Consolatevi, eravamo così già due secoli fa…

 

Ho trovato la descrizione perfetta dell’Italia d’oggi, anno di grazia Ventiquattro. È un catalogo meticoloso e amaro della condizione presente e una diagnosi precisa dei suoi mali e dei suoi agenti. Ma con una particolarità, davvero curiosa: è scritta, si, nell’anno di grazia e disgrazia Ventiquattro, ma di due secoli fa, esatti. E’ del 1824. L’impietoso analista è tristemente e gloriosamente noto: l’eccelso, dolente Giacomo Leopardi. E anche il suo scritto non è ignoto, è il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani.

Provo a sintetizzare il suo sguardo e proiettarlo nel nostro presente. Gli italiani d’oggi sono cinici, indifferenti a tutto, non hanno stima di nulla, sono propensi a buttarla sul gioco e sull’ironia, deridono tutti e disprezzano tutto, convinti dell’infinita vanità di ogni cosa. Gli intellettuali, le sette illuminate, hanno distrutto la morale tradizionale, hanno “liberato” il popolo dai suoi principi tradizionali, con la promessa di una vita migliore ma hanno generato solo una nuova barbarie. La “barbarie rinnovata, la barbarie della riflessione”, di cui parlava un secolo prima Giambattista Vico. Il riferimento polemico, di Vico come di Leopardi, è alla setta intellettuale degli illuministi. La distruzione dei valori ha avuto conseguenze nefaste sui costumi, perché l’agire umano si è trovato privo di fondamenti, di motivazioni alte e profonde, di senso del limite. Il testo leopardiano esordisce facendo riferimento a “questo secolo presente”, che descrive come nomade e globale, esattamente come il nostro. Si spegne “l’amore e fervor nazionale” e in genere “di tutte le passioni degli uomini”; “il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi”. Leopardi nota che le leggi senza i costumi non bastano, e gli altri paesi “hanno un principio conservatore della morale e della società” che noi non abbiamo; anzi da noi è venuta a mancare “la società più stretta” che potremmo chiamare la classe dirigente, l’élite guida. Si è perso il desiderio di gloria,”incompatibile colla natura dei tempi presenti”, dopo “la strage delle illusioni”; ma anche il suo succedaneo, il sentimento dell’onore. Prevale un becero individualismo – “ciascun italiano fa tuono e maniera da sé” – e una filosofia pratica, cinica e scettica, a fronte di una carenza di studi e letture filosofiche. Anzi, per Leopardi, “gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi dei maggior filosofi”. E qual è il succo di questa filosofia pratica? La vanità di tutto, la mancanza di illusioni che rendono degna la vita, e insieme l’assenza di sostanza, verità e prospettiva futura, perché la visione “è ristretta al solo presente”; ne segue la “total frivolezza delle loro occupazioni”, “la perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose”, la solitudine, la “dissipazione giornaliera e continua senza società”, lo sviluppo dell’immaginazione “per l’assenza del vero e della realtà e della pratica”. Perciò, insiste Leopardi, gl’italiani sono “molto più filosofi di qualunque filosofo straniero”; ma il perno di questa filosofia, la vanità di tutto, produce sui costumi “il maggior danno che si possa pensare”. “Indifferenza profonda”, “disinganno”, “pieno e continuo cinismo d’animo”. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche, ma anche “il popolaccio italiano è il più cinico de’popolacci”. Gli italiani, dice, ridono di tutto e si deridono a vicenda; ridono della vita e disistimano anche se stessi; la loro conversazione è il cazzeggio (il neologismo non è leopardiano). Da qui “l’infelicità sociale e nazionale” dopo la perdita dei fondamenti “che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti”. Ci restano usanze e abitudini, piuttosto che costumi, e ne patisce lo spirito pubblico; la nazione che era più calda e vivace del mondo, è ora “la più morta, la più fredda” la più indifferente. Leopardi rimpiange perfino che non si trovino più in Italia “veri fanatici di nessun genere”.

