E se il Covid non dovesse mai finire? Il dovere di immaginare un futuro oltre questo inverno infinito

 

Antonio Scurati | 27 novembre 2021

La paura che torna. Pandemia e clima; un’epoca è finita, un’altra è cominciata, serve spirito di adattamento non la rassegnazione di individui malinconici, rabbiosi e solitari

E,se non dovesse mai finire?
Abbiamo a lungo evitato di dare voce a questa nostra paura impronunciabile.
Ammoniti a non farlo da un senso di responsabilità misto a scaramantiche proibizioni, abbiamo taciuto. Forse, però, è giunto il momento di confessare: non è forse vero che, mentre entra il terzo inverno di pandemia, si fa strada in noi il pensiero di un inverno senza fine?

Lo sbarco in Europa della variante sudafricana non soltanto alimenta la paura di un inverno pandemico senza fine, forse ne giustifica anche il timore sul piano della previsione razionale. Forse, giunti a questo punto, la coraggiosa speranza in una rapida uscita dalla crisi rischia di ribaltarsi in un superstizioso scongiuro. Credo che, giunti a questo punto, sia non soltanto lecito ma perfino doveroso trovare il coraggio di pronunciare apertamente il terribile interrogativo: e se non dovesse mai finire?

È utile farlo perché è necessario attrezzarci con modelli di pensiero che contemplino l’ipotesi peggiore, quella di un’emergenza sanitaria globale che, attraversata una soglia critica, diventi cronica. È possibile che mi sbagli ma, in tutta coscienza, ritengo giusto e doveroso tenere lo sguardo fisso sull’abisso che ci si è spalancato sotto i piedi.

Lo schema culturale che ha prevalso nelle interpretazioni e commenti sulla pandemia a partire dal marzo del 2020 è stato quello dei cicli di morte e rinascita. Stiamo attraversando un momento di tenebra – ci siamo detti – ma non dobbiamo disperare perché nessuna notte è infinita. La morte vendemmia nella nostra vigna. Bisogna stringere i denti, sbarrare la porta, pregare il Dio che avevamo dimenticato: la vita tornerà. Celebreremo il suo trionfo con una festa memorabile. Se l’inverno viene, non può essere lontana primavera.

Grazie al sostegno di questo archetipo dell’umana speranza, e dell’umana saggezza, abbiamo retto al primo, spaventoso lockdown, poi alla seconda ondata, poi alla terza. L’arrivo dei vaccini sembrò annunciare la primavera.

Ora che la quarta ondata già sommerge buona parte dell’Europa, e che un volo atterrato ad Amsterdam dal Sudafrica con 61 positivi su 600 passeggeri ne annuncia una quinta, forse è prossimo il momento in cui smetteremo di contarle.

Ora che la variante Omicron provoca una crescita vertiginosa dei contagi (e minaccia di poter aggirare i vaccini esistenti), forse faremmo bene ad attrezzarci per un lungo viaggio, un viaggio attraverso una terra che non conosca più l’alternarsi d’inverno e primavera ma soltanto un autunno perenne. Un viaggio con destinazione sconosciuta.

Farneticazioni apocalittiche? Temo di no.

Se si trova il coraggio di tenere lo sguardo fisso sull’abisso, si scopre che ci siamo già accostumati a un’emergenza permanente, quella ambientale. Da anni, da decenni, viviamo tutti in un mondo le cui condizioni climatiche vanno peggiorando in maniera progressiva, costante e probabilmente definitiva.

Ci siamo rassegnati, non adattati, a eventi meteorologici estremi, estati invivibili, spettri d’estinzione.
Ci siamo rassegnati al cronicizzarsi delle crisi migratorie. L’umanità ha dato prova di saper reagire con una insurrezione contro questo destino ingrato? Non certo sul piano politico. Il penoso fallimento della Cop 26 di Glasgow – tanto più penoso quanto più lo si traveste da mezzo successo – sta a dimostrarlo.

E allora? Allora bisogna riconoscere i nostri fallimenti, le nostre sconfitte, la nostra impotenza.

La prima conseguenza dell’abbandono del modello dei cicli di morte e rinascita per quello della cronicità comporta il riconoscimento della inadeguatezza della politica convenzionale a risolvere con mezzi collettivi i problemi collettivi generati dalla ipercomplessità  della vita tardo moderna.
Sia la pandemia sia il cambiamento climatico sono scorie tossiche della globalizzazione.
La politica che si attarda nelle sue stanche consuetudini novecentesche non sembra in grado di affrontarle.

È, dunque, facile prevedere che se l’emergenza sanitaria dovesse cronicizzarsi, come si sono cronicizzate quella ambientale e quella migratoria, si accentuerà la tendenza, già in atto, verso forme di potere politico sorte dalla progressiva sospensione o cancellazione delle consuetudini democratiche. Le leadership populiste e i partiti sovranisti, subita una battuta d’arresto nelle prime fasi della pandemia, quando ancora si sperava nella prossima rinascita, se anche l’emergenza sanitaria dovesse cronicizzarsi, rialzeranno senz’altro la testa. Avranno gioco facile a invocare la blindatura autoimmune nei confronti di un mondo globalizzato che ci invade con le sue varianti. Lo stanno già facendo.

