fa compagnia!

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Mentre rientriamo, ripensando alla mia caduta, non posso fare a meno di riandare con la mente allo sventurato escursionista francese che ha perso la vita poche settimane fa nel parco del Pollino. Quando è caduto nel burrone, era da solo. Chissà, probabilmente se fosse stato in compagnia si sarebbe salvato!

A parte lo spavento per la caduta e un leggero risentimento alla gamba, non rimpiango di aver partecipato all’escursione.

Era quello l’unico modo per vedere posti che diversamente mai avrei potuto ammirare.

Certo la caduta poteva rivelarsi ben più grave, ma, quando si decide di intraprendere un’avventura, bisogna mettere in conto l’imprevisto e cercare di fare di tutto per prevenirlo o limitarne i danni ponendo la massima attenzione a quel che si fa.

Non sapremo mai se il povero escursionista francese l’avesse messo a sua volta in conto. Al di là delle tante, ipotetiche sbavature nei soccorsi, forse intraprendere da solo un’escursione come la sua è stata un’imprudenza…

Per quanto riguarda noi credo di poter affermare, senza rischio di smentita, di aver dimostrato che l’incoscienza non è un elemento puramente anagrafico. Anche a sessant’anni si può essere incoscienti come dei ragazzini. Ma solo così puoi vivere qualcosa di unico, di irripetibile.

L’importante è poterlo poi raccontare con il sorriso sulle labbra, facendo autoironia. Significa che all’incoscienza hai saputo dosare la giusta dose di buonsenso!

IL LIBRO: “RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA”

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In vendita su Amazon

“Raggiolo, frazione di Ortignano in provincia di Arezzo, a 10 km da Bibbiena, è un paese del Casentino Toscano arroccato a 600 mt sulle pendici del Pratomagno, prospiciente il mistico pano-rama de La Verna dove San Francesco ricevette le stigmate. Circa venti anni fa mio suocero, il maestro Osvaldo Petricciuolo, vi acquistò una proprietà rurale che riadattò a casa d’arte per raccogliere parte della sua ricca produzione artistica. Per anni con la mia famiglia vi abbiamo trascorso l’estate. Là i miei figli sono cresciuti tra prati, boschi, ruscelli, respirando aria pura, mangiando cibi genuini, facendo i bagni nel fiume, pescando gamberi, giocando all’aperto con gli altri bambini. Ora che sono giovani Raggiolo per loro rappresenta un bagaglio di ricordi sbiaditi che cedono il passo a quelli eccitanti dell’adolescenza che hanno il nome di una ragazza cui si associa lo smarrimento e il rapimento per la scoperta dell’amore, le goliardate con gli amici, le occupazioni scolastiche, i nauseanti postumi della sbronza, l’impagabile sensazione di scoprirsi grandi in vacanza da soli con gli amici senza l’assillo dei genitori. Anche per me Raggiolo costituisce un bagaglio di ricordi, ma, diversamente dai miei figli, più vivi che mai, seppure riferiti all’epoca in cui loro erano piccoli.”

Così incomincia questa raccolta di pensieri e racconti dove il protagonista è Raggiolo, perla del Casentino Toscano, inserito nell’esclusiva lista dei borghi più belli d’Italia, in grado di trasfondere attraverso la magica atmosfera che vi si respira un mix emozionale, suscitando nell’animo umano ataviche reminiscenza che fanno riscoprire all’uomo quanto sia intimo il proprio rapporto con la natura. Suddiviso in tredici capitoli, il libro vuole essere un omaggio a un luogo dove la dimensione umana non si è ancora persa; un’oasi naturale in cui ogni individuo può rifugiarsi per ritrovare se stesso; uno scorcio di paradiso in terra.

Buona lettura

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SIGNATURE RERUM

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Di seguito un estratto dal mio ultimo romanzo SIGNATURE RERUM-IL SUSSURRO DELLA SIBILLA 

Entrai in libreria. Oltre alla commessa seduta dietro il bancone impegnata a risolvere un cruciverba, nel locale non c’era nessun altro. Salutai con un cenno del capo e mi avvicinai alle colonne di libri che si innalzavano dal pavimento. L’aspetto miserevole di molti volumi confermava la loro lunga gestazione in magazzino, non sminuendone però il valore trattandosi di testi autorevoli.

Ero accosciato davanti a una pila di volumi per leggerne i titoli sbiaditi sui frontespizi, quando una voce familiare mi salutò:

<<Buongiorno>>

Mi voltai a fissare l’atleta che quella mattina mi aveva svegliato facendo ginnastica in giardino.

<<Buongiorno>> feci rialzandomi prontamente.

<<Le chiedo ancora scusa per questa mattina.>>

<<Non crucciarti, sono mattiniero.>>

<<Anche a lei piace leggere?>>

<<Appena il lavoro me lo consente.>>

<<Che genere preferisce?>>

<<Romanzi.>>

<<Anch’io! Ha trovato qualcosa d’interessante?>>

<<Sono appena entrato…>>

<<Venga>> disse guidandomi verso una catasta di libri addossati a uno scaffale vicino al retrobottega. <<Qui sicuramente troverà qualcosa d’interessante.>>

Mi inginocchiai per visionare i volumi.

<<Le piacciono gli scrittori sudamericani?>>

<<Ho letto qualcosa di Marquez, Borges, Coelho. Ultimamente Jorge Amado.>>

<<Se non lo avesse già letto, legga questo, sicuramente le piacerà.>> Con cautela sfilò dalla colonna di libri un volume e me lo porse.

<<L’amore al tempo del colera>> lessi.

<<Tra i romanzi di Marquez, lo ritengo in assoluto il migliore!>>

<<Ho letto Cronaca di una morte annunciata e Cent’anni di solitudine, non mi hanno entusiasmato granché.>>

<<Lo legga>> insistette.

Lessi la trama sul retro di copertina.

Prediligendo i thriller sapevo che difficilmente mi sarebbe piaciuto. Tuttavia, notando l’ansia con cui la ragazza mi guardava, decisi di acquistarlo per non deluderla.

Mentre pagavo, il volto le s’illuminò di gioia. Per un attimo la sua freschezza cacciò via le angustie dal mio animo.

 

Usciti dal negozio, dirigendoci in piazza, facemmo le presentazioni.

<<Io sono Laura>> fece porgendomi la mano.

<<Io Riccardo, e dammi del tu>> sorrisi, ricambiando la stretta.

<<Che ci fai qui?>> chiese, reclinando il capo. Lo sguardo intelligente luccicò di vita. Le orbite si restringevano ai lati conferendole un vago aspetto orientale. La parabola del naso curvava a punta sulla bocca piccola e sensuale, separata dal mento poco accentuato da una ruga sottile. La giacca a vento le nascondeva il corpo.

<<Vivi qui?>> chiesi.

<<Sono ospite della sorella di mio padre, mi sto allenando per La Quattro Laghi>>

<<Cos’è?>>

<<Una mezza maratona che attraversa passa per i quattro laghi flegrei. Malgrado siano solo 21 chilometri, è massacrante a causa dei continui saliscendi. Alla scorsa edizione mi sono classificata sesta assoluta tra le donne.>>

<<Un buon piazzamento>> osservai.

<<Sì, considerando la tendinite che mi obbligò a stare ferma per quasi sei mesi. Alla prossima, però, punto al podio!>>

La voce decisa ne palesava il carattere determinato.

<<Studi?>>

<<Sono iscritta a giurisprudenza. Vorrei fare l’avvocato. Tu di cosa ti occupi?>>

<<Lavoro in banca. Faccio il consulente finanziario>>

<<Ossia?>>

<<Suggerisco alle persone come far fruttare i propri risparmi.>>

<<Un giorno verrò a trovarti!>>

<<Possiedi dei risparmi?>>

<<Non ho un euro>> disse scoppiando a ridere. La sua ilarità mi contagiò, risi anch’io.

 

Giungemmo nella piazza assordata dai veicoli provenienti dal lungomare. Al bivio una parte delle vetture deviava verso il centro mentre l’altra proseguiva in direzione Pozzuoli. Il traffico era regolato da un’affascinante vigilessa dai capelli biondi coadiuvata da una coppia di pensionati che, muniti di palette, bloccavano i veicoli per consentire l’attraversamento ai pedoni.

 

<<Io sono arrivata>> disse Laura, fermandosi davanti la palazzina dai muri scrostati. Fui tentato di dirle che ero stato bene in sua compagnia, che mi sarebbe piaciuto rivederla. Tacqui per non apparire ridicolo.

<<Grazie per il consiglio>> feci, mostrandole la busta contenete il libro di Marquez.

<<Spero ti piacerà!>> sorrise.

Ci lasciammo con una calorosa stretta di mano.

 

Pranzai in cucina. Avvolgendo gli spaghetti alla forchetta, ripensavo a Laura, alla sua vitalità, al suo entusiasmo. Conoscevo uomini molto più grandi di me che non avevano alcuna difficoltà ad intessere una relazione con una ragazza più giovane di loro. In alcuni casi, addirittura più giovani delle loro stesse figlie.

Quando ne parlavano, tutti ammettevano che avere accanto una donna giovane come per magia annullava il peso degli anni, dissolvendo il tedio del matrimonio. Alcuni non lesinavano ad arricchire i propri racconti con particolari intimi affinché si sapesse che erano ancora nel pieno del vigore fisico. Mentre ascoltavo le loro avventure boccaccesche, mi chiedevo cosa avrei fatto se anch’io avessi incontrato una ragazza disposta ad intrecciare una relazione con me. Istintivamente il pensiero ritornò a Laura.

Poiché per carattere tendo a razionalizzare qualunque evento turbi il mio equilibrio interiore, mi imposi di considerare le inquietudini suscitate in me da Laura come logica conseguenza del difficile momento sentimentale che stavo attraversando. Ritrovarmi da solo, dopo tanti anni vissuti con Monica, era un trauma difficile da superare. Sospettai che il mio inconscio si fosse messo alla ricerca della terapia con cui riempire quell’imprevisto vuoto esistenziale. Pertanto non potevo escludere considerasse Laura la medicina per risanare le fratture del mio animo. Ripudiando ogni forma di medicinale convinto che, alla lunga, può nuocere più dello stesso male da curare, convenni che era meglio la dimenticassi; che l’unica medicina efficace per fronteggiare il difficile il momento che stavo attraversando era il trascorrere del tempo.

Ricacciai Laura dalla mente.

 

L’incessante suono del campanello alla porta mi ridestò.

Mi ero addormentato sulla poltrona davanti al televisore acceso. Filtrando dai vetri del balcone, il tramonto stemperava nel salotto smorti bagliori di luce. Chiedendomi chi fosse, andai ad aprire.

<<Ciao!>>

Il sorriso di Laura rischiarò la sera.

<<Disturbo?>> domandò.

<<Nient’affatto>> feci sorpreso e felice nello stesso tempo.

<<Posso entrare?>>

<<Certo.>> Mi spostai di lato per farla passare.

<<Carino qui>> commentò guardandosi intorno. <<E’ casa tua?>>

<<Di mia sorella.>>

Sfilandosi il giubbotto di pelle, si avvicinò alla libreria, dando uno sguardo ai libri allineati sulle mensole.

<<Dammi la giacca>> dissi.

Mentre appoggiavo il giubbotto sullo schienale della poltrona, ammirai l’asciutta compattezza del suo fisico: il seno sodo gonfiava il maglione; le gambe lunghe e i glutei muscolosi riempivano di sensualità i jeans.

<<Sorpreso?>> mi sorrise sedendosi sulla poltrona, accavallando le gambe.

<<Abbastanza>> ammisi restando in piedi, cercando di non mostrarmi imbarazzato.

<<Sono stata da un’amica che abita da queste parti. Passando ho visto la luce accesa e ho pensato di passare a salutarti.>>

<<Hai fatto bene. Gradisci qualcosa da bere?>>

<<Cosa hai?>>

<<Coca, sprite, aranciata, birra, caffè…>> elencai come un cameriere.

<<Basta>> mi stoppò divertita. <<Una coca va benissimo!>>

Seduti in poltrona, l’uno di fronte all’altra, sorseggiando la lattina di Coca Cola, Laura mi parlò della sua passione per la corsa.

