Da John Berger, “My beautiful”…complotto.

 

Il desiderio sessuale, quando è reciproco, dà vita a un complotto di due persone contro il resto dei complotti in atto nell’universo. È una cospirazione a due.  Il piano è offrire all’altro una possibilità di respiro in mezzo al dolore del mondo. Non la felicità, ma una sorta di sospensione fisica davanti all’enorme responsabilità dei corpi nei confronti del dolore. In ogni desiderio c’è tanta compassione quanto appetito. Entrambe le cose si complementano. Il desiderio è inconcepibile senza la ferita.  Chi vive senza ferite, vive anche senza desiderio. Il desiderio si propone di proteggere il corpo desiderato dalla tragedia che lo raffigura, e ancor di più, si sente in grado di farlo.  La cospirazione consiste nel creare insieme uno spazio, un luogo, necessariamente temporale, per esimersi dalla ferita inguaribile della carne.  Questo luogo è l’interno dell’altro corpo.  I cospiratori si perdono, ciascuno dentro dell’altro, dove nessuno potrà mai scovarli.

Il desiderio è uno scambio di nascondigli.

 

desiderio

Ode alla Pace di Pablo Neruda, versi per riflettere in questa settimana Santa.

 

 

 

L’Ucraina prima e la Palestina adesso ci fanno avvertire l’orrore della guerra , che colpisce soprattutto gli inermi, coloro che con questi obbrobri non hanno niente a che spartire, ma pagano per coloro che li governano malamente , senza scrupoli.
La follia umana ha preso il sopravvento su ogni valore umanamente condivisibile,il dominio del mondo è ormai l’unico obiettivo delle grandi potenze, attente a mantenere le loro supremazie su un pianeta allo sfascio ecologico, morale e intellettuale, obiettivo ridurre l’uomo ai minimi termini per garantire massimi profitti a chi sopravviverà
Ecco perché  condivido una poesia che è un viaggio. L’epica di un poeta che ha conosciuto l’esilio, e ogni specie di tragedie umane. Quello di Pablo Neruda è un canto di auspicio, una preghiera che fermi la barbarie e riesca a trionfare la Pace nel mondo intero.

        Ode alla pace

Sia pace per le aurore che verranno,
pace per il ponte, pace per il vino,
pace per le parole che mi frugano
più dentro e che dal mio sangue risalgono
legando terra e amori con l’antico
canto;
e sia pace per le città all’alba
quando si sveglia il pane,
pace al libro come sigillo d’aria,
e pace per le ceneri di questi
morti e di questi altri ancora;
e sia pace sopra l’oscuro ferro di Brooklyn, al portalettere
che entra di casa in casa come il giorno,
pace per il regista che grida al megafono rivolto ai convolvoli,
pace per la mia mano destra che brama soltanto scrivere il nome
Rosario, pace per il boliviano segreto come pietra
nel fondo di uno stagno, pace perché tu possa sposarti;
e sia pace per tutte le segherie del Bio-Bio,
per il cuore lacerato della Spagna,
sia pace per il piccolo Museo
di Wyoming, dove la più dolce cosa
è un cuscino con un cuore ricamato,
pace per il fornaio ed i suoi amori,
pace per la farina, pace per tutto il grano
che deve nascere, pace per ogni
amore che cerca schermi di foglie,
pace per tutti i vivi,
per tutte le terre e le acque.
Ed ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno alla Patagonia, dove
il vento fa vibrare le stalle
e spruzza ghiaccio
l’oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere,
vicino all’araucaria selvaggia,
al forte vento che soffia dal Sud.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo a tutta la terra, battendo
dolcemente le nocche sulla tavola.
Io non voglio che il sangue
torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica:
ed io voglio che vengano con me
la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole
e che escano a bere con me il vino più rosso.
Io qui non vengo a risolvere nulla.
Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.

Pablo Neruda

 

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Il colore della primavera..