La seconda conseguenza è che la fiducia nelle virtù civiche (mascherine, distanziamento, riduzione domestica dei consumi energetici, apertura all’altro da noi etc.) dovrà cedere il passo alla speranza nella soluzione scientifico-tecnologica delle emergenze. Molti già ritengono che il surriscaldamento globale possa, visto il fallimento della politica, essere contrastato solo dallo sviluppo delle tecnologie per la cattura dell’anidride carbonica. Quasi tutti hanno confidato e confidano nei vaccini per il contrasto alla pandemia.

Le conseguenze del cronicizzarsi delle emergenze planetarie sarebbero molto altre. Non ho né lo spazio né le capacità per immaginarle. Forse, però, sarebbe il caso che cominciassimo a farlo tutti insieme, consapevoli che un’epoca è finita, un’altra è cominciata, e che ci preparassimo ad affrontarla con spirito di adattamento a livello di specie, non con la rassegnazione di milioni, miliardi d’individui malinconici, rabbiosi e solitari.

 

curva

Sapete cos’è il “Giubidomine”? Se lo sapete, leggere questo articolo, che ho trovato oggi su Repubblica, vi divertirà: se non lo sapete rimarrete stupiti per come le cose cambino in fretta e capirete perchè certe modernità non siano facili da accettare per certi anziani.

Avete presente le soffitte delle antiche dimore? Sono labirinti di vecchie cose deposte spesso alla rinfusa: memorie del tempo che passa, relitti della moda che cambia. Nonostante tutto, hanno sempre esercitato su di me un fascino potentissimo: persino il velo di polvere che si posa sulla superficie dei mobili, dei quadri, degli specchi fioriti di macchie mi sembra che abbia un buon odore. Un odore nobile, a modo suo: quello della Storia.

Capirete dunque l’eccitazione che mi colse il giorno in cui, all’improvviso, mi fu chiesto qualcosa che altri avrebbero preso per una rogna da allontanare, e io invece giudicavo un privilegio: decidere cosa fare dei beni appartenuti alla prozia Alvisa.

La prozia Alvisa, sorella di mia nonna, era morta alla veneranda età di 110 anni; un vero record persino in una famiglia come la nostra in cui le donne, vuoi per un dono genetico vuoi per il temperamento guerresco che scorre nel sangue, arrivano facilmente a superare la soglia dei novanta.

Come ogni ragazza di buona famiglia del suo tempo, Alvisa era stata educata in vista del matrimonio, della devozione al marito e alla famiglia. All’età di cinque anni – questo era l’uso di allora – la premurosa mamma aveva iniziato a mettere da parte gli oggetti che avrebbero dovuto formare il suo corredo da sposa. Il quale giaceva ancora intatto dentro una robusta cassa di quercia nella soffitta che dovevo esplorare, non sfiorato dalle ingiurie del tempo e anche da quelle umane: Alvisa infatti, dimostrando un’indole fiera piuttosto insolita per le donne dell’epoca, aveva elegantemente trovato il modo di rimanere nubile fino alla morte. Insegnante di pianoforte, si era sempre mantenuta da sé mantenendo in tal modo anche la propria indipendenza fisica ed emotiva.

Quel corredo da sposa di una ragazza benestante degli anni Venti mi intrigava più di ogni altro oggetto presente nella soffitta; chiesi dunque a mia sorella il favore di esplorarlo con me, e di condividerlo, anche, lasciando tutto il resto in eredità alle nostre cugine.

Che emozione, aprendo quella cassa! La prima sensazione che ne ricevemmo fu olfattiva, il particolare profumo che emanava: naftalina, immancabile antidoto contro le tarme, mista però a resine naturali usate probabilmente per preservare il legno dai tarli.

Dentro, un paradiso di tessuti differenti, alcuni dei quali addirittura lavorati su antichi telai domestici che ci immaginavamo percorsi da instancabili mani femminili. Pizzi, trine, delicati ricami a intaglio provenienti da una sapienza ancestrale… Dodici di tutto, era la regola nelle famiglie abbienti. Lenzuola, tovaglie, asciugamani di lino per il bagno e di cotone robusto per gli usi di cucina, e poi gli indispensabili pannolini per i tragici giorni del mestruo, che le donne fermavano alle mutande usando grosse spille da balia. Come dovevano essere scomodi…

La cosa che più ci colpì, anzi non è esagerato dire che ci lasciò attonite, fu però un’altra. Un corredo completo, ovvero dodici capi, di una lunga camicia da notte in lino spesso, con splendide smerlature sui polsi e lungo lo scollo. Bellissimo indumento, se non fosse stato per una particolarità che ci avrebbe fatto lambiccare il cervello: al centro della parte anteriore, più o meno quella porzione di camicia che doveva correre dall’ombelico a metà coscia, si apriva una lunga asola. Sì, esatto: un’asola tale e quale quella che si usa per i bottoni, solo che in questo caso bottoni non c’erano. Passammo almeno un quarto d’ora a considerare quell’anomalia, fin quando ci apparve evidente la verità: erano camicie da notte concepite per le partorienti, munite perciò di una grande asola centrale che avrebbe facilitato le manovre dell’ostetrica nel momento di sgravarsi.