<<Praticamente corro da quando ero bambina. In qualunque stagione e con qualsiasi tempo. Per me correre è vita. Non riesco a immaginarmi la mia esistenza senza la corsa. Correre mi ha insegnato a limare le spigolature del mio carattere. Per natura sono impulsiva, esuberante, aggressiva. Correndo ho imparato a frenare questi aspetti del mio essere. Quando si corre per tanti chilometri bisogna avere il buonsenso di non bruciare subito le energie altrimenti si rischia di fermarsi per strada, di non raggiungere la meta. Nella vita accade, più o meno, la stessa cosa: per realizzare un obiettivo devi partire piano per non disperdere le energie e l’entusiasmo. Senza energie ed entusiasmo non si va da nessuna parte!>>

<<Tu ne hai da vendere, di entusiasmo!>> osservai.

<<L’entusiasmo in me è fisiologico. Fa parte del mio DNA. Qualunque cosa faccia, anche la più sciocca, è sostenuta sempre dall’entusiasmo. Sai perché tante persone sono infelici?>>

<<Perché?>>

<<Perché mancano di entusiasmo. Puoi essere ricco sfondato, avere tante amanti più di Casanova, successo nel lavoro, avere la possibilità di poter viaggiare in ogni angolo del mondo, ma se manchi d’entusiasmo sei una macchina senza benzina che ha bisogno d’essere spinta dagli altri per continuare a procedere. Io non ho un soldo, non ho niente a parte l’entusiasmo, eppure sono felice. Solo il pensiero che un giorno potrei avere bisogno del sostegno degli altri per vivere mi fa stare male.>>

Abbozzai un sorriso.

<<Sono qui per ritrovare l’entusiasmo>> confessai.

<<Lo so, l’ho capito quando in libreria ti ho visto inginocchiato davanti a quella catasta di libri. Solo chi è alla disperata ricerca di qualcosa avrebbe scorso i volumi con la tua stessa frenesia. Quel che tutti cercano nella vita, senza sapere esattamente cosa, è l’entusiasmo!>>

<<Dovresti fare la psicologa invece dell’avvocato.>>

<<Valutare giuridicamente è un’analisi psicologica! Il carattere delle persone, il loro modo d’essere lo determini dal comportamento, non certo da ciò che pensano. Se ci limitassimo a giudicare le persone solo da ciò pensano rischieremmo di fare i processi alle intenzioni, rovinando la gente onesta. E sai perché?>>

<<No!>>

<<Il pensiero è come un fiume, mentre scorre trasporta con sé di tutto, sia il buono che il marcio. Sta a noi decidere cosa salvare dall’acqua e cosa invece lasciare che la corrente porti via con sé. Questa scelta rivela chi davvero siamo, essendo l’origine delle nostre azioni-. Tutto il resto pensieri e parole al vento. Non possiamo giudicare una persona né per il suo modo di pensare né perché ha detto una frase fuori luogo in un momento di rabbia o di disperazione. Siamo esseri umani, non dei: nostro dovere è limitarci a valutare i fatti!>>

Tanta saggezza in quel fiore in germoglio mi disarmò.

Mi alzai e andai al balcone. I bagliori delle case illuminate sulla dorsale del promontorio di Capo Miseno sembravano candeline accese su una torta in una stanza buia. Da dietro l’insenatura apparve il transitante bagliore delle luci di un traghetto diretto alle isole. All’orizzonte, adagiata sul mare, Capri dormiva tranquilla vegliata dal proprio faro che a intervalli regolari squarciava il buio segnalandone la presenza ai naviganti perché ne rispettassero il sonno.

Fissai Laura.

<<Credi che riuscirò a trovare l’entusiasmo?>> chiesi.

<<Si trova sempre ciò che ci appartiene … Adesso devo proprio andare, oggi ho studiato poco e voglio recuperare.>>

Si alzò porgendomi la lattina vuota.

<<Sei certo che non ti infastidisco se continuo ad allenarmi nel tuo giardino?>> domandò mentre l’aiutavo ad infilare il giubbotto.

<<Mi offendo se non la fai!>>

<<Pratichi qualche sport?>>

<<Vado in palestra tre volte a settimana. Niente d’impegnativo. Giusto un po’ di ginnastica e di pesi per tenermi in forma.>>

<<Ti piacerebbe correre con me?>>

<<Non ho l’occorrente!>>

<<Ti piacerebbe?>> insistette.

<<Certo che sì!>>

<<Vedi, soffochi l’entusiasmo per un motivo futile. Ho un amico che vende articoli sportivi. Se vuoi, domani ti porto da lui.>>

<<Va bene.>>

L’accompagnai alla porta.

Laura balzò in sella al motorino parcheggiato davanti casa e l’avviò.

<<A domani>> fece infilandosi il casco.

<<A domani>> le feci eco salutandola con la mano.

 

Mentre ero in cucina a preparare la cena, all’improvviso mi sovvenne come un flash l’immagine di mio cognato che giocava a tennis.

Come un forsennato iniziai a rovistare la casa da cima a fondo. Sembravo un investigatore che percepisce a pochi passi da sé la prova schiacciante per inchiodare il colpevole ma non riesce a trovarla. Dove potevano essere? Fissai la scalinata che saliva in soffitta. Un lampo mi attraversò la mente. Salii di corsa la rampa di scale. Aprii la porta del solaio e accesi la luce, rischiarando l’interno. La fioca lampadina illuminò la cassetta degli arnesi, le biciclette dei bambini e le scope appoggiate al muro dirimpetto, il pacco di giornali ingialliti poggiato su una sedia sgangherata, due barattoli di pittura sistemati in un angolo l’uno sull’altro, dei pennelli induriti. L’armadietto a sinistra attirò la mia attenzione. Mi avvicinai e lo aprii senza indugio. Una fila di scatole di scarpe era allineata sul ripiano centrale. Scelsi quella di una nota marca di articoli sportivi. La scoperchiai: esultai alla vista delle scarpe da tennis. Io e mio cognato calzavamo lo stesso numero. Guardai nuovamente nell’armadietto: sulla scansia in alto era appoggiata una fila di buste di cellophane contenenti indumenti sportivi. Le svuotai una ad una sul pavimento fino a quando non trovai la tuta da ginnastica di Francesco.

 

L’umidità del mattino mi penetrava nelle ossa.

In prossimità del cancello della villa, saltellavo sulla sabbia con le braccia penzoloni per riscaldarmi, scrutando sulla battigia alla ricerca di Laura.

<<Volere è potere!>> risuonò di spalle la sua voce. Mi voltai.

<<Buongiorno>> la salutai.

<<Sei qui da molto?>>

Guardai l’orologio al polso.

<<Una ventina di minuti.>>

<<Se avessi saputo che m’aspettavi, avrei aumentato l’andatura.>>

<<Non preoccuparti.>>

Mi fissò i piedi.

<<Quelle non vanno bene>> fece fissando le scarpette da tennis che calzavo. <<Sono dure e hanno la pianta stretta. Per correre servono scarpe come queste>> Alzò il piede mostrandomi le sue. <<Leggere, con la pianta larga in modo che il peso del corpo sia ammortizzato interamente dal piede senza sforzo.>>

<<Allora non si corre?>>

<<Certo che corriamo, ma, appena puoi, compra delle scarpe adatte altrimenti ti infortunerai, garantito!>>

Iniziammo a riscaldarci. Afferrando una mano alla ringhiera, stringevamo l’altra mano al collo del piede, piegando la gamba all’interno in modo da toccare col tallone la natica. Restavamo in quella posizione per diversi secondi per poi fare lo stesso con l’altra gamba. Terminati gli esercizi, Laura si piantò al mio cospetto.

<<Unisci le gambe; flettiti sul busto senza piegare le ginocchia e cerca di toccarti con le mani le punta dei piedi come faccio io>>. Così dicendo s’inarcò sulle gambe tese, poggiando sul terreno i palmi delle mani. Restò in quella posizione per un tempo interminabile.

<<Adesso provaci tu>> fece rialzandosi.

Inarcai il busto, flettendo leggermente le ginocchia.

<<Se pieghi le ginocchia sbagli l’esercizio.>>

<<Non ci riesco>> gemetti. Il sangue mi andava alla testa.

<<Sei legato>> disse tastandomi le cosce: il tocco delle sue mani mi eccitò. Mi premette la mano sulla schiena perché mi flettessi meglio sul busto. Provai un dolore lancinante.

 

Corremmo una buona mezz’ora sul lungomare, parlando di noi.

Di tanto in tanto Laura interrompeva la conversazione, preoccupata delle mie condizioni fisiche.

<<Tutto bene?>> mi chiedeva premurosa.

<<Tutto ok!>> rispondevo strizzando l’occhio.

Al rientro, in giardino, dopo aver fatto gli esercizi di scarico, mi fece sdraiare con la schiena sulla panca, controllando che eseguissi correttamente gli addominali.

Feci la mia bella figura in quanto in palestra mi sottoponevo a massacranti serie di addominali per bruciare i grassi, reggendo un peso sull’addome.

<<Bravo>> si complimentò.

Toccò a lei.

Sollevandosi sul busto la tesa muscolatura delle cosce si delineò sotto la calzamaglia. Involontariamente posai lo sguardo al tessuto aderente sotto cui si delineava il pube. Il respiro le gonfiò il seno.

<<Stanca?>> feci cercando di nascondere il turbamento suscitatomi dalla sua femminilità.

<<Per niente>> disse alzandosi. <<Ci vendiamo domani alle sette?>> domandò sistemandosi ai fianchi l’elastico della tuta.

<<Perfetto!>> risposi.

Inaspettatamente, prima di andare via, mi baciò sulla guancia.

 

Uscito dalla doccia, indossai l’accappatoio di spugna e rientrai in camera da letto. Aprii l’armadio per prendere i pantaloni. Lo specchio all’interno dell’anta rifletté la mia immagine. Accostai la faccia al vetro: qualche timida ruga solcava le estremità degli occhi. Slacciai la cinta dell’accappatoio, riflettendo il corpo nudo nello specchio. Indietreggiai di qualche passo per analizzarmi a figura intera nel vetro. Tutto sommato potevo ritenermi soddisfatto, non avevo il benché minimo accenno di pancia. Le gambe erano toniche. I pettorali definiti in modo giusto. I bicipiti manifestavano forza. Forse qualche eccesso di grasso ai fianchi …

<<Ma che sto facendo?>> pensai ad un tratto ad alta voce, provando vergogna di me stesso.

Con un colpo secco richiusi l’armadio. Mi stavo comportando alla stregua di quegli uomini che ogni giorno, mattina e sera, si mirano nello specchio terrorizzati dal pensiero di scorgere sul proprio corpo i segni del tempo. Era la prima volta che mi comportavo in quel modo ridicolo. Proprio io che non perdevo occasione di replicare a chi si lamentava del passare degli anni:  <<Le uniche certezze della vita sono il passato e la morte. Tutto il resto è solo speranza e mistero!>>

 

La mia passione per i miti virgiliani risaliva all’epoca del liceo. Tra i tanti episodi delle gesta di Enea prediligevo l’incontro tra l’eroe latino e la sibilla cumana. Cuma distava pochi chilometri da Bacoli. La giornata tersa, riscaldata da un tiepido sole, mi invogliò a visitare l’Acropoli.

 

Risalivo il viale che conduceva agli scavi, attorniato da una calca di ragazzini festosi in gita scolastica. In prossimità dell’ampia sala d’ingresso scavata nel tufo della collina su cui gli antichi avevano edificato il sacro sito, levai lo sguardo alla cima del monte. La fitta vegetazione ammantava le pendici, nascondendo agli sguardi i resti del tempio di Giove eretto sull’apice. Entrando nell’ampia sala di tufo che come un limbo separava la biglietteria dal sito archeologico, osservai i piccoli loculi scavati nelle pareti dove anticamente alloggiavano le lucerne. Non appena fui nel parco, mi accostai alla ringhiera alla mia destra e mi affacciai nel canalone sottostante da dove proveniva l’eco dei colombi annidati nelle spaccature della rupe. Sotto di me si apriva uno slargo dove un ingresso scavato nella pietra conduceva nella città sotterranea. Ammirando quel suggestivo scenario, la fantasia cominciò a galoppare: mi domandai se il complesso archeologico non fosse opera dei Cimmeri, il misterioso popolo delle tenebre, per dar vita ai loro rituali sacri. E solo dopo l’avvento dei colonizzatori greci e successivamente dei romani aveva assunto i connotati attuali con i resti dei templi di Apollo e di Giove. Dubbioso mi incamminai verso il viale alberato che rasentava il margine della collina delimitato da una lunga staccionata in ferro. Al di sotto della terrazza la fitta vegetazione della foresta di Cuma si estendeva fino ai margini della spiaggia del Fusaro. All’orizzonte, ammantata da una sottile foschia, Ischia appariva come una misteriosa signora col velo calato sul viso per nascondersi agli sguardi degli uomini.