 

“Una Luce esiste in Primavera” di Emily Dickinson è una poesia che narra la Primavera e il mese di marzo,l’unico periodo dell’anno, secondo lei, capace di regalarci emozioni uniche e speciali, se siamo capaci a lasciar parlare il cuore, mettendo il ragionamento in seconda fila . Non sempre le emozioni,infatti , hanno bisogno di essere spiegate, basta viverle, lasciarle fluire in noi per avere la massima gioia e capire che tutto ciò che esula dalla ragione,ha la meraviglia della innocua pazzia.
La luce di Emily ha in se una magia speciale, capace di illuminare orizzonti lontani, anche immaginari, piccola metafora della giovinezza, che vede sempre futuri luminosi in quel sogno, che ognuno di noi vive, quando gli anni sono piccoli e la percezione umana, il conflitto tra spiegazione scientifica e intuizione hanno un limite. Rivela due modi di percezione, quella spirituale e la monotonia del quotidiano. Pubblicata postuma .

“Una luce esiste in primavera”

Emily Dickinson

Una Luce esiste in Primavera
Non presente nel resto dell’Anno
In nessun altro periodo –
Quando Marzo è appena arrivato

Un Colore sta là fuori
Su Campi Solitari
Che la Scienza non può cogliere
Ma la Natura Umana sente.

Aspetta sul Prato,
Mostra l’Albero più lontano
Sul più remoto Pendio che conosci
Quasi ti parla.

Poi quando oltre gli Orizzonti
i meriggi si replicano lontani
Senza Formula di suono
Passa e noi restiamo –

Un senso di perdita
Intacca la nostra soddisfazione
Come se gli affari s’insinuassero d’un tratto
In un Sacramento –

 

A Light exists in Spring

A Light exists in Spring
Not present on the Year
At any other period —
When March is scarcely here

A Color stands abroad
On Solitary Fields
That Science cannot overtake
But Human Nature feels.

It waits upon the Lawn,
It shows the furthest Tree
Upon the furthest Slope you know
It almost speaks to you.

Then as Horizons step
Or Noons report away
Without the Formula of sound
It passes and we stay —

A quality of loss
Affecting our Content
As Trade had suddenly encroached
Upon a Sacrament.

Un colore illumina i campi solitari. Questo colore non può essere spiegato dalla scienza; piuttosto, è qualcosa che gli esseri umani percepiscono in modo innato, ma troppo spesso presi da altro di più razionale, ci lasciamo sfuggire questi momenti di incanto, quasi paradisiaci, la collina, l’albero di oggi, che già domani sarà diverso, anche marzo passerà e si porterà via tutto questo, che pochissimi avranno capito e saranno stati capaci di vivere- Si evidenzia l’incapacità di noi umani di vivere il qui e ora, di apprezzare le gioie, la felicità nel momento in cui ci vengono regalati i colori dell’esistenza , che non hanno nè ragione nè comprensione.
C’è la sensazione di vedere oltre i propri limiti normali, si vola in alto riuscendo a respirare la magia del tutto con un semplice sguardo. La luce non ha parole, parla al cuore, non alla ragione; è come un Sacramento incontaminabile, che va oltre tutto ciò che può avere ua spiegazione, che va vissuto quindi allo stesso modo, soltanto in beatitudine.

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Paura della paura…

Scaccia la paura
e la paura della paura.
Per qualche anno le cose basteranno.
Il pane nel cassetto
e il vestito nell’armadio.
Non dire mio.
Hai preso le cose solo in prestito.
Vivi nel tempo e capisci
che poche cose ti servono.
Accasati.
E tieni pronta la valigia.
È vero quello che dicono:
ciò che deve succedere, succederà.
Non andare incontro alla pena.
E quando arriva,
guardala tranquillamente.
È effimera come la felicità.
Non aspettare nulla.
E abbi cura del tuo segreto.
Anche il fratello tradisce
se si tratta di te o di lui.
Prendi la tua ombra
come compagna.
Scopa bene la tua stanza.
E saluta il tuo vicino.
Aggiusta il recinto
e anche il campanello alla porta.
Tieni aperta la ferita dentro di te
sotto il tetto delle cose che passano.
Strappa i tuoi piani. Sii saggio
e credi nei miracoli.
Sono iscritti da tanto tempo
nel grande piano.
Scaccia la paura
e la paura della paura.
Mascha Kaléko

 

paura

Gian Ruggero Manzoni traduce la nuova edizione del libro. Il risentimento divino che non risparmia nessuno …

 

