Da L’amore liquido. di Zygmunt Bauman

 

Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l’opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. Basta pensare al cambiamento di valore della parola amico tra ieri e oggi in internet per capire come i rapporti siano diventati facili e superficiali. I nuovi rapporti vivono di monologo e non di dialogo, si creano e si cancellano con un clic del mouse, accolti come un momento di libertà rispetto a tutte le occasioni che offre la vita e il mondo. In realtà, tanta mancanza d’impegno e la selezione delle persone come merci in un negozio è solo la ricetta per l’infelicità reciproca. L’amore invece richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l’altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l’amore. Non troveremo l’amore in un negozio. L’amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana, ha bisogno di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno.

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L’Occidente contro il resto del mondo…

Il mondo che lascerà Joe Biden al termine del suo mandato è una bomba a orologeria, un pianeta ulcerato ed esplosivo, a sud come a est, tra scenari di guerra e tensioni internazionali, dall’Ucraina alla Palestina, a tutto il Medio Oriente, alla Corea, alla Cina. E dall’Onu alla Corte dell’Aia. L’odio verso l’Occidente è cresciuto nel mondo, i desideri di vendetta e di rivalsa covano in molti focolai e la pace mondiale è oggi come in pochissime altre fasi precedenti negli ultimi 80 anni messa davvero a rischio. Il mondo che aveva lasciato Donald Trump nel 2020, pur assediato dalla pandemia, era meno compromesso, non c’erano conflitti e tensioni, guerre virali in corso, col rischio di propagarsi anche da noi. Trump lo spaccone, Trump lo sbruffone non aveva fatto guerre da nessuna parte, ed era riuscito pure a sedare alcune situazioni di pericolo, come quella con la Corea di Kim. Non c’erano rischi speciali, con l’Islam, la Russia e la Cina. Ma la menzogna mediatica dell’Occidente fa passare Biden (col suo mondo dem) per un pacifista umanitario e Trump per un guerrafondaio pazzo. E ci dicono di temere il futuro in mano a Trump, che abbiamo già peraltro testato nel precedente mandato, quando dovremmo piuttosto temere il presente ancora in mano a Biden (o alla sua cerchia). Al di là di quel che succederà alla Casa Bianca, occorre una riflessione realistica sullo stato delle cose presenti e sui rischi che stiamo correndo in base ad alcuni pregiudizi, alcune preclusioni che non vogliamo superare. Per risvegliarci dal nostro sonno occidentale, è necessario innanzitutto partire da una considerazione: l’Occidente non è il mondo, ma una porzione sempre più ristretta del pianeta e sempre più divergente. Anzi l’Occidente patisce oggi una paradossale, doppia incongruenza, per eccesso e per difetto: è una realtà troppo ristretta per coincidere con la società planetaria e i suoi parametri globali; ma al contempo l’Occidente è un’entità troppo vasta che assembla mondi distinti e spesso divergenti. Dire Occidente, infatti, significa accorpare in una sola dimensione il mondo statunitense e canadese, il subcontinente latino-americano e l’Europa intera, dall’Atlantico agli Urali. Non sono la stessa cosa, non hanno comuni interessi vitali, strategici, economici e geopolitici. La reductio occidentale presuppone in realtà l’egemonia americana, la subalternità europea e la sudditanza sudamericana. Aveva una residua validità il rifermento all’Occidente quando indicava la civiltà cristiana, pur nelle sue diverse accezioni e derivazioni secolari, ben sapendo che esisteva anche un cristianesimo orientale, russo-bizantino; il cristianesimo era il filo d’Arianna che accomunava i tre Occidenti e alcuni paesi sparsi nel mondo. Ma oggi che il riferimento religioso appare assai meno pregnante e influente, anzi si è fatto marginale e viene sempre più emarginato, cos’è l’Occidente? Individuo, libertà e democrazia, si potrebbe forse rispondere, o tecnologia, capitale privato e mercato; ma non sono più tratti specifici ed esclusivi dell’Occidente e non appaiono più vincenti nella forma occidentale. A lungo l’Occidente è stato un tempo più che un luogo: il tempo della modernità rispetto al resto del mondo che pareva arretrato, ma oggi non è più così. A ciò si aggiunge il calo demografico che investe l’Europa e il nord America. Anche dal punto di vista demografico, la Cina, l’India o l’Islam sono universi più popolosi dell’occidente euro-atlantico o riferito ai paesi del G7, che includono pure il Giappone. Al tempo stesso, come hanno dimostrato anche le più recenti situazioni conflittuali, da quella russo-ucraina a quella israeliano-palestinese, la posizione dell’Occidente è minoritaria rispetto al resto del mondo, alla divergente valutazione di quegli eventi che ne danno Cina, Russia, India, Brasile, Africa e Sudafrica, paesi islamici e paesi non allineati. La distinzione tra il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, secondo il metro occidentale, non risponde affatto all’unità di misura del resto del mondo. Bisogna prenderne atto. Nè possiamo imporre la nostra intermittenza etica nel giudicare le catastrofi umanitarie, i genocidi, i massacri delle popolazioni civili e i crimini contro l’umanità. Il resto del mondo non condivide, non comprende i nostri criteri e i nostri manicheismi. Il caso palestinese come il caso ucraino lo dimostrano. Che senso ha persistere in questa cecità e auto-sopravvalutazione e considerare ancora gli Usa i gendarmi del mondo e l’Occidente il paradigma del pianeta? Perché non accettare realisticamente la situazione effettiva e trarne coerentemente le conseguenze? E’ tempo di lavorare per un mondo multipolare, smobilitando le pretese egemoniche dell’Occidente; anzi rimettendo in discussione l’idea stessa di Occidente. Un conto è difendere la nostra civiltà, un altro è illudersi di essere alla guida del mondo; ed invece, da quel punto di vista, il peggior nemico della civiltà occidentale è l’Occidente stesso, in preda al delirio woke, alla cancel culture, al politically correct, al processo permanente contro la sua stessa civiltà, le sue derivazioni e le sue matrici. Anche l’Oriente assomma in realtà mondi assai diversi, irriducibili tra loro per storia, caratteri, religione, cultura. Si può davvero mettere sotto una stessa categoria spaziale, storica e geopolitica l’Islam, la Russia, la Cina, l’India, il Giappone e via dicendo? E l’Africa a quale emisfero apparterrebbe? La diade Oriente-Occidente non è un indicativo spartiacque più di quello tra Nord e Sud del pianeta. Insomma, da qualunque parte lo si osservi, non resta che oltrepassare l’Occidente. Era il futuro per il resto del mondo ma oggi è stato scavalcato da più ardite tigri della tecnologia e del commercio globale. L’Occidente oggi è il vecchio, senza essere l’antico; è il passato, senza essere l’origine. Indica il luogo e soprattutto il tempo del tramonto. A ovest si fa sera, e si teme la notte. Non resta che andare oltre l’Occidente, pur restando italiani, mediterranei, europei.