Anestesia generale, e nazionale.

Non vado oltre, mi soffermo sulle analogie col presente. Sorprendenti ed estese. Ma la vera sorpresa è un’altra: noi credevamo che “lo stato presente” degli italiani dipendesse dal mondo attuale, dai modelli prevalenti, dal distacco tra paese reale e paese legale, dai traumi storici del secolo scorso, guerre, fascismo e antifascismo e dalla guerra civile perdurante; credevamo che il suo aggravarsi nei nostri anni dipendesse dai social, dalle tecnologie, dall’uso narcisistico degli smartphone, dalla secolarizzazione e dalla scristianizzazione odierna. Leopardi invece descrive il nostro stato presente in un’epoca che precede tutto questo. Che vuol dire? Che i mali denunciati come mali presenti sono invece mali atavici, se non endemici; e l’occhio critico e negativo degli osservatori ci fa vedere tutto più scuro di quanto realmente sia. Tra corsi e ricorsi, cicli e ricicli, le epoche si somigliano, come le egemonie intellettuali; l’illuminismo di ieri riverbera nel nichilismo di oggi. E questo ci può condurre a due esiti opposti: lo sconforto assoluto, irrimediabile e irredimibile, perché tutto era e sarà così, non c’è nulla da fare; o viceversa la fiducia che se con questi mali conviviamo da secoli, possiamo sopravvivere ad essi, coabitarci e non escludere che ci possano essere risorgimenti e rinascimenti seppure provvisori. La fiducia nasce sulle basi della disperazione. E qui vi confesso una sensazione che vorrei condividere. Quando leggo i grandi pessimisti del passato, io mi rincuoro. Più sono tragici, e catastrofici, e più mi consolano. Non solo Leopardi ma anche Cioran, Ceronetti, Sgalambro. Perché descrivono la decadenza e la fine dell’Italia o del mondo già secoli prima del nostro tempo. E dunque ci fanno capire che non viviamo nel peggiore dei mondi possibili, che non abbiamo toccato ora il punto più basso; dopo tante catastrofi l’Italia è arrivata fino a noi, longeva e benestante, ferita, ammaccata, sfregiata ma viva. E quei mali non sono mortali ma cronici, ovvero possiamo conviverci a lungo. Anzi, la decadenza dell’Italia, descritta nel 1824, precede addirittura l’Unità d’Italia, del 1861…

Insomma, Leopardi vede nero, ma alla fine ci rincuora: niente di nuovo sotto il sole, ombre incluse. Allegria dei naufragi.

Marcello Veneziani 

Galimberti: “La famiglia è un disastro. Genitori amici dei figli che dalla scuola vogliono solo la promozione e non l’educazione”

 Tratta da Orizzonti scuola, un ‘intervista di Umberto Galimberti a

“IL FOGLIO”

