L’amore non è già fatto. Si fa.

 

L’amore non è già fatto. Si fa.
Non è un vestito già confezionato,
ma stoffa da tagliare, cucire.
Non è un appartamento “chiavi in mano”,
ma una casa da concepire, costruire,
conservare e spesso riparare.
Non è vetta conquistata, ma partenza dalla valle,
scalate appassionanti,
cadute dolorose nel freddo della notte
o nel calore del sole che scoppia.
Non è solido ancoraggio nel porto della felicità
ma è un levar l’ancora, è un viaggio in pieno mare,
sotto la brezza o la tempesta.
Non è un “si” trionfale,
enorme punto fermo che si segna fra le musiche,
i sorrisi e gli applausi, ma è una moltitudine di “si”
che punteggiano la vita,
fra una moltitudine di “no”
che si cancellano strada facendo.
Non è l’apparizione improvvisa di una nuova vita,
perfetta fin dalla nascita,
ma sgorgare di sorgente
e lungo tragitto di fiume dai molteplici meandri,
qualche volta in secca, altre volte traboccante,
ma sempre in cammino verso il mare infinito.

 

Michel Quoist

love puzzle

La polvere del passato…

 

Ogni tanto colgo
attimi di gioia,
soavi come musica senza tempo,
leggeri,
come tenui fiori,
profumano ancora
d’amore e luce.
Dalle pieghe polverose del vissuto
emergono
un attimo appena,
riscaldando ancora
il mio cuore strappato,
prima di scomparire
soffocati dal dolore,
che lentamente sfuma,
anch’esso avviato
nello scorrere del tempo
che crea il passato.

 

Lucia Tiziana Mignosa

 

Dalle pieghe

 

Sei poeta e ami il tuo paesino? Sei violento.

 