Marcello Veneziani                                                                                                                        

Maternità e malinconia nella mostra di Albrecht Dürer a Rovereto.

Al Mart, dipinti e incisioni di Dürer dialogano con opere di grandi maestri del Novecento italiano, da Morandi a Boccioni  .Mater et Melancholia, mette in risalto alcuni capolavori assoluti di Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 – 1528): la Madonna col Bambino, realizzata alla fine del XV secolo durante uno dei viaggi di formazione in Italia, e una serie di incisioni tra le quali spiccano Melencolia I

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https://www.rainews.it/tgr/trento/video/2023/12/durer-marter-melancholia-mart-rovereto-mostra-vittorio-sgarbi-0a80ec8f-2ea0-42fd-9b15-1ba112fd2eaa.html

Nella Madonna col Bambino, Gesù tiene nella destra un rametto di fragole, come alludere forse al suo martirio, mentre il suo sguardo è rivolto verso la madre, mentre tiene stretta la mano sinistra per non cadere. Intanto sembra preannunciare che la stessa mano sarà perforata dal chiodo della passione. Il Longhi sosteneva che Dürer avesse impaginato il gruppo divino con un taglio belliniano e antonellesco . Se si osserva poi che la cuffia della Vergine, che copre quasi tutta la fronte, si nota il richiamo a stilemi dell’iconografia nordica, che Dürer aveva ripetutamente usato nelle incisioni precedenti il secondo viaggio italiano.

