Esiste l’odio ,esiste la rabbia; sono emozioni , sentire violenti che entrano in noi e ci trasportano quasi in un altro luogo dove ,a volte,si possono vivere impulsi e brutalità, non sempre accompagnati dal nostro raziocinio. Quando agiamo,scatenati dall’ira , spesso poi ci pentiamo.Nei lontani tempi passati, credo che gli uomini fossero meno presi da questi scatti di ira. La quotidianità sempre uguale li rendeva assuefatti alle loro condizioni di vita, meno esposti a risentimenti, invidie. Ognuno accettava la sua condizione fin dalla nascita, pochissime le persone che vivevano molto bene, e questo era nella logica dei fatti. Oggi, esposti come siamo alla continua comunicazione, che ci arriva da ogni parte, sono poche le persone che vivono ancora nel più completo isolamento dell’analfabetismo, per cui siamo tutti esposti quotidianamente alle ingiustizie del mondo evidenziate dalla politica,dalla cronaca che ogni giorno si intrufolano nelle nostre vite. Pensiamo al recente attentato a Donald Trump, a quanto la violenza sia ormai normalizzata nel nostro mondo. Pensiamo al gossip, che ci mostra ogni giorno la dolce vita di chi nuota nella ricchezza, incurante delle miserie altrui. Non mi ha stupito imbattermi oggi in una poesia sulla rabbia, scritta da uno dei più considerati intellettuali , scrittori, poeti e uomini di cinema del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini.
L’autore, che unisce il piano ideologico a una dimensione più intima e autobiografica, cerca in se stesso le emozioni ,mettendone in luce le contraddizioni, che sono anche le nostre, e descrive l’emozione della rabbia, avvertita come un piccolo demone che avvelena l’anima.
Quando si è arrabbiati non si riesce a focalizzare altro: una delle emozioni più fisiche e potenti, che si irradia dalle viscere e ci fa diventare altro da noi, se non siamo in grado di governarla. Trasformiamo allora la rabbia in una fisicità prorompente: l’accecamento, l’incendio, la pancia… In una parola, un impulso ingovernabile,che ha bisogno di trasformarsi in azione, di scatenarsi al di fuori di noi per liberarci. Può una tale emozione diventare poesia? Si, ed anche una poesia bella, intrigante, vera.. Infatti in questi versi Pasolini la fa vivere nel giardino “speciale” di sua madre, come un demonio che lo distrugge.
La rabbia –
Vado sulla porta del giardino, un piccolo
infossato cunicolo di pietra al piano
terra, contro il suburbano
orto, rimasto li dai giorni di Mameli,
coi suoi pini, le sue rose, i suoi radicchi.
Intorno, dietro questo paradiso di paesana
tranquillità, compaiono,
le facciate gialle dei grattacieli
fascisti, degli ultimi cantieri:
e sotto, oltre spessi lastroni di vetro,
c’è una rimessa, sepolcrale. Sonnecchia,
al bel sole, un po’ freddo, il grande orto
con la casetta in mezzo ottocentesca,
candida, dove Mameli è morto,
e un merlo cantando, trama la sua tresca.
Questo mio povero giardino, tutto
di pietra… Ma ho comprato un oleandro
nuovo orgoglio di mia madre
e vasi di ogni specie di fiori,
e anche un fraticello di legno, un putto
obbediente e roseo, un po’ malandro,
trovato a Porta Portese, andando
a cercare mobili per la nuova casa. Colori,
pochi, la stagione è così acerba: ori
leggeri di luce, e verdi, tutti i verdi…
Solo un po’ di rosso, torvo e splendido,
seminascosto, amaro, senza gioia:
una rosa. Pende umile
sul ramo adolescente, come a una feritoia,
timido avanzo d’un paradiso in frantumi…
Da vicino, è ancora più dimessa, pare
una povera cosa indifesa e nuda,
una pura attitudine
della natura, che si trova all’aria, al sole,
viva, ma di una vita che la illude,
e la umilia, che la fa quasi vergognare
d’essere così rude
nella sua estrema tenerezza di fiore.
Mi avvicino più ancora, mi sento l’odore…
Ah, gridare è poco, ed è poco tacere:
niente può esprimere una esistenza intera!
Rinuncio a ogni atto… So soltanto
che in questa rosa resto a respirare,
in un solo misero istante,
l’odore della mia vita: l’odore di mia madre…
Perché non reagisco, perché non tremo
di gioia, o godo di qualche pura angoscia?
Perché non so riconoscere
questo antico nodo della mia esistenza?
Lo so: perché in me è ormai chiuso il demone
della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco;
sentimento che m’intossica
esaurimento, dicono, febbrile impazienza
dei nervi: ma non ne è libera più la coscienza.
Il dolore che da me a poco a poco mi aliena,
se io mi arrabbio appena,
si stacca da me, vortica per conto suo,
mi pulsa disordinato alle tempie,
mi riempie il cuore di pus,
non sono più padrone del mio tempo…
Niente avrebbe potuto, una volta, vincermi.
Ero chiuso nella mia vita come nel ventre
materno, in quest’ ardente
odore di umile rosa bagnata.
Ma lottavo per uscirne, là nella provincia
campestre, ventenne poeta, sempre, sempre
a soffrire disperatamente,
disperatamente a gioire… La lotta è terminata
con la vittoria. La mia esistenza privata
non è più racchiusa tra i petali d’una rosa,
una casa, una madre, una passione affannosa.
È pubblica. Ma anche il mondo che m’era ignoto
mi si è accostato, familiare,
si è fatto conoscere, e, a poco a poco,
mi si è imposto, necessario, brutale.
Non posso ora fingere di non saperlo:
o di non sapere come esso mi vuole.
Che specie di amore
conti in questo rapporto, che intese infami.
Non brucia una fiamma in questo inferno
di aridità, e questo arido furore
che impedisce al mio cuore
di reagire a un profumo, è un rottame
della passione… A quasi quarant’anni,
io mi trovo alla rabbia, come un giovane
che di sé non sa altro che è nuovo,
e si accanisce contro il vecchio mondo.
E, come un giovane, senza pietà
o pudore, io non nascondo
questo mio stato: non avrò pace, mai.
Pier Paolo Pasolini