SIGNATURE RERUM

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Di seguito un estratto dal mio ultimo romanzo SIGNATURE RERUM-IL SUSSURRO DELLA SIBILLA 

Entrai in libreria. Oltre alla commessa seduta dietro il bancone impegnata a risolvere un cruciverba, nel locale non c’era nessun altro. Salutai con un cenno del capo e mi avvicinai alle colonne di libri che si innalzavano dal pavimento. L’aspetto miserevole di molti volumi confermava la loro lunga gestazione in magazzino, non sminuendone però il valore trattandosi di testi autorevoli.

Ero accosciato davanti a una pila di volumi per leggerne i titoli sbiaditi sui frontespizi, quando una voce familiare mi salutò:

<<Buongiorno>>

Mi voltai a fissare l’atleta che quella mattina mi aveva svegliato facendo ginnastica in giardino.

<<Buongiorno>> feci rialzandomi prontamente.

<<Le chiedo ancora scusa per questa mattina.>>

<<Non crucciarti, sono mattiniero.>>

<<Anche a lei piace leggere?>>

<<Appena il lavoro me lo consente.>>

<<Che genere preferisce?>>

<<Romanzi.>>

<<Anch’io! Ha trovato qualcosa d’interessante?>>

<<Sono appena entrato…>>

<<Venga>> disse guidandomi verso una catasta di libri addossati a uno scaffale vicino al retrobottega. <<Qui sicuramente troverà qualcosa d’interessante.>>

Mi inginocchiai per visionare i volumi.

<<Le piacciono gli scrittori sudamericani?>>

<<Ho letto qualcosa di Marquez, Borges, Coelho. Ultimamente Jorge Amado.>>

<<Se non lo avesse già letto, legga questo, sicuramente le piacerà.>> Con cautela sfilò dalla colonna di libri un volume e me lo porse.

<<L’amore al tempo del colera>> lessi.

<<Tra i romanzi di Marquez, lo ritengo in assoluto il migliore!>>

<<Ho letto Cronaca di una morte annunciata e Cent’anni di solitudine, non mi hanno entusiasmato granché.>>

<<Lo legga>> insistette.

Lessi la trama sul retro di copertina.

Prediligendo i thriller sapevo che difficilmente mi sarebbe piaciuto. Tuttavia, notando l’ansia con cui la ragazza mi guardava, decisi di acquistarlo per non deluderla.

Mentre pagavo, il volto le s’illuminò di gioia. Per un attimo la sua freschezza cacciò via le angustie dal mio animo.

 

Usciti dal negozio, dirigendoci in piazza, facemmo le presentazioni.

<<Io sono Laura>> fece porgendomi la mano.

<<Io Riccardo, e dammi del tu>> sorrisi, ricambiando la stretta.

<<Che ci fai qui?>> chiese, reclinando il capo. Lo sguardo intelligente luccicò di vita. Le orbite si restringevano ai lati conferendole un vago aspetto orientale. La parabola del naso curvava a punta sulla bocca piccola e sensuale, separata dal mento poco accentuato da una ruga sottile. La giacca a vento le nascondeva il corpo.

<<Vivi qui?>> chiesi.

<<Sono ospite della sorella di mio padre, mi sto allenando per La Quattro Laghi>>

<<Cos’è?>>

<<Una mezza maratona che attraversa passa per i quattro laghi flegrei. Malgrado siano solo 21 chilometri, è massacrante a causa dei continui saliscendi. Alla scorsa edizione mi sono classificata sesta assoluta tra le donne.>>

<<Un buon piazzamento>> osservai.

<<Sì, considerando la tendinite che mi obbligò a stare ferma per quasi sei mesi. Alla prossima, però, punto al podio!>>

La voce decisa ne palesava il carattere determinato.

<<Studi?>>

<<Sono iscritta a giurisprudenza. Vorrei fare l’avvocato. Tu di cosa ti occupi?>>

<<Lavoro in banca. Faccio il consulente finanziario>>

<<Ossia?>>

<<Suggerisco alle persone come far fruttare i propri risparmi.>>

<<Un giorno verrò a trovarti!>>

<<Possiedi dei risparmi?>>

<<Non ho un euro>> disse scoppiando a ridere. La sua ilarità mi contagiò, risi anch’io.

 

Giungemmo nella piazza assordata dai veicoli provenienti dal lungomare. Al bivio una parte delle vetture deviava verso il centro mentre l’altra proseguiva in direzione Pozzuoli. Il traffico era regolato da un’affascinante vigilessa dai capelli biondi coadiuvata da una coppia di pensionati che, muniti di palette, bloccavano i veicoli per consentire l’attraversamento ai pedoni.

 

<<Io sono arrivata>> disse Laura, fermandosi davanti la palazzina dai muri scrostati. Fui tentato di dirle che ero stato bene in sua compagnia, che mi sarebbe piaciuto rivederla. Tacqui per non apparire ridicolo.

<<Grazie per il consiglio>> feci, mostrandole la busta contenete il libro di Marquez.

<<Spero ti piacerà!>> sorrise.

Ci lasciammo con una calorosa stretta di mano.

 

Pranzai in cucina. Avvolgendo gli spaghetti alla forchetta, ripensavo a Laura, alla sua vitalità, al suo entusiasmo. Conoscevo uomini molto più grandi di me che non avevano alcuna difficoltà ad intessere una relazione con una ragazza più giovane di loro. In alcuni casi, addirittura più giovani delle loro stesse figlie.

Quando ne parlavano, tutti ammettevano che avere accanto una donna giovane come per magia annullava il peso degli anni, dissolvendo il tedio del matrimonio. Alcuni non lesinavano ad arricchire i propri racconti con particolari intimi affinché si sapesse che erano ancora nel pieno del vigore fisico. Mentre ascoltavo le loro avventure boccaccesche, mi chiedevo cosa avrei fatto se anch’io avessi incontrato una ragazza disposta ad intrecciare una relazione con me. Istintivamente il pensiero ritornò a Laura.

Poiché per carattere tendo a razionalizzare qualunque evento turbi il mio equilibrio interiore, mi imposi di considerare le inquietudini suscitate in me da Laura come logica conseguenza del difficile momento sentimentale che stavo attraversando. Ritrovarmi da solo, dopo tanti anni vissuti con Monica, era un trauma difficile da superare. Sospettai che il mio inconscio si fosse messo alla ricerca della terapia con cui riempire quell’imprevisto vuoto esistenziale. Pertanto non potevo escludere considerasse Laura la medicina per risanare le fratture del mio animo. Ripudiando ogni forma di medicinale convinto che, alla lunga, può nuocere più dello stesso male da curare, convenni che era meglio la dimenticassi; che l’unica medicina efficace per fronteggiare il difficile il momento che stavo attraversando era il trascorrere del tempo.

Ricacciai Laura dalla mente.

 

L’incessante suono del campanello alla porta mi ridestò.

Mi ero addormentato sulla poltrona davanti al televisore acceso. Filtrando dai vetri del balcone, il tramonto stemperava nel salotto smorti bagliori di luce. Chiedendomi chi fosse, andai ad aprire.

<<Ciao!>>

Il sorriso di Laura rischiarò la sera.

<<Disturbo?>> domandò.

<<Nient’affatto>> feci sorpreso e felice nello stesso tempo.

<<Posso entrare?>>

<<Certo.>> Mi spostai di lato per farla passare.

<<Carino qui>> commentò guardandosi intorno. <<E’ casa tua?>>

<<Di mia sorella.>>

Sfilandosi il giubbotto di pelle, si avvicinò alla libreria, dando uno sguardo ai libri allineati sulle mensole.

<<Dammi la giacca>> dissi.

Mentre appoggiavo il giubbotto sullo schienale della poltrona, ammirai l’asciutta compattezza del suo fisico: il seno sodo gonfiava il maglione; le gambe lunghe e i glutei muscolosi riempivano di sensualità i jeans.

<<Sorpreso?>> mi sorrise sedendosi sulla poltrona, accavallando le gambe.

<<Abbastanza>> ammisi restando in piedi, cercando di non mostrarmi imbarazzato.

<<Sono stata da un’amica che abita da queste parti. Passando ho visto la luce accesa e ho pensato di passare a salutarti.>>

<<Hai fatto bene. Gradisci qualcosa da bere?>>

<<Cosa hai?>>

<<Coca, sprite, aranciata, birra, caffè…>> elencai come un cameriere.

<<Basta>> mi stoppò divertita. <<Una coca va benissimo!>>

Seduti in poltrona, l’uno di fronte all’altra, sorseggiando la lattina di Coca Cola, Laura mi parlò della sua passione per la corsa.

<<Praticamente corro da quando ero bambina. In qualunque stagione e con qualsiasi tempo. Per me correre è vita. Non riesco a immaginarmi la mia esistenza senza la corsa. Correre mi ha insegnato a limare le spigolature del mio carattere. Per natura sono impulsiva, esuberante, aggressiva. Correndo ho imparato a frenare questi aspetti del mio essere. Quando si corre per tanti chilometri bisogna avere il buonsenso di non bruciare subito le energie altrimenti si rischia di fermarsi per strada, di non raggiungere la meta. Nella vita accade, più o meno, la stessa cosa: per realizzare un obiettivo devi partire piano per non disperdere le energie e l’entusiasmo. Senza energie ed entusiasmo non si va da nessuna parte!>>

<<Tu ne hai da vendere, di entusiasmo!>> osservai.

<<L’entusiasmo in me è fisiologico. Fa parte del mio DNA. Qualunque cosa faccia, anche la più sciocca, è sostenuta sempre dall’entusiasmo. Sai perché tante persone sono infelici?>>

<<Perché?>>

<<Perché mancano di entusiasmo. Puoi essere ricco sfondato, avere tante amanti più di Casanova, successo nel lavoro, avere la possibilità di poter viaggiare in ogni angolo del mondo, ma se manchi d’entusiasmo sei una macchina senza benzina che ha bisogno d’essere spinta dagli altri per continuare a procedere. Io non ho un soldo, non ho niente a parte l’entusiasmo, eppure sono felice. Solo il pensiero che un giorno potrei avere bisogno del sostegno degli altri per vivere mi fa stare male.>>

Abbozzai un sorriso.

<<Sono qui per ritrovare l’entusiasmo>> confessai.

<<Lo so, l’ho capito quando in libreria ti ho visto inginocchiato davanti a quella catasta di libri. Solo chi è alla disperata ricerca di qualcosa avrebbe scorso i volumi con la tua stessa frenesia. Quel che tutti cercano nella vita, senza sapere esattamente cosa, è l’entusiasmo!>>

<<Dovresti fare la psicologa invece dell’avvocato.>>

<<Valutare giuridicamente è un’analisi psicologica! Il carattere delle persone, il loro modo d’essere lo determini dal comportamento, non certo da ciò che pensano. Se ci limitassimo a giudicare le persone solo da ciò pensano rischieremmo di fare i processi alle intenzioni, rovinando la gente onesta. E sai perché?>>

<<No!>>

<<Il pensiero è come un fiume, mentre scorre trasporta con sé di tutto, sia il buono che il marcio. Sta a noi decidere cosa salvare dall’acqua e cosa invece lasciare che la corrente porti via con sé. Questa scelta rivela chi davvero siamo, essendo l’origine delle nostre azioni-. Tutto il resto pensieri e parole al vento. Non possiamo giudicare una persona né per il suo modo di pensare né perché ha detto una frase fuori luogo in un momento di rabbia o di disperazione. Siamo esseri umani, non dei: nostro dovere è limitarci a valutare i fatti!>>

Tanta saggezza in quel fiore in germoglio mi disarmò.