“La famiglia in questo momento è un disastro. Molti genitori non sanno gestire il rapporto con i figli, forse perché non sanno che con i figli devono parlarci prima che inizi l’adolescenza, per creare un rapporto di fiducia prima dei dodici anni. Invece i padri non parlano perché si annoiano, e le madri parlano per raccomandarsi a livello fisico: metti il maglione, asciuga i capelli. Non fanno mai domande che riguardino la psiche, per esempio: ‘Sei felice?’. Una domanda semplice che potrebbe innescare una riflessione”.
Lo dice Umberto Galimberti, intervistato da Il Foglio, che ribadisce alcuni punti espressi nei giorni scorsi a proposito dei genitori e della scuola.
A tal proposito, secondo Galimberti, uno dei problemi della genitorialità è quello di“diventare amici dei propri figli. Un padre deve mantenere l’autorità che gli deriva dall’autorevolezza. Stessa cosa per il professore”.
“Il genitore – prosegue Galimberti – deve sapere che, dopo i dodici anni, la sua parola non è più efficace. Serve l’esempio. Ma purtroppo oggi l’esempio è disastroso, se si pensa ai tanti cinquantenni dall’atteggiamento giovanilistico. E nelle tante separazioni che vediamo, ai figli spesso si spiega ragionevolmente che mamma e papà non vanno più ’accordo, ma poi si ingaggia una guerra con i figli strumentalizzati in mezzo. Questo genera enorme sfiducia nei confronti del mondo genitoriale, anche se certo è un bene che ci si separi, piuttosto che far vivere i ragazzi nella tensione o nell’indifferenza cinica reciproca”.
C’è poi il rapporto con la scuola e i docenti: “A molti genitori importa soltanto che i figli siano promossi, non educati. Sostituendosi al figlio, il genitore gli impedisce di vivere il rito iniziatico del confronto diretto con il docente. Il professore, dal canto suo, deve parlare con gli studenti, ascoltandoli con competenza”.
Sulla scuola, il filosofo dice: “La scuola italiana ha i suoi mali: non educa, al massimo quando ce la fa istruisce. Educare vuol dire seguire i ragazzi nei loro processi psicologici, cosa impossibile finché si avranno classi da trenta alunni invece che da quindici“.
“E poi – aggiunge – nel percorso formativo del docente inserirei un test di personalità per cercare di assicurarsi che sia dotato di empatia. Senza empatia non arrivi al cuore. Platone diceva che la mente non si apre se prima non si apre il cuore”.
Infine, una battuta sui cellulari a scuola, dopo l’ultima dichiarazione del Ministro Valditara: “In classe li farei spegnere a tutte le età, ma non si può vietare in sé a un figlio di possedere il cellulare, legato alla socialità e ormai pervasivo. Non vedo purtroppo rimedio al danno pazzesco creato dall’abitudine allo schema binario tipico del telefonino: sì-no. Disabituati a pensare in modo complesso, come si può poi affrontare la complessità“

galimberti

Quando i pensieri sono sempre attuali…

Il problema umano del capitalismo moderno può essere formulato nel modo seguente. Il capitalismo moderno necessita di uomini che cooperino in vasto numero; che vogliano consumare sempre di più; i cui gusti siano standardizzati e possano essere facilmente previsti e influenzati. Necessita di uomini che si sentano liberi e indipendenti, che non si assoggettino ad alcuna autorità e tuttavia siano desiderosi di essere comandati, di fare ciò che ci si aspetta da loro, di adattarsi alla moderna macchina priva di frizione; che possano essere guidati senza la forza, guidati senza capi, incitati senza uno scopo, tranne quello di rendere, di essere sulla breccia, di funzionare, di andare avanti. Qual è il risultato? L’uomo moderno è staccato da se stesso, dai suoi simili, dalla natura.

Erich Fromm

The young office worker looks at his small spoon in surprise when he sees the giant ladle in his boss's hand. (Used clipping mask)

Il piacere…

 

Tutto il mistero del piacere nel corpo di una donna sta nell’intensità della pulsazione che precede l’orgasmo. A volte è lenta, uno due, tre palpiti che poi lasciano attraverso il corpo un liquore di fuoco e ghiaccio. Se il palpito è debole, in sordina, il piacere è come un’onda più gentile. Il seme dell’estasi esplode con maggiore o minore energia, quando è più ricco tocca ogni porzione del corpo, vibrando attraverso ogni nervo, ogni cellula. Se il palpito è intenso, il suo ritmo e il battito sono più lenti, e il piacere più durevole. Frecce di carne cariche di elettricità, una seconda onda di piacere cade sulla prima, e poi sulla terza, che tocca ogni terminazione nervosa, attraversa il corpo come una corrente elettrica.  Un arcobaleno di colori sferza le palpebre. Una schiuma di musica cola dalle orecchie. E’ il gong dell’orgasmo. A volte una donna sente il proprio come uno strumento appena sfiorato, altre volte raggiunge un acme tale che pare sia impossibile andare oltre. Tanti orgasmi. Alcuni provocati dalla tenerezza, alcuni dal desiderio, alcuni da una parola o da un’immagine vista durante il giorno. A volte il giorno stesso chiede un orgasmo, giorni di sensazioni accumulate e di sentimenti inesplosi. Ci sono giorni che non si concludono con un orgasmo, quando il corpo è addormentato o sogna altri sogni. Ci sono giorni in cui l’orgasmo non è piacere ma dolore, gelosia, terrore, angoscia. E ci sono giorni in cui l’orgasmo si verifica nella creazione, un orgasmo bianco.