“Massa di idioti!” “Carne avariata!”. “Razza bastarda, figli infetti!”. Ci voleva la nuova traduzione di “Isaia” (traduttore Gian Ruggero Manzoni, editore De Piante) per sentire il boato degli insulti di Dio. Verso Israele? Verso tutti i popoli: “La vostra mente è malata, l’intero vostro cuore è marcio!”. Verso tutti i potenti: “Capi delle nefandezze”. Verso l’Italia, la Francia, la Spagna: “Come mai ciò che fu terra fedele è divenuta tempio dell’idolatria?”. Verso esterofili e immigrazionisti: “Misera gente che applaude tutto ciò che è straniero”. Verso l’Unione Europea: “Un continuo impartire regole su regole, principi dopo principi, comandamenti dopo comandamenti, precetti dopo precetti, un po’ qui e un poco là, ma senza un filo di ragione!”. Verso gesuiti e bergogliani vari: “E’ alta la pira di legno sulla quale verrà bruciato quel che resta dei sacerdoti miscredenti”. Verso intellettuali e opinionisti vari: “Guai a tutti coloro che si credono sapienti e si dicono intelligenti”. Massa di idioti anche loro, innanzitutto loro, chiaro.

Camillo Langone___IL FOGLIO
tetto chiesa

“Fiorita di marzo” di Ada Negri: la poesia della giovinezza in fiore…

Quando scrisse i versi di “Fiorita di marzo” Ada Negri aveva quasi quarant’anni. Forse per questo la poesia appare come un rimpianto della giovinezza perduta poichè la poetessa fa una descrizione della primavera, evento dirompente, di osservazione. La stagione “nuova” portata dal mese di marzo diventa una metafora. Il miracolo della primavera si ripete ed è un dolce languore di fiori che sbocciano timidi al primo sole, emanando un profumo inebriante e tuttavia fugace. Il vero tema della poesia di Negri non è l’elogio del trionfo della primavera, ma la fuggevolezza del tempo, come si evince dal primo aggettivo presente nel verso di apertura: “breve”.
La primavera descritta da Ada Negri dura il tempo di una fioritura, è un fragile fiore in boccio insidiato dal primo alito di gelo, proprio come l’innocenza della giovinezza che presto cede il passo a una consapevolezza nuova, a un risveglio amaro che permette un’effettiva presa di coscienza della realtà. Sono versi venati di rimpianto, scritti per celebrare più la giovinezza perduta che il mese di marzo

“Fiorita di marzo” di  Ada Negri:

La fioritura vostra è troppo breve,
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.

Troppo rapido è il passo con cui tocchi
il suolo—e al tuo passar l’erba germoglia
o Primavera, o gioia de’ miei occhi.

Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell’orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,

essi, ne’ loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l’aria densa di languori;

e se ne va così la tua bellezza
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di Marzo, o Giovinezza!…

 

 
monet-campo-di-fiori

Claude Monet___ Prato fiorito

La primavera cantata da Ada Negri è connotata da un forte sentimento di perdita: i versi sembrano scorrere attraverso le dita, fluire come acqua, sono inafferrabili, imprendibili, in perpetua fuga. Sembra una sinfonia di passaggio, un interludio. La stagione portata da marzo, il più instabile di tutti i mesi, in effetti è fugace, repentina, la meno stabile di tutte: non ha la lunga permanenza del gelo dell’inverno né il furore accecante ed eterno dell’estate che trascina il mondo in un limbo. La primavera è una stagione di passaggio, di durata breve, dal tempo incerto di nuvole e sole. Per queste ragioni la poetessa la associa alla giovinezza, che è l’età della vita in cui l’essere umano è più fragile, incompleto, incerto, eppure ha in sé tutte le energie per affrontare il futuro, proprio come quei fiori in boccio che si schiudono a fatica sotto la sottile coltre di neve illuminata da una luce timida che ancora non scalda. La metafora governa l’intera poesia, ma solo nel finale ci viene svelata nella sua trionfante verità con un’apostrofe che è anche una personificazione: “o Giovinezza!”. E allora capiamo che quello che l’autrice voleva dirci, in realtà, era un’altra cosa, che nei suoi versi scorreva un pianto che non si vede, le sue parole sono quasi un grido dell’anima, che non tace più. Nei fragili fiori di marzo Ada Negri scorge, dalla soglia della propria età ormai matura, il proprio “tempo perduto”. Un tempo era stata anche lei una jeune fille en fleur, un’ardente e delicata creatura della giovinezza; ma quel momento è passato per sempre, è stato un attimo, tanto che ora lei stenta a credere che sia mai esistito, lo ricorda con i contorni sfocati e indistinti di un sogno. La conclusione difatti è lapidaria: “come un sogno muori”.