Voi non potete immaginare a che punto sta arrivando il regime di sorveglianza che si sta imponendo giorno dopo giorno nella nostra vita quotidiana, a cominciare dalle pieghe più marginali dei social. Devo raccontarvi un’esperienza, personale e non solo, che ci dice dove porta la demenza dell’Idiozia Artificiale (chiamata stupidamente Intelligenza Artificiale) ibridata all’ideologia woke. Dunque, è stato ripreso sulla mia pagina Facebook e sugli altri social (Instagram, Telegram, Tweet) un mio articolo uscito mercoledì scorso su Panorama, La poesia dei paesini perduti, in cui raccontavo l’impegno del poeta Franco Arminio in difesa dei piccoli paesini in via d’estinzione. Un piccolo atto d’amore verso le minuscole comunità locali, scritto con tenerezza e nostalgia verso quel piccolo mondo antico che rischia di scomparire. Ma il blog è stato censurato su Facebook e dintorni perché, leggo testualmente: “La nostra tecnologia ha mostrato che questo post è simile ad altri che violano i nostri Standard della community in materia di contenuti forti e violenti. Non consentiamo alle persone di condividere contenuti che mostrano violenza esplicita”.
Se c’è un mio scritto dolce e disarmato, dedicato a un poeta e all’amore per il proprio paesino, senza nemici, che non polemizza con nessuno, è questo.
Dopo essermi scervellato a capire cosa il demente sotto falso nome che si fa chiamare algoritmo può aver ravvisato come violento, sono arrivato a questa conclusione. Ad un certo punto, condividendo l’appello accorato del poeta Arminio a non abbandonare i paesini d’origine ma anzi a ripopolarli, ho scritto: “Tornate al vostro paese…cominciate la migrazione al contrario”. Questa frase, estrapolata dal contesto dei piccoli paesi del sud abbandonati dai suoi abitanti, è stata letta presumibilmente come un appello, anzi un avvertimento, ai migranti a tornare a casa loro. Tesi e opinione che reputo peraltro legittima, ma che non c’entra affatto con quello che scrivevo e sostenevo.
Vedete a che punto arriva l’automatismo della tecnica, combinato con l’input ideologico e intollerante di chi ne dovrebbe controllare i contenuti?
Da che parte sta la violenza se non nella censura e nel definire violento ciò che è esattamente il contrario, un atto d’amore verso le origini di ciascuno di noi?
Peccato, peccato pasquale. Devo dirvi che avevo in mente di scrivere per stamattina un articolo pasquale di fiducia e di speranza nella resurrezione civile e spirituale, nonostante tutto. Pensavo di scrivere una riflessione sulla necessità di predisporsi in modo positivo e propositivo, di non abbandonarsi all’accidia e allo scontento generale, non sentirsi alla fine del mondo o dell’umanità; ma di preparare il terreno alla fiducia che altre pasque verranno, non sarà l’apocalisse. Una riflessione che avrebbe cercato di vedere i lati buoni nel nostro tempo, confidando nella forza della realtà, della natura, delle cose che sono, rispetto alla tentazione di consegnarsi a tutto ciò che li nega.
Ma questa inquietante intrusione, cieca e ottusa, ha avvelenato il proposito pasquale, e mi ha fatto desistere. La spirito di negazione, ancora una volta, ha prevalso, con la forza dell’anatema, sull’amore per la realtà, per la vita vera, per i sentimenti più genuini.
Non è la prima volta che succede, e mi succede. Basta una parolina, un contenuto appena non allineato al mainstream, e subito bloccano, frenano, nascondono i tuoi liberi pensieri anche se sono ponderati, rispettosi, mai offensivi verso nessuno. Da tempo ha più difficoltà la circolazione dei blog.
Aggiungo tre cose che rendono questo pur piccolo episodio ancora più amaro. La prima è che non puoi nemmeno protestare con qualcuno, non sai a chi e come rivolgerti: nel regno dei social e dei gestori tutto si svolge in modo anonimo, impersonale, automatico, non puoi ricorrere a nessuno che ti ascolti, che riconosca l’errore e il danno e che ponga rimedio e faccia pubblica ammissione di aver sbagliato. La seconda è che probabilmente, anche questa mia reazione di protesta, stavolta energica, alla stupida, vergognosa censura sarà a sua volta censurata dai tecno-aguzzini automatici che veicolano i social.
La terza, più generale, è che da tempo denunciamo sulle colonne de la Verità e non solo, la deriva della dittatura woke e le quotidiane violazioni e limitazioni alla libertà di opinione, molti condividono la nostra denuncia (anche in questo caso molti mi hanno scritto riferendomi della censura); ma non succede niente, non cambia niente, la marcia della faziosa stupidità prosegue imperterrita, dagli Usa a casa nostra. E ogni giorno si aggiunge un piccolo tassello alla grande muraglia del Divieto Ideologico Globale.
Pensate infine che con la minore diffusione dei giornali, la crisi spaventosa delle edicole, rischiamo di non avere più un’informazione controbilanciata, ovvero la possibilità di denunciare questi abusi e avvertire il pubblico di questo progressivo scivolamento nel conformismo coatto. Tendono a eclissarsi le fonti alternative d’informazione, critica e cultura; esattamente come la chiusura o la sorveglianza punitiva dei social rischia di tappare la bocca a tanta gente che si rifugia nei social per ripararsi dagli altri media, espressioni di poteri e fonti di opinioni prefabbricate. Stiamo tra l’incudine e il martello, insomma. E con questo ho chiuso. Buona colomba a tutti, se l’augurio non configura un contenuto violento nei confronti dei volatili e del gender, con eventuali allusioni erotiche di tipo sessista.

 Marcello Veneziani                                                                                                         

La poesia dei paesini perduti…

 