Ci sembrò un’autentica rarità, così pensammo di visitare il negozio di un antiquario delle nostre zone, ansiose non certo di vendere la cara reliquia di famiglia, ma almeno di conoscerne l’esatto valore.

Spiegammo all’antiquario la dinamica del ritrovamento e le nostre congetture al riguardo. Si fece una bella risata alla faccia del nostro candore.

“Ma quale camicia da parto!”, ci disse. “E mi fa specie che certe cose io le debba sentire proprio da due donne…”.

“Perché le sembra assurdo?”, chiese mia sorella.

L’antiquario ci gettò un’occhiata di sbieco.

“Siete giovani, e da come parlate mi rendo conto che non avete ancora figli. Il giorno in cui partorirete, vi renderete conto che nessuna ostetrica è in grado di eseguire le manovre del parto disponendo di uno spazio ridotto come quello che passa dentro l’asola di quelle camicie”.

Ci sentimmo due povere sceme.

“Ma allora, scusi”, chiesi io, “a cosa diamine serve quell’asola lì? Mica per andare in bagno senza prendere freddo in inverno… l’apertura in tal caso dovrebbe trovarsi nella parte posteriore della camicia”.

La mia considerazione scatenò un’altra risata dell’antiquario.

“No, no”, rispose dopo essersi ricomposto, “Lei ha ragione almeno su un fatto: quell’asola serviva per far passare qualcosa. Qualcosa di più piccolo, tuttavia, rispetto alle mani di un’ostetrica o al corpo di un neonato”.

“E cosa?”, ebbe l’ingenuità di chiedere mia sorella.

L’antiquario arrossì. Giuro. Arrossì davvero, anche se la situazione gli sembrava estremamente spassosa.

“Dovete sapere, ragazze care, che la vostra prozia visse in un’epoca molto lontana dal nostro tempo. Non è solo una differenza data dai cellulari, da internet, dalla televisione… A livello morale, per esempio, negli anni Venti esisteva un codice rigidissimo. Oggi può sembrare grottesco, ma allora era la norma condivisa da chiunque”.

“Che norma?”, feci io.

L’antiquario si schiarì la gola. Dalla sua espressione, capimmo che intendeva prenderla molto alla larga.

“Prima del Concilio Vaticano Secondo, che avvenne nel 1968, era d’obbligo che una puerpera non uscisse di casa in quanto considerata impura per aver trasmesso al figlio neonato il peccato originale. Il peccato della carne e del sangue. E quando il bambino veniva liberato da questa macchia morale con il battesimo, anche la madre doveva mettersi in ginocchio per ricevere dal prete una speciale benedizione liberatoria, una forma di esorcismo”.

Aguzzammo le orecchie. Quella specie di lectio magistralis ci intrigava, non vedevamo l’ora che il nostro saccente antiquario arrivasse a spiegare il mistero della camicia con l’asola davanti.

“Se la morale cattolica considerava peccato mettere alla luce un figlio, ovvero dargli la vita, immaginate come poteva giudicare l’atto naturale con cui quella vita era stata concepita nove mesi prima?”.

La domanda ci lasciò di sasso. Per alcuni istanti rimanemmo attonite e in silenzio, nessuna di noi due osava dare voce al pensiero apparso nelle nostre menti come un fulmine a ciel sereno.

Mia sorella si riscosse prima di me.

“Dunque…”, esitò… “perciò quella camicia da notte serviva… Per il sesso?”.

L’antiquario ridacchiò.

“Sesso… Anche questa è una parola troppo moderna. Implica la libertà mentale di pensare che l’atto fisico tra maschio e femmina abbia un valore di per sé, una sua dignità autonoma…”.

“Insomma!”, sbottai io, “ci siamo capiti su cosa esattamente doveva passare dentro quell’asola, oppure no?”.

“Certo”, rispose lui, “ma non avete afferrato per niente il concetto di base. Non si trattava di sesso, ma di obbedienza”.

“Obbedienza?”

“Assolutamente sì. Ottemperare al sacro dovere di procreare per dare continuità al mondo e alla Chiesa. Tant’è vero che quel particolare tipo di camicia ha un nome per così dire liturgico. Si chiama giubidomine, derivato dal latino iubet Dominus, ovvero “Dio lo ordina”. Mi spiego?”.

Si era spiegato benissimo, in realtà; solo che noi stentavamo a crederci.

“Dunque le donne andavano a letto con quella camicia che le copriva dal collo ai piedi – dissi incredula – e i mariti…”.