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Melencolia I del 1514 è la più celebre incisione di Dürer. Vi si legge l’immagine alata della stessa, in uno stato di completa inazione, seduta sopra un gradino di pietra. La scena trasmette una sensazione di gelo e solitudine in un luogo scarsamente illuminato dalla luce della luna, come si può ipotizzare dall’ombra della clessidra sul muro. Vicino a lei ci sono un putto immusonito che sta scrivendo qualcosa su di una tegola e un bracco malnutrito. La donna è inattiva non per pigrizia, ma poichè , ai suoi occhi il lavoro ha perso significato ,bloccando l’energia con pensiero negativo . Non siamo di fronte ad una donna demotivata ,ma ad un individuo superiore, le sue ali lo dimostrano ,alla sua intelligenza, alla sua immaginazione, circondata dagli arnesi simboli dello sforzo creativo e della ricerca scientifica. La sua espressione rimanda ad un essere pensante in uno stato di incertezza, concentrata non su un oggetto che non esiste, ma su un problema che non può essere risolto.

 

2024, fuga dalla politica e dai giornali…

Qual è l’effetto Meloni sulla diffusione della stampa in Italia? Una vecchia tendenza dell’informazione di solito premiava in modo particolare i giornali all’opposizione dei governi in carica. E’ più facile e più esaltante fare un giornalismo contro; fa più notizia, capitalizza la critica permanente verso il potere. Stavolta invece il calo è generale e si accanisce con i giornali più ostili al governo Meloni. Ma c’è da aggiungere in tutta onestà che il calo dei lettori non risparmia nemmeno i giornali che sostengono il governo Meloni.  Come leggere allora questa flessione ulteriore e trasversale nelle edicole? Si potrebbe spiegare, al di là degli umori e delle opinioni politiche, con la marcia irreversibile verso il tramonto della stampa, a partire da quella cartacea (l’informazione sul web si difende), che coincide con la sostituzione anagrafica degli anziani con le giovani generazioni, refrattarie alla lettura dei quotidiani acquistati nelle edicole. Ma è una spiegazione solo in parte vera.  Se vogliamo dare una chiave di lettura “politica” di quel che succede dobbiamo piuttosto considerare una mutazione “atmosferica” in atto nel nostro paese: dopo la partecipazione attiva alle vicende politiche, all’indomani del covid e con le ultime elezioni politiche, che sancirono la svolta netta verso un governo di destra, premiando l’unico partito d’opposizione che c’era in quel momento, è sopraggiunto nei mesi il torpore, un certo disincanto e un crescente disinteresse, come se si fosse entrati in una specie di stallo generale.  Non è dunque una perdita di fiducia nei confronti della Meloni e nemmeno del suo governo, che pure non suscita entusiasmi almeno a leggere i sondaggi; quanto una sorta di disilluso consenso o un tacito assenso al governo, ma senza adesione attiva e positiva, come un accettare la situazione esistente perché non si intravedono alternative né vie d’uscita. E’ come se l’orizzonte di aspettativa si fosse ristretto, ci si rende conto che i margini e gli argini di manovra consentiti al governo sono in effetti molto ridotti rispetto all’unione europea, alla Nato e al sistema delle alleanze, dei vincoli e delle pressioni internazionali. E dunque, pur senza passare al dissenso o al Partito degli Scontenti, la maggioranza del nostro paese è per così dire in sonno o in stand by, parla meno di politica e meno è interessata a sentirne parlare. Di conseguenza legge meno i giornali che hanno comunque ancora una prima motivazione politica, polemica e civile che ora pare sopita.  Il discorso naturalmente non riguarda solo la Meloni ma si estende alla politica in generale; anzi bisogna dire che la “fortuna” della Meloni, che spiega in parte la persistenza del suo alto consenso nel paese, è il paragone vincente con i suoi avversari (e anche, vorrei aggiungere, con i suoi competitori interni o alleati). Obiettivamente Elly Schlein è una polizza per la Meloni, ma anche Giuseppe Conte, che pure si sta muovendo meglio della segretaria del Pd, non riesce a catalizzare grandi consensi. Dall’altro versante Salvini e Tajani non destano particolari preoccupazioni per la Meloni. Che se vogliamo, è più impensierita da eventuali fattori esterni, come per esempio la discesa in campo del generale Roberto Vannacci, piuttosto che dagli altri alleati e concorrenti.  Negli ultimi tempi la Meloni ha ulteriormente personalizzato la sua leadership; si fida sempre meno di chi le sta attorno. Ma sul disincanto verso la Meloni e sull’ulteriore ondata di disaffezione verso l’informazione, non solo scritta ma anche televisiva, contano anche le vicende recenti. Per esempio quel che sta succedendo dal 7 ottobre a Gaza. A un bestiale massacro compiuto da Hamas è seguito ed è ancora in corso da più di cento giorni un genocidio della popolazione palestinese, tra migliaia di morti, di feriti e quasi due milioni di sfollati. L’intenzione di eliminare e non solo sconfiggere  Hamas, è comprensibile e legittima, ma considerare migliaia di bambini, donne e vecchi palestinesi come puri ingombri da eliminare o da sgombrare pur di bruciare il terreno intorno ai terroristi di Hamas non può essere accettato dalla pubblica opinione e dalla ipersensibilità a lungo alimentata per quanto riguardava l’Ucraina e altre tragedie umanitarie. Non si può improvvisamente silenziare o sottorappresentare  quel che sta avvenendo. Nessuno mette in discussione  la rabbia e il dolore di Israele, il diritto alla sua esistenza e incolumità e l’oggettiva ostilità che lo circonda da cui deve difendersi; ma non si possono nemmeno tacere le catastrofi umanitarie in corso, dopo averne enfatizzate altre.  L’opinione anti-establishment è ormai molto forte in Occidente, dopo la vicenda del Covid, la guerra russo-ucraina e le posizioni della Ue, della Nato e degli Stati Uniti; lo dimostrano, tra l’altro, i successi tornanti di Donald Trump e di Marine Le Pen, come lo aveva dimostrato lo stesso successo della Meloni in Italia. E i dubbi assai diffusi che quest’Occidente, e l’Amministrazione Biden in particolare, stiano gestendo male questa situazione internazionale, facendosi tanti nemici e aprendo fronti di conflitto un po’ ovunque, acuiscono questo disagio. Ma di tutto questo c’è scarsa traccia nei regni dell’informazione occidentale, da destra a sinistra. Da qui la tendenza a disertare la piazza dell’informazione, a darsi alla macchia nella prateria dei social, a scomparire dai radar della pubblica opinione e a rifugiarsi ancor più nella dimensione privata e individuale.