Nei giorni di Pasqua vi consiglio un fioretto civile e sentimentale: andate a ritrovare un paesino del vostro passato. Fate visita a quel piccolo, vecchio, parente delle vostre origini; tutti abbiamo un piccolo paese nel cuore, nativo o adottivo, o sfiorato solo in un giorno d’infanzia o di gioventù. Portatevi come compagno di viaggio un libro di Franco Arminio, poeta e paesologo, come lui si definisce. O paesofilo, direi. Un geopoeta, che non è un poeta geometra ma un poeta della terra, dei luoghi, dei piccoli comuni. “Vorrei essere ricordato con una sola frase, l’uomo che amava i paesi”, dice Arminio, nativo a Bisaccia, nell’Irpinia d’Oriente.
Vi parlerò dei paesi con le parole sue, tratte dai suoi libri. Tornate al vostro paese, esorta il poeta, non c’è luogo più vasto. Cominciate la migrazione al contrario, anche se non è conveniente. Avete una casa vuota che vi aspetta; lì se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto. Una volta, dice il poeta, i paesi erano fatti dei vivi e dei morti. Chi moriva veniva evocato in continuazione. Oggi seppelliamo assai presto anche la memoria. Eppure il paese è una fabbrica dove si producono sentimenti, attese tradite, indifferenze inusuali, presenze mute, sostegni di cui neppure ti accorgi. Avere un paese significa avere più mondo.
Per fare comunità ci vuole un luogo. Il luogo ha una poetica, oltre che un paesaggio. Ci vuole una tensione intellettuale e sentimentale insieme, avverte il poeta. La poesia ha il compito di legarci di più alla Terra, ci radica nella vita. Poesia per fare comunità, per dare coraggio al bene, per ingentilire il mondo più che biasimarloLa poesia è di chi sta al mondo per cantarlo. Amore per l’essere e la realtà, aggiungo io, realismo fisico e metafisico. Il consiglio del poeta è portare la poesia ovunque, in ogni contesto, scolastico, istituzionale, civile. Il nero dell’Italia di oggi, dice bene il poeta, non è il fascismo ma la depressione. C’è gente che finisce la giornata prima di cominciarla. La depressione non è avversata perché non dà fastidio, è remissiva, al più nuoce a se stessi. Ma la scontentezza fa danni, dice il poeta (lo scrissi anch’io in un saggio dedicato agli Scontenti). Si parla tanto di narrazione ma nessuno sa narrare niente; e ci si ammala anche per questo, c’è come un ristagno delle emozioni. Occorre riprendere la cura dello sguardo, la passione di vedere il mondo; e piantare la vostra inquietudine in mezzo al salotto, e ovunque.
Il poeta rivolge il messaggio ai ragazzi di paese e dice loro: prendetevi le albe, non solo il far tardi, contestate con durezza i ladri del vostro futuro, siete la prua del mondo, davanti a voi non c’è nessuno. Ma ricordatevi, aggiungerei io, di quanti c’erano e ci sono dietro di voi, fate pace con la storia, le eredità, le radici, la memoria.
Un paese, avverte il poeta, per sua natura fa resistenza al nuovo, è conservatore. Ma i paesani d’oggi sono inzuppati di sfiducia, sono rami senza radici…Bisogna arieggiare i paesi, agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello più che una comunità pozzanghera. Riabitare i paesi non è questione di soldi, dice il poeta. I soldi servono a farli più brutti, mentre per riabitare i paesi servono piccoli miracoli, una nuova religione dei luoghi; la questione non è economica ma teologica. Siate inattuali.

Il poeta vede ovunque l’impronta del sacro, il sacro minore, che si annida tra gli uomini, la terra, gli animali, le cose, i gesti. E scrive un libro dove la prima parola di ogni poesia è Sacro. Sacra è la poesia, ma solo quando è ladra, quando ruba un poco di miseria al mondo. Sacro era mio padre, dice il poeta, che non amava andarsene a dormire, gli era caro il sonno sul tavolino. Prosegue il poeta, abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Ogni albero è un pensatore, uno storico locale. E invece da troppi anni non arriva un anno nuovo, il mondo è simbolicamente morto.
Poi torni dalla poesia alla realtà e vedi che vanno via tutti dai piccoli comuni; chi resta è vecchio, sordo, disabile, rassegnato o eroico, fedele ad oltranza all’abitudine di un’origine e di mondo ereditato. I provinciali al quadrato, anzi alla terza potenza, per quelli che abitano nei paesini del sud, vivono quest’assedio; ogni giorno si arrende qualcuno e si consegna alla città. Nessuno si cura di loro, non c’è un Corriere dei piccoli che li racconti e li rappresenti, se non un poeta disarmato. Tanti sono i disagi, gli abbandoni, le lunghe noie, di chi vive nei paesini. Eppure nei piccoli comuni conosci più persone che nelle grandi città: nel paesino ti fermi a parlare con cento persone e ne saluti mille, nella metropoli ti fermi a parlare con sei persone e ne saluti venti. Vedi meno folle ma incontri più persone. Il paesano ha più mondo, più vita, più natura. Il paesano non va in farmacia, in caserma, in salumeria, in chiesa ma va dal farmacista, dal brigadiere, dal salumiere, dal parroco. Figure al singolare, non intercambiabili; di tutti sai vita, morte e miracoli. Forse perché sono piccoli comuni fanno più comunella; perché, non so ancora per quanto, sono comunità. Il piccolo comune è come un giardino d’infanzia, anche se abitato da vecchi, lo dovremmo tutelare come un bambino, con premura e tenerezza. Dovremmo aiutarlo ad attraversare la strada della modernità ed estendere ai piccoli comuni la legge a tutela dei minori. Col poeta riconosciamo la letizia senza scampo di vivere sotto la luce del sole; specialmente in un paese piccolo, inerme, ricco della sua piccola immensità.