L’antiquario fece il gesto di stringersi nelle spalle.

“Ragazze mie, quelli erano i tempi. Quella era la mentalità. Per la donna la faccenda doveva rappresentare più che altro un atto di sottomissione, un obbedire devoto ai doveri familiari, al marito, alla severa disciplina religiosa sul matrimonio. Ma per gli uomini non era poi tanto meglio, almeno psicologicamente. I preti consigliavano in confessione di toccare le proprie mogli il meno possibile, anche durante l’atto coniugale. Provare piacere era una colpa, persino nel matrimonio. Tant’è vero che prosperavano i bordelli, a quel tempo. Così gli uomini potevano togliersi liberamente certi sfizi”.

Mia sorella, attivista in una onlus per i diritti delle donne nel mondo, prese letteralmente fuoco.

“I maschi!”, tuonò. “E le donne, allora? Solo subire, solo obbedire!?”.

La cruda realtà era sotto i nostri occhi, e il sapiente antiquario non poteva proprio farci niente. Ricordavamo entrambe che quella strana parola, “giubidomine”, era usata nel dialetto delle nostre zone per indicare una gonna troppo lunga, un cappotto troppo largo, qualcosa che insomma infagotta la figura femminile in modo da nascondere le forme e annichilire il sex appeal. Un termine dispregiativo. Credevamo però che fosse solo una parola inventata… Invece no. Indicava un preciso capo di vestiario con una struttura sua. Con un’identità definita, anche se atroce. E la funzione di cimitero per qualunque afflato passionale nella coppia. Era doloroso immaginare quegli amplessi asettici consumati tra i due corpi attraverso lo schermo di lino di quella camicia… Un contatto arido e freddo. Rasposo, per giunta: le tele del tempo non erano tanto morbide al tatto.

Quanti matrimoni erano stati condannati a quella tristezza, inariditi dal senso di colpa, annegati nella fretta di fare prima che si può, per togliersi dalla coscienza l’adempimento del dovere… E le fiamme della passione? E i gesti del prendere piacere e darlo, attraverso i quali passa l’oro inestimabile della tenerezza? Tutto perduto. Tutto negato dal castigo del “giubidomine”.

Uscimmo dal negozio dell’antiquario scure in volto. Per diversi minuti nessuna di noi due parlò all’altra. Covavamo in cuore lo stesso malumore.

“Io le faccio a pezzi!”, sbraitò mia sorella.

La proposta mi ripugnava, dopotutto.

“Perché non le diamo in beneficenza?”, proposi.

Lei accettò la proposta, benché di malavoglia. L’idea di ridurre a brandelli quella specie di galera tessile, quel cimelio di una discriminazione mutilante e odiosa la seduceva molto. Accettò per farmi contenta, e anche perché in questo modo qualcun altro avrebbe tratto un beneficio da ciò che era stato fabbricato appositamente per ledere e danneggiare.

Portammo così le dodici camicie da don Tonino, il parroco attempato che si occupava di raccogliere abiti usati per la Caritas. Era un vecchietto arzillo, per i suoi ottantacinque anni, e ancora nel pieno delle facoltà mentali. Dopo averci ringraziate, osservò le camicie con istanti di perplessità. Che subito lasciarono spazio a una faccia divertita.

“Il “giubidomine”!”, esclamò ridendo. “Dove li avete trovati?”.

“Nel corredo di una nostra prozia morta a centodieci anni”, borbottò mia sorella.

“Ne avevo sentito parlare da ragazzino, e poi anche in seminario. Giuro però che è la prima volta che li vedo dal vivo!”.

Mi sorella s’indignò. In quel momento il vecchio parroco le appariva come il guardiano di quella morale cattolica schiacciante che aveva lasciato dietro di sé un’interminabile scia di lacrime e insoddisfazione.

“Lei non prova disagio nel guardare queste camicie, don Tonino? Non crede che la Chiesa dovrebbe chiedere scusa per le umiliazioni che ha inflitto alle donne durante quasi duemila anni?”.

Il prete sembrava spiazzato.

“Sì!”, rincarò lei sempre più appassionata, “la negazione del diritto al piacere fisico. L’imposizione del rapporto sessuale come un obbligo nei confronti del marito, addirittura fatto assurgere a precetto religioso!”.

“Non capisco…”, balbettò il poverello.

Mi sentii in dovere di mediare nella situazione imbarazzante che si era creata.

“Ci scusi, don Tonino. Abbiamo scoperto a cosa serviva quell’asola nelle camicie e ci siamo rimaste male, ecco tutto. Sarà d’accordo con noi che la morale cattolica dei decenni passati era troppo rigida. Diciamo pure disumana, sotto certi aspetti… Mi pare assurdo negare il diritto al piacere fisico persino nella coppia regolarmente sposata. Persino laddove il matrimonio era stato benedetto dal sacramento”.

“Sono precetti del diritto canonico”, obiettò lui con mitezza.