Contemplai il suggestivo panorama quasi fossi rapito in mistica ebbrezza: non c’era da stupirsi se gli antichi avessero scelto quel luogo per onorare gli dei e se Virgilio vi avesse fatto sbarcare Enea, gettando i semi della civiltà romana. Pochi siti al mondo suscitavano malie tanto intense nella fantasia degli uomini come quel luogo la cui eterna instabilità del sottosuolo, battezzata bradisismo, caratterizzata dal periodico innalzamento e abbassamento del suolo, lo accomunava simbolicamente alla vita con i suoi alti e bassi. I periodici sommovimenti della terra, unitamente alle esalazioni dei gas che dal suolo si libravano nell’aria alterando i sensi, agli sguardi degli antichi dovettero apparire come manifestazione di una volontà suprema che aveva prescelto quel luogo per manifestarsi e comunicare con gli uomini. Da qui la scelta di edificare il sito in onore del Nume.

Fissai le pigre onde del mare svolgersi sulla spiaggia. Respirai profondamente. Senza indugio mi diressi all’antro della sibilla imboccando l’oscuro corridoio che trafiggeva la collina alle mie spalle.

Man mano che avanzavo nelle tenebre accompagnato dall’eco dei miei passi, osservando la forma del corridoio che ricordava vagamente una vagina, ebbi la sensazione di inoltrarmi nell’intimità della terra. Avanzando in quel grembo tufaceo, più volte fui colto dalla sensazione che occhi invisibili mi spiassero. Attraverso gli enormi squarci laterali intagliati sul fianco dell’antro, fasci di luce provenienti dall’esterno laceravano il buio, proiettando la mia ombra sulla parete opposta. Timoroso avanzai incontro all’ignoto fino a quando non giunsi nella sala della sibilla. Il moncone di pilastro templare posto dinanzi al tabernacolo dove la pitonessa vaticinava, accresceva di mistero l’atmosfera.

Dai meandri della memoria mi sovvenne alla mente la storia della sibilla cumana: la sibilla era una splendida fanciulla. Affascinato dalla sua bellezza Apollo, pur di averla come sacerdotessa, la tentò in ogni modo, offrendosi di esaudirne qualunque desiderio. La donna raccolse una manciata di sabbia e chiese di vivere tanti anni quanti fossero i granelli di sabbia racchiusi nel pugno. Ma dimenticò di chiedere anche il dono dell’eterna giovinezza. Il dio l’accontentò. Con lo scorrere del tempo, la sibilla scoprì d’essere caduta vittima della propria vanità e del cinismo del nume: il suo aspetto si ridusse sempre di più a quello di una larva fino a scomparire, restando percepibile solo la voce. A quel punto il dio le promise di farla restare eternamente giovane a patto che lei avesse giaciuto con lui. Pur di non perdere la propria purezza, la sibilla rifiutò. Ecco il motivo per cui, ancora oggi, c’è chi sostiene che è possibile ascoltarne la voce.

In quell’attimo una voce di donna sorse dal nulla, sussurrandomi: <<L’entusiasmo è il motore della vita. Chi soffoca l’entusiasmo uccide se stesso. Ogni uomo è un dio in embrione che solo vivendo ha modo di manifestare la propria grandezza!>>

Istintivamente mi guardai intorno alla ricerca di Laura. Intorno a me solo silenzio e oscurità. La sibilla aveva vaticinato. Era compito mio penetrare il senso delle sue parole. […]

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L’ULTIMA NOTTE

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Di seguito i primi due capitoli de L’ULTIMA NOTTE in vendita su Amazon

 

Prologo

 

Dal ripiano del tavolo, la lampada illuminava l’interno della capanna, proiettando sulla parete l’ombra del vecchio pescatore intento a  scrivere su un quaderno. Avvolto in una nuvola di fumo che gli usciva dalle narici, con le ciglia corrucciate rilesse, schiacciando sulle assi del pavimento il mozzicone di un sigaro.

” L’amore ha il potere di fissare il passato in eterno presente.”

Trasse un profondo respiro. Chiuse il quaderno e si alzò, avvicinandosi alla finestra dove, da dietro ai vetri graffiati dalla pioggia, imperversava la tempesta.

Un fulmine tracciò nell’aria una scarica luminosa che squarciò le tenebre, illuminando, in lontananza, il mare ingrossato infrangersi sulla scogliera sottostante. Seguì l’assordante boato di un tuono. Da dietro alla capanna, Julab, il suo cane, prese ad abbaiare. Sorrise pensando all’animale con cui da tempo condivideva la solitaria esistenza.

Da una vita viveva in quella capanna, mai aveva assistito a una burrasca tanto violenta.

“Forse è un segno”, pensò. E, scrollando il capo, allontanandosi, si andò a sdraiare sul letto affiancato alla parete su cui si apriva la finestra.

Con le mani dietro alla nuca, fissava il soffitto da cui giungevano i rumori delle tegole tormentate dal vento e dalla pioggia. Un tuono, più fragoroso del precedente, inondò la capanna. La struttura di legno e lamiera vibrò, al punto che le stoviglie appese al muro caddero al suolo in maniera assordante.

Percependo il freddo entrargli nelle ossa, l’uomo si infilò sotto la coperta, rannicchiato nel tentativo di scaldarsi.

La fiammella della lampada cominciò ad affievolirsi.

Si alzò per raggiungere la mensola su cui erano disposti, ordinatamente, un rasoio, un pennello da barba, dei libri ammonticchiati l’uno sull’altro, una vaso di terracotta e una rudimentale clessidra che aveva costruito da giovane, unendo e strozzando con la pece i colli di due bottiglie, dopo averne riempita una a metà con la sabbia. Da dietro al vaso ne prese una più  corta, rivestita di uno spesso strato di polvere e ragnatele, in cui vi era dell’olio. Quindi si avvicinò al tavolo e prese da un cassetto una candela e una scatola di cerini. Accese la candela, versò un po’ di cera sul tavolo e la fissò. Assicurandosi così la luce mentre cambiava il combustibile alla lampada. Accese un altro fiammifero, accostandolo allo stoppino, manovrando con sapienza il regolatore della fiamma per sprigionare un fascio di luce pulita.

Con un soffio spense la candela riponendola nel cassetto.

 

La tempesta, intanto, aumentava d’ intensità.

Preoccupato, ritornò alla finestra, per accertarsi che Julab se ne stesse al riparo nella cuccia. Appoggiò il naso sul vetro, nel tentativo di sconfiggere il fitto velo di pioggia che rendeva impossibile distinguere quanto accadeva fuori in quel momento.

Lo spegnersi della lampada gettò la capanna nel buio.

“Accidenti.”, borbottò, raggiungendo il tavolo per prendere i cerini. Ne trovò un paio, accatastati di fianco alla lampada e ne strofinò  uno sul ruvido del pavimento. L’ umidità del legno vanificò ogni tentativo.

– Perché ti ostini ad accendere? -, domandò una voce alle sue spalle.

Un bagliore rischiarò il sorriso sul volto dell’uomo. Si girò in direzione della voce per vedere a chi apparteneva, ma un’ improvvisa pesantezza agli occhi lo costrinse a chiudere le palpebre. Quando le riaprì, un’ombra indistinta, nebbiosa era lì alla finestra.

– Allora. Cosa aspetti? -, domandò, tracciando dei segni sul vetro opaco. Segni che sembravano rivolti al mare.

Nella mente del vecchio, i ricordi di un passato lontanissimo tornarono  a ravvivarsi con frenesia.

 

I

 

Il sole, alto nel cielo, generava riflessi cristallini sul mare che circondava l’isola, simile a una collana di perle. I raggi illuminavano le case basse, esaltandone i colori pastello.

Dalle finestre aperte, l’astro entrava nelle case riscaldando ogni angolo. Nell’ aria l’accattivante aroma della primavera accarezzava le creature col suo dolce tepore, inducendole ad amarsi. Nulla e nessuno sapeva resistere a quella malia.

Tutta la natura si crogiolava nell’ebbrezza dell’abbraccio creativo.

Maschi e femmine giocavano a un perpetuo rincorrersi e sfuggirsi, per  ritrovarsi, rapiti dall’oblio dell’estasi amorosa.

Approfittando della splendida giornata, i suoi genitori decisero di uscire in barca per andare a pesca. Kayfa rinunciò, perché aspettava Raoul con il quale si doveva allenare per la gara di nuoto che si sarebbe svolta tra due settimane.

Udendo il battente picchiare alla porta, convinto che fosse l’amico, uscì dal bagno. Andò ad aprire senza la preoccupazione di coprirsi.

Sull’uscio, avvolta in un coloratissimo pareo, e con un braccio infilato in un cesto colmo di frutta, c’era Miryam, un’amica della madre. Una donna splendida, nel pieno della sua maturità. I capelli, neri e setosi, le scendevano lungo la schiena fino ai glutei. Sotto il delicato indumento, il suo corpo sinuoso, dalle generose forme, svettava armoniosamente al sole, offrendo al calore dei raggi la robustezza e la fragranza dei seni color pesca. Il viso della donna, anch’ esso rischiarato dal sole, era privo di trucco.

Kayfa restò per qualche istante confuso.

Quando si accorse che lei l’osservava con interesse, per nulla imbarazzata da quella situazione, d’istinto si portò le mani tra le gambe per celare le proprie nudità.

Intenerita da quel gesto, gli sfiorò il viso con una carezza.

– Mi scusi –   balbettò , visibilmente turbato.

La donna scosse il capo, lasciando intendere che non doveva preoccuparsi.

– Posso entrare? –   domandò, continuando ad accarezzargli la guancia con la mano.

– Mamma non è in casa – fece con voce tremante.

– Non fa niente – rispose, avanzando sulla soglia. Una volta entrata, gli fece cenno di chiudere la porta, scivolandogli con la punta delle dita lungo il collo, fino a sfiorargli il  torace glabro e muscoloso. Soffermandosi a solleticargli i capezzoli che avevano assunto il caratteristico tono violaceo dell’eccitazione.

Il corpo del giovane  era tutto un fremito mentre la donna, che nel frattempo si era liberata del cesto poggiandolo su un tavolino al centro della sala, gli  massaggiava con voluttà il petto, passandogli, di tanto in tanto,  una mano tra i capelli bagnati.

– Ora sono qui per te – gli sussurrò in un orecchio, mordendogli il lobo, sorridendogli maliziosamente. In quell’istante, Kayfa comprese che stava per diventare uomo.

 

Le gambe presero a tremare e le viscere a rivoltarsi nell’addome.

Cercò nei meandri della mente qualunque cosa potesse tornargli utile per mascherare la propria inesperienza.

Come d’abitudine per i ragazzi della sua età, ascoltava con interesse i discorsi dei più grandi relativi al sesso, in modo da farsi una cultura a cui poter attingere al momento opportuno onde evitare figuracce.

Il momento era giunto.

– Allora, cosa aspetti? –  chiese lei con voce sommessa, slacciandosi il pareo e fissandolo intensamente con due occhi neri e scintillanti. Offrendo al suo sguardo intimorito lo splendore naturale del suo corpo maturo.

 

” La stringi forte tra le braccia e la baci lungo il collo, mentre con le mani le sfiori i fianchi.”, ricordava aver sentito dire da qualcuno.  “Quando la baci, appoggi delicatamente le tue labbra sulle sue, schiudendole in modo che le vostre lingue si incrocino, è bellissimo!”, aveva sentito da qualcun altro. Ma la cosa più importante l’ascoltò da Omar, il pescatore di spugne con il quale spesso si fermava a dialogare. Facendosi coraggio, una mattina, approfittando che Omar gli stava raccontando delle proprie avventure amorose da giovane, aveva trovato la forza di chiedergli cosa bisognava fare quando si incontrava una donna per la prima volta.