Anais  Nim

 

Il piacere

Il principe serpente,un racconto della Persia antica…

 

C’erano una volta un re ed un visir che erano amici da lunga data: entrambe le loro mogli aspettavano un bambino e decisero che se fossero nati un bambino e una bambina li avrebbero poi fidanzati e fatti sposare.
Ma quando nacquero, la moglie del re ebbe un serpente, mentre la moglie del visir una bellissima bambina.
La bambina e il serpente crebbero insieme, malgrado tutto: la bambina era contenta del suo amico, per lei non era un animale ripugnante.
Un giorno, erano ormai grandi, i due stavano giocando insieme quando di colpo la pelle del serpente cadde e venne fuori un bellissimo giovane.

Poco dopo il ragazzo riprese le sembianze del serpente.
Non visto, il re aveva assistito a tutto e chiese alla giovane di fare in modo che il figlio non diventasse più un serpente.
Quando il principe riprese la forma umano la ragazza gli bruciò la pelle di serpente. Lui allora la guardò e scomparve.
Disperata, la ragazza non sapeva più a chi rivolgersi.

Un giorno incontrò una vecchia maga, che le disse:
– Il tuo amato è lontano da qui: dovrai consumare sette paia di scarpe per trovarlo!
La ragazza allora partì attraverso strade, boschi, deserti e il giorno in cui finì di consumare il settimo paio di scarpe arrivò vicino ad un castello cupo, incastrato su una montagna.
Fuori c’era un leone malconcio, che le chiese qualcosa da mangiare: lei gli diede l’ultimo pezzo di carne che le era rimasto.
Poi trovò delle formiche, che le chiesero di aiutarle a ricostruire il proprio formicaio: lei fece come le era stato chiesto. Infine, sulla porta del castello c’era la porta che scricchiolava e lei usò l’ultimo olio che aveva per oliarla.
Entrò nel castello, in cui viveva un genio malefico, che aveva imprigionato il suo principe.
Lo trovò incatenato e lo liberò. Ma il genio si buttò al loro inseguimento.
Urlò alla porta:- Chiuditi e non lasciarli uscire!
Ma la porta gli rispose:- Lei mi ha unto ed ha avuto cura di me, non posso non lasciarla uscire!
Allora disse alle formiche:- Pungeteli e fermateli!
Ma le formiche risposero:- Non possiamo: lei ci ha aiutato!
Per finire il genio urlò al leone: -Sbranali!
– No, non posso, lei mi ha dato da mangiare!
Il genio non poteva allontanarsi troppo dal castello e si disintegrò nell’aria.
La ragazza e il principe tornarono al loro Paese dove si sposarono e vissero felici e contenti.

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La fine che fanno i dissidenti, a est e a ovest…

 

 