Nel silenzio…

 

_Non voglio imparare a non aver paura, voglio imparare a tremare.

Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce.

Non voglio imparare a non arrabbiarmi, voglio sentire il fuoco, circondarlo di trasparenza che illumini quello che gli altri mi stanno facendo e quello che posso fare io.

Non voglio accettare, voglio accogliere e rispondere.

Non voglio essere buona, voglio essere sveglia.

Non voglio fare male, voglio dire: mi stai facendo male, smettila.

Non voglio diventare migliore, voglio sorridere al mio peggio.

Non voglio essere un’altra, voglio adottarmi tutta intera.

Non voglio pacificare tutto, voglio esplorare la realtà anche quando fa male, voglio la verità di me.

Non voglio insegnare, voglio accompagnare.

Non è che voglio così, è che non posso fare  altro.

 

Laura Chandra Candiani

 

Il-silenzio

Ode alla Pace di Pablo Neruda, versi per riflettere in questa settimana Santa.

 

 

 

L’Ucraina prima e la Palestina adesso ci fanno avvertire l’orrore della guerra , che colpisce soprattutto gli inermi, coloro che con questi obbrobri non hanno niente a che spartire, ma pagano per coloro che li governano malamente , senza scrupoli.
La follia umana ha preso il sopravvento su ogni valore umanamente condivisibile,il dominio del mondo è ormai l’unico obiettivo delle grandi potenze, attente a mantenere le loro supremazie su un pianeta allo sfascio ecologico, morale e intellettuale, obiettivo ridurre l’uomo ai minimi termini per garantire massimi profitti a chi sopravviverà
Ecco perché  condivido una poesia che è un viaggio. L’epica di un poeta che ha conosciuto l’esilio, e ogni specie di tragedie umane. Quello di Pablo Neruda è un canto di auspicio, una preghiera che fermi la barbarie e riesca a trionfare la Pace nel mondo intero.

        Ode alla pace

Sia pace per le aurore che verranno,
pace per il ponte, pace per il vino,
pace per le parole che mi frugano
più dentro e che dal mio sangue risalgono
legando terra e amori con l’antico
canto;
e sia pace per le città all’alba
quando si sveglia il pane,
pace al libro come sigillo d’aria,
e pace per le ceneri di questi
morti e di questi altri ancora;
e sia pace sopra l’oscuro ferro di Brooklyn, al portalettere
che entra di casa in casa come il giorno,
pace per il regista che grida al megafono rivolto ai convolvoli,
pace per la mia mano destra che brama soltanto scrivere il nome
Rosario, pace per il boliviano segreto come pietra
nel fondo di uno stagno, pace perché tu possa sposarti;
e sia pace per tutte le segherie del Bio-Bio,
per il cuore lacerato della Spagna,
sia pace per il piccolo Museo
di Wyoming, dove la più dolce cosa
è un cuscino con un cuore ricamato,
pace per il fornaio ed i suoi amori,
pace per la farina, pace per tutto il grano
che deve nascere, pace per ogni
amore che cerca schermi di foglie,
pace per tutti i vivi,
per tutte le terre e le acque.
Ed ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno alla Patagonia, dove
il vento fa vibrare le stalle
e spruzza ghiaccio
l’oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere,
vicino all’araucaria selvaggia,
al forte vento che soffia dal Sud.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo a tutta la terra, battendo
dolcemente le nocche sulla tavola.
Io non voglio che il sangue
torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica:
ed io voglio che vengano con me
la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole
e che escano a bere con me il vino più rosso.
Io qui non vengo a risolvere nulla.
Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.

Pablo Neruda

 

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Il colore della primavera..