“Non preoccuparti figliolo”, lo rassicurò. “Quando anche per te giungerà il momento, lasciati guidare dal cuore. Ma, soprattutto, lascia che a guidarti sia lei, chiunque essa sia. Le donne imparano presto e sanno essere delle maestre giudiziose. Non ti preoccupare e sii naturale. Solo così potrai essere certo che tutto andrà bene. Voler apparire ciò che non si è nella vita si risolve sempre contro noi stessi”.

 

Adesso, quelle parole gli ritornavano in mente, fissando Miryam che si accostava a sé con il suo corpo profumato di mare al suo, desiderosa di essere posseduta. Accarezzandolo tra le gambe al fine di stimolarne la virilità, ridotta a un pezzetto di carne raggrinzita.

Intuendo che per lui quella era la prima volta, Miryam tramutò se stessa in vergine, riacquistando spiritualmente la purezza donata in gioventù a un uomo che, dopo averla sposata, regalandole l’illusione dell’amore, successivamente, alle morbide onde del suo corpo aveva preferito quelle fredde del mare. Abbandonandola a un solitario destino su quell’isola, su cui, per vivere, era stata spesso costretta a cedere  alle lusinghe di quanti smaniavano di giacere con lei. Nutrendo un profondo rancore verso la vita che si era mostrata così crudele nei suoi confronti, privandola della madre, morta nel darla alla luce, e poi del padre, scomparso in mare durante una tempesta quando non aveva ancora un anno. Costringendola a vivere con la nonna materna fino al giorno del matrimonio, e in seguito da sola.

L’unica persona che non l’aveva mai abbandonata, niente affatto preoccupata della fama che l’accompagnava, era la madre di Kayfa.

 

Appassionatamente, senza tregua, si amarono fino a che i contorni dell’ orizzonte assunsero il tono purpureo del tramonto, ora in cui i pescatori rientravano.

Ravvivandosi i capelli con le mani, Miryam si alzò dal pavimento che aveva funto da giaciglio.

Nella stanza, il profumo dei loro corpi si mischiava a quello del mare proveniente dalla finestra, con la tenda di paglia prudentemente abbassata per evitare che sguardi indiscreti sorprendessero la loro intimità.

Un solo momento di panico li aveva colti: quando Raoul bussò con insistenza alla porta.

* * *

– Mio Dio. E’ Raoul – gemette Kayfa, nell’udire la voce dell’ amico gridare il suo nome –  Dovevamo andare ad allenarci -, aggiunse con espressione sognante, risultato delle carezze e dei baci con cui Miryam lo stordiva cavalcandogli il ventre.

– Lascia che bussi – mormorò estatica, riversando la cascata di capelli corvini sul viso di lui che accennò a un timido moto di ribellione per divincolarsi dalla stretta. Sortendo, invece, l’effetto di accrescere l’eccitazione di entrambi fino al culmine del piacere.

II

 

I raggi del sole attraversavano le liste della tenda, proiettando sul corpo di Miryam tanti punti luminosi, dando l’ impressione che la sua pelle fosse maculata al pari di un leopardo.

– Sei bellissima – fece Kayfa, steso sul pavimento con le mani giunte   dietro la nuca, ammirandola riavvolgersi nel pareo.

– Anche tu – rispose, accostando la punta dell’indice alle labbra. Posandola, quindi, su quelle di lui, in un ipotetico bacio.

– Quando ci rivediamo? – chiese Kayfa, sedendosi sul pavimento con le gambe incrociate.

– Al più presto – rispose, passandosi le mani lungo i fianchi perché l’indumento aderisse ai lineamenti del suo corpo – Adesso devo andare – aggiunse, chinandosi a baciare sulla fronte il giovane amante.

– Quando ci rivediamo? – chiese nuovamente Kayfa, balzando in piedi e afferrandole i polsi, preoccupato di non farle male.

Sorridendo, Miryam accostò le labbra alle sue:

– Domani alle quattro – sussurrò – Vicino allo “scoglio dei gabbiani” – E lo baciò con passione prima di avviarsi verso la porta. Aprendola, dopo essersi assicurata che non sopraggiungeva nessuno.

 

– Allora, come è andata? – chiese sua madre, entrando nella stanza dove  Kayfa, seduto sul letto, leggeva un libro.

– Non tanto bene – mentì, continuando a fissare le pagine aperte.

– Che significa “non tanto bene”? – chiese, baciandolo sulla fronte – Tu e Raoul avete per caso litigato? –  e si sedette sul bordo del letto in attesa di spiegazioni.

– Ho avvertito un malessere – continuò a mentire, chiudendo il libro e cercando di sfuggire lo sguardo perplesso con cui la donna lo fissava.

– Mio Dio – esclamò allarmata, prendendogli tra le dita il mento per osservare il viso – Hai un’aria affaticata – ammise. Istintivamente allungò la mano sulla fronte per controllare se avesse la febbre – E cosa ti sei sentito? –  riprese, tranquillizzata dal fresco percepito sui polpastrelli.

– Mal di stomaco – Kayfa sentì il sangue affluirgli alla testa per la rabbia e la vergogna che provava in quel momento. Prima di allora non aveva mai mentito a sua madre.

– Cosa hai mangiato questa mattina a colazione? – incalzò lei.

– Tè e biscotti – si affrettò a rispondere.

–  Evidentemente ti avrà fatto male qualcosa che hai mangiato ieri sera a cena –   concluse. E si alzò per avviarsi presso la finestra spalancata sulla baia, da dove giungeva il frinire delle cicale.

Le stelle bucavano il terso cielo della sera. Si appoggiò con le mani al davanzale per ammirare il panorama.

– E’ stata una splendida giornata – sospirò.

In lontananza, un peschereccio illuminato lanciò un “urlo”.

– La pesca è stata abbondante e tuo padre è ancora giù al porto per trattare il prezzo del pesce. Non immagini quanto sia felice.   .

– Sono contento – sorrise Kayfa portandosi al suo fianco.

– Ho visto sul tavolino dell’ingresso il cesto per la frutta che avevo prestato a Miryam. Quando è passata? – domandò, sistemandosi la gonna sul davanti.

Kayfa si sforzò di controllare l’imbarazzo che provava – Questa mattina, sul tardi – rispose deglutendo.

– Miryam è una carissima ragazza – sorrise lei – Peccato non sia stata baciata dalla fortuna. Non è cattiva come dicono, sai? – concluse, uscendo dalla stanza.

– Sì mamma – mormorò, rivolto all’arco d’argento che si stagliava nel cielo.

 

Distesi sul bagnasciuga, i corpi nudi di Miryam e Kayfa, travolti dalla passione, erano in balia delle carezze del mare.

Di tanto in tanto un gabbiano planava sullo spuntone di roccia lavica, dietro cui si erano dati appuntamento il giorno prima, per librarsi in volo  appena posava lo sguardo sulla strana creatura a due teste che si dimenava nell’acqua con degli strani suoni  gutturali.

Scossi dalle convulsioni dell’amore, i due amanti si fissavano con occhi sbarrati. Le mani intrecciate in una stretta morsa, che si allentò nell’ attimo in cui il flusso umorale defluì dai canali naturali, disperdendo nel vento l’acuta nota dell’ incanto d’amore.

 

– E’ stato splendido – sussurrò Miryam, sdraiata su di un fianco nell’ acqua, scorrendo con la punta delle dita i tratti acerbi di lui.

Immerso con la schiena nel ribollio della risacca, Kayfa ammirava le evoluzioni di un gabbiano. Udendo quelle parole, rivolse lo sguardo a Miryam che lo fissava con un dolce sorriso su cui si stemperavano gocce di mare, passandole una mano tra i capelli bagnati intrisi di sabbia e salsedine.

– I tuoi capelli hanno bisogno di una sistemata – mormorò.

La donna esaminò con cura una ciocca.

– Che importa – dichiarò divertita. Con impeto si gettò su di lui, abbracciandolo in modo che le loro guance si sfiorassero.

Da lontano, smorzati dal mare, giungevano gli echi delle voci dei pescatori che issavano le reti.

– Sei felice? – chiese Miryam con un sorriso, sfiorandogli l’orecchio con le labbra.

– Tanto. E tu? – le domandò tenendosi sui gomiti e fissandola con intensità negli occhi.

–  Abbastanza –  ammise lei, dopo un istante di riflessione.

–  Come abbastanza? – scattò preoccupato.

– Stupido – rise – Certo che sono felice – E spingendolo con la schiena nell’ acqua, lo baciò con passione.

Ancora una volta, i loro corpi si intrecciarono nei sussulti dell’amore. Questa volta fu Kayfa a sottomettere la natura di lei. Miryam lo lasciò fare, desiderosa di essere schiava del suo ardore, gemendo di piacere  all’ardire con cui il giovane le violava l’ intimo. L’apice li travolse all’unisono. Le labbra, unite in un caloroso bacio, trasfusero nelle loro anime l’armoniosa melodia che si levò dall’ esaltazione dei sensi. I cuori vibrarono in un ritmo assordante che si placò allorché l’ultimo sussulto di piacere scosse i due amanti.

Esausti, si accasciarono felici nell’acqua cristallina.

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IL LIBRO: LE MIE RAGAZZE-RAGAZZE ROM SCRIVONO

le mie ragazze

Le chiamerò semplicemente le mie ragazze perché dopo gli incontri tenuti nell’IPM di Nisida da fine giugno agli inizi di luglio del 2006 per impartire loro qualche nozione di scrittura creativa, non posso che considerarle tali. Ovviamente mie non va inteso come aggettivo possessivo, bensì deve intendersi in chiave spirituale.

Nelle sei settimane in cui ci siamo incontrati, ognuna di loro, a modo suo, mi ha dato qualcosa. Ognuna di loro col suo sorriso, la sua tristezza, la sua voce, il suo silenzio mi ha aiutato a capire, anche se solo in minima parte, un mondo a me noto solo attraverso le immagini stereotipate di bambini/e, ragazze/i ferme/i ai semafori che cercano di lavarti il vetro del parabrezza o di venderti un pacchetto di fazzolettini di carta vestiti in maniera trasandata e puzzolente; di gruppi di donne con neonati tra le braccia accovacciate per a terra mangiare con le mani sudice cibi di dubbia qualità e provenienza, la cui vista da lontano ti disgusta al punto da indurti ad attraversare la strada.

Sembrerà strano ma Le Mie Ragazze mi obbligarono a cercare di comprendere quest’esistenza volutamente vissuta senza pentimenti ai margini della società. Frutto di una cultura popolare per noi inammissibile che riconosce nel vagabondaggio, nell’accattonaggio e, molto spesso, nel furto gli unici mezzi di sostentamento. Una cultura dove i bambini piccoli sono un mezzo per attuare tali principi in quanto non sono perseguibili dalla legge.

Le mie ragazze non avevano più di diciassette anni. Alcune erano davvero belle, altre avevano un fascino magnetico. Quando discutevamo, la loro allegria era così contagiosa che a stento riuscivo a frenare l’ilarità per non dare di me un’immagine faceta, rischiando di perdere l’ascendente che avevo su di loro. Forse qualcuna ha iniziato anche a volermi bene, o a vedermi con occhi “diversi”…

Quest’ultimo aspetto lo percepivo dall’intensità di alcuni sguardi… In quei momenti mi sentivo in imbarazzo!

Quando iniziai gli incontri avevo messo in conto anche quella possibilità in quanto alla loro età qualsiasi ragazza è già donna. Figuriamoci loro che non sanno cosa significhi l’infanzia; che non appena hanno le loro prime regole vengono date in spose affinché mettano al mondo dei figli; che in quel caso specifico restano a lungo imprigionate senza alcuna possibilità d’incontrare un coetaneo, se non sotto stretta sorveglianza e in momenti particolari.