Marcello Veneziani

Un silenzio assordante…

 

sola

 

Lui non ti darà più il buongiorno,
né la buonanotte.
Non ti chiederà più come stai o che fai.
Non ti dirà che gli manchi,
che ti pensa, che sei bella.
Non ti raggiungerà più là dove tu
gli avevi detto di essere.
Perché anche tu non gli scriverai più.
Non gli darai il buongiorno e il pensiero di te,
di un tuo messaggio non lo sveglierà più la mattina.
Non gli dirai che ti manca
o che stai andando a far la spesa,
né che stai facendo le pulizie
o che stai ascoltando la stessa canzone
per la ventesima volta.
Non saprà che, mai, ti abituerai alla sua assenza e che per sempre un pezzo di te rimarrà a lui.
Il silenzio è l’unica risposta che ti rimane.
Un silenzio assordante che non sai decifrare, ma a cui ti dovrai abituare…

Charles Bukowsky

…un silenzio assordante, come una matassa che attorciglia il cuore e toglie il respiro; un silenzio assordante al quale non ci si abitua mai. Ma Tu sei sempre vivo in me, ogni giorno della mia vita, ti amo come allora, quando ci facemmo le promesse sessant’anni fa, oltre la morte che ti ha portato via da me da quasi dieci anni. E oggi tu sei vivo, sei con me in quel meraviglioso giorno, e giochiamo ancora insieme sotto quella nevicata che ci salutò sposi sul sagrato ghiacciato della basilica di S. Francesco ad Assisi. (26/ gennaio/1964)