Da una parte c’è una vera autocrazia, dall’altra parte c’è una falsa democrazia. La morte di Alexei Navalny e la vicenda di Julian Assange possono essere sintetizzate in questo modo un po’ brutale. Da una parte un regime autoritario, erede della storia sovietica e zarista, viene accusato della morte di un dissidente, detenuto nelle sue prigioni e verosimilmente ucciso. Dall’altra, una democrazia liberale, che ha tanti scheletri nell’armadio, perseguita un giornalista, in carcere da anni, che ha portato alla luce pagine vergognose della storia americana, crimini di cui dovrebbe vergognarsi un Paese che fa la predica umanitaria al mondo.
I primi potrebbero dire a loro difesa che Putin gode di un largo sostegno popolare, viene rieletto periodicamente in votazioni almeno all’apparenza democratiche e non aveva oggettivamente alcun vantaggio ad eliminare Navalny, in un momento in cui l’incidenza del dissenso è minima e la prospettiva di vittoria russa in Ucraina è massima. Ma quella morte pesa e non trova spiegazione altrettanto convincente di un assassinio; così come è innegabile l’impronta autocratica del regime putiniano, e la sua biografia di uomo del KGB ai tempi dell’Urss comunista. I secondi, invece, potrebbero pur dire che Assange aveva svelato con Vikileaks delicati segreti di stato, e magari lavorava per la Russia (ma lo stesso dicono in Russia di Navalny con gli Usa) e che comunque quel che accade in America e in Occidente è alla luce del sole e sotto l’occhio dei tribunali. E comunque gli Stati Uniti storicamente hanno difeso la libertà nel mondo e da noi.
Per chiarirci prima di entrare in argomento, partiamo da una doppia premessa: chi scrive è critico da svariati decenni nei confronti dell’Occidente e dell’egemonia statunitense sul mondo, è critico verso il suo modello ideologico ed economico, il suo nichilismo e il suo catechismo woke: il modello occidentale è una negazione della stessa civiltà europea da cui pure trae origine, e dalle sue matrici culturali, religiose, morali e civili.
Con la stessa franchezza però dico: se critico l’Occidente, non vivrei mai sotto un regime come quello russo. O cinese, o islamico. Tanto per chiarirci. Preferisco denunciare a vuoto le miserie dell’occidente, ma restare qui, piuttosto che patire i regimi autocratici e dispotici dell’Asia o del Medio Oriente. E ringrazio la sorte di essere italiano e di vivere in Italia, pur avendo un giudizio assai critico sul nostro Paese. Dovrebbero avere l’onestà di dirlo tutti i critici radicali dell’Occidente e del nostro Paese.
Poste queste premesse, entro nella questione. Non da oggi le democrazie hanno rapporti con regimi dispotici e perfino sanguinari; rapporti non solo commerciali. La politica internazionale va interpretata con uno sguardo realista e geopolitico, e non con categorie morali o politicamente corrette.
Il ruolo di Putin a livello internazionale, è stato per anni, importante, decisivo; sia per gli equilibri mondiali, sia per le sue posizioni politiche e culturali. Non ho difficoltà a riconoscere che negli anni passati l’ho considerato, pur nelle sue ombre sinistre, un grande statista e un leader mondiale.
L’attacco all’Ucraina è stato per metà colpa sua e del suo regime, per metà dell’Occidente sotto la guida statunitense, che non ha voluto rendersi conto della situazione, dei rischi e dello squilibrio che si andava creando con l’Ucraina che decideva di passare alla Nato, tramite l’Unione europea. Se la Russia pretendeva di essere trattata come una superpotenza mentre non lo è più dal 1991, gli Stati Uniti ancora pretendono di essere gli arbitri del mondo e non lo sono più da un pezzo. I tre quarti del pianeta sono contro il suo dominio. In più l’Occidente ha sostenuto e foraggiato un leader come Zelenskij, figura poco credibile di guitto e di marionetta, che ha epurato più ministri e generali di Putin in Russia, che guida un regime tra i più corrotti nel mondo e che vorrebbe trascinare l’Occidente intero in una guerra mondiale pericolosa e insostenibile, pur di evitare un ragionevole negoziato con i russi. Entrambi, Putin e Zelenskij, con l’appoggio degli Usa e dei suoi alleati, hanno esposto a un calvario immane di morte, distruzione e deportazione il popolo ucraino.
Il falso su cui regge l’assedio a Putin è che voglia minacciare l’Occidente e attaccare l’Europa: sappiamo invece che vuole ripristinare il ruolo egemone della Russia in quell’area che era sotto la dominazione russa al tempo dell’Unione sovietica e dell’Impero zarista.
Ma la Russia non vuole invadere l’Europa, è strategico e funzionale anche per loro che l’Europa abbia un suo ruolo autonomo e sovrano; un’Europa con cui trattare, accordarsi o confrontarsi, non ridotta a succursale degli Stati Uniti. Ieri c’era una lettera obiettivamente sensata, storicamente circostanziata e ben argomentata dell’ambasciatore russo in Italia, Alexey Paramonov, su la Repubblica. Naturalmente si deve fare la tara di quello che dice, considerare il Cicero pro domo mea che inevitabilmente un rappresentante della Federazione russa di Putin deve compiere in una difesa d’ufficio del suo Paese.
Ma il messaggio di apertura all’Europa va colto. Bisogna in realtà ripristinare il dialogo con la Russia; come dialoghiamo con la Cina che è un regime ben più dispotico e minaccioso per l’Occidente, anche perché – a differenza della Russia- cavalca la globalizzazione e ha una potenza demografica, commerciale ed espansiva nel mondo assai superiore.
cioè la sua autonomia e il suo ruolo internazionale, che non può essere quello di propaggine dell’impero Usa. In questa chiave è da auspicare un cambio di passo degli Stati Uniti, magari con l’arrivo di Donald Trump, sottoposto a una vergognosa e indecente persecuzione giudiziaria, economica e mediatica, indegna di una vera democrazia.
Si deve infine notare che i crimini americani denunciati da Assange dimostrano che esiste ancora un giornalismo libero di cui l’Occidente dovrebbe essere orgoglioso. Intanto accontentiamoci di rilevare, che benché incarcerato e ricercato, perlomeno Assange è vivo e invece Navalny è morto. Ma poi dobbiamo affrontare tutto il resto.