Rientrando a casa, ripensando a quegli sguardi di desiderio e alle frasi allusive che spesso li accompagnavano, sorridevo lusingato. Ma il compiacimento si arrestava lì. Esistono limiti che alla mente non è concesso oltrepassare!

Le mie ragazze erano belle! E ancor più belle erano l’ultimo sabato che ci vedemmo. Dai lori volti traspariva speranza di libertà per via della discussione in parlamento sull’approvazione dell’indulto. Qualcuna già sognava di riabbracciare il marito e i figli – avete letto bene, “il marito e i figli”; qualcun’altra sognava di cambiare vita; qualcun’altra, più realisticamente, sperava di rientrare in carcere il più tardi possibile perché “rubare appartiene al mio DNA”. Disse proprio così!

Fu bello condividere con loro quelle settimane, leggere sui lori volti e nei loro sguardi le continue mutazioni delle loro anime. E’ stato bello sapere che per un momento le loro menti hanno pensato in maniera diversa dal solito, meditando sugli errori commessi, (cosa che già facevano prima di incontrare me, ma in maniera differente. Almeno così dissero…).

Fu bello essere lì con loro illuminandomi dei loro sorrisi, commuovendomi delle loro lacrime, raccogliere nel mio cuore i loro pentimenti, la loro rabbia, la loro voglia di vivere, di amare, di sentirsi donne.

Fu bello ricevere i loro baci sulle guance prima di andare via per sempre.

Fu commovente sentire alle mie spalle, mentre m’incamminavo per l’ultima volta verso l’uscita, la voce di una di loro sussurrare “Addio istruttore!”

Se volete leggere l’intero diario di quelle 6 settimane non vi resta che acquistare il libro. Sono convinto che non ve ne pentirete.

Buona lettura!

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INCIPIT DEL MIO PROSSIMO ROMANZO

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Di seguito l’incipit del nuovo romanzo che spero di pubblicare per la fine dell’anno. 

PROLOGO

All’orizzonte il tramonto srotolava sul mare un tappeto di stelle. L’ombra del promontorio spruzzato di viti si stemperava sull’acqua increspata dallo zefiro. L’incanto del sogno, frammisto all’aria fragrante di sale e agrumi, spingeva le barche, dalle vele ingravidate dal vento, oltre i limiti del mondo.

Avanzando a piedi nudi sulla battigia, il ragazzo osservava le onde inseguirsi sul mare come pagine di un libro sfogliate velocemente, da cui sciamavano nella sua mente desiderosa d’emozioni leggendarie città, continenti scomparsi o lontani, civiltà misteriose, uomini senza scrupoli, maghi bianchi e neri, donne prodighe d’amore. Ciononostante, un’arcana forza lo legava alla collina che s’innalzava alle proprie spalle.

Tutte le mattine scendeva sulla spiaggia a mirare le imbarcazioni dirigersi verso l’ignoto. Quando il fischio del treno si levava attraverso la vegetazione che ammantava l’altura, un sorriso amaro ne feriva il volto.

Una sera, mentre rientrava a casa, salendo il sentiero che conduceva al podere di famiglia, trovò una stella marina. Rigirandola a lungo tra le mani, pensò fosse il destino d’ogni creatura che sfuggiva al proprio mondo inaridirsi fino a morirne. Quel pensiero accrebbe in lui la rabbia. Di slancio si girò e gettò la stella nel vuoto in direzione del mare.

Osservando i propri sogni dissolversi nell’aria, si chiese se un giorno li avrebbe ritrovati…

CAPITOLO I

Il treno a diesel, sferragliando, si arrestò sui binari della piccola stazione di campagna. Impaurito dallo stridore dei freni, uno stormo di tortore schizzò via in volo dagli alberi.

Sul margine del marciapiede assolato lo attendeva il capostazione dal viso tondo e gioviale da cui si effondeva un profondo senso di tranquillità, prerogativa di quanti vivono in luoghi ameni e nelle cui anime sembrano trasfondersi la purezza e la leggerezza della quieta atmosfera che respirano.

Il ferroviere, impettito nell’uniforme di stoffa leggera colore del cielo all’imbrunire che pareva essergli stata cucita addosso, osservava l’uomo, la donna e il ragazzo con lo zaino sulle spalle uscire dalla sala d’attesa per raggiungere l’ultima carrozza.

– Abbi cura di te! – sospirò la donna, guardando con tristezza il figlio aprire lo sportello. Gli occhi verdi, resi umidi dall’emozione, scintillavano al sole come gemme preziose.

– Non temere, mamma – la rassicurò – Appena arrivo ti chiamo – aggiunse tirando fuori dalla tasca dei pantaloni il cellulare.

– Allora, hai deciso dove andare? – chiese il padre fissandolo negli occhi.

– Deciderò strada facendo – rispose pensieroso, abbassando la maniglia.

Il ragazzo assomigliava in maniera impressionante alla madre, tuttavia il tratto degli occhi ricalcava il disegno paterno.

– Qualunque cosa ti accada, ricorda che potrai sempre contare su di noi! – disse l’uomo, dando l’impressione di pronunciare quelle parole per pura formalità.

– Non temere – mormorò lui, spingendo con rabbia lo sportello. – Non mi accadrà nulla di spiacevole!

– Lo spero! – La sprezzante risposta sortì l’effetto di una stilettata al cuore del giovane.

– In carrozza, si parte! – La voce del capostazione pose fine ai saluti. Con un profondo respiro il ragazzo si aggrappò al corrimano e di slancio salì nel vagone. Richiuse lo sportello dietro di sé e si avviò nello scompartimento che si apriva al proprio sguardo.

Al fischio del capostazione il convoglio cominciò a muoversi a scossoni inoltrandosi lentamente nella fitta vegetazione che cresceva ai margini delle rotaie, lasciandosi alle spalle l’uomo e la donna che lo fissavano allontanarsi tra le fronde portando via con sé il loro unico figlio nato dopo cinque anni di matrimonio. Il tardo concepimento non era frutto né di una scelta ponderata da entrambi, né conseguente a un problema di fertilità, ma semplicemente perché la vita aveva voluto così, impedendogli di mettere al mondo quella prole numerosa che sognavano da fidanzati. Com’era accaduto ai genitori di suo padre, i quali avevano concepito il loro unico figlio subito dopo il matrimonio e poi più nulla, seppure entrambi fossero sani e desiderassero averne altri. Uno dei tanti misteri della vita che segnano l’esistenza di molte coppie, privandole del piacere di una famiglia numerosa.

Con le mani strette ai tiranti dello zaino, il ragazzo entrò nella carrozza deserta.

Osservò le fila di sedili tristemente vuoti, separate dallo stretto corridoio che immetteva nello scompartimento successivo, chiedendosi se anche in quello non ci fosse nessuno.

La curiosità lo spinse a varcare la soglia.

Avanzando tra la schiera di poltroncine, si domandò se quel deserto non giustificasse le perplessità del padre sulla sua decisione di partire quando gliela aveva comunicata…

Sdraiati all’ombra di un ulivo secolare dal tronco nerboruto, padre e figlio riposavano dopo aver lavorato l’intera mattinata a spianare una terrazza di terra sotto il sole. Con aria soddisfatta, i volti abbronzati solcati da gocce di sudore, gustavano il pollo alla cacciatora cucinato dalla madre innaffiandolo con lunghe sorsate di vino bianco, tenuto al fresco nella borsa termica sistemata tra le radici dell’albero.

Figliolo, un giorno tutto questo sarà tuo! – fece orgoglioso l’uomo, abbracciando con lo sguardo il vigneto che si estendeva a vista d’occhio sulla collina.

Il mare era solcato da uno sciame di windsurf; all’orizzonte, un’isola si stagliava nel cielo terso.

Guarda che meraviglia! – mormorò, mostrando al figlio il grappolo d’uva tratto dalla cesta al fianco. Staccò un chicco e, stringendolo tra le dita, trafisse con lo sguardo la sottile cuticola che lo ricopriva.

Queste viti sono tanto rigogliose per via del sole che scalda la terra su cui crescono, rendendola magica – disse raccogliendo un pugno di terreno. – Nei loro chicchi è racchiuso l’amore e la fatica con cui, da sempre, gli uomini la curano. – Allargò il palmo, disperdendo il terriccio nel vento. – Questo è il segreto che fa sì che il vino ottenuto allontani i dispiaceri di quanti vi cercano conforto senza bruciarne le menti e i cuori. – Schiacciò il chicco tra le dita: un’appiccicosa poltiglia rossastra aderì ai polpastrelli. Con gesti misurati dall’esperienza, sfregò tra loro le estremità umide di succo per determinare dalla viscosità la gradazione del vino che se ne sarebbe ottenuto e quindi la qualità. Un denso filamento si tese tra il pollice e l’indice. L’uomo sorrise: quell’annata sarebbe stata ottima. Staccò un altro chicco e l’offrì al figlio che lo assaggiò senza entusiasmo.

Allora? – domandò impaziente.

Sembra buona – disse lui, masticando distrattamente.

Offeso, il padre si drizzò sulla schiena.

Ma che dici? Quest’uva è ottima! Da anni non ne avevamo di così dolce. Il vino che ne ricaveremo sarà un vero nettare degli dei!

Il ragazzo non lo ascoltava. In lontananza, tra gli alberi, filtrava la densa scia di fumo nero del treno subito seguita dal fischio. Fin da bambino ne restava sempre rapito.

Mi ascolti? – chiese l’uomo.

Sì! – rispose il figlio, fissandone con decisione il viso corrucciato – E sappi che non ho alcuna intenzione di sacrificare la mia vita su questa terra. Io voglio conoscere il mondo e confrontarmi con gli altri. Papà, ho voglia di vivere, non di vegetare come una pianta, in eterno, nello stesso luogo, lasciando che il sole e l’aratro traccino il mio cammino. Il futuro voglio costruirlo da solo con le mie mani! – aggiunse, mostrando i palmi callosi.

Il padre li osservò con attenzione. Alla stessa età i suoi non erano così, la loro rudezza testimoniava che suo figlio, malgrado odiasse lavorare la terra, quando impugnava la vanga e l’aratro dava l’anima.

Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato – mormorò rassegnato. – Da che sei nato, tuo nonno non fa che ripetere che sei uno spirito libero; che un giorno avresti rinnegato le tue origini contadine – Parlando, con rimpianto fissava il manto di viti ricoprire la collina. – In cuor mio speravo si sbagliasse: ho sacrificato l’intera vita per ottenere ciò. – Sospirò profondamente. – Chissà il dolore di tua madre quando le comunicherai la tua decisione!

Ora ti preoccupi di lei? – sibilò tra i denti il ragazzo, piegando leggermente il capo – Eppure, quando ti rechi a quelle maledette fiere lasciandola sola per intere settimane, non te ne curi per niente, vero? Come non ti preoccupi di regalarle una breve vacanza perché per te esiste solo la vigna. Forse temi che, andando io via, sarai costretto a dedicarle più tempo? Rilassati, quando ieri le ho parlato mi ha benedetto, dicendo di non preoccuparmi per lei perché il suo posto è al tuo fianco, ed è pronta ad accettare qualunque cosa perché ti ama. Sì, ha detto che ti ama! Parole che tu non le hai mai rivolto perché ami soltanto questa dannata terra!

La voce improvvisamente si frantumò in un pianto. Si girò di fianco per non concedere al padre la soddisfazione di vederlo singhiozzare come un bambino.

L’uomo levò lo sguardo tra le foglie dell’ulivo. Il vento accarezzò le fronde. Con aria assente tornò a fissare i filari di viti sulla collina.

Quando partirai? – domandò.

Subito dopo l’esame di maturità! – rispose portandosi le ginocchia al petto per poggiarvi il mento, il viso segnato dalle lacrime.