Mi alzai e andai al balcone. I bagliori delle case illuminate sulla dorsale del promontorio di Capo Miseno sembravano candeline accese su una torta in una stanza buia. Da dietro l’insenatura apparve il transitante bagliore delle luci di un traghetto diretto alle isole. All’orizzonte, adagiata sul mare, Capri dormiva tranquilla vegliata dal proprio faro che a intervalli regolari squarciava il buio segnalandone la presenza ai naviganti perché ne rispettassero il sonno.

Fissai Laura.

<<Credi che riuscirò a trovare l’entusiasmo?>> chiesi.

<<Si trova sempre ciò che ci appartiene … Adesso devo proprio andare, oggi ho studiato poco e voglio recuperare.>>

Si alzò porgendomi la lattina vuota.

<<Sei certo che non ti infastidisco se continuo ad allenarmi nel tuo giardino?>> domandò mentre l’aiutavo ad infilare il giubbotto.

<<Mi offendo se non la fai!>>

<<Pratichi qualche sport?>>

<<Vado in palestra tre volte a settimana. Niente d’impegnativo. Giusto un po’ di ginnastica e di pesi per tenermi in forma.>>

<<Ti piacerebbe correre con me?>>

<<Non ho l’occorrente!>>

<<Ti piacerebbe?>> insistette.

<<Certo che sì!>>

<<Vedi, soffochi l’entusiasmo per un motivo futile. Ho un amico che vende articoli sportivi. Se vuoi, domani ti porto da lui.>>

<<Va bene.>>

L’accompagnai alla porta.

Laura balzò in sella al motorino parcheggiato davanti casa e l’avviò.

<<A domani>> fece infilandosi il casco.

<<A domani>> le feci eco salutandola con la mano.

 

Mentre ero in cucina a preparare la cena, all’improvviso mi sovvenne come un flash l’immagine di mio cognato che giocava a tennis.

Come un forsennato iniziai a rovistare la casa da cima a fondo. Sembravo un investigatore che percepisce a pochi passi da sé la prova schiacciante per inchiodare il colpevole ma non riesce a trovarla. Dove potevano essere? Fissai la scalinata che saliva in soffitta. Un lampo mi attraversò la mente. Salii di corsa la rampa di scale. Aprii la porta del solaio e accesi la luce, rischiarando l’interno. La fioca lampadina illuminò la cassetta degli arnesi, le biciclette dei bambini e le scope appoggiate al muro dirimpetto, il pacco di giornali ingialliti poggiato su una sedia sgangherata, due barattoli di pittura sistemati in un angolo l’uno sull’altro, dei pennelli induriti. L’armadietto a sinistra attirò la mia attenzione. Mi avvicinai e lo aprii senza indugio. Una fila di scatole di scarpe era allineata sul ripiano centrale. Scelsi quella di una nota marca di articoli sportivi. La scoperchiai: esultai alla vista delle scarpe da tennis. Io e mio cognato calzavamo lo stesso numero. Guardai nuovamente nell’armadietto: sulla scansia in alto era appoggiata una fila di buste di cellophane contenenti indumenti sportivi. Le svuotai una ad una sul pavimento fino a quando non trovai la tuta da ginnastica di Francesco.

 

L’umidità del mattino mi penetrava nelle ossa.

In prossimità del cancello della villa, saltellavo sulla sabbia con le braccia penzoloni per riscaldarmi, scrutando sulla battigia alla ricerca di Laura.

<<Volere è potere!>> risuonò di spalle la sua voce. Mi voltai.

<<Buongiorno>> la salutai.

<<Sei qui da molto?>>

Guardai l’orologio al polso.

<<Una ventina di minuti.>>

<<Se avessi saputo che m’aspettavi, avrei aumentato l’andatura.>>

<<Non preoccuparti.>>

Mi fissò i piedi.

<<Quelle non vanno bene>> fece fissando le scarpette da tennis che calzavo. <<Sono dure e hanno la pianta stretta. Per correre servono scarpe come queste>> Alzò il piede mostrandomi le sue. <<Leggere, con la pianta larga in modo che il peso del corpo sia ammortizzato interamente dal piede senza sforzo.>>

<<Allora non si corre?>>

<<Certo che corriamo, ma, appena puoi, compra delle scarpe adatte altrimenti ti infortunerai, garantito!>>

Iniziammo a riscaldarci. Afferrando una mano alla ringhiera, stringevamo l’altra mano al collo del piede, piegando la gamba all’interno in modo da toccare col tallone la natica. Restavamo in quella posizione per diversi secondi per poi fare lo stesso con l’altra gamba. Terminati gli esercizi, Laura si piantò al mio cospetto.

<<Unisci le gambe; flettiti sul busto senza piegare le ginocchia e cerca di toccarti con le mani le punta dei piedi come faccio io>>. Così dicendo s’inarcò sulle gambe tese, poggiando sul terreno i palmi delle mani. Restò in quella posizione per un tempo interminabile.

<<Adesso provaci tu>> fece rialzandosi.

Inarcai il busto, flettendo leggermente le ginocchia.

<<Se pieghi le ginocchia sbagli l’esercizio.>>

<<Non ci riesco>> gemetti. Il sangue mi andava alla testa.

<<Sei legato>> disse tastandomi le cosce: il tocco delle sue mani mi eccitò. Mi premette la mano sulla schiena perché mi flettessi meglio sul busto. Provai un dolore lancinante.

 

Corremmo una buona mezz’ora sul lungomare, parlando di noi.

Di tanto in tanto Laura interrompeva la conversazione, preoccupata delle mie condizioni fisiche.

<<Tutto bene?>> mi chiedeva premurosa.

<<Tutto ok!>> rispondevo strizzando l’occhio.

Al rientro, in giardino, dopo aver fatto gli esercizi di scarico, mi fece sdraiare con la schiena sulla panca, controllando che eseguissi correttamente gli addominali.

Feci la mia bella figura in quanto in palestra mi sottoponevo a massacranti serie di addominali per bruciare i grassi, reggendo un peso sull’addome.

<<Bravo>> si complimentò.

Toccò a lei.

Sollevandosi sul busto la tesa muscolatura delle cosce si delineò sotto la calzamaglia. Involontariamente posai lo sguardo al tessuto aderente sotto cui si delineava il pube. Il respiro le gonfiò il seno.

<<Stanca?>> feci cercando di nascondere il turbamento suscitatomi dalla sua femminilità.

<<Per niente>> disse alzandosi. <<Ci vendiamo domani alle sette?>> domandò sistemandosi ai fianchi l’elastico della tuta.

<<Perfetto!>> risposi.

Inaspettatamente, prima di andare via, mi baciò sulla guancia.

 

Uscito dalla doccia, indossai l’accappatoio di spugna e rientrai in camera da letto. Aprii l’armadio per prendere i pantaloni. Lo specchio all’interno dell’anta rifletté la mia immagine. Accostai la faccia al vetro: qualche timida ruga solcava le estremità degli occhi. Slacciai la cinta dell’accappatoio, riflettendo il corpo nudo nello specchio. Indietreggiai di qualche passo per analizzarmi a figura intera nel vetro. Tutto sommato potevo ritenermi soddisfatto, non avevo il benché minimo accenno di pancia. Le gambe erano toniche. I pettorali definiti in modo giusto. I bicipiti manifestavano forza. Forse qualche eccesso di grasso ai fianchi …

<<Ma che sto facendo?>> pensai ad un tratto ad alta voce, provando vergogna di me stesso.

Con un colpo secco richiusi l’armadio. Mi stavo comportando alla stregua di quegli uomini che ogni giorno, mattina e sera, si mirano nello specchio terrorizzati dal pensiero di scorgere sul proprio corpo i segni del tempo. Era la prima volta che mi comportavo in quel modo ridicolo. Proprio io che non perdevo occasione di replicare a chi si lamentava del passare degli anni:  <<Le uniche certezze della vita sono il passato e la morte. Tutto il resto è solo speranza e mistero!>>

 

La mia passione per i miti virgiliani risaliva all’epoca del liceo. Tra i tanti episodi delle gesta di Enea prediligevo l’incontro tra l’eroe latino e la sibilla cumana. Cuma distava pochi chilometri da Bacoli. La giornata tersa, riscaldata da un tiepido sole, mi invogliò a visitare l’Acropoli.

 

Risalivo il viale che conduceva agli scavi, attorniato da una calca di ragazzini festosi in gita scolastica. In prossimità dell’ampia sala d’ingresso scavata nel tufo della collina su cui gli antichi avevano edificato il sacro sito, levai lo sguardo alla cima del monte. La fitta vegetazione ammantava le pendici, nascondendo agli sguardi i resti del tempio di Giove eretto sull’apice. Entrando nell’ampia sala di tufo che come un limbo separava la biglietteria dal sito archeologico, osservai i piccoli loculi scavati nelle pareti dove anticamente alloggiavano le lucerne. Non appena fui nel parco, mi accostai alla ringhiera alla mia destra e mi affacciai nel canalone sottostante da dove proveniva l’eco dei colombi annidati nelle spaccature della rupe. Sotto di me si apriva uno slargo dove un ingresso scavato nella pietra conduceva nella città sotterranea. Ammirando quel suggestivo scenario, la fantasia cominciò a galoppare: mi domandai se il complesso archeologico non fosse opera dei Cimmeri, il misterioso popolo delle tenebre, per dar vita ai loro rituali sacri. E solo dopo l’avvento dei colonizzatori greci e successivamente dei romani aveva assunto i connotati attuali con i resti dei templi di Apollo e di Giove. Dubbioso mi incamminai verso il viale alberato che rasentava il margine della collina delimitato da una lunga staccionata in ferro. Al di sotto della terrazza la fitta vegetazione della foresta di Cuma si estendeva fino ai margini della spiaggia del Fusaro. All’orizzonte, ammantata da una sottile foschia, Ischia appariva come una misteriosa signora col velo calato sul viso per nascondersi agli sguardi degli uomini.

Contemplai il suggestivo panorama quasi fossi rapito in mistica ebbrezza: non c’era da stupirsi se gli antichi avessero scelto quel luogo per onorare gli dei e se Virgilio vi avesse fatto sbarcare Enea, gettando i semi della civiltà romana. Pochi siti al mondo suscitavano malie tanto intense nella fantasia degli uomini come quel luogo la cui eterna instabilità del sottosuolo, battezzata bradisismo, caratterizzata dal periodico innalzamento e abbassamento del suolo, lo accomunava simbolicamente alla vita con i suoi alti e bassi. I periodici sommovimenti della terra, unitamente alle esalazioni dei gas che dal suolo si libravano nell’aria alterando i sensi, agli sguardi degli antichi dovettero apparire come manifestazione di una volontà suprema che aveva prescelto quel luogo per manifestarsi e comunicare con gli uomini. Da qui la scelta di edificare il sito in onore del Nume.

Fissai le pigre onde del mare svolgersi sulla spiaggia. Respirai profondamente. Senza indugio mi diressi all’antro della sibilla imboccando l’oscuro corridoio che trafiggeva la collina alle mie spalle.

Man mano che avanzavo nelle tenebre accompagnato dall’eco dei miei passi, osservando la forma del corridoio che ricordava vagamente una vagina, ebbi la sensazione di inoltrarmi nell’intimità della terra. Avanzando in quel grembo tufaceo, più volte fui colto dalla sensazione che occhi invisibili mi spiassero. Attraverso gli enormi squarci laterali intagliati sul fianco dell’antro, fasci di luce provenienti dall’esterno laceravano il buio, proiettando la mia ombra sulla parete opposta. Timoroso avanzai incontro all’ignoto fino a quando non giunsi nella sala della sibilla. Il moncone di pilastro templare posto dinanzi al tabernacolo dove la pitonessa vaticinava, accresceva di mistero l’atmosfera.