fonte Solo Libri.net

Anche vivere stanca…

 

Sono stanco, è evidente,
perché a un certo momento bisogna essere stanchi.
Di cosa sono stanco, non lo so.
Saperlo non mi servirebbe a niente
visto che la stanchezza resta comunque,
la ferita duole come duole
e non in funzione della causa che l’ha prodotta.
Si, sono stanco,
e un poco sorridente
che la stanchezza sia solo questo –
una voglia di sonno nel corpo,
un desiderio di non pensare nell’anima,
e su tutto ciò una tranquillità lucida
della comprensione retrospettiva…
E la lussuria muta di non avere più speranze?
Sono intelligente: ecco tutto.
Ho visto molto e ho capito molto ciò che ho visto,
e c’è perfino un certo piacere nella stanchezza che questo provoca,
perché dopo tutto la testa serve a qualcosa.
Fernando Pessoa

 

anziano

Consolatevi, eravamo così già due secoli fa…

 

Ho trovato la descrizione perfetta dell’Italia d’oggi, anno di grazia Ventiquattro. È un catalogo meticoloso e amaro della condizione presente e una diagnosi precisa dei suoi mali e dei suoi agenti. Ma con una particolarità, davvero curiosa: è scritta, si, nell’anno di grazia e disgrazia Ventiquattro, ma di due secoli fa, esatti. E’ del 1824. L’impietoso analista è tristemente e gloriosamente noto: l’eccelso, dolente Giacomo Leopardi. E anche il suo scritto non è ignoto, è il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani.

Provo a sintetizzare il suo sguardo e proiettarlo nel nostro presente. Gli italiani d’oggi sono cinici, indifferenti a tutto, non hanno stima di nulla, sono propensi a buttarla sul gioco e sull’ironia, deridono tutti e disprezzano tutto, convinti dell’infinita vanità di ogni cosa. Gli intellettuali, le sette illuminate, hanno distrutto la morale tradizionale, hanno “liberato” il popolo dai suoi principi tradizionali, con la promessa di una vita migliore ma hanno generato solo una nuova barbarie. La “barbarie rinnovata, la barbarie della riflessione”, di cui parlava un secolo prima Giambattista Vico. Il riferimento polemico, di Vico come di Leopardi, è alla setta intellettuale degli illuministi. La distruzione dei valori ha avuto conseguenze nefaste sui costumi, perché l’agire umano si è trovato privo di fondamenti, di motivazioni alte e profonde, di senso del limite. Il testo leopardiano esordisce facendo riferimento a “questo secolo presente”, che descrive come nomade e globale, esattamente come il nostro. Si spegne “l’amore e fervor nazionale” e in genere “di tutte le passioni degli uomini”; “il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi”. Leopardi nota che le leggi senza i costumi non bastano, e gli altri paesi “hanno un principio conservatore della morale e della società” che noi non abbiamo; anzi da noi è venuta a mancare “la società più stretta” che potremmo chiamare la classe dirigente, l’élite guida. Si è perso il desiderio di gloria,”incompatibile colla natura dei tempi presenti”, dopo “la strage delle illusioni”; ma anche il suo succedaneo, il sentimento dell’onore. Prevale un becero individualismo – “ciascun italiano fa tuono e maniera da sé” – e una filosofia pratica, cinica e scettica, a fronte di una carenza di studi e letture filosofiche. Anzi, per Leopardi, “gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi dei maggior filosofi”. E qual è il succo di questa filosofia pratica? La vanità di tutto, la mancanza di illusioni che rendono degna la vita, e insieme l’assenza di sostanza, verità e prospettiva futura, perché la visione “è ristretta al solo presente”; ne segue la “total frivolezza delle loro occupazioni”, “la perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose”, la solitudine, la “dissipazione giornaliera e continua senza società”, lo sviluppo dell’immaginazione “per l’assenza del vero e della realtà e della pratica”. Perciò, insiste Leopardi, gl’italiani sono “molto più filosofi di qualunque filosofo straniero”; ma il perno di questa filosofia, la vanità di tutto, produce sui costumi “il maggior danno che si possa pensare”. “Indifferenza profonda”, “disinganno”, “pieno e continuo cinismo d’animo”. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche, ma anche “il popolaccio italiano è il più cinico de’popolacci”. Gli italiani, dice, ridono di tutto e si deridono a vicenda; ridono della vita e disistimano anche se stessi; la loro conversazione è il cazzeggio (il neologismo non è leopardiano). Da qui “l’infelicità sociale e nazionale” dopo la perdita dei fondamenti “che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti”. Ci restano usanze e abitudini, piuttosto che costumi, e ne patisce lo spirito pubblico; la nazione che era più calda e vivace del mondo, è ora “la più morta, la più fredda” la più indifferente. Leopardi rimpiange perfino che non si trovino più in Italia “veri fanatici di nessun genere”.