I vecchi…

 

I vecchi del paese
si alzano presto al mattino,
girano tra le stanze di casa, sorridono
aprono i cassetti, aspettano i nipoti
aspettano le voci delle campane.
I vecchi del paese
sono quasi tutti innocenti,
parlano il dialetto, sanno poco del mondo
regalano proverbi, offrono caramelle
a chiunque gli stia accanto.
Nelle belle giornate, i vecchi
si siedono davanti la porta di casa,
osservano come il tempo sfalda l’intonaco
osservano come il sole riscalda il passato.
Se stanno bene si lamentano
si lamentano ancor più di notte, al buio
quando il dolore li avvolge tra le coperte
li avvolge tra le rughe dell’infanzia.
I vecchi del paese,
sono la parte migliore che resta,
la bellezza di una fiamma, l’essenza di un fiore,
il profumo di un luogo, di un’epoca
un profumo pronto a dissolversi.

Green Eyed Vincent

i vecchi

Quando il cinema ti riporta alla vita…

 

 

Buone notizie dal cinema. Non ci sono solo i prodotti stucchevoli del rococò woke, i film prigionieri nella trama e nelle immagini del modelli prefabbricati che sai già come si svolgono prima di entrare in sala, a colpi di gender, femministe, migranti, neri, green, nazifascisti, eterne vittime, eterni colpevoli, il Bene e il Male, il progresso e la reazione. C’è anche altro nell’umanità, nella vita, nel mondo. E ci sono film di qualità che riescono a parlare alla tua mente e al tuo cuore, che arrivano perfino a commuoverti, e comunque ti chiamano dentro le loro trame, e raccontano la realtà senza partito preso.

Ho visto tre film diversissimi tra loro che in modo diverso ti lasciano qualcosa. Non sono film storici sul passato o di fantasia, ma sono sull’oggi. L’uno è di un collaudato regista italiano, figlio d’arte di un grande regista, rimasto nella storia del cinema; l’altro di un giovane, ambizioso regista, anche lui figlio d’arte, che con l’insolenza egocentrica dei ragazzi fa pure il protagonista del suo film; il terzo è di un grande regista tedesco, maestro del cinema europeo, anche se in questo caso in versione orientale. Il primo film è fatto di senilità, morte e rinascita, in un microcosmo separato dal mondo, in attesa collettiva di chiamata all’altro mondo; il secondo è fatto di grida, violenze e spaccio nel cuore marcio della Capitale; il terzo è fatto di luce, silenzi e fogliame pur in una pulsante metropoli di masse, traffico e cemento.

Il primo descrive il tenerissimo rapporto che sorge tra due ragazzi spacciatori e consumatori di droga che devono scontare la loro pena in una Rsa e i vecchi ospiti della medesima; il secondo si agita nel cupio dissolvi di chi vive al massimo, tra ricchezze sfrenate, vite sfasciate e desideri insaziati. Il terzo contempla il mondo, la vita, nei suoi minimi particolari, e vive dimesso e appartato nelle periferie di una metropoli d’oriente, in una decorosa povertà vissuta con gratitudine.

Il primo mostra come l’umanità sia capace di miracoli, può cambiare pur partendo dal peggio o nell’estremo lembo della sua vita, se presta attenzione e ascolto alla vita degli altri e può trovare affetti e premure anche laddove sembra impossibile, e da chi non avresti mai detto. Il secondo descrive gli spasmi di una vita gaudente e insensata, in una Roma degradata, che ha smesso pure di divertirsi, una specie di Grande Bellezza versione juniores, tra citazioni famose di altri filoni e un po’ di narcisismo malato. Il terzo, invece, descrive la bellezza poetica della vita minima in Tokio, che si accontenta e sorride al corso dei giorni, alla loro ripetizione, ai dettagli, al lavoro ritenuto più umiliante – pulire i cessi pubblici (che a Tokio sono bellissimi e vari mentre a Roma, la città di Vespasiano, erano immondi e sono spariti).