Dai meandri della memoria mi sovvenne alla mente la storia della sibilla cumana: la sibilla era una splendida fanciulla. Affascinato dalla sua bellezza Apollo, pur di averla come sacerdotessa, la tentò in ogni modo, offrendosi di esaudirne qualunque desiderio. La donna raccolse una manciata di sabbia e chiese di vivere tanti anni quanti fossero i granelli di sabbia racchiusi nel pugno. Ma dimenticò di chiedere anche il dono dell’eterna giovinezza. Il dio l’accontentò. Con lo scorrere del tempo, la sibilla scoprì d’essere caduta vittima della propria vanità e del cinismo del nume: il suo aspetto si ridusse sempre di più a quello di una larva fino a scomparire, restando percepibile solo la voce. A quel punto il dio le promise di farla restare eternamente giovane a patto che lei avesse giaciuto con lui. Pur di non perdere la propria purezza, la sibilla rifiutò. Ecco il motivo per cui, ancora oggi, c’è chi sostiene che è possibile ascoltarne la voce.

In quell’attimo una voce di donna sorse dal nulla, sussurrandomi: <<L’entusiasmo è il motore della vita. Chi soffoca l’entusiasmo uccide se stesso. Ogni uomo è un dio in embrione che solo vivendo ha modo di manifestare la propria grandezza!>>

Istintivamente mi guardai intorno alla ricerca di Laura. Intorno a me solo silenzio e oscurità. La sibilla aveva vaticinato. Era compito mio penetrare il senso delle sue parole. […]

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RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PARADISO IN TERRA

diga del piano

 

 

 

 

 

 

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Nonostante siano più di vent’anni che veniamo in vacanza a Raggiolo, ogni anno questo luogo d’incanto riesce a regalarci sempre nuove emozioni. Sarà lo scenario naturale in cui è immerso, l’aria salubre che anche nelle ore più calde ti regala un pizzico di frescura, il silenzio rotto dal frinire delle cicale e dall’eterno scroscio dei fiumi che si riversano dal Pratomagno, fatto sta che in quest’oasi arroccata sulle montagne del Casentino Toscano riesci davvero a lasciarti alle spalle le problematiche quotidiane.

Dal momento in cui iniziammo a venirci con regolarità per soggiornarvi d’estate almeno per una settimana, uno dei piaceri che mi concedetti fu il bagno nel Barbozzaia.

Durante le ripetute escursioni al fiume con i bambini e mia moglie, avevo adocchiato una vasca naturale dove era possibile immergersi fino al collo. Ogni volta che posavo lo sguardo in quella pozza d’acqua limpida, ribollente per la forza della corrente, mi ripromettevo di tuffarmi.

Una mattina, dopo aver corso per i monti, rientrando in paese, mi allungai fino al fiume deciso a fare il bagno.

Mi inoltrai nella boscaglia, salii su un largo spuntone di roccia rasente la riva, mi tolsi maglietta e scarpetta e immersi le gambe nell’acqua fino alle ginocchia. Un brivido mi colse lungo la schiena. Istintivamente fui tentato di risalire, ma la voglia di bagnarmi in quella risplendente limpidezza mi persuase ad avanzare.

Nel momento in cui l’acqua mi arrivò al petto, non ci pensai una volta di più, mi tuffai. L’impatto fu terribile. L’acqua era talmente fredda che, rialzandomi di scatto per risalire sulla roccia, ebbi la sensazione di non essere bagnato, ma di essere avvolto in un’invisibile accappatoio gelato.

Da quel giorno il bagno nel Barbozzaia divenne un rito che si replicava ogni anno. Col tempo riuscii a coinvolgere anche i miei figli e mia moglie.

Anni dopo, grazie a un abitante del posto a  conoscenza di quella mia follia, così definiva simpaticamente la mia passione di fare il bagno nel fiume, venni a conoscenza della Diga del Piano, dove scorre il fiume  Teggina, immersa nella boscaglia sul versante opposto del paese. La vasca,  ben più ampia di quella del Barbozzaia, permette di tuffarsi e nuotare per un breve tratto, raggiungendo la cascatella alimentata dal salto del fiume sotto cui è possibile concedersi il piacere di un idromassaggio naturale.

Negli ultimi tre anni che siamo venuti a Raggiolo a causa del tempo inclemente o per altri motivi, non abbiamo avuto modo di rinnovare la follia.

Oggi la giornata calda e assolata ci ha permesso finalmente di bagnarci in quell’acqua  così chiara da distinguere il fondale.

All’iniziale apnea che ti coglie riemergendo nella pozza gelata, si sostituisce la piacevole sensazione di un brivido vitale diffuso per tutto il corpo che ti manda l’adrenalina alle stelle.

Nel momento in cui infreddolito esci dall’acqua e  ti siedi sul masso al centro della vasca per prendere il sole, i raggi filtranti la fitta vegetazione, attraversando le fronde, trafiggono l’acqua creando tutto intorno un gioco di luci, naturale corredo allo scenario fiabesco.

Abbandonandoti alla fantasia, chiudendo gli occhi e liberando la mente dai pensieri, hai la percezione di trovarti in un’altra dimensione; in un luogo fuori dal tempo dove l’attimo è l’unica unità temporale.

Forse a ciò si riferivano i latini affermando Carpe Diem, cogli l’attimo: avere la forza e la capacità di vivere intensamente il momento, lasciandosi rapire anima, mente e corpo dalle emozioni dell’istante.  

Per magia lo scosciare dell’acqua si tramuta in una voce melodiosa e misteriosa che ti parla di un passato ancestrale dove l’uomo viveva in simbiosi con la natura, riconoscendole un ruolo primordiale nella gerarchia dei valori esistenziali.

Un’epoca in cui gli individui non abusavano né disprezzavano la natura, ma la rispettavano traendovi il necessario sostentamento per vivere:  cibo, indumenti, materiali per costruire case, armi e utensili. Un’epoca in cui l’uomo si serviva della natura con rispetto e intelligenza, anziché ferirla e distruggerla solo per il gusto di affermare se stesso e la propria cupidigia. Non avvedendosi che così facendo non distrugge solo lei, ma se stesso essendo egli parte integrante della natura.

Ammaliato da quelle sensazioni, riaprendo gli occhi, guardando il paesaggio incontaminato sorriderti, ti viene istintivo chiederti se l’Eden non fosse così.

A quel punto non puoi fare  ameno di pensare “Raggiolo, uno scorcio di Paradiso in terra!”

L’ULTIMA NOTTE

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Di seguito i primi due capitoli de L’ULTIMA NOTTE in vendita su Amazon

 

Prologo

 

Dal ripiano del tavolo, la lampada illuminava l’interno della capanna, proiettando sulla parete l’ombra del vecchio pescatore intento a  scrivere su un quaderno. Avvolto in una nuvola di fumo che gli usciva dalle narici, con le ciglia corrucciate rilesse, schiacciando sulle assi del pavimento il mozzicone di un sigaro.

” L’amore ha il potere di fissare il passato in eterno presente.”

Trasse un profondo respiro. Chiuse il quaderno e si alzò, avvicinandosi alla finestra dove, da dietro ai vetri graffiati dalla pioggia, imperversava la tempesta.

Un fulmine tracciò nell’aria una scarica luminosa che squarciò le tenebre, illuminando, in lontananza, il mare ingrossato infrangersi sulla scogliera sottostante. Seguì l’assordante boato di un tuono. Da dietro alla capanna, Julab, il suo cane, prese ad abbaiare. Sorrise pensando all’animale con cui da tempo condivideva la solitaria esistenza.

Da una vita viveva in quella capanna, mai aveva assistito a una burrasca tanto violenta.

“Forse è un segno”, pensò. E, scrollando il capo, allontanandosi, si andò a sdraiare sul letto affiancato alla parete su cui si apriva la finestra.

Con le mani dietro alla nuca, fissava il soffitto da cui giungevano i rumori delle tegole tormentate dal vento e dalla pioggia. Un tuono, più fragoroso del precedente, inondò la capanna. La struttura di legno e lamiera vibrò, al punto che le stoviglie appese al muro caddero al suolo in maniera assordante.

Percependo il freddo entrargli nelle ossa, l’uomo si infilò sotto la coperta, rannicchiato nel tentativo di scaldarsi.

La fiammella della lampada cominciò ad affievolirsi.

Si alzò per raggiungere la mensola su cui erano disposti, ordinatamente, un rasoio, un pennello da barba, dei libri ammonticchiati l’uno sull’altro, una vaso di terracotta e una rudimentale clessidra che aveva costruito da giovane, unendo e strozzando con la pece i colli di due bottiglie, dopo averne riempita una a metà con la sabbia. Da dietro al vaso ne prese una più  corta, rivestita di uno spesso strato di polvere e ragnatele, in cui vi era dell’olio. Quindi si avvicinò al tavolo e prese da un cassetto una candela e una scatola di cerini. Accese la candela, versò un po’ di cera sul tavolo e la fissò. Assicurandosi così la luce mentre cambiava il combustibile alla lampada. Accese un altro fiammifero, accostandolo allo stoppino, manovrando con sapienza il regolatore della fiamma per sprigionare un fascio di luce pulita.

Con un soffio spense la candela riponendola nel cassetto.

 

La tempesta, intanto, aumentava d’ intensità.

Preoccupato, ritornò alla finestra, per accertarsi che Julab se ne stesse al riparo nella cuccia. Appoggiò il naso sul vetro, nel tentativo di sconfiggere il fitto velo di pioggia che rendeva impossibile distinguere quanto accadeva fuori in quel momento.

Lo spegnersi della lampada gettò la capanna nel buio.

“Accidenti.”, borbottò, raggiungendo il tavolo per prendere i cerini. Ne trovò un paio, accatastati di fianco alla lampada e ne strofinò  uno sul ruvido del pavimento. L’ umidità del legno vanificò ogni tentativo.

– Perché ti ostini ad accendere? -, domandò una voce alle sue spalle.

Un bagliore rischiarò il sorriso sul volto dell’uomo. Si girò in direzione della voce per vedere a chi apparteneva, ma un’ improvvisa pesantezza agli occhi lo costrinse a chiudere le palpebre. Quando le riaprì, un’ombra indistinta, nebbiosa era lì alla finestra.

– Allora. Cosa aspetti? -, domandò, tracciando dei segni sul vetro opaco. Segni che sembravano rivolti al mare.

Nella mente del vecchio, i ricordi di un passato lontanissimo tornarono  a ravvivarsi con frenesia.

 

I

 

Il sole, alto nel cielo, generava riflessi cristallini sul mare che circondava l’isola, simile a una collana di perle. I raggi illuminavano le case basse, esaltandone i colori pastello.

Dalle finestre aperte, l’astro entrava nelle case riscaldando ogni angolo. Nell’ aria l’accattivante aroma della primavera accarezzava le creature col suo dolce tepore, inducendole ad amarsi. Nulla e nessuno sapeva resistere a quella malia.

Tutta la natura si crogiolava nell’ebbrezza dell’abbraccio creativo.

Maschi e femmine giocavano a un perpetuo rincorrersi e sfuggirsi, per  ritrovarsi, rapiti dall’oblio dell’estasi amorosa.