Marcello Veneziani   

Donne difficili…

 

Sono le donne difficili
quelle che hanno più amore da dare ma non lo danno a chiunque.
Quelle che parlano quando hanno qualcosa da dire.
Quelle che hanno imparato a proteggersi e a proteggere.
Quelle che non si accontentano più.
Sono le donne difficili,
quelle che sanno distinguere i sorrisi della gente,
quelli buoni da quelli no.
Quelle che ti studiano bene, prima di aprirti il cuore.
Quelle che non si stancano mai di cercare qualcuno che valga la pena.
Quelle che vale la pena.
Sono le donne difficili,
quelle che sanno sentire il dolore degli altri.
Quelle con l’anima vicina alla pelle.
Quelle che vedono con mille occhi nascosti.
Quelle che sognano a colori.
Sono le donne difficili che sanno riconoscersi tra loro.
Sono quelle che, quando la vita non ha alcun sapore, danno sapore alla vita.

Mara Bagatella

 

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” Mamma, come ho fatto a venire da te e papà ? Prima non c’ero…

Un figlio .
Sai da dove vieni?
…vicino all’acqua d’inverno
io e lei sollevammo un rosso fuoco
consumandoci le labbra
baciandoci l’anima,
gettando al fuoco tutto,
bruciandoci la vita.
Così venisti al mondo.
Ma lei per vedermi
e per vederti un giorno
attraversò i mari
ed io per abbracciare
il suo fianco sottile
tutta la terra percorsi,
con guerre e montagne,
con arene e spine.
Così venisti al mondo.

Da tanti luoghi vieni,
dall’acqua e dalla terra,
dal fuoco e dalla neve,
da così lungi cammini
verso noi due,
dall’amore che ci ha incatenati,
che vogliamo sapere
come sei, che ci dici,
perché tu sai di più
del mondo che ti demmo.
Come una gran tempesta
noi scuotemmo
l’albero della vita
fino alle più occulte
fibre delle radici
ed ora appari
cantando nel fogliame,
sul più alto ramo
che con te raggiungemmo.