“D’accordo, reverendo, ma tutto questo non è accettabile. Non è giusto”.

“Certo che non è giusto”, fece il prete. “Ogni ragazza che si sposava aveva almeno una camicia di quel tipo nel suo corredo. Sapeva di dover mettere quell’indumento ogni volta che andava a letto. Era un dovere importante, perciò lo compiva. Tanti matrimoni sono stati felici anche così”.

“Felici?”, tuonò mia sorella. “Col giubidomine addosso?!”.

“Ma no”, rispose don Tonino. “Una volta entrata nel letto, se lo toglieva”.
L’autrice
Storica del Medioevo, Barbara Frale è nota nel mondo per le sue ricerche sui Templari ed è autrice di monografie e romanzi di successo, oltre che consulente storica della serie tv Rai I Medici. Masters of Florence. Dopo i bestseller I sotterranei di Notre-Dame e Cospirazione Medici – per citarne alcuni – si è dedicata a un romanzo che indaga sulla figura di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi: Leonardo da Vinci. Il mistero di un genio, edito Newton Compton, 12 euro.

 

moda

“Noa Noa”, il profumo di Tahiti, nelle pagine del diario polinesiano di Paul Gauguin.

 

“Possa venire il giorno (e forse verrà presto) in cui fuggirò nei boschi di qualche isola dell’Oceania, a vivere d’estasi, di calma e d’arte, circondato da una nuova famiglia, lontano dalla lotta europea per il denaro. Lì a Tahiti potrò ascoltare, nel silenzio delle belle notti tropicali, la dolce musica sussurrante degli slanci del mio cuore in amorosa armonia con gli esseri misteriosi che mi saranno attorno. Finalmente libero, senza preoccupazioni di denaro, potrò amare, cantare e morire”, così scrive Gauguin alla moglie Mette qualche mese prima di partire per i Mari del Sud, il luogo che gli fece comprendere il significato della parola felicità.

L’artista ,che non riesce più ad accettare le regole,la struttura mentale della società occidentale, che trova limitante per la sua ispirazione vede in questo Eden un approdo, una meta dove ritrovare sé stesso e riprendere la sua pittura ;e infatti gli anni di Tahiti rappresentano il periodo più fecondo della sua intera esistenza. Gauguin ama quella civiltà, vuole scoprirla e non solo, ma viverla fino in fondo- Per cercare un senso di appartenenza alle varie comunità che lo ospitano, egli va alla scoperta del profumo di questa terra (noa-noa significa appunto ‘che profuma’). Ed è Teura, la tredicenne sposa tahitiana, a guidarlo e che diventa per Guaguin  quasi una sacerdotessa di quel magico, inestricabile paradiso. Egli dirà di lei: “É entrata nella mia vita al momento giusto: più presto forse non l’avrei capita e, più tardi, sarebbe stato troppo tardi. Ora sento quanto l’amo e, grazie a lei, penetro finalmente misteri che fino a qui mi restavano ribelli”.

paul_gauguin_ teura

Per Gauguin, e soprattutto per la sua pittura, è un’esperienza decisiva, è come tornare alle radici dell’esistenza, a un mondo fatto di istinto, di genuinità, di ritmi naturali e di silenzi. Ed è questa realtà che Gauguin ritrae nelle sue tele e racconta nelle pagine di un quaderno che intitola semplicemente “Noa Noa”, profumo. Un taccuino d’impressioni, che l’artista trascrive una volta rientrato a Parigi:“Preparo un libro” scrive alla moglie nell’autunno del 1893 “su Tahiti che sarà molto utile per far capire la mia pittura”. Una sorta di memoriale, a supporto della sua arte, la spiegazione di quella bellezza che è la primitività, che i moderni europei, persi nei meandri del progresso, non riescono a capire.

Gauguin torna in Francia definitivamente nel 1901, richiamato in patria da importanti affari di famiglia. Il rammarico di questo addio si avverte nelle sue parole: “Addio, terra ospitale, terra meravigliosa, patria di libertà e di bellezza! Parto con due anni di più, ringiovanito di venti, più barbaro anche di quando sono arrivato eppure più sapiente. Sì, i selvaggi hanno insegnato molte cose al vecchio civilizzato, molte cose, quegli ignoranti, della scienza del vivere e dell’arte di essere felici” .Mentre è immerso in questi pensieri, il piroscafo lascia per sempre il porto di Tahiti. Le giovani donne tahitiane piangono i loro amanti di un giorno e, le loro bocche intonano una vecchia litania maori di rammarico e rimpianto.