Approfittando della splendida giornata, i suoi genitori decisero di uscire in barca per andare a pesca. Kayfa rinunciò, perché aspettava Raoul con il quale si doveva allenare per la gara di nuoto che si sarebbe svolta tra due settimane.

Udendo il battente picchiare alla porta, convinto che fosse l’amico, uscì dal bagno. Andò ad aprire senza la preoccupazione di coprirsi.

Sull’uscio, avvolta in un coloratissimo pareo, e con un braccio infilato in un cesto colmo di frutta, c’era Miryam, un’amica della madre. Una donna splendida, nel pieno della sua maturità. I capelli, neri e setosi, le scendevano lungo la schiena fino ai glutei. Sotto il delicato indumento, il suo corpo sinuoso, dalle generose forme, svettava armoniosamente al sole, offrendo al calore dei raggi la robustezza e la fragranza dei seni color pesca. Il viso della donna, anch’ esso rischiarato dal sole, era privo di trucco.

Kayfa restò per qualche istante confuso.

Quando si accorse che lei l’osservava con interesse, per nulla imbarazzata da quella situazione, d’istinto si portò le mani tra le gambe per celare le proprie nudità.

Intenerita da quel gesto, gli sfiorò il viso con una carezza.

– Mi scusi –   balbettò , visibilmente turbato.

La donna scosse il capo, lasciando intendere che non doveva preoccuparsi.

– Posso entrare? –   domandò, continuando ad accarezzargli la guancia con la mano.

– Mamma non è in casa – fece con voce tremante.

– Non fa niente – rispose, avanzando sulla soglia. Una volta entrata, gli fece cenno di chiudere la porta, scivolandogli con la punta delle dita lungo il collo, fino a sfiorargli il  torace glabro e muscoloso. Soffermandosi a solleticargli i capezzoli che avevano assunto il caratteristico tono violaceo dell’eccitazione.

Il corpo del giovane  era tutto un fremito mentre la donna, che nel frattempo si era liberata del cesto poggiandolo su un tavolino al centro della sala, gli  massaggiava con voluttà il petto, passandogli, di tanto in tanto,  una mano tra i capelli bagnati.

– Ora sono qui per te – gli sussurrò in un orecchio, mordendogli il lobo, sorridendogli maliziosamente. In quell’istante, Kayfa comprese che stava per diventare uomo.

 

Le gambe presero a tremare e le viscere a rivoltarsi nell’addome.

Cercò nei meandri della mente qualunque cosa potesse tornargli utile per mascherare la propria inesperienza.

Come d’abitudine per i ragazzi della sua età, ascoltava con interesse i discorsi dei più grandi relativi al sesso, in modo da farsi una cultura a cui poter attingere al momento opportuno onde evitare figuracce.

Il momento era giunto.

– Allora, cosa aspetti? –  chiese lei con voce sommessa, slacciandosi il pareo e fissandolo intensamente con due occhi neri e scintillanti. Offrendo al suo sguardo intimorito lo splendore naturale del suo corpo maturo.

 

” La stringi forte tra le braccia e la baci lungo il collo, mentre con le mani le sfiori i fianchi.”, ricordava aver sentito dire da qualcuno.  “Quando la baci, appoggi delicatamente le tue labbra sulle sue, schiudendole in modo che le vostre lingue si incrocino, è bellissimo!”, aveva sentito da qualcun altro. Ma la cosa più importante l’ascoltò da Omar, il pescatore di spugne con il quale spesso si fermava a dialogare. Facendosi coraggio, una mattina, approfittando che Omar gli stava raccontando delle proprie avventure amorose da giovane, aveva trovato la forza di chiedergli cosa bisognava fare quando si incontrava una donna per la prima volta.

“Non preoccuparti figliolo”, lo rassicurò. “Quando anche per te giungerà il momento, lasciati guidare dal cuore. Ma, soprattutto, lascia che a guidarti sia lei, chiunque essa sia. Le donne imparano presto e sanno essere delle maestre giudiziose. Non ti preoccupare e sii naturale. Solo così potrai essere certo che tutto andrà bene. Voler apparire ciò che non si è nella vita si risolve sempre contro noi stessi”.

 

Adesso, quelle parole gli ritornavano in mente, fissando Miryam che si accostava a sé con il suo corpo profumato di mare al suo, desiderosa di essere posseduta. Accarezzandolo tra le gambe al fine di stimolarne la virilità, ridotta a un pezzetto di carne raggrinzita.

Intuendo che per lui quella era la prima volta, Miryam tramutò se stessa in vergine, riacquistando spiritualmente la purezza donata in gioventù a un uomo che, dopo averla sposata, regalandole l’illusione dell’amore, successivamente, alle morbide onde del suo corpo aveva preferito quelle fredde del mare. Abbandonandola a un solitario destino su quell’isola, su cui, per vivere, era stata spesso costretta a cedere  alle lusinghe di quanti smaniavano di giacere con lei. Nutrendo un profondo rancore verso la vita che si era mostrata così crudele nei suoi confronti, privandola della madre, morta nel darla alla luce, e poi del padre, scomparso in mare durante una tempesta quando non aveva ancora un anno. Costringendola a vivere con la nonna materna fino al giorno del matrimonio, e in seguito da sola.

L’unica persona che non l’aveva mai abbandonata, niente affatto preoccupata della fama che l’accompagnava, era la madre di Kayfa.

 

Appassionatamente, senza tregua, si amarono fino a che i contorni dell’ orizzonte assunsero il tono purpureo del tramonto, ora in cui i pescatori rientravano.

Ravvivandosi i capelli con le mani, Miryam si alzò dal pavimento che aveva funto da giaciglio.

Nella stanza, il profumo dei loro corpi si mischiava a quello del mare proveniente dalla finestra, con la tenda di paglia prudentemente abbassata per evitare che sguardi indiscreti sorprendessero la loro intimità.

Un solo momento di panico li aveva colti: quando Raoul bussò con insistenza alla porta.

* * *

– Mio Dio. E’ Raoul – gemette Kayfa, nell’udire la voce dell’ amico gridare il suo nome –  Dovevamo andare ad allenarci -, aggiunse con espressione sognante, risultato delle carezze e dei baci con cui Miryam lo stordiva cavalcandogli il ventre.

– Lascia che bussi – mormorò estatica, riversando la cascata di capelli corvini sul viso di lui che accennò a un timido moto di ribellione per divincolarsi dalla stretta. Sortendo, invece, l’effetto di accrescere l’eccitazione di entrambi fino al culmine del piacere.

II

 

I raggi del sole attraversavano le liste della tenda, proiettando sul corpo di Miryam tanti punti luminosi, dando l’ impressione che la sua pelle fosse maculata al pari di un leopardo.

– Sei bellissima – fece Kayfa, steso sul pavimento con le mani giunte   dietro la nuca, ammirandola riavvolgersi nel pareo.

– Anche tu – rispose, accostando la punta dell’indice alle labbra. Posandola, quindi, su quelle di lui, in un ipotetico bacio.

– Quando ci rivediamo? – chiese Kayfa, sedendosi sul pavimento con le gambe incrociate.

– Al più presto – rispose, passandosi le mani lungo i fianchi perché l’indumento aderisse ai lineamenti del suo corpo – Adesso devo andare – aggiunse, chinandosi a baciare sulla fronte il giovane amante.

– Quando ci rivediamo? – chiese nuovamente Kayfa, balzando in piedi e afferrandole i polsi, preoccupato di non farle male.

Sorridendo, Miryam accostò le labbra alle sue:

– Domani alle quattro – sussurrò – Vicino allo “scoglio dei gabbiani” – E lo baciò con passione prima di avviarsi verso la porta. Aprendola, dopo essersi assicurata che non sopraggiungeva nessuno.

 

– Allora, come è andata? – chiese sua madre, entrando nella stanza dove  Kayfa, seduto sul letto, leggeva un libro.

– Non tanto bene – mentì, continuando a fissare le pagine aperte.

– Che significa “non tanto bene”? – chiese, baciandolo sulla fronte – Tu e Raoul avete per caso litigato? –  e si sedette sul bordo del letto in attesa di spiegazioni.

– Ho avvertito un malessere – continuò a mentire, chiudendo il libro e cercando di sfuggire lo sguardo perplesso con cui la donna lo fissava.

– Mio Dio – esclamò allarmata, prendendogli tra le dita il mento per osservare il viso – Hai un’aria affaticata – ammise. Istintivamente allungò la mano sulla fronte per controllare se avesse la febbre – E cosa ti sei sentito? –  riprese, tranquillizzata dal fresco percepito sui polpastrelli.

– Mal di stomaco – Kayfa sentì il sangue affluirgli alla testa per la rabbia e la vergogna che provava in quel momento. Prima di allora non aveva mai mentito a sua madre.

– Cosa hai mangiato questa mattina a colazione? – incalzò lei.

– Tè e biscotti – si affrettò a rispondere.

–  Evidentemente ti avrà fatto male qualcosa che hai mangiato ieri sera a cena –   concluse. E si alzò per avviarsi presso la finestra spalancata sulla baia, da dove giungeva il frinire delle cicale.

Le stelle bucavano il terso cielo della sera. Si appoggiò con le mani al davanzale per ammirare il panorama.

– E’ stata una splendida giornata – sospirò.

In lontananza, un peschereccio illuminato lanciò un “urlo”.

– La pesca è stata abbondante e tuo padre è ancora giù al porto per trattare il prezzo del pesce. Non immagini quanto sia felice.   .

– Sono contento – sorrise Kayfa portandosi al suo fianco.

– Ho visto sul tavolino dell’ingresso il cesto per la frutta che avevo prestato a Miryam. Quando è passata? – domandò, sistemandosi la gonna sul davanti.

Kayfa si sforzò di controllare l’imbarazzo che provava – Questa mattina, sul tardi – rispose deglutendo.

– Miryam è una carissima ragazza – sorrise lei – Peccato non sia stata baciata dalla fortuna. Non è cattiva come dicono, sai? – concluse, uscendo dalla stanza.

– Sì mamma – mormorò, rivolto all’arco d’argento che si stagliava nel cielo.

 

Distesi sul bagnasciuga, i corpi nudi di Miryam e Kayfa, travolti dalla passione, erano in balia delle carezze del mare.

Di tanto in tanto un gabbiano planava sullo spuntone di roccia lavica, dietro cui si erano dati appuntamento il giorno prima, per librarsi in volo  appena posava lo sguardo sulla strana creatura a due teste che si dimenava nell’acqua con degli strani suoni  gutturali.

Scossi dalle convulsioni dell’amore, i due amanti si fissavano con occhi sbarrati. Le mani intrecciate in una stretta morsa, che si allentò nell’ attimo in cui il flusso umorale defluì dai canali naturali, disperdendo nel vento l’acuta nota dell’ incanto d’amore.

 

– E’ stato splendido – sussurrò Miryam, sdraiata su di un fianco nell’ acqua, scorrendo con la punta delle dita i tratti acerbi di lui.

Immerso con la schiena nel ribollio della risacca, Kayfa ammirava le evoluzioni di un gabbiano. Udendo quelle parole, rivolse lo sguardo a Miryam che lo fissava con un dolce sorriso su cui si stemperavano gocce di mare, passandole una mano tra i capelli bagnati intrisi di sabbia e salsedine.

– I tuoi capelli hanno bisogno di una sistemata – mormorò.

La donna esaminò con cura una ciocca.

– Che importa – dichiarò divertita. Con impeto si gettò su di lui, abbracciandolo in modo che le loro guance si sfiorassero.

Da lontano, smorzati dal mare, giungevano gli echi delle voci dei pescatori che issavano le reti.