Anestesia generale, e nazionale.

Non vado oltre, mi soffermo sulle analogie col presente. Sorprendenti ed estese. Ma la vera sorpresa è un’altra: noi credevamo che “lo stato presente” degli italiani dipendesse dal mondo attuale, dai modelli prevalenti, dal distacco tra paese reale e paese legale, dai traumi storici del secolo scorso, guerre, fascismo e antifascismo e dalla guerra civile perdurante; credevamo che il suo aggravarsi nei nostri anni dipendesse dai social, dalle tecnologie, dall’uso narcisistico degli smartphone, dalla secolarizzazione e dalla scristianizzazione odierna. Leopardi invece descrive il nostro stato presente in un’epoca che precede tutto questo. Che vuol dire? Che i mali denunciati come mali presenti sono invece mali atavici, se non endemici; e l’occhio critico e negativo degli osservatori ci fa vedere tutto più scuro di quanto realmente sia. Tra corsi e ricorsi, cicli e ricicli, le epoche si somigliano, come le egemonie intellettuali; l’illuminismo di ieri riverbera nel nichilismo di oggi. E questo ci può condurre a due esiti opposti: lo sconforto assoluto, irrimediabile e irredimibile, perché tutto era e sarà così, non c’è nulla da fare; o viceversa la fiducia che se con questi mali conviviamo da secoli, possiamo sopravvivere ad essi, coabitarci e non escludere che ci possano essere risorgimenti e rinascimenti seppure provvisori. La fiducia nasce sulle basi della disperazione. E qui vi confesso una sensazione che vorrei condividere. Quando leggo i grandi pessimisti del passato, io mi rincuoro. Più sono tragici, e catastrofici, e più mi consolano. Non solo Leopardi ma anche Cioran, Ceronetti, Sgalambro. Perché descrivono la decadenza e la fine dell’Italia o del mondo già secoli prima del nostro tempo. E dunque ci fanno capire che non viviamo nel peggiore dei mondi possibili, che non abbiamo toccato ora il punto più basso; dopo tante catastrofi l’Italia è arrivata fino a noi, longeva e benestante, ferita, ammaccata, sfregiata ma viva. E quei mali non sono mortali ma cronici, ovvero possiamo conviverci a lungo. Anzi, la decadenza dell’Italia, descritta nel 1824, precede addirittura l’Unità d’Italia, del 1861…

Insomma, Leopardi vede nero, ma alla fine ci rincuora: niente di nuovo sotto il sole, ombre incluse. Allegria dei naufragi.

Marcello Veneziani 

” Mamma, come ho fatto a venire da te e papà ? Prima non c’ero…

Un figlio .
Sai da dove vieni?
…vicino all’acqua d’inverno
io e lei sollevammo un rosso fuoco
consumandoci le labbra
baciandoci l’anima,
gettando al fuoco tutto,
bruciandoci la vita.
Così venisti al mondo.
Ma lei per vedermi
e per vederti un giorno
attraversò i mari
ed io per abbracciare
il suo fianco sottile
tutta la terra percorsi,
con guerre e montagne,
con arene e spine.
Così venisti al mondo.

Da tanti luoghi vieni,
dall’acqua e dalla terra,
dal fuoco e dalla neve,
da così lungi cammini
verso noi due,
dall’amore che ci ha incatenati,
che vogliamo sapere
come sei, che ci dici,
perché tu sai di più
del mondo che ti demmo.
Come una gran tempesta
noi scuotemmo
l’albero della vita
fino alle più occulte
fibre delle radici
ed ora appari
cantando nel fogliame,
sul più alto ramo
che con te raggiungemmo.