Sono tre film diversissimi, tre registi imparagonabili tra loro, tre storie che ti lasciano in bocca sapori diversi, teneri, amari e sereni: il primo è pensato nel nome del padre, ti riporta ai cari perduti, alle tenerezze dell’estrema vecchiaia e alle esplosioni improvvise d’euforia sul finire della vita al tempo in cui si era bambini, ragazzi, spensierati e danzanti, giocosi e intemerati con la neve.

Il secondo invece ti lascia turbato, proiettato com’è nel miraggio di vivere niccianamente al di là del bene e del male: ma al di là del bene e del male non c’è nulla anzi c’è solo il Nulla, che è il nemico del bene e la placenta del male. Il terzo, infine, ti lascia il gusto, la bellezza di essere al mondo se fai con scrupolo e passione la tua piccola parte; amare il proprio destino, anche il più umile, vivere serenamente nei giorni che si ripetono uguali, dove perfino la monotonia è una benedizione rassicurante della vita che promette solo se stessa, il suo svolgersi quotidiano, perché “adesso è adesso”.

Sto parlando de Il punto di rugiada di Marco Risi, figlio di Dino, Enea di Pietro Castellitto (con un magnifico Sergio in scena nel ruolo reale di padre) e Perfect days di Wim Wenders. Come vedete, non hanno nulla che li accomuni, e gli amanti di uno di questi film resteranno sconcertati, se non indignati, per l’accostamento agli altri due. Il primo è incentrato sui vecchi di una casa di riposo, il secondo sui ragazzi della Roma bene che bazzica la mala e il terzo sulla solitudine serena di un lavoratore avanti negli anni che vive la linea dei giorni come tanti cerchi perfetti. Non sto facendo paragoni, lo ripeto, né pretendo di scovare affinità tra questi film; sto dicendo che nella loro diversità rappresentano finalmente la realtà, senza griglie o paraocchi ideologici, scavano nella nostra interiorità e nei nostri giorni, e ti lasciano in fondo qualcosa. Parlano della nostra vita con gli occhi della vita. Non faccio classifiche, non esprimo giudizi perché i tre film in questione sono diseguali sotto tutti i punti di vista: si potrebbe dire hegelianamente che il primo rappresenta la tesi, il secondo l’antitesi o l’uscita da sé e il terzo la sintesi o il ritorno ma i tre film ti fanno vedere la realtà, ti fanno pensare nella realtà. Non ti donano altro che lo sguardo sulla realtà in corso d’opera.

I tre film ci riportano al crocevia delle nostre vite, dove confluiscono strade diverse, persone diverse e veicoli diversi. Ma insieme costituiscono la nostra vita, da giovani, da vecchi, da solitari, dentro e fuori dal mondo, o ai suoi margini periferici.

Il racconto della vita è essenziale alla vita stessa, laddove la fiction si fa più vera della realtà, e non c’è vita degli altri che non sia anche un po’ vita nostra, giacché siamo consorti e connessi, assai più di quanto il web possa dire. Tutto questo, in breve, si chiama umanità.

Marcello Veneziani 

Il destino esiste? Tu ci credi ?

 

 Sono fatalista ,da sempre credo in un destino, che ci accompagna dalla nascita e contro il quale non abbiamo potere per sconfiggerlo , al massimo penso ci sia stata data qualche piccola possibilità di modifica,  con esito immutabile. Per questo  ieri, appresa la notizia della morte improvvisa di Gigi Riva, mi sono detta:” Quando è la tua ora , te ne vai, anche se ti trovi nel luogo dove potrebbero evitarlo .” Infatti il calciatore, ricoverato repentinamente, ha rifiutato di fare un’ angioplastica, che avrebbe potuto salvarlo-oppure no? Sarebbe morto comunque?  Nessuno può dirlo. Tuttavia la mia curiosità mi ha portato a documentarmi. Ecco  un articolo tratto dal Sito RIZA shop.