– Sei felice? – chiese Miryam con un sorriso, sfiorandogli l’orecchio con le labbra.

– Tanto. E tu? – le domandò tenendosi sui gomiti e fissandola con intensità negli occhi.

–  Abbastanza –  ammise lei, dopo un istante di riflessione.

–  Come abbastanza? – scattò preoccupato.

– Stupido – rise – Certo che sono felice – E spingendolo con la schiena nell’ acqua, lo baciò con passione.

Ancora una volta, i loro corpi si intrecciarono nei sussulti dell’amore. Questa volta fu Kayfa a sottomettere la natura di lei. Miryam lo lasciò fare, desiderosa di essere schiava del suo ardore, gemendo di piacere  all’ardire con cui il giovane le violava l’ intimo. L’apice li travolse all’unisono. Le labbra, unite in un caloroso bacio, trasfusero nelle loro anime l’armoniosa melodia che si levò dall’ esaltazione dei sensi. I cuori vibrarono in un ritmo assordante che si placò allorché l’ultimo sussulto di piacere scosse i due amanti.

Esausti, si accasciarono felici nell’acqua cristallina.

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IL LIBRO: LE MIE RAGAZZE-RAGAZZE ROM SCRIVONO

le mie ragazze

Le chiamerò semplicemente le mie ragazze perché dopo gli incontri tenuti nell’IPM di Nisida da fine giugno agli inizi di luglio del 2006 per impartire loro qualche nozione di scrittura creativa, non posso che considerarle tali. Ovviamente mie non va inteso come aggettivo possessivo, bensì deve intendersi in chiave spirituale.

Nelle sei settimane in cui ci siamo incontrati, ognuna di loro, a modo suo, mi ha dato qualcosa. Ognuna di loro col suo sorriso, la sua tristezza, la sua voce, il suo silenzio mi ha aiutato a capire, anche se solo in minima parte, un mondo a me noto solo attraverso le immagini stereotipate di bambini/e, ragazze/i ferme/i ai semafori che cercano di lavarti il vetro del parabrezza o di venderti un pacchetto di fazzolettini di carta vestiti in maniera trasandata e puzzolente; di gruppi di donne con neonati tra le braccia accovacciate per a terra mangiare con le mani sudice cibi di dubbia qualità e provenienza, la cui vista da lontano ti disgusta al punto da indurti ad attraversare la strada.

Sembrerà strano ma Le Mie Ragazze mi obbligarono a cercare di comprendere quest’esistenza volutamente vissuta senza pentimenti ai margini della società. Frutto di una cultura popolare per noi inammissibile che riconosce nel vagabondaggio, nell’accattonaggio e, molto spesso, nel furto gli unici mezzi di sostentamento. Una cultura dove i bambini piccoli sono un mezzo per attuare tali principi in quanto non sono perseguibili dalla legge.

Le mie ragazze non avevano più di diciassette anni. Alcune erano davvero belle, altre avevano un fascino magnetico. Quando discutevamo, la loro allegria era così contagiosa che a stento riuscivo a frenare l’ilarità per non dare di me un’immagine faceta, rischiando di perdere l’ascendente che avevo su di loro. Forse qualcuna ha iniziato anche a volermi bene, o a vedermi con occhi “diversi”…

Quest’ultimo aspetto lo percepivo dall’intensità di alcuni sguardi… In quei momenti mi sentivo in imbarazzo!

Quando iniziai gli incontri avevo messo in conto anche quella possibilità in quanto alla loro età qualsiasi ragazza è già donna. Figuriamoci loro che non sanno cosa significhi l’infanzia; che non appena hanno le loro prime regole vengono date in spose affinché mettano al mondo dei figli; che in quel caso specifico restano a lungo imprigionate senza alcuna possibilità d’incontrare un coetaneo, se non sotto stretta sorveglianza e in momenti particolari.

Rientrando a casa, ripensando a quegli sguardi di desiderio e alle frasi allusive che spesso li accompagnavano, sorridevo lusingato. Ma il compiacimento si arrestava lì. Esistono limiti che alla mente non è concesso oltrepassare!

Le mie ragazze erano belle! E ancor più belle erano l’ultimo sabato che ci vedemmo. Dai lori volti traspariva speranza di libertà per via della discussione in parlamento sull’approvazione dell’indulto. Qualcuna già sognava di riabbracciare il marito e i figli – avete letto bene, “il marito e i figli”; qualcun’altra sognava di cambiare vita; qualcun’altra, più realisticamente, sperava di rientrare in carcere il più tardi possibile perché “rubare appartiene al mio DNA”. Disse proprio così!

Fu bello condividere con loro quelle settimane, leggere sui lori volti e nei loro sguardi le continue mutazioni delle loro anime. E’ stato bello sapere che per un momento le loro menti hanno pensato in maniera diversa dal solito, meditando sugli errori commessi, (cosa che già facevano prima di incontrare me, ma in maniera differente. Almeno così dissero…).

Fu bello essere lì con loro illuminandomi dei loro sorrisi, commuovendomi delle loro lacrime, raccogliere nel mio cuore i loro pentimenti, la loro rabbia, la loro voglia di vivere, di amare, di sentirsi donne.

Fu bello ricevere i loro baci sulle guance prima di andare via per sempre.

Fu commovente sentire alle mie spalle, mentre m’incamminavo per l’ultima volta verso l’uscita, la voce di una di loro sussurrare “Addio istruttore!”

Se volete leggere l’intero diario di quelle 6 settimane non vi resta che acquistare il libro. Sono convinto che non ve ne pentirete.

Buona lettura!

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IL PIACERE DI CORRERE A RAGGIOLO

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Di seguito la versione integrale dell’articolo  pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Sono ormai circa venticinque anni che ogni estate con la mia famiglia passiamo un periodo di vacanza a Raggiolo dove mio suocero, il pittore/regista Osvaldo Petricciuolo,  comprò e ristrutturò un casolare di campagna dando vita alla casa d’arte museum petricciuolana in cui sono conservate molte delle sue opere d’arte.

Situato nel Casentino Toscano, a cinquanta chilometri d’Arezzo in direzione Firenze, Raggiolo sorge sulle pendici del Pratomagno, “una dorsale montuosa che si innalza tra il Valdarno superiore e il Casentino a nord-ovest della città di Arezzo”. Posto a 750 metri sul livello del mare, è lambito ai fianchi da due fiumi, il Barbozzaia e il Teggina, le cui limpide acque si incontrano a valle in località Il Mulino per proseguire insieme il loro corso fino a Bibbiena per poi tuffarsi nell’Arno arricchendone l’alveo.

Da quando con regolarità iniziammo a venire in vacanze a Raggiolo, nutrendo fin da ragazzo la passione per la corsa, immancabilmente prima di partire metto in valigia le scarpette e gli indumenti da runner in maniera da allenarmi al fresco, respirando finalmente aria pulita.

Sia che ci fermassimo una settimana, quindici giorni o addirittura un mese come quest’anno, ogni volta che siamo in vacanza a Raggiolo, almeno per tre/quattro giorni, esco di casa intorno alle 7 del mattino per scendere in macchina a Ortignano. Dopo aver parcheggiato l’auto nello spazio antistante la fabbrica di abiti per bambini, parto dal Municipio per arrivare come minimo fino al bivio con la statale per Firenze e tornare indietro per complessivi dieci chilometri.

Essendo il percorso caratterizzato da continui tornanti e ripetuti strappi in salita, quei dieci chilometri hanno un potenziale di fatica superiore alla distanza effettiva. Se poi decidessi di partire direttamente da Raggiolo per arrivare fino a San Piero In Frassino e risalire, i dodici chilometri del percorso vanno divisi nei quattro chilometri di discesa iniziale, nei quattro chilometri di falsopiano complessivi tra andata e ritorno tra Ortignano e San Piero, e nei quattro chilometri di salita finale che da Ortignano conducono alla piazza di Raggiolo, di cui gli ultimi settecento metri con una pendenza del 10%.

Per quanti amano lo sport all’aria aperta, in particolare correre, Raggiolo è l’ideale per abbinare all’attività sportiva il piacere di ritrovarsi immersi nella natura, respirando ossigeno a pieni polmoni anche ad agosto inoltrato quando in città l’afa mista allo smog fanno boccheggiare; magari incrociando, mentre si corre, uno scoiattolo che ti taglia la strada, o rischiare di calpestare la sagoma di un rospo o di un serpente spiaccicati sull’asfalto da un veicolo mentre si godevano impavidamente il sole sulla carreggiata.

 Partire in piena estate alle 7 del mattino con una temperatura di 15/18 gradi e correre per circa un’ora sotto i 20 gradi è un piacere che solo chi corre può comprendere e apprezzare. Per quanto in città puoi decidere di andare a correre quando è ancora buio nella speranza di godere un po’ di fresco, anche a quell’ora il caldo e, soprattutto, l’elevato tasso di umidità rendono praticamente impossibile lo sforzo fisico. In quei momenti ti ritrovi a sudare e ad ansimare nemmeno fossi in una sauna, maledicendo te stesso per essere voluto per forza scendere. A quel punto, per fronteggiare l’afa, inizi a fare gli allunghi, alternandoli con la camminata veloce, nella speranza di regalarti un minino di frescura grazie al venticello che ti avvolge mentre spingi sulle gambe.

Macché, nemmeno in quel caso riesci a mitigare la calura.

Correre di mattina  a Raggiolo, o in qualsiasi altro luogo di collina o di montagna, è una fortuna. Ritengo sia un dovere di ogni runner cogliere al volo tale opportunità, non appena gli si presentasse l’occasione.

In città facciamo tanti sacrifici pur di ritagliarci uno spazio di tempo libero per correre, per sentirci liberi, – spesso la mattina presto o la sera non appena rientriamo da lavoro,  soprattutto d’inverno sia che faccia freddo, piova o nevichi – che non avrebbe senso non approfittare di un soggiorno di qualche settimana in un luogo come Raggiolo per appagare la propria passione in condizioni ottimali.

Ovviamente non è detto che si debba essere per forza un runner o uno sportivo per apprezzare il piacere di respirare la frizzantezza dell’aria. Basta semplicemente aver voglia di fare una passeggiata salubre di pochi chilometri, magari anche nel tardo pomeriggio quando il sole si approssima al tramonto e l’aria inizia a rinfrescare, per godere ciò che per chi vive in città è da considerarsi un vero e proprio privilegio, anzi un miraggio!

Per quanto mi riguarda, essendo un runner, se venissi a Raggiolo e non portassi con me l’attrezzatura per la corsa, sarebbe come se un amante della pesca andasse in vacanza in una località di mare particolarmente pescosa e non portasse con se la canna da pesca o l’attrezzatura da sub, fucile incluso.

So bene che chi non coltiva la passione per la corsa considera un folle chi come me, anche in villeggiatura, si alza presto al mattino per macinare chilometri sull’asfalto o sullo sterrato. Mentre potrebbe starsene tranquillamente a letto fino e tardi; oppure in giardino immerso nella sdraio a leggere un buon libro,  fare un cruciverba; o semplicemente godersi il relax, perdendo lo sguardo e la mente nella vastità del panorama che si stende all’orizzonte.

Le passioni vanno sempre coltivate, soprattutto quando si ha la possibilità di poterlo fare in un ambiente consono, sognato tutto l’anno.

Non approfittarne equivarrebbe a un crimine.

Buone vacanze!

 

CIAO, LUCIANO!

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

Tra ieri e oggi ci hanno lasciato, a distanza di poco più di ventiquattro ore l’uno dall’altro, Andrea Camilleri, il papà del commissario Montalbano, e poi Luciano De Crescenzo, l’autore di Così Parlò Bellavista.