Era iscritto al liceo scientifico con un ottimo rendimento tanto da far sperare che all’esame potesse prendere il massimo. Una volta diplomatosi, sapeva che le attese del padre prevedevano s’iscrivesse alla facoltà di agraria in modo da poter applicare alla cura della vigna le conoscenze acquisite con gli studi, consentendo all’azienda di famiglia quel salto di qualità che avrebbe permesso di avviare una vera propria impresa di vini, puntando non solo al mercato locale e nazionale, ma anche a quello estero. Lui avrebbe voluto invece iscriversi a medicina, malgrado consapevole che superare i test d’ingresso non fosse semplice e che, seppure li avesse superati, il corso di studi sarebbe stato lungo e complesso. Sua madre, nel momento in cui le aveva confidato la propria intenzione di tentare l’ingresso a quella facoltà, gli aveva suggerito di non essere avventato nella scelta; di pensare a diplomarsi e poi ne avrebbero riparlato, magari dopo il viaggio che aveva deciso di intraprendere subito dopo la maturità. Secondo lei non era improbabile che, una volta libero dagli impegni per la preparazione dell’esame, viaggiando, avrebbe avuto modo di schiarirsi le idee e decidere sulla scelta giusta da compiere. In cuor suo anche lei avrebbe preferito che s’iscrivesse ad agraria, ma sapendo quanto il figlio le fosse legato, non glielo aveva detto per non condizionarlo.

 

Andrai via da solo o con qualche amico? – domandò suo padre

Penso da solo: ho bisogno di riflettere sul mio futuro!

Hai anche la mia benedizione! – disse l’uomo, alzandosi di scatto per riprendere il lavoro, incurante del sole a picco.

CAPITOLO II

– Resterai via molto? – chiese la madre, fissando il figlio riempire lo zaino.

– Non saprei – rispose, pressando il carico nel sacco. Si girò a guardarla, il viso della donna era il ritratto della sofferenza.

Le andò incontro e la strinse a sé.

– Mi raccomando, chiama, non fare come tuo solito che dimentichi il cellulare spento o addirittura di ricaricarlo – mormorò.

Per tutta risposta lui si sciolse dall’abbraccio e le indicò con il dito il telefonino e il caricatore sul letto tra le cose che avrebbe portato con sé.

– Perché vuoi andare via? – sussurrò lei, abbracciandolo forte.

– L’uomo che vive nell’ignoranza è come l’uva che cresce su un terreno eternamente ombreggiato: il vino che se ne ricaverà sarà pallido, privo di forza e di carattere! La voce rimbombò nella stanza.

La donna e il ragazzo si volsero a fissare l’imponente figura del nonno impettita sotto l’arco della porta, con le mani intrecciate sul bastone dal manico intarsiato a testa d’aquila fisso davanti ai piedi.

– Non tormentarlo con le tue lacrime – disse l’anziano alla nuora – Non gravare il travaglio del suo animo. Aspetta che l’uva maturi. Solo allora conoscerai la qualità del vino e saprai se siete stati bravi nel produrlo. – Con passo incerto, appoggiandosi al bastone, il vegliardo avanzò incontro alla nuora e al nipote che lo fissavano intimoriti. Nella mano recava una conchiglia…

 

Le feluche, spinte dalla brezza verso il mare, scivolavano sul fiume accompagnate dallo sguardo di Sirio splendente in cielo; il quarto di luna rifletteva sull’acqua le ruvide ombre delle vele. All’estremità del molo la luce del faro fendeva la scura superficie, spianando alle barche il cammino nelle tenebre.

Affacciato alla balaustra del postale ancorato nella rada, il giovane mozzo osservava amareggiato le luci della città riflettersi in lontananza. Avrebbe preferito approdare direttamente ad Alessandria d’Egitto per riviverne i fasti trasmessi dalle antiche mura e dai monumenti lasciati dai faraoni in eredità ai posteri. In particolare il suo pensiero andava al leggendario faro considerato tra le sette meraviglie del mondo dell’epoca, la cui torre si innalzava nel cielo, così si raccontava, per 120 metri, e alla mitica biblioteca in cui erano conservati oltre 700 mila papiri, distrutta nel 280 d.C. dall’imperatore Aureliano durante il saccheggio della città. Ogni volta che ripensava a quei drammatici eventi, non poteva fare a meno di domandarsi se davvero tutti i papiri fossero andati distrutti o se molti non fossero stati messi in salvo dai curatori della biblioteca. E, in quel caso, se molte opere dell’antichità di cui si era persa ogni traccia, divenendo a loro volta leggenda perché citate da autori classici che dichiaravano di averle consultate, non fossero tuttora conservate in luoghi ignoti. Così come, tutte le volte che ripensava all’Egitto, non poteva fare a meno di andare con la mente alle piramidi e alla sfinge, chiedendosi chissà quali misteri conservassero nelle proprie viscere di pietra. Allo stesso tempo, misteriosa era la loro origine: la sua fervida fantasia si rifiutava di accettare che a costruirle fossero stati gli antichi egizi utilizzando tronchi, barconi di papiro e carrucole su cui trasportare e innalzare le migliaia di enormi massi di calcare, ognuno dal peso di diverse tonnellate, che le costituivano. Di chissà quale oscura civiltà le piramidi erano invece testimonianza! Magari della mitica Atlantide di cui per primo aveva parlato Platone nel Crizia e nel Timeo, citando il suo antenato Solone: egli riferiva di aver sentito raccontare di quel continente e della sua scomparsa nel mare, a seguito di un tremendo cataclisma, dai sacerdoti della città di Sais nel delta del Nilo che facevano risalire i fatti a un tempo remoto in cui gli dei dimoravano sulla terra.

L’eco della voce del muezzin che invocava la grandezza di Allah ruppe la notte. Il ragazzo chiuse gli occhi e inspirò profondamente affinché quella voce trasportata dal vento del deserto gli ravvivasse l’anima.

Improvvisamente le  grida disperate  di donna giunsero da poppa, sfumando il sogno.

D’istinto il giovane attraversò di corsa il ponte della nave, senza mai staccare lo sguardo dal mare. Era quasi arrivato, quando nell’acqua distinse il bambino trascinato dalla corrente verso il piroscafo che si stava lentamente allontanando dalla banchina. Pochi attimi ancora e le eliche del bastimento l’avrebbero maciullato. Senza indugio si tuffò nelle tenebre e, nuotando con forti bracciate, lo raggiunse cingendogli un braccio al collo. Incurante dei gorghi delle eliche che lentamente li risucchiavano, prese a nuotare come un folle, tirandosi appresso il bimbo nell’angoscioso tentativo di respingere la morte incombente.

Sul molo, la madre disperata fissava la scena.

Avvinghiati in un vortice, il ragazzo e il bambino si volsero a fissare terrorizzati il minaccioso roteare delle eliche, sempre più vicine, mentre erano sovrastati dall’acqua.

A un tratto, il bagliore del faro rischiarò il lato poppiero del piroscafo, consentendo al marinaio che dirigeva le manovre d’individuare tra i flutti i corpi dei due sventurati.

Tutto a babordo, tutto a babordo! Uomo in mare, uomo in mare! – urlò al timoniere affacciato all’oblò della sala comandi che subito, con un colpo secco al timone, virò, calando simultaneamente la leva sul pannello dei comandi per fermare le macchine.

Sebbene i motori si fossero spenti, per inerzia la nave continuò a spostarsi nell’acqua, arrivando a ridosso del ragazzo e del bambino, arrestandosi con l’elica alle loro spalle.

Un applauso si levò dal piroscafo e dal battello. Il pianto disperato della donna si trasformò in lacrime di gioia.

Per premiare il valore del mozzo, il comandante gli concesse un giorno di libertà, consentendogli di visitare Alessandria.

Circondato dai banchi dei mercanti assiepati nel bazar, il giovane volgeva lo sguardo sulle imponenti cupole moresche che, svettando tra i tetti delle case costruite con mattoni di fango e paglia, si ergevano al cielo come funghi giganteschi. Avanzando tra la folla si guardava intorno stordito dal caleidoscopio di colori, profumi e voci del mercato. Nell’aria l’acre odore dei narghilè, fumati dai negozianti seduti sulla soglia delle botteghe, si mischiava all’intenso aroma delle spezie e delle essenze profumate racchiuse nei sacchi e nelle piccole ampolle di vetro soffiato, esposte ordinatamente sui banchi.

Ciao! – risuonò di spalle la voce di donna.

Lui si girò. Rapito, ammirò lo splendido viso sorridergli, adornato dalla folta chioma ramata. Attraverso la lunga veste di veli rossi traspariva la sua seducente femminilità.

Con voce rotta dall’emozione, pensando si trattasse di una prostituta alla ricerca di clienti, arrossendo, rispose al saluto. Il pensiero che finalmente anche per lui fosse giunto il momento di diventare uomo lo mise in agitazione.

Non farti strane idee – disse lei, divertita, leggendogli nella mente – Volevo ringraziarti per quel che hai fatto questa notte: salvare una vita umana rischiando la propria è un nobile gesto, indelebile agli occhi degli dei. Questa è la ricompensa che meriti! – Così dicendo, allungò il braccio verso il giovane, tendendogli la mano aperta.

Una conchiglia? – si meravigliò lui, mirando la spirale di madreperla rilucere come un serpente aggrovigliato su se stesso nel palmo della donna.

Tutte le volte che ascolterai la melodia racchiusa, i tuoi sogni si realizzeranno.

Titubante, s’impossessò della conchiglia e la accostò all’orecchio. Un dolce suono gli penetrò l’animo, cancellando le inquietudini che lo turbavano.

Chiuse gli occhi, abbandonandosi alla melodia. Quando li riaprì la donna era scomparsa.

– Tieni! – disse il nonno, offrendo la conchiglia al nipote. Tenendola tra le mani, lui la alzò al soffitto ammirandola luccicare alla luce del lampadario. Un’energia indescrivibile s’irradiò dal guscio, inondandogli mente e cuore. Con cura la avvolse in uno straccio per proteggerla da eventuali urti e la ripose in una delle tasche laterali dello zaino. Percepì che quell’oggetto gli avrebbe portato fortuna, o almeno si sarebbe rivelato fondamentale per il viaggio; ma non sapeva spiegarsi perché…

CAPITOLO III

Il ragazzo entrò nello scompartimento successivo, anch’esso vuoto.

Fu tentato di andare oltre, ma sulle spalle il peso dello zaino incominciava a farsi sentire. Lo sfilò e lo poggiò sul pavimento davanti a sé per poi sedersi accanto al finestrino. Attraverso i vetri, il paesaggio verdeggiante si scioglieva allo sguardo come un film.

Di tanto in tanto il ramo di una pianta cresciuta sul margine dei binari graffiava i vetri. Trasse di tasca il cellulare per controllare se ci fossero messaggi da parte di quei pochi amici che aveva: solo cinque in cui gli si augurava “in bocca al lupo”, o “buon viaggio”.

I sacrifici con cui si divideva tra lo studio e la vigna gli avevano talmente condizionato l’esistenza da impedirgli di coltivare le normali amicizie di un ragazzo della sua età, tanto che a diciotto anni si ritrovava ad avere per lo più conoscenti con cui saltuariamente gli capitava di incontrarsi il sabato sera nella piazza del paese per fare quattro chiacchiere, bevendo una birra o mangiando un panino in un pub. A parte ciò, mai era riuscito ad avere un vero amico con cui confidarsi. Per quanto invece riguardava le ragazze, peggio che mai. Seppure le classi che aveva frequentato fossero state miste, non era mai riuscito a instaurare con qualcuna delle compagne un rapporto che andasse oltre la scuola, malgrado ci fosse una con cui gli sarebbe piaciuto ritrovarsi da solo: si chiamava Claudia, sedeva due file di banchi davanti a lui. Capelli lunghi, viso tondo, occhietti furbi, bassina, fisico proporzionato, era stata in classe con lui dal primo anno del liceo, ma mai gli aveva dato a intendere di piacerle…

Una mattina, poco prima della fine del primo quadrimestre del terzo anno, non appena suonò la campanella, Claudia gli si affiancò chiedendogli se quel pomeriggio potesse andare a studiare da lei per aiutarla a ripassare matematica, materia in cui lui primeggiava. Ascoltandola, non gli sembrò vero che quella ragazza, piaciutagli dalla prima volta che l’aveva vista, gli chiedesse di studiare insieme. D’impulso rispose di sì, dimenticando che per quel pomeriggio aveva promesso al padre che lo avrebbe aiutato alla vigna. Quando tornò a casa, euforico si sedette a tavola. Mentre pranzavano, ascoltando il padre anticipargli il lavoro che avrebbero svolto a breve, quasi si sentì male. << Papà >> disse, << più tardi un’amica mi ha chiesto di passare da lei per aiutarla in matematica >>. << Ovviamente le hai risposto di no >> osservò  l’uomo con sguardo gelido. << Le ho detto di sì >>, rispose fissando il piatto. << Hai fatto male >> riprese il genitore. << Lo sai bene che mi sono organizzato il lavoro per questo pomeriggio perché potevo contare sul tuo aiuto. Mi dispiace, la chiami e le dici che non puoi andarci >>. La madre intervenne in sua difesa offrendosi di sostituirsi a lui, ma il padre fu inflessibile: << Niente da fare, mi aveva promesso che mi avrebbe aiutato, non può rifiutarsi per correre dietro a una smorfiosa! >>. La donna cercò di replicare, chiedendo il supporto del suocero che in silenzio assisteva alla scena. Anche lui fu del parere che il nipote dovesse onorare l’impegno preso con il padre perché gli uomini veri non disattendono la parola data. Per evitare ulteriori discussioni il ragazzo disse alla madre di non preoccuparsi, che avrebbe telefonato alla sua amica inventandosi una scusa. Quindi prese il cellulare dalla tasca, si alzò dalla tavola e andò a telefonare nella sua stanza. Ascoltandolo mentre cercava di giustificarsi, dall’altro lato dell’apparecchio Claudia rimase in silenzio. Alla fine disse solo, << Va bene, ciao! >>.