Pablo Neruda

111figlio

Questa meraviglia di poesia è la metafora della vita, che solo un poeta come Neruda avrebbe potuto scrivere. La vita fa parte della natura e come ogni cosa del mondo degli uomini ha un inizio naturale, coadiuvato dall’amore, che ,quando è tutto ,tutto può fino a generare un figlio, che ne è praticamente il concentrato. Una descrizione che porta a comprendere l’amore infinito per un figlio,che è il tutto di ogni genitore, lo scopo di una vita; e questi versi sono un regalo davvero speciale da donare ad un figlio- E se si pensa che Neruda lo immaginò soltanto questo figlio, l’emozione poetica si moltiplica all’infinito.

Un modernissimo Shakespeare in un sonetto…

 

Sonetto 130 di William Shakespeare

 

Gli occhi della mia donna non sono per niente come il sole;
Il corallo è molto più rosso del rosso delle sue labbra;
Se la neve è bianca, allora i suoi seni sono grigi;
Se i capelli sono fili, neri fili crescono sul suo capo.
Ho visto rose damascate, rosse e bianche,
Ma non vedo nessuna di queste rose sulle sue guance;
E in certi profumi c’è più delizia
Che nel fiato che dalla mia donna esala.
Amo sentirla parlare, eppure so bene
Che la musica ha un suono molto più piacevole.
Ammetto di non aver mai visto camminare una dea:
la mia donna, quando cammina, non ha grazia.
Eppure, per il cielo, ritengo che la mia amata sia straordinaria
Più di ogni altra lei smentisce qualsiasi falso paragone.

 

donna normale

 

Il Sonetto 130 (My mistress’ eyes are nothing like the sun) di William Shakespeare è il tributo più grande che un uomo può fare alla propria amata. Una rappresentazione della donna proprio geniale. Se pensiamo che il poeta è vissuto tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600 appare molto avanti rispetto all’epoca. La stesura del Sonetto 130 dovrebbe essere stata realizzata tra 1591 e il 1595. Le poesie d’amore sono di solito ammirazione, sentimenti romantici o, viceversa, dolore e disperazione per la crudeltà dell’amore.
Tuttavia, il Sonetto CXXX di William Shakespeare presenta una visione dell’amata che esalta la sincerità dell’amore. Una visione realistica della sua donna che non sostituirebbe con nessun’altra. Pregi e difetti fanno parte di qualsiasi persona.
In un’era come la nostra l’esibizionismo televisivo e i social esaltano il culto della bellezza apparente e l’estetica del corpo. Nel XVII secolo Shakespeare metteva all’indice questo modello e dichiarava, attraverso la sua poesia, che la sua amante non l’avrebbe sostituita neppure con una Dea rappresentando, invece ,un inno all’amore unico, assoluto.
Di solito, gli autori che dedicano le loro poesie d’amore alle donne ne descrivono la bellezza, la gentilezza e la tenerezza con paragoni e metafore sofisticate , mentre Shakespeare parlando della sua amata mette in ridicolo i poeti, che esaltano le doti dell’amata. Il sonetto, infatti, sembra essere una presa in giro dell’aspetto della donna o degli autori che usano tali metafore. La donna amata da William Shakespeare è una donna normale. “Gli occhi non sono come il sole”, le labbra non sono più rosse del corallo, “la sua pelle non è bianca come la neve”, il suo viso non è come le rose.
La sua donna è una donna terrena, non è una dea.
“Eppure, per il cielo, ritengo che la mia amata sia straordinaria
Più di ogni altra lei smentisce qualsiasi falso paragone. “
I due ultimi versi sono un capolavoro. Sono un invito a guardare all’amore in modo più vero, elogiare chi ci sta accanto con amore, mettere al centro la donna e il genere femminile con rispetto e massima ammirazione. L’amore vero va oltre le apparenze e le convenzioni e guarda con gli occhi dei sentimenti veri. L’amata non è perfetta ma non è paragonabile a nessun’altra donna. Quando si ama bisogna accettare anche i difetti. Una visione della donna più veritiera e vicina alla vita reale. La bellezza è varia, e poche donne possono essere perfette.
Ecco perché ogni riga di questa poesia dovrebbe diventare l’essenza stessa di ciò che è amore.