Se sulla scomparsa dello scrittore siciliano ho taciuto per una questione di pudore, rispetto e dignità personale non avendo letto praticamente nulla di suo se non qualche estratto dai suoi romanzi e qualche articolo apparso sui giornali, altrettanto non farò per De Crescenzo di cui ho letto praticamente quasi tutto, a partire da ZIO CARDELLINO il suo romanzo di esordio, a COSI’ PARLO’ BELLAVISTA che lo rese famoso in tutto il mondo, alla sua autobiografia STORIA DI LUCIANO DE CRESCENZO SCRITTA DA LUI MEDESIMO, unitamente a tutti i testi sulla STORIA DELLA FILOSOFIA GRECA.

Posso dirlo senza essere tacciato di piaggeria, fu proprio grazie ai suoi libri sulla filosofia che mi sono appassionato a questa disciplina: la semplicità della sua scrittura, unitamente alla sua innata ironia e indiscussa capacità di rendere comprensibili le cose difficili anche a chi non possedesse l’ABC, ne hanno sancito la grandezza letteraria, a prescindere da quanto ne dicessero gli addetti ai lavori, ossia i professori di filosofia, per fortuna non tutti, che vedevano De Crescenzo come il fumo negli occhi perché, a loro dire, s’era addentrato in un campo che non gli apparteneva, usurpandoli dello scettro della sapienza. Una sorta di moderno Prometeo, reo di  aver rubato la sacra fiamma della conoscenza dall’Olimpo per offrirla agli uomini!

Se con Camilleri se ne è andato un pezzo di Sicilia, con De Crescenzo se ne va un pezzo di Napoli. Quella città che lui amava e odiava al tempo stesso a causa delle tante contraddizioni che la caratterizzano, che lui seppe mettere in luce nel suo capolavoro letterario COSI’ PARLO’ BELLAVISTA. E che anni dopo ebbe l’ardire, ma anche la straordinaria capacità, di trasporre in versione cinematografica nel doppio ruolo di regista/attore, dimostrando la propria versatilità artistica. A distanza di anni, tuttora quel film viene spesso replicato da qualche emittente napoletana e, come i film di Totò, lo si rivede sempre con piacere.

Se del privato di Camilleri si sa poco o nulla, di De Crescenzo s’è saputo molto essendo stato oggetto di gossip per le tante storie d’amore che ha vissuto con star nazionali e internazionali. Una su tutte Isabella Rossellini!

Ero poco più che quindicenne quando lessi COSI’ PARLO’ BELLAVISTA: comprai il libro in una cartolibreria a Portici dove eravamo in visita dai genitori di papà. Quando uscii con il libro tra le mani e glielo mostrai, papà disse, “All’interno si racconta l’episodio di quando, mentre era da Minale – Minale è il negozio di giocattoli dove papà ha lavorato per oltre quaranta anni – per degli acquisti, gli rubarono degli oggetti dall’auto parcheggiata a Piazza Mercato!”’. Quell’episodio è stato trasposto nel film con la magistrale interpretazione di Riccardo Pazzaglia nella scena del Cavalluccio Rosso.

Pur conoscendolo come si può conoscere un cliente affezionato, di De Crescenzo papà ne parlava con rispetto, definendolo un signore sorridente e disponibile con tutti.

Da ieri la Sicilia è in lutto per la scomparsa di Camilleri, da oggi Napoli lo è per quella di De Crescenzo. Ma non avendo l’arte confini, tra ieri e oggi in lutto è il mondo intero dell’arte e della cultura nazionale e mondiale.

Speriamo che il Senato, così come ieri ha tributato un minuto di silenzio allo scrittore siciliano, altrettanto faccia oggi per la scomparsa di De Crescenzo. Entrambi con le loro opere hanno contribuito a rendere grande l’Italia.

A dispetto di alcuni politici che con le loro sbruffonate e cialtronerie non fanno altro che gettare fango sulla nazione!

CIAO, LUCIANO!

 

Vincenzo Giarritiello

FOLLIA DIVINA

Il tempo era sospeso nella staticità virtuale dell’amalgama divina.

La notte e il giorno, il bianco e il nero, la vita e la morte, l’uomo e la donna confusi nell’edenico androgine primordiale, languivano nel lattiginoso guscio, amebiche presenze dalle indistinte trasparenze del tempo che fu.

Nella sua infinita grandezza il supremo demiurgo impugnò la spada infuocata e squarciò il velo di tenebra con rilucenti lampi, fendendo violentemente la placenta dalla cui ferita le acque materne si riversarono nell’infinito spazio partorendo il cielo e la terra, alterne patrie dell’umana stirpe. Capriccio creativo di un Dio che nell’esaltazione parossistica della creazione decretò l’inizio della fine.

È compito nostro, uomini morsi dalla serpe della conoscenza, di arrestare lo scempio che la divina illusione va compiendo. Stretti nel gelido abbraccio della solitudine, amica fedele che ovunque ci accompagna, ci libriamo oltre le nuvole in un sonno purificatore, mentre gli ufficiali delle angeliche legioni ci armano di lancia e spada unguendoci la fronte di olio benedetto per rafforzarci nello spirito, indicandoci il sentiero da seguire per raggiungere l’esercito celeste per unirci a esso in battaglia contro il demone dell’illusione che dalle sue fetide fauci alita le fiamme del desiderio, causa primaria dell’eterno male.

Lo sprofondare improvviso in un pozzo nero e senza fondo, da cui esala il fetore degli innumerevoli cadaveri in putrefazione, stordisce gli spiriti più deboli, distogliendoli dalla sacra battaglia. Arricchendo quelli che a esso sanno resistere, concedendo loro di trovare la risposta al perché della vita; scatenando le loro menti lungimiranti in evoluzioni pindariche fino a condurle agli estremi limiti dell’universo, catapultandole verso il sacro fuoco che arde al centro del firmamento.

Aquila splendente dalle dorate piume, l’anima si invola incontro all’astro del giorno ad ali spiegate. Al suono di invisibili trombe, avanza verso il magnete di fuoco dando l’impressione di volerlo sfidare per usurparne il trono. Imperatrice altera di uomini senza nome e senza volto, sferza l’aria con le ali stringendo negli artigli una pergamena intrisa di sangue su cui spiriti ribelli a un’esistenza formale hanno stretto un patto con Dio implorandone il soccorso onde concedesse loro, umili servitori, il privilegio di varcare la soglia del tempio per bere dalla Sacra Coppa l’acqua dell’eterna giovinezza che fino e poco prima ristagnava nei loro cuori dormienti di pecore al pascolo alla guida del pastore.

Risvegliandole, il Signore Dio beatificò le loro anime ricostituendo l’unità originaria, restituendo all’uomo la sua funzione di nucleo primordiale da cui infiniti raggi si diramano ad intrecciare quelli di altri nuclei, formando una sottile catena di anime senza tempo e senza luogo da cui l’anima dei mondi si fonde in un abbraccio mortale, sintomo del passaggio di stato in cui tutti incorriamo per riposarci dall’immane fatica che l’edificazione della babelica torre richiede per l’illusorio incontro con Dio un giorno che fu, che è, che sarà.

Ciò mai accadrà perché Dio si espande nell’evoluzione delle coscienze: più le coscienze evolvono, più Dio si allontanerà da loro perché Egli si nutre dei frutti che le coscienze hanno seminato e raccolto in terra in un susseguirsi esistenziale che da Adamo in poi si protrae all’infinito, vita dopo vita.

Il pianto del neonato partorito dal ventre della donna è il segnale che un nuovo mondo è sorto per servire Dio nell’estenuante opera di sutura della placenta primordiale da cui si riversano le acque della creazione seminando morte e distruzione, ma anche gioia a amore!

Erranti cavalieri in groppa ad alati destrieri sorvoliamo le lattee vie con iperboliche traiettorie, viaggiando da un sogno all’altro guidati dalla rilucente cometa la cui iridescente coda accarezza la fulva criniera dell’immortale Pegaso, l’inesauribile stallone astrale che, teso nel compimento dello sforzo creativo, sparge nel vuoto cosmico il fluente seme, affidandolo al soffio divino affinché lo vivifichi con l’inestinguibile fuoco della passione, alimentato dalla lussuriosa danza di Venere che incendia le anime fino a ridurle in cenere che Borea, il vento astrale, disperderà nell’infinità del tempo.

Allorquando l’alato mito placa l’impeto creativo, un mare celeste si estenderà sotto di sé. Vele gravide lo fenderanno con briosa schiuma, piroettando tra le onde in allegre rotte serpentine disegnate da timonieri millenari.

All’orizzonte vette piramidali, eternamente imbiancate, sfiorano il cielo regalando l’incantevole scenario di un’alba senza tempo, nella vibrante attesa che essa sorga dentro di noi liberandoci dell’alternanza temporale giorno/notte, connubio vitale con cui un demone malvagio ha ingannato l’umanità intera, schiavizzandola a sé con l’ammaliante canto di splendide sirene bramose di fondersi in spossanti amplessi al fine di depredare l’umanità del gene creatore, estinguendo la fiamma che rischiara le tenebre dell’eternità.

L’ansante ritmo dei corpi fusi nell’ancestrale unione generativa dà vita a un suono muto le cui vibrazioni, in un crescente di sensuali movenze, sfociano nell’apicale nota del piacere, riunendo disciplinatamente le particelle cosmiche sparse nell’universo in formea dalle labili consistenze che si lasciano risucchiare nella spirale ombelicale per essere seppellite nelle viscere della terra da cui germoglieranno in consistenza materiale, azione combinante dei geni elementari sul tratteggio pentagrammato che antiteche polarità imbastiscono nell’orchestrale unione dei sensi.

Sfibranti orgasmi consumati nell’orgiastica visione di volti e corpi trasfigurati dall’accattivante piacere umorale intrisi di sudore; gli occhi levati al cielo nell’estatica visione di un dio incarnato, sacrificato sul vegetale intreccio infisso sul teschio bagnato dal sangue purificante che fuoriesce dai cardinali punti corporali, mentre un tremendo boato sentenzia l’imminente cambiamento di stato di colui che sacrificò se stesso per salvare l’umanità corrotta e ingrata.

Schiavi dell’ipocrita pentimento affondiamo il viso nello sterco, consapevoli delle pesanti colpe commesse verso colui che si lasciò uccidere per donarci la vita eterna. Mai domi di peccare, a frotte accorriamo alla corte di un’acerba meretrice che offre le proprie grazie solo per il gusto di sentirsi padrona di un branco di caproni instupiditi dal suo fiore nascosto che sbuffano frementi di appagare l’incontenibile desiderio che la sua visione suscita in loro. Ipocrite vipere, moralizzatori da strapazzo, sprofondano stancamente in un sofà sviliti della sovrana dignità che un tempo fu loro concessa, lasciando che lo scettro della creazione penda  mestamente tra le loro gambe, incapaci di resistere alla maliziosa concubina che astutamente ha svelato la loro animica lordura.

Nell’alchimia dei sensi le menti incontrollate evocano mostri, rifiuti astrali la cui gioia distruttiva trova il proprio appagamento nella furia assassina di coloro che si credono comandanti, condottieri, imperatori, ma che in realtà sono inconsapevoli strumenti alle direttive del mostro satanico il quale, nell’inaccettabile sconfitta, si doma con fameliche offerte dall’amaro sapore dell’ingiustizia e della crudeltà, illudendosi di sconfiggere Dio di cui a sua volta è inconsapevole strumento per il raggiungimento della perfezione in terra.