Quando si parla di destino è facile cadere in due errori speculari: vivere con eccessivo fatalismo o pensare che tutto dipenda dalle nostre azioni. Ecco come evitarlo

destino

Destino: cos’è, quali sono le idee più diffuse (e sbagliate) a riguardo

La domanda è di quelle eterne: siamo artefici del nostro destino o siamo preda di forze che non controlliamo? Fin dagli albori della storia l’uomo si è posto questa domanda, cercando risposte nell’arte, nella filosofia, nelle scienze e nella religione. Anche in ambito psicoterapeutico emerge l’urgenza di un approccio valido a questa tematica, poiché il disorientamento cresce al pari della complessità della vita, finendo col generare un atteggiamento unilaterale, ovvero la tendenza a credere che il proprio destino dipenda da una sola componente. Si rintracciano in tal senso tre posizioni principali.

 La fiducia nel Controllo. Si crede che gran parte della realtà sia del tutto controllabile e nelle proprie mani, grazie all’uso spasmodico di elementi come la razionalità, il possesso di denaro, la forza di volontà…
  • Il senso della Forza Trascendente. È tipico di chi sente che tutto dipende da una Forza superiore che ha già scritto il nostro destino e che il libero arbitrio esista solo nelle piccole cose ma non nelle scelte decisive della vita.
  • La certezza del Caso. Si pensa che tutto sia assolutamente casuale, che viviamo in balìa di un caos privo di senso e di controllo.

Ognuna delle tre ipotesi sul destino, da sola, si rivela sempre inadeguata ad affrontare e a comprendere la vita in tutto il suo divenire. La prima conduce all’ansia da prestazione, al senso di colpa o di onnipotenza; la seconda è consolatoria, dà senso agli eventi ma ci fa vivere in modo passivo; la terza è iperfatalista e spinge al cinismo o al senso di impotenza e di insicurezza.

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Credere o non credere nel destino? C’è un’altra possibilità

Come si può ottenere allora un senso del destino più plastico e adattabile alle diverse situazioni dell’esistenza? Senza pretendere di dare risposte definitive, ricordiamo un utile aforisma dello scrittore latino Cleante: “Il destino guida chi acconsente, trascina chi si oppone”. La sensazione è che un flusso, energetico ed esistenziale, a un certo punto intervenga nella vita e che l’azione più efficace possa consistere nell’assecondare ciò che va in questa “direzione naturale”, senza sforzo e con lucidità, consapevoli che influiranno sul risultato anche elementi casuali e imperscrutabili. Saper scegliere un buon flusso vitale e lasciarsi portare, cedevolmente attenti, è il modo migliore per far sì che molti eventi possano diventare esperienze positive o, mal che vada, che vengano affrontati con prontezza e realismo.

 Non esiste una sola risposta

Non c’è nessun “atteggiamento unico” valido per tutte le situazioni della vita. A volte prevale la Dea Bendata, a volte il nostro intervento è decisivo, a volte qualcosa di “superiore” si impone. Acconsentire a che le cose vadano in una direzione naturale non significa  che sia sempre predominante il “superiore”.

Fatti portare ma ad occhi aperti ,abbandonarsi a occhi chiusi. Resta lucido e pronto a cogliere ogni segnale possa suggerirci un cambio di prospettiva.

Affidarsi al fato senza essere fatalisti

Ognuno di noi ha delle doti che, entro certi limiti, possono influire anche sugli eventi più ineluttabili, e talora essere determinanti. È bene non scordarlo.

Rispetta il Fato…degli altri!

Non cercare di forzare il destino altrui (o il flusso vitale) nella direzione che vuoi tu o gli effetti saranno nefasti. Se, ad esempio, tuo figlio ha un talento musicale, favoriscilo ma non imporglielo e non sovraccaricarlo di aspettative.

Cautela nel giudizio

È facile accettare gli eventi positivi. Ma spesso una cosa si trasforma nel suo contrario. È utile sapere che una sconfitta a volte è una vittoria, e viceversa, e che un “no” della vita può aprire le porte ad un’esistenza migliore.

La prova della malvagità dell’uomo nelle etichette indecifrabili…

C’è bisogno di impegno e ricerca per capire di cosa sono realmente fatte le cose che indossiamo. Due acquisti da raccontare.

capi abb.