 

“Una Luce esiste in Primavera” di Emily Dickinson è una poesia che narra la Primavera e il mese di marzo,l’unico periodo dell’anno, secondo lei, capace di regalarci emozioni uniche e speciali, se siamo capaci a lasciar parlare il cuore, mettendo il ragionamento in seconda fila . Non sempre le emozioni,infatti , hanno bisogno di essere spiegate, basta viverle, lasciarle fluire in noi per avere la massima gioia e capire che tutto ciò che esula dalla ragione,ha la meraviglia della innocua pazzia.
La luce di Emily ha in se una magia speciale, capace di illuminare orizzonti lontani, anche immaginari, piccola metafora della giovinezza, che vede sempre futuri luminosi in quel sogno, che ognuno di noi vive, quando gli anni sono piccoli e la percezione umana, il conflitto tra spiegazione scientifica e intuizione hanno un limite. Rivela due modi di percezione, quella spirituale e la monotonia del quotidiano. Pubblicata postuma .

“Una luce esiste in primavera”

Emily Dickinson

Una Luce esiste in Primavera
Non presente nel resto dell’Anno
In nessun altro periodo –
Quando Marzo è appena arrivato

Un Colore sta là fuori
Su Campi Solitari
Che la Scienza non può cogliere
Ma la Natura Umana sente.

Aspetta sul Prato,
Mostra l’Albero più lontano
Sul più remoto Pendio che conosci
Quasi ti parla.

Poi quando oltre gli Orizzonti
i meriggi si replicano lontani
Senza Formula di suono
Passa e noi restiamo –

Un senso di perdita
Intacca la nostra soddisfazione
Come se gli affari s’insinuassero d’un tratto
In un Sacramento –

 

A Light exists in Spring

A Light exists in Spring
Not present on the Year
At any other period —
When March is scarcely here

A Color stands abroad
On Solitary Fields
That Science cannot overtake
But Human Nature feels.

It waits upon the Lawn,
It shows the furthest Tree
Upon the furthest Slope you know
It almost speaks to you.

Then as Horizons step
Or Noons report away
Without the Formula of sound
It passes and we stay —

A quality of loss
Affecting our Content
As Trade had suddenly encroached
Upon a Sacrament.

Un colore illumina i campi solitari. Questo colore non può essere spiegato dalla scienza; piuttosto, è qualcosa che gli esseri umani percepiscono in modo innato, ma troppo spesso presi da altro di più razionale, ci lasciamo sfuggire questi momenti di incanto, quasi paradisiaci, la collina, l’albero di oggi, che già domani sarà diverso, anche marzo passerà e si porterà via tutto questo, che pochissimi avranno capito e saranno stati capaci di vivere- Si evidenzia l’incapacità di noi umani di vivere il qui e ora, di apprezzare le gioie, la felicità nel momento in cui ci vengono regalati i colori dell’esistenza , che non hanno nè ragione nè comprensione.
C’è la sensazione di vedere oltre i propri limiti normali, si vola in alto riuscendo a respirare la magia del tutto con un semplice sguardo. La luce non ha parole, parla al cuore, non alla ragione; è come un Sacramento incontaminabile, che va oltre tutto ciò che può avere ua spiegazione, che va vissuto quindi allo stesso modo, soltanto in beatitudine.

equinozio-di-primavera

Paura della paura…

Scaccia la paura
e la paura della paura.
Per qualche anno le cose basteranno.
Il pane nel cassetto
e il vestito nell’armadio.
Non dire mio.
Hai preso le cose solo in prestito.
Vivi nel tempo e capisci
che poche cose ti servono.
Accasati.
E tieni pronta la valigia.
È vero quello che dicono:
ciò che deve succedere, succederà.
Non andare incontro alla pena.
E quando arriva,
guardala tranquillamente.
È effimera come la felicità.
Non aspettare nulla.
E abbi cura del tuo segreto.
Anche il fratello tradisce
se si tratta di te o di lui.
Prendi la tua ombra
come compagna.
Scopa bene la tua stanza.
E saluta il tuo vicino.
Aggiusta il recinto
e anche il campanello alla porta.
Tieni aperta la ferita dentro di te
sotto il tetto delle cose che passano.
Strappa i tuoi piani. Sii saggio
e credi nei miracoli.
Sono iscritti da tanto tempo
nel grande piano.
Scaccia la paura
e la paura della paura.
Mascha Kaléko