Il giorno dopo fuori scuola non lo degnò di uno sguardo e quando, prima di entrare in classe, lui si avvicinò per spiegarsi, lo respinse come se fosse un appestato. Ma l’umiliazione più grande la subì quando, alcuni giorni dopo, la sorprese ad amoreggiare con il bullo della classe il quale non si stancava mai di lanciare frecciatine al suo indirizzo, definendolo “zotico”, suscitando l’ilarità di tutti, lei compresa.

In realtà c’era un’altra ragazza che gli piaceva molto. Si chiamava Veronica, era figlia di un colono che collaborava con il padre durante la vendemmia. Alta quanto lui, bene in carne, aveva il viso lentigginoso cui si sposava una folta chioma rossa raccolta in una lunga treccia dietro alla nuca. Quando era tempo di vendemmia, insieme agli altri figli dei contadini, Veronica accompagnava il papà e la mamma perché quel momento rappresentava per tutti un gioco. In quelle giornate di festa, il ragazzo non perdeva occasione per osservarla di sfuggita e quando capitava che i loro sguardi s’incrociassero, entrambi volgevano subito gli occhi da un’altra parte, arrossendo. Alla madre non era sfuggito che Veronica e suo figlio si piacessero, in cuor suo sperava che lui si decidesse ad avvicinarla per esternarle i propri sentimenti. Vedendo la ritrosia del figlio nel fare il primo passo, convinta fosse timidezza, in più di un’occasione aveva cercato di infondergli coraggio dicendo, << Quando una persona ci piace, non dobbiamo vergognarci di farglielo capire. Spesso la timidezza è l’ostacolo più difficile da superare per essere felici! >>. Ascoltandola, pur comprendendo perfettamente a cosa la madre alludesse, il ragazzo non rispondeva, limitandosi a fare spallucce. Malgrado fosse consapevole di piacere a Veronica tanto quanto lei piaceva a lui, le  si teneva lontano temendo che, una volta insieme, avrebbe dovuto dire addio all’idea di viaggiare, essendo la ragazza  molto legata alla famiglia e al lavoro nei campi. Tuttavia non poteva negare che spesso pensava a lei, chiedendosi che sapore avessero i suoi baci e quale profumo emanasse il suo corpo…

Notando che la spia rossa del cellulare lampeggiava, fu colto dal dubbio di aver dimenticato a casa il caricatore. Seccato sbuffò, sapeva che senza ricevere sue notizie la madre si sarebbe allarmata, ma era certo che, alla fine, un modo per ricaricarlo lo avrebbe trovato. Rilassandosi nella poltrona, fissò lo sguardo oltre il vetro del finestrino per ammirare il panorama. Improvvisamente lo colse la stanchezza. Senza accorgersene, si addormentò.

Fu svegliato da un sordo fruscio. Lentamente riaprì gli occhi: di fronte gli sedeva uno strano personaggio impegnato a mischiare un mazzo di carte dall’insolita lunghezza.

– Ben trovato! – disse l’uomo con voce baritonale, interrompendo per un istante il vorticare delle carte tra le dita.

Il ragazzo si drizzò sul sedile. Stropicciandosi gli occhi, notò che vestiva in maniera insolita: portava un cappello dalle larghe tese che ricordavano un otto adagiato di fianco. Sulla spalla era addossato il mantello di fine velluto rosso, non certo adatto per la bella stagione da poco incominciata. Lui si preoccupò: se l’uomo avesse avuto brutte intenzioni, nello scompartimento non c’era nessuno cui avrebbe potuto chiedere aiuto.

All’improvviso lo scenario nella cornice del finestrino cambiò: alla verde prateria subentrarono le effervescenti onde del mare solcate da un cutter. La barca, con le vele spiegate al vento, in ali di schiuma puntava dritta verso lo spuntone di roccia che dalla costa declinava a mare, sparendovi dietro.

Giganteschi megaliti rosa, sulle cui cime nei loro nidi gli uccelli stavano accovacciati al sole, s’innalzavano dall’acqua su nel cielo tracciato da uno stormo di anatre.

Guardando quel paesaggio incantevole, il ragazzo sospirò.

Sprofondò la schiena nel sedile e, emozionato, ammirò di là dal vetro il panorama in continuo mutamento come le immagini di un documentario.

– Magnifico, vero? – La voce dell’uomo lo strappò a quel piacere.

– Già! – Stupito, fissava il cavaliere in groppa al bianco destriero, apparso all’improvviso dal nulla, galoppare sulla spiaggia dorata.

– Non hai la sensazione di trovarti in un’altra dimensione? – chiese lo strano personaggio. Anziché rispondere, incantato, il ragazzo continuò a seguire con la punta dell’occhio il cavaliere lanciare lo stallone al galoppo sulla battigia.

– Non ti sembra di trovarti in un universo dove la realtà è in continuo mutamento, subordinata alla fantasia? – suggerì l’uomo, mischiando le carte.

– Sì – ammise, volgendo per un istante lo sguardo su di lui.

– E’ la prima volta che viaggi, vero?

– Sì – rispose, tornando a fissare il mare increspato dal vento.

– Preferisci il mare o la montagna? – chiese.

– Entrambi!

– Impossibile! Al mondo esistono due tipi di persone, chi ama il mare e chi la montagna. Tu a quale categoria appartieni?

Il ragazzo cercò di rimettere ordine nella propria testa. Fissava con attenzione il paesaggio modificarsi davanti a sé man mano che il convoglio, rallentando, avanzava tra la fitta boscaglia ai margini dei binari. Lentamente il paesaggio marino lasciò il posto a quello campestre.

Tra i rami di un grosso fico distinse una merla imboccare i pulcini nel nido intrecciato nel tronco.

Appena il mare tornò visibile, intravide tre donne nude correre allegramente tra le onde, schizzandosi a vicenda l’acqua con i piedi e le mani. Seppur lontane, riuscì a focalizzarne i seni e gli scuri cespugli dei pubi.

Interessato si drizzò sul sedile per osservarle meglio.

Con uno strappo violento il treno imboccò la curva, inoltrandosi nuovamente nella fitta boscaglia, sottraendo allo sguardo la piacevole visione.

– Belle, vero? – disse l’uomo, abbozzando un sorriso eloquente.

Solo allora il ragazzo ricordò di non essere solo.

Turbato, abbassò gli occhi sulle scarpe dell’altro: anch’esse erano di velluto porpora come il mantello; la foggia, dalla punta leggermente piegata verso l’interno, ricordava quelle di un principe orientale o del genio della lampada.

– Mica devi vergognarti! – fece lui, divertito del suo imbarazzo – Non c’è nulla di più elettrizzante per lo sguardo maschile di una bella donna nuda intenta nell’intimità naturale dei propri gesti, inconsapevole d’essere osservata!

Udendo quelle parole, il ragazzo si rasserenò.

– Perché non si possono preferire insieme il mare e la montagna? – chiese, accennando un sorriso.

– Al mare appartengono gli individui, alla montagna le persone: tu ti senti individuo o persona? – domandò l’uomo, divenendo improvvisamente serio.

– Qual è la differenza? – chiese, grattandosi la testa. Aveva sempre considerato individuo e persona sinonimi l’uno dell’altra.*

– Non conosci il latino, vero?

Un fitto cespuglio di more graffiò il finestrino.

– No! – arrossì.

L’uomo respirò profondamente.

– Individuo deriva dal latino individuus che significa <<indivisibile>>. Persona dal latino persona, termine con cui, nell’antica Roma, ci si riferiva a un tipo di maschera utilizzata dagli attori nelle rappresentazioni teatrali. A sua volta, persona è originata dall’unione di per, che significa attraverso, e sonare, ossia suonare, ed è il termine con cui gli antichi denotavano la parte interpretata dall’attore nel dramma. Da ciò deduciamo che dichiararsi individui significa ammettere la propria indivisibilità dalla massa, trascendendo l’aspetto personale che rappresenta la maschera di cui ci disfiamo quando smettiamo di recitare il nostro ruolo sul palcoscenico della vita per tornare al sicuro tra le pareti di casa, lontano dagli sguardi altrui.

Con gli occhi luccicanti il ragazzo si raddrizzò sul sedile. Nella sua mente risuonarono le parole che il nonno ripeteva sempre mostrandogli un grappolo d’uva: <<Ricorda, figliolo, l’umanità non è altro che una moltitudine di grappoli da cui ricavare il vino della creazione. Per questo motivo ognuno di noi ha il dovere nella vita di svolgere al meglio il proprio compito, per quanto umile esso sia, al fine di evitare che il vino diventi aceto. Senza mai dimenticare che il proprio operato, sia nel bene sia nel male, influenzerà in maniera imprescindibile l’esistenza di tutti coloro con cui s’interagirà. Per il diletto del palato, un grappolo lo si può mangiare, gustandolo chicco dopo chicco, ma per quello dell’anima, cioè il vino, bisogna riunire nel tino tutti i grappoli e schiacciarli affinché le specifiche essenze si mischino tra di loro fino a confondersi, dandone vita a un’unica del tutto nuova che racchiuda in sé le caratteristiche delle singole anime che l’hanno generata. >>

Ogniqualvolta lo ascoltava ripetere quelle misteriose parole, si chiedeva cosa volesse significare, ricorrendo al padre nella speranza gli svelasse l’arcano.

<< Papà cosa voleva dire il nonno? >> chiedeva. << Devi arrivarci da solo >> gli rispondeva, lasciandolo con il dubbio, dipananto in parte dalla madre che, sorridendo, lo rassicurava: << Non affliggerti, al momento opportuno tutto ti sarà chiaro! >>.

– Preferisco il mare! – asserì convinto il ragazzo, raddrizzandosi sul sedile.

L’UOMO CHE REALIZZAVA I SOGNI

Di seguito la versione integrale del racconto pubblicato su comunicaresenzafrontiere

L’uomo che realizzava i sogni viveva in una baita nel bosco.
Tutte le mattine, prima che l’aurora tingesse di rosa il cielo, usciva di casa, zaino in spalla, per recarsi al fiume. Ivi giunto, adagiava lo zaino sulla sponda, sedendosi sull’erba umida di brina; si levava scarpe e calzini, arrotolandosi i pantaloni alle ginocchia. Quindi traeva dallo zaino, una dopo l’altra, tante bottigliette colorate e le affiancava sulla riva come tanti soldati di un esercito multicolore schierato per salutare il passaggio dell’ufficiale. Stringendole tra le mani, ripetutamente entrava e usciva dall’acqua, per riempirle tutte. Quel rito quotidiano si esauriva poco prima che il sole sorgesse sulle montagne.
Rientrato in casa, le sistemava sulle mensole alle pareti: sulla quella a est, dov’era l’ingresso della casa, troneggiavano bottiglie di colore rosa e celeste per quanti sognavano l’amore o una sincera amicizia; su quella a sud, su cui si apriva l’unica finestra della baita, svettavano quelle rosse per quanti bramavano travolgenti passioni e epiche avventure; sulle mensole ad ovest, affiancate alla credenza sopra il cucinino, erano le bottiglie blu per tutti coloro che desideravano affermarsi professionalmente. Sulla parete nord, sovrapposta al camino sempre acceso cui erano accostati il letto e il comodino ingombro di libri e una lampada ad olio, c’era una mensola con tante bottiglie bianche ricoperte da uno spesso strato di polvere, imbrigliate in fitte ragnatele a testimonianza che mai erano state rimosse per soddisfare quanti desiderassero un mondo scevro da malvagità, dove gli uomini vivessero in pace rispettandosi gli uni con gli altri.