La famosa invasione degli orsi in Sicilia…

Dino Buzzati è stato uno scrittore versatile, capace di spaziare dalla scrittura giornalistica alle fiabe, dal fantastico-allegorico a racconti di estremo realismo. Si è inoltre distinto come illustratore e fumettista, realizzando i contributi iconografici per i suoi stessi libri, anzi, ha sempre considerato la pittura la sua vera professione e la scrittura un hobby, sebbene si più noto per i suoi racconti verbali che per quelli figurativi. Una delle opere in cui emerge al meglio questa sua doppia vocazione è La famosa invasione degli orsi in Sicilia, fiaba illustrata pubblicata nel 1945 sul Corriere dei piccoli e successivamente in volume. Si tratta di un racconto fantastico, condotto in forma di prosimetro, con sezioni di canti e dialoghi i versi che si inseriscono nella narrazione e, insieme alle immagini, ne accentuano la freschezza.
La famosa invasione degli orsi in Sicilia - immagine

 

Brevissima e scritta con la semplicità che si addice ad una narrazione per bambini, la storia è tuttavia tutt’altro che banale, ma muove da una premessa molto semplice per caricarsi sempre più di significato, invitando i lettori più e meno giovani ad una riflessione profonda.

L’invasione cui fa riferimento il titolo è quella del popolo degli orsi sudditi del re Leonzio, che, in un remoto passato in cui la Sicilia era una terra gelida e ben diversa da oggi, scatena il suo popolo giù dalle montagne per far fronte ad una carestia ma anche per cercare il figlio Tonio, rapito, cucciolo, dagli umani. Inizia così una feroce guerra fra gli orsi e l’esercito del Granduca di Sicilia, uno scontro al quale prendono parte, con ruoli e moventi diversi, i cinghiali da guerra del Sire di Molfetta, il mago De Ambrosiis, il terribile Gatto Mammone e molti altri personaggi. Fra battaglie, momenti conviviali ed eroici sacrifici, gli orsi si impadroniscono del granducato e re Leonzio cerca di stabilire una pacifica convivenza fra umani e orsi, tuttavia il mantenimento dell’ordine si rivela più difficile del previsto, perché gli orsi, prima abituati ad una vita semplice, si lasciano condizionare dal lusso, dalle mode e dai comportamenti umani e la loro natura viene progressivamente intaccata e modificata. Con la vittoria sul Granduca, insomma, i problemi di re Leonzio non sono cessati, ma, anzi, sono diventati più profondi e difficili da contrastare  .Come tutti i racconti di Buzzati, anche La famosa invasione degli orsi in Sicilia dimostra come una brevissima storia possa diventare l’occasione per interrogarci su noi stessi. La scelta degli orsi come protagonisti genera una prospettiva straniata, grazie alla quale abitudini, vizi e debolezze umani vengono proiettati fuori dall’essere umano, che, però, non può evitare di rispecchiarsi nella parabola di un popolo ingenuo e orgoglioso che, una volta raggiunto il proprio obiettivo, lascia che ciò che ha conquistato eserciti su di lui un’influenza negativa, corrompendone lo spirito. L’intreccio di questa morale con la materia fantastica fa esplodere la piacevolezza e l’ironia del racconto, infarcendolo di scene memorabili, fra suini che si gonfiano per magia e spiccano il volo, il serpente marino che minaccia orsi e umani e balletti intorno al falò con i fantasmi.
Disponibile anche nell’edizione illustrata per ragazzi, questo libriccino si presta ad essere la compagnia di lettori giovanissimi, l’ideale regalo per un compleanno o per il Natale (che è sempre il periodo d’oro delle fiabe), un’ottima lettura da condividere a scuola. Ma anche sui più grandi potrà esercitare il suo fascino, ché certi messaggi rimangono universali e un bravo narratore come Buzzati promette sempre a chi lo sceglie un intrattenimento letterario di qualità.

La famosa invasione degli orsi in Sicilia libro“Scendiamo al piano. Meglio combattere con gli uomini che morire di fame quassù”, dicevano gli orsi più animosi. E al loro re, Leonzio, diciamo la verità, l’idea non dispiacque: sarebbe stata una buona occasione per cercare il suo figlioletto. I pericoli, se tutto il popolo fosse sceso in massa, sarebbero stati ben minori. Gli uomini ci avrebbero pensato su due volte prima di affrontare un esercito simile.
Ignoravano gli orsi, compreso Re Leonzio, chi fossero veramente gli uomini, quanto cattivi ed astuti, che armi possedessero, che trappole sapessero escogitare per imprigionare le bestie. Gli orsi non sapevano, gli orsi non avevano paura. E decisero di lasciare le montagne per scendere nella pianura.”

Rbl da Atenae Noctua

…e poi, all’improvviso, le farfalle!

C’è un ‘età, nella vita, i cui , se l’amore ci strizza un occhio, riconosciamo quel segnale. Infatti è solo al suo primo approccio  che rimaniamo stupefatti, con occhi incantati, come di fronte ad un quadro che non riusciamo ancora a capire perchè ci emozioni. Ora le sue leggi ci sono note, e spesso falsiamo le nostre esperienze  cercando di allontanare  ricordi spiacevoli, o riconoscendo un sintomo, facciamo nascere gli altri con la suggestione. Poichè abbiamo già danzato su quella musica, la canzone incisa nel nostro cuore, non necessita che ci venga suggerito l’inizio, perchè l’attrazione ci riporti in pista. E se uno comincia a metà, ossia là ,dove i cuori  riavvicinati parlano soltanto di sentimenti reciproci, l’abitudine che si ha  con questa musica  è quanto basta a riportarci su quella  nota dove l’altro ci aspetta.