Intrepidi argonauti alla ricerca del Vello d’oro, sondiamo l’infinito esplorando le sferiche stazioni dove creature angeliche e infernali si affrontano nell’estenuante lotta tra bene e male da dove nessun vincitore risulterà essendo l’alternanza alba a tramonto condizione imprescindibile per la vita.

Come accade nell’ermetico caduceo, dove le serpi si intrecciano in un recondito messaggio iniziatico, solo chi riuscirà ad annientare il veleno inoculatogli dai morsi traditori dell’odio e dell’amore, restando immune da dolori e gioie, un giorno godrà le angeliche visioni indotte dall’estasi della piacevole unione.

Il sei, numero bestiale, giorno della creazione umana, è l’eccellente tomo dell’infinito libro in cui le ventidue lettere della kabbala ebraica assumono toni figurativi, esplicando alle ansiose menti avide di sapere il misterioso arcano della creazione; ingiungendo a coloro che per volontà divina cavalcano le onde dell’ascetica visione d’essere avveduti nell’incedere nei corridoio del labirintico sentiero, ponendo attenzione ai fallaci impulsi che il vizio e la virtù animano in essi all’apparire di ninfe e pellegrini stanchi.

Allegri menestrelli di favolose storie, principi fate streghe maghi stregoni per noi son solo tracce dell’infantile natura che alberga nei nostri cuori infiammati di desiderio dall’immacolato spirito del primitivo istinto immaginativo. Seduti alla rotonda tavola banchettiamo ammirando il RE e la Regina tenersi per mano sorridenti. Cortesi personaggi dal principesco rango levano al cielo la sacra coppa  intonando un osannante canto.

Seduto sul cubico trono l’imperiale protagonista accoglie nel proprio castello ambasciatori di popoli lontani giunti nelle avalloniche pianure per testimoniare al sovrano la fedeltà di genti dimenticate che attendevano il salvatore per ritornare a vivere in pace e libertà. L’orso sornione dorme profondamente in attesa che l’uomo baci la sua sposa, risvegliando il canto d’amore sopito nel proprio cuore. Soave sinfonia che ravviva il ricordo di un aureo passato dove gli uomini vivevano tra loro in biblica fratellanza,  punti fermi di nature amorfe dove razza, ceto e colore della pelle erano insignificanti particolari che non lasciavano traccia.

Tinti d’azzurro il cielo , di verde i prati, di arancio l’alba, di rosso il tramonto, l’Eterno artista dette un saggio della propria abilità separando tra loro suoni e colori, dando vita alla determinatezza dell’essere. Ma quando comprese la pericolosità della dualità, cercò di unificarla nell’unità della creazione assegnando a ogni cosa un ruolo distinto.

Purtroppo lo strappo inevitabile del due dall’uno fu solo rinviato con quello del due dal sei quando l’umana natura vide il giorno, dopo aver vissuto a lungo nel buio placentare. L’alternanza fuggente tra luce e tenebre obbligò alla natura interna di separarsi da quella esterna. Fu così che nacquero l’uomo e la donna, l’uno figlio del sole l’altra della luna, che nelle alterne eclissi copulari intervallano il dominio del bene e del male su questo mondo, trafiggendo l’umanità con la lancia della vita che trapassò l’evangelico costato per svelare il succo dell’eternità che parla il muto linguaggio dell’amore.

Parole, solo parole bastarono a Dio per creare il tutto. Dal semplice “dire” un complesso ordinamento cosmico si andò formando dal caos dell’unità primordiale. Dall’uno nacque il due, dal due il tre, dal tre il quattro, dal quattro il cinque, dal cinque il sei, dal sei il sette, dal setto l’otto, dall’otto il nove.

Per giungere al nove si deve attraversare tutto l’ordinamento universale in quanto la legge impone che solo chi ha percorso, tappa dopo tappa, il periglioso cammino esistenziale, possa poi proseguire sul sentiero decimale, livello successivo a cui seguirà il ventennale, poi il trentennale e così via, fino a perdersi nell’infinito non essendo prevista una fine in quanto l’uomo, riflesso divino in terra, è illimitato e immortale al pari di Dio!

Solo il corpo, corruttibile strumento di cui l’uomo è stato dotato per viaggiare in eterno  nelle infinità siderali, si arrende alla morte. L’essenza dell’uomo, l’anima, mai perirà. Vita dopo vita, essa rivestirà forme diverse per esperimentare nuove forme di vita, assimilando continue conoscenze, nell’illusione di poter un giorno incontrare Dio. Ma dal quale paradossalmente si allontana, man mano che acquisisce consapevolezza perché l’evoluzione della coscienza umana è il nutrimento che consente a Dio di espandersi sempre più!

Se per molti il tempo rappresenta un insignificante aspetto del ritmare del respiro divino, per chi anela all’incontro con Dio, estrema salvezza alla terrificante incomprensione della vita e della morte, le mortali tappe simboleggiano il giusto premio alle sofferenze patite in vita; il mezzo necessario per comprendere ciò che è giusto da ciò che non lo è: la verità e la falsità hanno spesso aspetti indistinti, difficili da capire se non si conosce la volontà di Dio che nella sua opera creatrice ha manifestato come tutto sia  racchiuso in Lui e Lui sia in tutto racchiuso.

Dimostrando così quale folle irrazionalità abbia originato  il creato: Follia Divina!

 

Vincenzo Giarritiello

GIANLUCA GUILLARO, UN GIOVANE IMPRENDITORE NAPOLETANO SI RACCONTA

A seguire la versione integrale dell’intervista pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Poco più che ventiseienne, laureato in Economia Aziendale, Gianluca Guillaro è un giovane/dinamico imprenditore napoletano che insieme a tre colleghi di università ha fondato a Roma MARKAPPA SRL, agenzia di marketing e comunicazione, in crescita esponenziale.

Gli abbiamo posto alcune domande per conoscere meglio lui e la sua azienda.

Gianluca a giugno si è fondata MARKAPPA, ci spieghi esattamente cosa è?

È una società di consulenti di marketing. Nello specifico quattro giovani professionisti del settore: io, Eduardo Saba, Giuseppe De Nicola e Andrea Sergiacomo. Ci siamo conosciuti quattro anni fa all’università Sapienza per un progetto di marketing e comunicazione digitale. Lavorammo su un prodotto yogurt che ci fu assegnato dalle nostre professoresse. Da quel progetto nacque tra noi una forte sintonia tanto che siamo riusciti a portare quell’idea sulla scrivania dell’azienda che ci fu affidata per “gioco” e per studio dalle docenti, riuscendo a venderla a questa ditta di yogurt molto nota nel nord Italia. Da lì decidemmo di metterci in gioco: aprimmo la partita IVA e iniziammo a lavorare come liberi professionisti. Da giugno di quest’anno abbiamo deciso di fare un ulteriore salto di qualità, costituendo MARKAPPA SRL e metterci sul mercato come consulenti di marketing.

Tu sei napoletano, ma MARKAPPA ha sede a Roma. Qual è il motivo di questa scelta?

La scelta di Roma dipende dal fatto che, studiando lì, già ci trovavamo sul territorio. Dunque decidemmo di prendere un ufficio nella capitale e di iniziare a lavorare.

Tu e i tuoi soci siete tutti napoletani?

No. Io sono napoletano, poi c’è un siciliano e due romani. Sembra l’incipit di una barzelletta, in realtà siamo un team ben affiatato.

Con voi avete dei collaboratori?

Abbiamo dei consulenti esterni sia per quanto riguarda la grafica sia per quanto concerne lo sviluppo di siti web.

Nello specifico mi faresti un quadro di cosa esattamente si occupa MARKAPPA?

MARKAPPA si divide in due branche fondamentali, quella del marketing strategico e quella del marketing operativo. Il marketing strategico è votato alla consulenza di marketing: un’azienda o una persona ci contatta, ci racconta la sua realtà aziendale o il proprio progetto personale, nello specifico il personal branding di cui si parla tanto ultimamente soprattutto con Instagram, e insieme pianifichiamo una strategia volta a promuovere la persona o l’azienda. Ovviamente gli obiettivi sono diversi: pubblicizzare la propria immagine o accrescere la propria notorietà; o obiettivi di vendita, quindi cercare in breve tempo una monetizzazione.

La vostra attività è limitata a aree specifiche o si estende su tutto il territorio nazionale?

Operiamo su tutto il territorio nazionale, ma i principali clienti li abbiamo nel centro-sud tra Roma, Napoli, Bari e Palermo. Questo è il nostro polo operativo maggiore.

Esattamente tu in MARKAPPA che ruolo occupi?

La mia funzione è quella del CEO, una sorta di ambasciatore di MARKAPPA, la figura esterna che insieme al direttore commerciale parla con i clienti, cerca bandi, partecipa a eventi. Un po’ il frontman della società!

Quali sono i vostri obiettivi a breve e a lunga scadenza?

A breve termine affermarci nel centro-sud come tra le prime aziende di consulenza di marketing. A lungo termine vogliamo tornare da dove siamo partiti per cui estenderci al nord Italia e, perché no, all’estero. A riguardo già stiamo trattando la comunicazione di un brand in Spagna.

In quali settori operano per lo più i vostri clienti?

I nostri clienti operano nei settori più disparati. Il nostro core business è il food insieme alla sicurezza. Ma non ci poniamo limiti. Come dicevo prima la comunicazione si apre a più settori, perfino a quello degli scrittori, come hai avuto modo di sperimentare anche tu. In questo caso ci preoccupiamo di far conoscere l’autore, di pubblicizzarne l’immagine e l’operato. Soprattutto per quanto riguarda coloro che come te affidano le proprie pubblicazioni al self publishing. Un mondo a noi sconosciuto fino a quando non abbiamo lavorato con te e con una scrittrice di Palermo. In questo caso seguiamo tutto il processo creativo, dall’impaginazione alla grafica fino alla pubblicità dell’opera.

A un neo laureato in economia suggeriresti di intraprendere il tuo stesso cammino professionale?

Certo. Anche se devo dire che il mio percorso è iniziato all’indomani della laurea: credo di aver studiato e letto più libri dal giorno dopo che mi sono laureato anziché quando ero all’università. Come diceva Eduardo, è proprio vero, “gli esami non finiscono mai!”

 

Vincenzo Giarritiello

INTERVISTA A CASSANDRA FORTIN – UNA CANADESE A POZZUOLI

Di seguiti l’intervista integrale pubblicata su comunicaresenzafrontiere.it

Ventitreenne canadese del Quebec, laureata in Scienze Storiche, Cassandra Fortin è in Europa da due anni per l’Erasmus con cui sta completando un master sui beni e i paesaggi culturali. Da sei mesi a Pozzuoli, collabora attivamente con l’associazione culturale Lux In Fabula.

A fine agosto completerà il ciclo di studi e agli inizi di settembre rientrerà in Canada. Ne abbiamo approfittato per farle qualche domanda e conoscere il suo punto di vista su Pozzuoli e i suoi abitanti.

Cassandra da quanti mesi sei in Italia?

Sono arrivata all’inizio di febbraio

Sei qui per l’Erasmus?

Sì!

In cosa stai per laurearti?

Sono laureata in Scienze Storiche. Ora sto facendo un master in beni e paesaggi culturali.

Perché hai scelto di vivere a Pozzuoli?

Perché l’Associazione Lux In Fabula, presso cui mi appoggio per i miei studi, lavora sugli stessi argomenti oggetto delle mie ricerche.

Come sei venuta a conoscenza di Lux In Fabula?