Pablo Neruda

111figlio

Questa meraviglia di poesia è la metafora della vita, che solo un poeta come Neruda avrebbe potuto scrivere. La vita fa parte della natura e come ogni cosa del mondo degli uomini ha un inizio naturale, coadiuvato dall’amore, che ,quando è tutto ,tutto può fino a generare un figlio, che ne è praticamente il concentrato. Una descrizione che porta a comprendere l’amore infinito per un figlio,che è il tutto di ogni genitore, lo scopo di una vita; e questi versi sono un regalo davvero speciale da donare ad un figlio- E se si pensa che Neruda lo immaginò soltanto questo figlio, l’emozione poetica si moltiplica all’infinito.

Dedicato a tutti quelli che non riescono a vedere il proprio valore.

 

Carolina parla poco e cammina senza far rumore, si nasconde dalla vita perché non è come vorrebbe, perché non riesce a smettere di sentirsi in difetto. Non riesce a sentirsi mai “abbastanza”. E nessuno sa perchè, ma lei sussurra una canzone. Lei cammina e va lontano, ma mai abbastanza, lei lavora e sputa l’anima a lavare i pavimenti, a lustrare le maniglie di portoni, che custodiscono famiglie in doppiopetto, che salgono le scale e la salutano come quando accarezzi la testa di un cane, come quando sorridi come a dire “ti guardo per sentirmi migliore, ti guardo ancora per convicermi  di nuovo”. Lei china sulla scale sputa l’anima e i sospiri d’ammoniaca e se lo chiede e sottovoce si risponde “mai abbastanza”.

Carolina occhi scuri come il fondo della notte, si ferma un attimo e ti guarda come a dire “non azzardarti far domande, non devi accorgerti di me, è inutile che insisti, non ti lascerò entrare”. Ti sorride come a dire “adesso lasciami passare, come i viaggiatori alle stazioni, che appena son passati non ricordi neanche il viso, neanche il suono della voce, neanche se siano mai esistiti veramente”. E si guarda Carolina, nello specchio dell’ingresso e vede zigomi sabbiosi come le dune che scalava a dieci anni, vede guance screpolate, come gli affreschi nelle chiese sconsacrate, che ti senti a disagio solo a vederle a lontano. Dovrebbero esserci anche gli occhi, forse nascosti chissà dove, ma tira a indovinare, meglio non rischiare di incrociarli in quello specchio, che lei lo sa che fanno male, ti si piantano addosso, ti tormentano, ti ricordano che respiri ancora. Decisamente è meglio non rischiare. Carolina che tiene un diploma e trenta grammi di speranze in un cassetto, che se lo apre sente l’odore di quei giorni di risate, di pasticcini e luci al neon e tutti a dire “adesso sì che sei speciale, adesso esci e fatti valere e trova un uomo e metti su famiglia, che è così che si deve fare”.

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Ma lei già lo sapeva di non esserne capace, di non sapere come fare, di non essere mai abbastanza. Lei ha un figlio che ha vent’anni, vive a Londra per amore e un marito di quaranta fuggito chissà dove e non è vero che il tempo cura le ferite, per lei ogni giorno che finisce non fa altro che aumentare il sale sulla pelle, i pensieri fanno male e si piazzano di taglio sul respiro, come i gradini che torturano le ginocchia. Che a pensarci la sua storia è un po’ così, un dolore lieve e costante, che ti logora e ti scava, implacabile, incessante. Carolina che si sdraia sulla sera, come fanno le tovaglie sopra i tavoli, quelle che sono un po’ fuori misura e lasciano uno spigolo scoperto alle intemperie. Si sdraia per abitudine, in un silenzio devastante, in una solitudine che disturba. Tiene una foto sotto al cuscino, c’è un bambino che sorride, ha i suoi, occhi neri come il fondo della notte, lei si raggomitola i pensieri e si addormenta sussurrando una canzone. Il mondo fuori è soddisfatto. Carolina mai abbastanza  . La canzone che sussurra l’ha sentita un giorno, chissà dove e fa così: Da adesso in poi.