 

 

Giochi di bambini, Bruegel racconta la noia del quotidiano-

 

pietr Brueghel il vecchio giochi dei bambini

“Giochi di bambini” raffigura una grande piazza che accoglie gruppi di bambini, intenti a giocare. Più di ottanta giochi tipici di quel periodo sono rappresentati nel quadro. Grazie a questa sorta di fotografia siamo, dunque, in grado di capire come passavano il tempo i bambini vissuti nella seconda metà del Cinquecento. Dal dipinto, infatti, sono facilmente riconoscibili, fra gli altri, i giochi come “fare un finto matrimonio”, “mosca cieca”, “pentolaccia”, “morra”, “scarica barili”.

La scena ripresa da un punto rialzato permette di godere di una visione più dettagliata di quanto accade nella piazza. Le figure sono disposte in maniera equilibrata, si alternano bambini a personaggi singoli. I soggetti risultano ben visibili grazie al terreno che si presenta ora a macchie, ora polveroso, ora fangoso. Le figure dalle linee arrotondate si stagliano sullo sfondo grazie ai contorni netti utilizzati da Bruegel. Sulla sinistra, nella parte superiore del dipinto, l’artista offre un scorcio di natura , un punto di fuga offerto dagli alberi e dal fiume e dalla veduta delle case in lontananza.

Se al primo sguardo il quadro pare offrirci un’atmosfera di allegria e di convivialità, ad una più attenta osservazione ci si accorge che non è proprio così. I volti dei bambini, ripresi nell’atto di giocare, infatti, sono tutt’altro che felici, e mostrano invece un sentimento di monotonìa. I fanciulli appaiono annoiati, quasi come giocare fosse un affare inutile. I giochi non sono altro che una mera imitazione della vita degli adulti. A sottolineare questo, alcune messe in scena ideate dai bambini che fingono di celebrare un matrimonio o un battesimo e, ancora, le sequenze dei piccoli che indossano una maschera da adulto per spaventare i passanti.
Pieter Bruegel era solito dare questo tipo di messaggi. In tutta la sua produzione, infatti, viene ripreso l’uomo nella sua bestialità. Le quotidianità vengono percepite come inutili e svolte senza alcuna soddisfazione. Ad aggiungere un che di grottesco all’opera, senza dubbio, il fatto che i protagonisti siano dei bambini che, prima ancora di affacciarsi alla vita già la percepiscono come faticosa e noiosa-

Pieter Bruegel o Brueghel nasce a Breda intorno al 1525- 1530. Il pittore olandese è conosciuto con il soprannome di “il Vecchio” per distinguerlo dall’omonimo figlio primogenito, che intraprese la stessa carriera del padre.

Non solo pittore, ma anche disegnatore e incisore, Bruegel è considerato il più grande artista della prima metà del Cinquecento nel nord Europa. Malgrado il periodo di attività piuttosto breve, ha lasciato circa una settantina di opere che presentano episodi di vita quotidiana e paesaggi dell’epoca.

Incertezza? No, grazie …

 

incertezza

Terribile l’incertezza per me… mi fa star male mi crea un senso di angoscia che mi stordisce tra dubbi, speranze , illusioni… Amo la chiarezza, in qualunque rapporto, in qualunque frangente, mi piace la verità, la possibilità di valutarla e di accertarmi se posso affrontarla.. qualunque sia questa verità ed in modo particolare in un rapporto di amore dove posso anche amare per due… cosciente e felice di quello che faccio….
Quando si fugge o si rincorre, si deve sapere dove si va!!

                                                                                                                   Varazze, 17 agosto 1963

Mio amore…finalmente la tua voce, dopo onde e onde di silenzio; incredibile, proprio parole con la tua cadenza di tigre delle boscaglie di amore. Fra pochi giorni ti avrò. Non so più nulla; Questa assenza è stata piena di reticolati e di insidie, di velluti e di pugnali…il sangue ora non esiste nei suoi limiti. Curzia mia, ho bisogno di certezze, non di angoli bui, di molta vita: come te. Vieni nel mio cuore, come sempre, ti bacio, ti bacio….

                       Salvatore Quasimodo

Ecco le 15 regole del Papa per una ” buona vita”.