Me ne parlò una professoressa della Federico II che conosce Claudio Correale il presidente di Lux. Quando le chiesi a chi potessi rivolgermi per avere un valido sostegno alle mie attività di ricerca, mi indicò lui e la sua associazione.

Che cosa ti ha colpito dei campi flegrei?

Quando sono arrivata non sapevo che questa zona fosse vulcanica e sismica. Per me è stata una sorpresa, soprattutto vedere il modo naturale con cui gli abitanti interagiscono con questa realtà.

Puoi spiegarti meglio?

Per me che vengo da una terra dove non esistono fenomeni vulcanici così intensi come qui da voi, mi ha stupito la semplicità con cui le persone vivono quest’aspetto del territorio. Ho la sensazione che gli abitanti adorino la loro terra, anche quando li fa “ballare” costringendoli a doversene allontanare per motivi di sicurezza. Ho riscontrato che qui c’è una maniera diversa di appropriarsi del territorio rispetto a tante altre zone dell’Italia che ho conosciuto.

In che senso?…

Un esempio facile, le terme: sono una realtà molto antica, che risale all’epoca romana. Ma qui da voi è una realtà tuttora molto utilizzata, un aspetto quotidiano che caratterizza l’economia del territorio e la vita di molte persone. Pur non essendo obbligate a vivere in questa terra così problematica e pericolosa, la gente lo fa come se nulla fosse, tradendo un legame molto forte con essa. Sono cose come queste che mi hanno stupita!

Questo legame così forte con il territorio non lo riscontri in voi canadesi?

Sì, ma è diverso. Noi non abbiamo i vulcani o fenomeni come il bradisismo. Abbiamo la neve, il ghiaccio e tanta acqua. Fenomeni diversi che non ti inducono a vivere come se ti pendesse sul capo la spada di Damocle!…

Tu da quale zona del Canada vieni?

Quebec, la parte francese!

Ci puoi raccontare cosa hai esattamente fatto in questi mesi che sei stata in Italia, in particolare a Pozzuoli?

Ho lavorato a molti progetti: ho allestito un sito web per l’associazione che ho quasi finito; ho lavorato a un video sullo sgombero del Rione Terra del 1970 da cui ho tratto spunto per farne poi uno sul successivo sgombero a Pozzuoli del 1983 sempre conseguente al bradisismo.

Ora che tornerai nel tuo paese, cosa pensi ti resterà di questa esperienza in Italia, a Pozzuoli in particolare?

Studiando da antropologa, questo lavoro che sto facendo con gli abitanti che hanno vissuto e vivono la realtà bradisismica dei campi flegrei e gli sgomberi che ci sono stati, è per me un modo concreto di conoscerne in maniera più approfondita la storia e la mentalità.

Oltre alla loro capacità di adattamento alla natura instabile del territorio, cos’altro ti ha colpito dei puteolani?

La maniera di vivere sapendo cogliere l’attimo, attuando il motto latino del carpe diem. Da che sono in Italia ho avuto modo di constatare come negli italiani, e soprattutto nei napoletani e puteolani, sia insita questa filosofia di vita. Del resto non mi stupisce: vivendo in un territorio dove sai benissimo che da un momento all’altro potrebbe verificarsi un evento sismico che potrebbe completamente cambiarti la vita, è naturale che le persone vivano la propria esistenza attimo per attimo. Questo mi piace perché, così facendo, assapori ogni momento della vita. Dai valore a ogni secondo, non perdendoti nell’effimero!

Quando rientrerai in Canada?

Agli inizi di settembre.

Il pensiero di dover andare via ti rende felice o pensi che ci soffrirai un po’?

Entrambe le cose! Sono due anni che sono in Europa e mio mancano molto la mia casa, la mia famiglia, i miei amici. È vero che parlo spesso in chat con i miei familiari, in particolare con mamma, ma non è la stessa cosa!

I tuoi genitori cosa dicono di questo tuo lungo soggiorno europeo?

Quella che lo sta soffrendo molto è mamma: sia papà che mio fratello, per motivi di lavoro e di studio, stanno via da casa tutta la settimana e mamma resta molto tempo da sola. Questo mi dispiace, per cui ecco perché non vedo l’ora di rientrare in Canada!

Pensi che un giorno ritornerai a Pozzuoli?

Sicuramente, adoro questa terra e la sua gente!

Vincenzo Giarritiello

IL GRAAL A NAPOLI TRA REALTA’ E FANTASIA

Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato su comunicaresenzafrontiere.it

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Napoli

Sabato 29 giugno, presso l’Antisala dei Baroni al Maschio Angioino, la IVI ha organizzato il convegno IL GRAAL TRA STORIA, MITO E PSICOLOGIA. Relatori:  Afro de Falco, Clementina Gily, Vittorio Del Tufo, Adolfo Ferraro, Salvatore Forte.

Nonostante il caldo torrido della giornata, un folto pubblico ha gremito la sala a dimostrazione dell’interesse e della curiosità suscitati dal mito del Graal, la coppa dell’ultima cena dove, stando alla leggenda, Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo.

Ma cosa esattamente è il Graal e quale motivo lo legherebbe a Napoli e al Maschio Angioino?

Rispondere alla prima domanda è difficile. Seppure da secoli il Graal viene identificato nella coppa dell’ultima cena, in diversi testi medievali che per la prima volta vi fanno accenno esso assume connotazioni diverse.

Si parte da una testa decollata, recata su di un piatto d’oro da un gruppo di ancelle durante una celebrazione sacra, nella quale molti identificano la testa di San Giovanni Battista. In questo caso forte sarebbe il richiamo al misterioso baphometto adorato dai templari. In altri testi il Graal rappresenterebbe invece una pietra, precisamente il diadema posto al centro della fronte di Lucifero e dalla quale si staccò cadendo sulla terra durante la battaglia tra gli angeli del bene contro quelli del male. Per altri ancora il Graal sarebbe la coppa con la quale Gesù celebrò l’ultima cena e in cui Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo quando fu posto in croce.

Come si evince dai diversi aspetti che il Graal assume in svariate trattazioni e tradizioni, è difficile dargli una precisa caratterizzazione.

Tuttavia, grazie alla bravura dei conferenzieri, chiunque abbia seguito con attenzione i loro interventi avrà maturato la convinzione che il Graal, qualunque cosa sia, è intimamente legato alla crescita interiore dell’individuo.

A riguardo fondamentali gli interventi della professoressa Gily e del professor Adolfo Ferrara i quali, citando rispettivamente Bruno e Jung, hanno dimostrato come la ricerca del Graal sia connessa allo sviluppo interiore dell’essere: l’uomo, attraverso il cammino tracciato dai sacri testi e mediante la purezza dei sentimenti, percorrerebbe il “sentiero” in grado di elevarlo dallo stato di animalità a quello di spirituale riconquistando l’originale status divino perso con la cacciata dall’Eden di Adamo ed Eva.

Tale “cammino” sarebbe simboleggiato dagli alchimisti con l’appellativo di Grande Opera.

All’alchima ha fatto esplicitamente riferimento il regista Afro de Falco proiettando delle slide che riproducevano diversi simboli che utilizziamo col pc o coi telefonini, soffermandosi su un simbolo composto da una croce sovrastante una sfera che ufficialmente rappresenta il simbolo della cristianità, ma che in alchimia simboleggia l’antimonio, ovvero il metallo da cui ha inizio l’opera alchemica. Guarda caso tale simbolo compare nel fregio dell’università Federico II, precisamente nella mano sinistra dell’imperatore a dimostrazione (?) che anche lo Stupor Mundi era un iniziato ai Grandi Misteri.

Alla domanda quale rapporto ci sarebbe tra il Maschio Angioino e il Graal, hanno cercato di rispondere il giornalista Vittorio del Tufo e Salvatore Forte con il suo intervento conclusivo.

Da giornalista, studioso e saggista Del Tufo si è “limitato” a delineare l’excursus storico che portò a Napoli gli Aragonesi, precisamente Alfonso d’Aragona il cui ingresso trionfale in città è scolpito sull’arco di trionfo del portale d’ingresso del castello.

Parlando di Alfonso d’Aragona, sia del Tufo che Forte ne hanno evidenziato la magnanimità – non a caso era denominato il Magnanimo – e le capacità amministrative sia economiche che politiche.

Mentre il giornalista ha fondato il proprio intervento sugli eventi storici, Forte è andato al di là della storia ufficiale, proponendo una serie di immagini e versi di epoca rinascimentale appartenenti alla tradizione dei Fedeli d’Amore – un gruppo di poeti devoti all’Amore identificato nella figura femminile, ma che attraverso versi criptati si scambiavano messaggi politici e religiosi in contrasto con le idee ufficiali propugnate dalla chiesa del tempo – dai quali, secondo lui, si evincerebbe che il Graal, almeno per un certo periodo, ebbe la sua sede nella città di Partenope.

A supporto di questa suggestiva ipotesi anche Forte si è avvalso di slide, offrendo al pubblico immagini che a suo parere attesterebbero la presenza del Graal a Napoli per poi essere probabilmente trasferito, poco dopo la metà del XVII secolo, nel monastero di Santa Maria di Poblet quando furono traslate in spagna le spoglie di Alfonso d’Aragona.

A ulteriore sostegno della sua tesi, Forte ha fatto riferimento a un gioco di luce che avverrebbe all’interno della Sala dei Baroni durante il solstizio d’Estate: filtrando attraverso un punto in alto alla  sala, il sole proietterebbe sulla parete prospiciente l’immagine di un libro aperto. L’apparizione di questo libro di luce nel momento in cui il sole è al suo apice potrebbe significare che il castello è un libro di pietra sulle cui facciate e mura le sapienti mani degli scalpellini hanno impresso simboli la cui interpretazione è possibile solo agli iniziati. In tal senso il Maschio Angioino si rivelerebbe come una delle tante “dimore filosofali” cui fa riferimento il Fulcanelli in una sua opera dall’omonimo titolo, e che lo scrittore francese Victor Hugo ne IL GOBBO DI NOTRE DAME definisce “libri di pietra” comprensibili solo a chi fosse iniziato ai sacri misteri. Oppure che gli aragonesi, nella fattispecie Alfonso d’Aragona, erano in possesso di una conoscenza di luce, la conoscenza sacra cui si dichiaravano depositari i Fedeli d’Amore, i Templari, i Rosacroce, e in tempi remoti gli antichi egizi e tante altre civiltà del passato che ci hanno lasciato monumentali vestigia dal significato impenetrabile, la cui edificazione sarebbe stata impossibile con i mezzi e conoscenze ufficiali dell’epoca in cui furono erette…

Giochi di luce di questo genere avvengono in diversi templi e cattedrali sparsi per il mondo. Uno è il tempio egizio di Abu Simbel dove durante il solstizio d’estate, a una certa ora, il sole penetra all’interno illuminando la statua del faraone avallandone l’origine solare, e dunque affermandone la natura divina.

Se davvero il Graal abbia un intimo legame con gli aragonesi e la città di Napoli, probabilmente non lo sapremo mai. Di certo il convegno ha aperto nuovi orizzonti di approfondimento per quanti amano studiare la città e i suoi misteri.

Secondo un detto alchemico, “l’alchimista attua la trasmutazione di se stesso mentre opera”. In virtù di ciò, non possiamo escludere che chiunque si ponesse seriamente alla ricerca del legame tra Napoli e il Graal, attraverso lo studio, non riuscirebbe a migliorare se stesso come individuo. Se ciò avvenisse, chiunque subisse questa catarsi potrebbe affermare di avere trovato la pietra filosofale, oppure il Graal, fate voi!

Vincenzo Giarritiello