 

paura

“Fiorita di marzo” di Ada Negri: la poesia della giovinezza in fiore…

Quando scrisse i versi di “Fiorita di marzo” Ada Negri aveva quasi quarant’anni. Forse per questo la poesia appare come un rimpianto della giovinezza perduta poichè la poetessa fa una descrizione della primavera, evento dirompente, di osservazione. La stagione “nuova” portata dal mese di marzo diventa una metafora. Il miracolo della primavera si ripete ed è un dolce languore di fiori che sbocciano timidi al primo sole, emanando un profumo inebriante e tuttavia fugace. Il vero tema della poesia di Negri non è l’elogio del trionfo della primavera, ma la fuggevolezza del tempo, come si evince dal primo aggettivo presente nel verso di apertura: “breve”.
La primavera descritta da Ada Negri dura il tempo di una fioritura, è un fragile fiore in boccio insidiato dal primo alito di gelo, proprio come l’innocenza della giovinezza che presto cede il passo a una consapevolezza nuova, a un risveglio amaro che permette un’effettiva presa di coscienza della realtà. Sono versi venati di rimpianto, scritti per celebrare più la giovinezza perduta che il mese di marzo

“Fiorita di marzo” di  Ada Negri:

La fioritura vostra è troppo breve,
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.

Troppo rapido è il passo con cui tocchi
il suolo—e al tuo passar l’erba germoglia
o Primavera, o gioia de’ miei occhi.

Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell’orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,

essi, ne’ loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l’aria densa di languori;

e se ne va così la tua bellezza
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di Marzo, o Giovinezza!…

 

 
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Claude Monet___ Prato fiorito

La primavera cantata da Ada Negri è connotata da un forte sentimento di perdita: i versi sembrano scorrere attraverso le dita, fluire come acqua, sono inafferrabili, imprendibili, in perpetua fuga. Sembra una sinfonia di passaggio, un interludio. La stagione portata da marzo, il più instabile di tutti i mesi, in effetti è fugace, repentina, la meno stabile di tutte: non ha la lunga permanenza del gelo dell’inverno né il furore accecante ed eterno dell’estate che trascina il mondo in un limbo. La primavera è una stagione di passaggio, di durata breve, dal tempo incerto di nuvole e sole. Per queste ragioni la poetessa la associa alla giovinezza, che è l’età della vita in cui l’essere umano è più fragile, incompleto, incerto, eppure ha in sé tutte le energie per affrontare il futuro, proprio come quei fiori in boccio che si schiudono a fatica sotto la sottile coltre di neve illuminata da una luce timida che ancora non scalda. La metafora governa l’intera poesia, ma solo nel finale ci viene svelata nella sua trionfante verità con un’apostrofe che è anche una personificazione: “o Giovinezza!”. E allora capiamo che quello che l’autrice voleva dirci, in realtà, era un’altra cosa, che nei suoi versi scorreva un pianto che non si vede, le sue parole sono quasi un grido dell’anima, che non tace più. Nei fragili fiori di marzo Ada Negri scorge, dalla soglia della propria età ormai matura, il proprio “tempo perduto”. Un tempo era stata anche lei una jeune fille en fleur, un’ardente e delicata creatura della giovinezza; ma quel momento è passato per sempre, è stato un attimo, tanto che ora lei stenta a credere che sia mai esistito, lo ricorda con i contorni sfocati e indistinti di un sogno. La conclusione difatti è lapidaria: “come un sogno muori”.

fonte Solo Libri.net

Anche vivere stanca…

 

Sono stanco, è evidente,
perché a un certo momento bisogna essere stanchi.
Di cosa sono stanco, non lo so.
Saperlo non mi servirebbe a niente
visto che la stanchezza resta comunque,
la ferita duole come duole
e non in funzione della causa che l’ha prodotta.
Si, sono stanco,
e un poco sorridente
che la stanchezza sia solo questo –
una voglia di sonno nel corpo,
un desiderio di non pensare nell’anima,
e su tutto ciò una tranquillità lucida
della comprensione retrospettiva…
E la lussuria muta di non avere più speranze?
Sono intelligente: ecco tutto.
Ho visto molto e ho capito molto ciò che ho visto,
e c’è perfino un certo piacere nella stanchezza che questo provoca,
perché dopo tutto la testa serve a qualcosa.
Fernando Pessoa

 

anziano