Il Papa detta le quindici regole d’oro per una «buona vita». Sono contenute nel nuovo volume del Pontefice «Buona Vita. Tu sei una meraviglia», nelle librerie da domani, pubblicato in collaborazione con Libreria Editrice Vaticana, per il marchio Libreria Pieno giorno, che ne gestisce i diritti mondiali, a dodici mesi dalla pubblicazione di Ti auguro il sorriso, risultato il libro del Pontefice più diffuso nel 2021, e già giunto alla decima edizione. Buona Vita è il manifesto del Papa per risvegliarsi alla vita, a ogni età: ” Tu sei una meraviglia… Tu sei realmente prezioso, non sei insignificante, sei importante. La memoria di Dio non è un “disco rigido” che registra e archivia tutti i nostri dati, la sua memoria è un cuore tenero di compassione. Non vuole tenere il conto dei tuoi errori e, in ogni caso, ti aiuterà a imparare qualcosa anche dalle tue cadute…Ognuno ha la propria storia da raccontare, unica e insostituibile. Ci è stata consegnata una luce che brilla nelle tenebre: difendila, proteggila. Quell’unico lume è la ricchezza più grande affidata alla tua vita”. E’ questo il messaggio di papa Francesco per ciascuno. E’ questo il punto di partenza di qualsiasi nascita e di qualsiasi rinascita, “il cuore indistruttibile della nostra speranza, il nucleo incandescente che sorregge l’esistenza, a ogni età. Tu sei una meraviglia! Perfino quando una preoccupazione ti segna il volto, o ti senti affaticata, o sbagliato, ricorda che sei sempre una luce che brilla nella notte. E’ il dono più grande che hai ricevuto, e che nessuno può toglierti. Perciò sogna, non stancarti mai di sognare. Credi, all’esistenza delle verità più alte e più belle. E soprattutto lasciati sorprendere dall’amore. E questa la Buona Vita. Ed è questo l’augurio più grande e bello che possiamo farci gli uni gli altri. Sempre”. “Non è sempre una strada facile, – sottolinea Francesco – le difficoltà dell’esistenza e il pessimismo e il cinismo così pervasivi di quest’epoca rendono a volte complesso riconoscere e accogliere la grazia, ma la vita diventa bella proprio quando si apre il cuore alla provvidenza e vi si lasciano entrare tenerezza e misericordia. E confortante sapere che possiamo sempre ricominciare, perché Dio può far ripartire in noi una storia nuova persino dai nostri frammenti”. Buona Vita. Tu sei una meraviglia.
 fonte: la Stampa

Comportamenti ecologici che fanno male all’ambiente…

Paradossi green: pratiche che molti di noi credono virtuose in realtà portano più danni che benefici. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni: un saggio aforisma che ben descrive alcuni paradossi della galassia green. L’inferno, ovviamente, è la catastrofe climatica in cui siamo entrati a passo deciso. Le buone intenzioni sono alcuni dei nostri comportamenti “ecologici”, che abbracciamo con entusiasmo ma che aiutano a scavarci la fossa.

Abitudini, eccesso di zelo, cattiva comunicazione: quali sono le convinzioni più dannose e più radicate che dobbiamo assolutamente correggere?
Molte hanno a che fare con i consumi domestici. Per esempio, fare la doccia è più eco-friendly che fare il bagno, ma attenzione alla durata. Le docce “meditative” da 10 minuti consumano circa 150 litri d’acqua, l’equivalente di un bagno caldo, a cui va aggiunta l’energia utilizzata per scaldare l’acqua. Docce brevi e un buon rompigetto ci aiuteranno ad essere più green e attenzione alla temperatura dell’acqua, che , per chi teme il freddo, va scaldata il minimo necessario. Vale lo stesso per la lavastoviglie: risparmiamo acqua solo se la avviamo a pieno carico e a programmi a bassa temperatura.
Il riciclaggio è un’altra nota dolente, specialmente quello della plastica. Vanno bene raccolta differenziata e bioplastica, tuttavia nel 2019 il nostro Paese ha riciclato appena il 45,5% degli imballaggi Si tratta di un processo inquinante nella fase del trasporto e della trasformazione. Gettare i rifiuti nel giusto raccoglitore è fondamentale, ma l’obiettivo è produrne sempre di meno.
E poi c’è l’abbigliamento. Anche in questo caso, l’obiettivo deve essere quello di acquistare meno, riadattare, comprare usato anche se il nostro brand preferito è improvvisamente diventato “eco-conscious” . È giusto che le aziende si impegnino ad essere sostenibili, ma il problema è a monte. E attenzione al greenwashing.Il bucato? Se proprio serve- Essere sostenibili non è una questione di moda e non si risolve acquistando  la cosa giusta. La sostenibilità ha a che fare con il nostro stile di vita, e ha un impatto sui nostri comportamenti. Non possiamo comprare la sostenibilità, semmai possiamo donarle il nostro tempo. E quindi: invece di buttare, riutilizziamo, riadattiamo Pensiamo alle nostre azioni quotidiane e chiediamoci: come posso produrre meno rifiuti? Come posso utilizzare meno risorse? Tutto qui.

Come fare?

La doccia è green? Sì, ma entro i 5 minuti.
La raccolta differenziata della plastica è sacrosanta, ma il vero obiettivo è produrre sempre meno rifiuti.
Non serve “acquistare” la sostenibilità: basta riciclare ciò che abbiamo e comprare meno cose.

 

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