“Come le lampade hanno bisogno di petrolio, così gli uomini hanno bisogno di essere nutriti di una certa quantità di ammirazione. Quando non sono abbastanza ammirati, muoiono”, (Henry de Montherlant – Pietà per le donne).

Pinocchio non c’è più__blog

Un modernissimo Shakespeare in un sonetto…

 

Sonetto 130 di William Shakespeare

 

Gli occhi della mia donna non sono per niente come il sole;
Il corallo è molto più rosso del rosso delle sue labbra;
Se la neve è bianca, allora i suoi seni sono grigi;
Se i capelli sono fili, neri fili crescono sul suo capo.
Ho visto rose damascate, rosse e bianche,
Ma non vedo nessuna di queste rose sulle sue guance;
E in certi profumi c’è più delizia
Che nel fiato che dalla mia donna esala.
Amo sentirla parlare, eppure so bene
Che la musica ha un suono molto più piacevole.
Ammetto di non aver mai visto camminare una dea:
la mia donna, quando cammina, non ha grazia.
Eppure, per il cielo, ritengo che la mia amata sia straordinaria
Più di ogni altra lei smentisce qualsiasi falso paragone.

 

donna normale

 

Il Sonetto 130 (My mistress’ eyes are nothing like the sun) di William Shakespeare è il tributo più grande che un uomo può fare alla propria amata. Una rappresentazione della donna proprio geniale. Se pensiamo che il poeta è vissuto tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600 appare molto avanti rispetto all’epoca. La stesura del Sonetto 130 dovrebbe essere stata realizzata tra 1591 e il 1595. Le poesie d’amore sono di solito ammirazione, sentimenti romantici o, viceversa, dolore e disperazione per la crudeltà dell’amore.
Tuttavia, il Sonetto CXXX di William Shakespeare presenta una visione dell’amata che esalta la sincerità dell’amore. Una visione realistica della sua donna che non sostituirebbe con nessun’altra. Pregi e difetti fanno parte di qualsiasi persona.
In un’era come la nostra l’esibizionismo televisivo e i social esaltano il culto della bellezza apparente e l’estetica del corpo. Nel XVII secolo Shakespeare metteva all’indice questo modello e dichiarava, attraverso la sua poesia, che la sua amante non l’avrebbe sostituita neppure con una Dea rappresentando, invece ,un inno all’amore unico, assoluto.
Di solito, gli autori che dedicano le loro poesie d’amore alle donne ne descrivono la bellezza, la gentilezza e la tenerezza con paragoni e metafore sofisticate , mentre Shakespeare parlando della sua amata mette in ridicolo i poeti, che esaltano le doti dell’amata. Il sonetto, infatti, sembra essere una presa in giro dell’aspetto della donna o degli autori che usano tali metafore. La donna amata da William Shakespeare è una donna normale. “Gli occhi non sono come il sole”, le labbra non sono più rosse del corallo, “la sua pelle non è bianca come la neve”, il suo viso non è come le rose.
La sua donna è una donna terrena, non è una dea.
“Eppure, per il cielo, ritengo che la mia amata sia straordinaria
Più di ogni altra lei smentisce qualsiasi falso paragone. “
I due ultimi versi sono un capolavoro. Sono un invito a guardare all’amore in modo più vero, elogiare chi ci sta accanto con amore, mettere al centro la donna e il genere femminile con rispetto e massima ammirazione. L’amore vero va oltre le apparenze e le convenzioni e guarda con gli occhi dei sentimenti veri. L’amata non è perfetta ma non è paragonabile a nessun’altra donna. Quando si ama bisogna accettare anche i difetti. Una visione della donna più veritiera e vicina alla vita reale. La bellezza è varia, e poche donne possono essere perfette.
Ecco perché ogni riga di questa poesia dovrebbe diventare l’essenza stessa di ciò che è amore.