Finito di sistemare le bottiglie, l’uomo si sedeva al tavolo; accendeva la pipa; chiudeva gli occhi e, fumando, iniziava a pensare, il viso velato dall’acre vapore che si sprigionava dalla pipa, nell’attesa che qualcuno bussasse alla porta chiedendogli di aiutarlo a realizzare il suo sogno. Dopo averlo ascoltato, l’uomo avrebbe preso una bottiglietta il cui colore fosse in sintonia con il desiderio da realizzare, l’avrebbe stappata e, porgendogliela, gli avrebbe chiesto di bere l’acqua racchiusa.
Erano anni, non sappiamo esattamente quanti, forse un’eternità, che l’uomo s’era assunto quel delicato compito. Nel corso del tempo, un’infinità di persone s’erano avvicendate presso di sé per realizzare i propri desideri. e mai nessuno era andato via scontento!

Un giorno, mentre preparava la minestra con le verdure raccolte nel bosco, alla porta bussò un giovane viandante dai radi capelli scuri, lo sguardo triste.
L’uomo lo salutò cordialmente, invitandolo a mangiare con sé. Mentre assaporavano la minestra, gli domandò “Qual è il sogno che vuoi realizzare?”
“Desidererei che al mondo non esistessero persone come te, capaci di svelare alla gente come fare per realizzare i propri sogni!”
Ascoltandolo, l’uomo restò perplesso. Si sistemò sulla sedia. Pulendosi le labbra col tovagliolo chiese “Perché?”
“La realizzazione di un sogno ne sancisce anche la morte.”
“E allora?” incalzò dubbioso, portandosi alle labbra il bicchiere d’acqua. “ Sono tanti i sogni a disposizione d’ogni uomo che non basterebbero un milione di di esistenze per realizzarli tutti.”
“E’ vero” convenne lui, il volto rischiarato da un pallido sorriso. “Ma non pensi che in questo modo si prolunghi l’agonia degli uomini sulla terra? L’uomo deriva da Dio e a Dio deve tornare. Finché sarà schiavo del desiderio, concedendogli l’opportunità di appagare i propri sogni, rinvierà sempre l’inizio del cammino per ritornare alla casa del padre!”
I gomiti ritti sul tavolo, il mento poggiato sulle dita incrociate delle mani, fissandolo attentamente, l’uomo meditava su quelle parole.
Alla fine, rizzandosi sulla sedia, con convinzione, sorridendo rispose “Hai perfettamente ragione, aiutare gli uomini a realizzare i propri desideri li allontana da Dio. Da quest’istante chiuderò bottega e si arrangeranno da soli!”
“Ben detto” esultò lui. Afferrò il bicchiere e brindò al soffitto.
Dopo aver bevuto, il giovane si alzò e, con aria soddisfatta, disse “Bene, ora che anch’io ho realizzato il mio sogno, vado via.”
“Aspetta” disse l’uomo alzandosi dal tavolo. Si recò alla parete dove era la mensola con le bottiglie bianche e ne prese una. Vi soffiò sopra, diffondendo nell’aria una densa nube di polvere, strappando via la spessa ragnatela che l’avvolgeva. “Solo se berrai quest’acqua il tuo sogno si realizzerà” disse porgendogli la bottiglia.
Perplesso, il giovane bevve disgustato quell’acqua stagnante. Poi andò via.
L’uomo che realizzava i sogni lo accompagnò alla porta: chiuse l’uscio solo quando l’immagine di lui si dileguò nella boscaglia.

Il sole era tramontato. L’uomo sparecchiò il frugale desco, indossò il pigiama e si coricò aprendo un libro.

Al riparo della fitta boscaglia, il giovane si svestì.
“Finalmente” disse tra sé, sorridendo malizioso. Man mano che indossava gli abiti che aveva nascosto nel terreno, la sua voce assumeva un tono sempre più cavernoso. “Quell’uomo mi aveva proprio stufato. Con quella sua maledetta mania di realizzare i sogni degli altri, facendogli bere quella disgustosa acqua appantanata, stava causando la fine del mio regno.”
Con la labbra lanciò un fischio sibilante: tra i cespugli, comparve uno stallone nero più della notte.
Il diavolo lo cavalcò e si lanciò al galoppo nella selva. Una lugubre risata riecheggiò nel silenzio.

Prima di spegnere la luce e addormentarsi, l’uomo che realizzava i sogni, con le mani incrociate dietro la nuca, sorrise al soffitto.
“Povero Belzebù” pensò. “Credeva che non l’avessi riconosciuto. Bramoso di affermarsi, non ha pensato che l’unico modo perché gli uomini divengano facili prede del diavolo è proprio quello di offrire loro la possibilità di realizzare ogni loro desiderio. Impedendoglielo, sfiniti dai tormenti dell’anima perché ciò che desiderano non si realizza, imploreranno la grazia di Dio, rinnegando le passioni di cui sono schiavi, affidandosi alla sua misericordia. Che stupido il diavolo, non si è reso conto che chiedendomi di realizzare il suo desiderio ha realizzato il mio: finalmente l’umanità ha intrapreso il cammino verso la pace!”
Così pensando, Dio sbadigliò, spense la luce, e, dopo tanto tempo, non sappiamo quanto, finalmente si riposò!

Fine

 

UN UOMO FELICE

All’inizio incontrò la felicità cavalcando l’infinita onda della vita in un oceano nutriente.

Attraverso la spirale ombelicale, godeva della frenesia dei sensi di cui era preda sua madre ogniqualvolta suo padre la stringeva a se e l’amava dolcemente, accarezzandole i seni gonfi di vita, baciandola con passione, niente affatto inibito dal pancione che ella orgogliosamente mostrava. Entrambi erano consapevoli di rendere partecipe loro figlio racchiuso nel ventre di lei dell’amore che li univa e d’aiutarlo, in quel modo, a crescere felice.

Per nove mesi si avventurò in un mare d’emozioni, navigatore solitario alla scoperta di un mondo oscuro, dove l’eco sfocata d’incomprensibili parole sussurrate con dolcezza si dissolveva nell’infinità del sogno.

L’incanto di quegli istanti svanì nell’attimo in cui le acque iniziarono a fluire attraverso il canale esistenziale, trascinandolo con sé, e mani guantate lo strapparono all’oblio.

Riconobbe la felicità nel capezzolo colmo di latte che ogni quattr’ore gli si accostava alle labbra. Succhiandolo, riascoltava il ritmo che aveva scandito il lento evolversi della sua vita embrionale, addormentandosi felice perché il sogno era ripreso.

Crescendo, la felicità assunse il gustoso sapore degli omogeneizzati e della crema di riso che si stropicciava, impertinente, su tutta la faccia, suscitando la gioia di quanti lo guardavano pasticciare in quel modo.

Felicità era infilare le dita nel bicchiere colmo di succo di frutta che sua madre gli porgeva preoccupata, sperando che non lo riversasse sul pavimento appena lavato.

Felicità fu strappare le orecchie ad un cagnolino di pezza regalatogli dai nonni per la sua festa, o schizzare l’acqua mentre faceva il bagno circondato da pesciolini di plastica e anatroccoli di gomma.

Nei primi anni di scuola, la felicità assunse i dolci tratti del sorridente viso della maestrina che, pazientemente, insegnava a lui e agli altri bimbi a leggere e a scrivere. Spesso fingeva di non sentirsi bene in modo che lei lo tenesse vicino a sé fino a quando la mamma non lo andava a prendere.

Felicità fu la sagoma svettante di un abete ornato di luci e festoni, con tanti pacchi colorati, raccolti sotto rami colmi di aghi, che non vedeva l’ora di scartocciare per scoprire se dentro ci fosse il giocattolo tanto desiderato che gli era costato promesse impossibili da mantenere.

Da ragazzo la felicità si disciolse nel sale del sudore che gli solcava il viso mentre, in pantaloncini e scarpette chiodate, rincorreva, insieme con una frotta di ragazzini festanti, una sfera di cuoio rotolante sul prato dei giardini pubblici, incitato a gran voce da suo padre che gli gridava di fintare e di passare la palla al compagno smarcato sull’ala.

Tredicenne scoprì la felicità fluirgli tra le dita di una mano in un liquido denso simile a burro fuso. Lo scoprì mentre sfogliava, chiuso nel bagno, la rivista prestatagli dal compagno di banco: fissando con gli occhi sgranati i corpi delle donne nude ritratti sulle pagine patinate, l’essenza della vita si riversò nelle pieghe della mano donandogli un caldo piacere.

Comprese quanta vacua fosse quella felicità solitaria alcuni anni dopo, durante una festa di compleanno di un compagno… Per gioco, ballando con un’amica, accostò le labbra alla sua bocca assaporandone la timida e gustosa acerbità. Stringendola a sé, in un’interminabile danza senza musica, il calore della sua femminilità gli dilatò le vene e il cuore. In quegli attimi riconobbe la felicità nello sguardo timoroso di una fanciulla che, all’improvviso, scopriva d’esser ormai pronta per diventare donna.

La travolgente forza della felicità lo sorprese l’ultimo anno di liceo, tra le ardenti braccia di una ninfa mediterranea che lo stordì con l’ansante galoppo dei sensi, trascinandolo in un turbinio di emozioni appagate quando il fiume del desiderio fu prosciugato dalla sete di lei.

Felicità fu una notte al chiaro di luna, su una spiaggia deserta, ad ammirare una bionda sirena dagli occhi dell’acqua uscire dal mare, vestita solo della sua pelle di stelle, distenderglisi accanto e offrirsi alle carezze dalle sue mani impazienti. Sfiorando le sinuosità di quella venere da fiaba, la felicità ammantò le loro anime nude unendole nell’eternità, al canto del mare, sull’umido arenile.

Felicità fu giurare eterno amore,in un piccola chiesa di campagna, a una donna che lo amava più della sua vita, attorniati da una folla festante che applaudiva sotto lo sguardo paterno e felice di un giovane prete.

Felicità fu stringere tra le braccia il figlio appena nato. Sentire le sue esili mani aggrapparsi al cotone della camicia nella disperata ricerca di una mammella cui nutrirsi per continuare anche lui a sognare.

Da vecchio, felicità fu alzarsi presto al mattino, farsi la barba con un pennello schiumoso, tendendo l’orecchio al caffè che sua moglie aveva messo sul fuoco; aprire il balcone e affacciarsi alla ringhiera con la tazzina fumante nella mano per il piacere d’ascoltare i rumori della città che lentamente si ridestava dal sonno, osservando dalle finestre aperte le mamme preparare i figli per la scuola o i mariti salutare dalla strada le mogli affacciate alle finestre.

Felicità fu lasciarsi annodare la cravatta dalla tremanti mani della sua donna imbiancata dagli anni e uscire di casa per comprare il pane caldo e il giornale che avrebbe sfogliato fino a quando l’orda di nipoti impazziti non avrebbe invaso la tranquilla esistenza di due vite felici ormai prossime al tramonto.

In ogni istante della vita riconobbe la felicità perché non finì mai di cercarla, perfino quando la malattia lentamente lo trasformò in un infante inerme dai ricordi confusi.

In punto di morte, i volti affranti dal dolore delle persone care si trasformarono in un luminoso cerchio di ricordi felici che avevano segnato la sua semplice esistenza di uomo capace di trovare la felicità anche nella sofferenza e nel dolore, perché per lui felicità fu vivere la sua semplice vita d’uomo fino all’ultimo respiro in cui suo figlio gli chiuse gli occhi ormai privi di luce.