La luce della luna…

La luce della luna

Accadde durante quell’estate in cui il cielo pareva un fondale usurato, e le stelle non si vedevano mai, divorate dalle nubi di diossina sprigionate dagli incendi dei magazzini accanto al porto e sulle colline attorno alla città, e la luna invece si, ma simile a un disco opaco e dalla televisione e sui giornali raccontavano che qualcuno ci avesse perfino messo piede quarant’anni prima, proprio tra quei crateri e quelle montagne, in mezzo a quella polvere che lei supponeva finissima, sabbia d’argento a rilucere tra tutto il nero dell’universo.

Fu in quell’estate tanto spasimata – impressa come una decalcomania sui vetri freddi di altre stagioni cariche di piogge, e di mulinelli di foglie marcescenti, quell’estate che lei aveva invocato a lungo, finanche nelle nuvole grevi, e nella fatica dei giorni corti nei quali il buio arrivava troppo presto – e che come tutte le cose che troppo furiosamente si desiderano risultano alla fine belle unicamente nell’attesa.

Fu proprio in quell’estate, insomma, che i piccioni decisero di fare il nido sul tetto di onduline del ricovero delle biciclette, quello a cui si accedeva attraverso una porticina che dall’androne conduceva al cavedio dell’edificio (immaginate una stanzuccia cava, delimitata da muri e tappata da un tetto improvvisato. Tutto questo si vede però solo nell’entrarvi).

Dalle finestre che si aprivano su quello spazio, nell’affacciarsi, si ravvisava appena la copertura e anche se ci si sporgeva, e si tentava di guardare verso l’alto, il cielo no, non si poteva scorgere. Sopra quel tetto, in uno dei quattro angoli, fuscelli, steli, radici, in un’imprecisa corona d’accoglienza. Ci fu un continuo frullare d’ali nel cavedio, un tubare serrato, un chioccolio, e la sua disattenzione fu redarguita dai suoi gatti che iniziarono a sostare sotto la finestra del corridoio che dava sul cavedio e che lei non apriva mai.

Era come se li vedessero attraverso i muri, arricciando i musi in certi vibranti miagolii d’appostamento.

Fu per questo che se ne accorse e li scoprì e prese a osservarli.

Dalla prima covata sbucarono due uccelletti grigiastri. Lei si era persa la schiusa, ma si ritrovò comunque a monitorare la crescita veloce dei due volatili sgraziati, l’andirivieni della coppia adulta, il maschio e la femmina, che arrivavano a nutrire i piccoli in un trepestìo di passetti sulle onduline, un serrato sbatter d’ali col sottofondo di un pigolio d’urgenza e, in seguito, le prime goffe prove di volo.

Quando furono pronti a lasciare il nido semplicemente non ritornarono più.

Dopo pochi giorni al centro di quell’aureola scomposta intravide il biancore di un altro paio d’uova, lucide e lisce. I due piccioni adulti ripresero ad andare e venire. Nei momenti in cui erano incustoditi, dagli ovetti pareva risalisse un grido. Erano fragili ed esposti. Erano due occhi che si infiggevano nei suoi. E per quanto cercasse di ancorare lo sguardo altrove, sul bicchiere di plastica caduto inavvertitamente da qualche finestra e che ora ballonzolava sul tettuccio, su un cencio, su una cartaccia, dentro quel bianco e dentro quel grido, ci rifiniva sempre.

Si schiusero.

Sono brutti i piccoli di piccione, d’un grigio scuro e col collo troppo lungo, il becco enorme che prende il sopravvento. A pensare d’averli tra le mani, si può fantasticare d’avvertire una compattezza d’ossa di cartone, e il pulsare velocissimo di un cuore che sa le distanze del cielo.

I due piccioni adulti a un certo punto non tornarono. In città è così facile che muoiano.
Dei piccoli, ne sopravvisse uno.
E quell’unico pullo sulla tettoia diventò un peso insostenibile. Lei lo sapeva là. Lo sentiva pigolare. Nella pioggia. Nella notte. Tentò di nutrirlo, lanciando semi, ma il piccolo piccione sembrava come smarrito.

In quel buco inaccessibile e circondato da mura altissime, il piccolo piccione non poteva neppure vedere la luna. C’era un momento in cui la sua traiettoria raggiungeva uno zenit? Lei non lo sapeva. Immaginava piuttosto gli occhi del piccolo uccello solitario, così neri e mesti, rifrangerne la luce lattescente. La lucentezza della stessa luna sulla quale, alla televisione e sui giornali, si diceva che, quarant’anni prima, qualcuno ci avesse perfino messo piede. In quegli occhietti, due spilli scuri, ci finiva allora il lato buio, quello nascosto alla vista, le impronte dei passi sulla polvere finissima, la materia che diventa vulnerabile e imperfetta.

Piume e ossa, esposte alle intemperie. Un cuore, che conosce le distanze del cielo, a battere velocissimo sotto una luce che è soltanto rifrazione. Tremava, quell’uccello? Lei, chissà perché, supponeva che tremasse e, in qualche modo che non avrebbe saputo spiegare, avrebbe detto che era, quel tremito, lo stesso suo.

Piera Ventre è in libreria con «Stella randagia» (NN editore)

                Illustrazione di Benedetta C. Vialli

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Pasolini a cercar la brutta morte…

 

 

Nella notte tra tutti i santi e tutti i defunti, Pierpaolo Pasolini andò a cercar la brutta morte, e la trovò, 50 anni fa. Un tempo si diceva che molti fascisti a Salò, e prima di loro nell’altra guerra gli arditi al fronte, e poi i falangisti, andassero “a cercar la bella morte”; una morte eroica, in battaglia, degno e precoce coronamento di una vita. A cercar la bella morte diventò pure il titolo di un romanzo autobiografico di Carlo Mazzantini sulla sua esperienza nella Repubblica sociale.
Pasolini, invece, corteggiò la morte e la cercò nella desolazione di una periferia romana, di una vita trasgressiva e oscena, tra ragazzi di vita diventati per l’occasione ragazzi di morte. Quella morte violenta e coerente alla sua vita, coronò la ricerca di gloria e punizione che desiderava, quel volgersi della sua disperata vitalità in morte scandalosa e martirio.
Ho scritto spesso di Pasolini ma non ho mai voluto soffermarmi sul tasto dolente e controverso della sua morte, all’Idroscalo di Ostia, tra il primo e il due novembre di cinquant’anni fa. Ho sempre rifiutato il complottismo sulla sua morte, la tesi dell’esecuzione squadrista del personaggio scomodo da eliminare; quella retorica allestita al cinema, al teatro, nei media, raccontava che l’assassinio di Pasolini fu premeditato e commissionato. Manovalanza fascista, ispirata dai poteri forti e dalla vecchia Dc chiamata a processo in un memorabile articolo dello scrittore. Poi venne la pubblicazione postuma di Petrolio e la letteratura dietrologica e vittimista trovò un ulteriore appiglio: Pasolini fu eliminato perché stava scoprendo gli altarini. Non ho mai creduto a questi racconti, mi sono ricordato di quel che dicevano i suoi amici prima del misfatto: prima o poi Pasolini, con quelle frequentazioni in cui si cacciava, quelle situazioni che creava, le sue pretese erotiche e i suoi violenti rituali di piacere e dolore, di corpi sacrificati nella voluttà di una scabrosa liturgia sessuale, avrebbe fatto una brutta fine. Mi pareva assurda anche l’idea che il Potere con la pi maiuscola volesse eliminarlo; non era nell’indole di quel potere morbido e avvolgente, portato più a corrompere il nemico o a neutralizzarlo con terapia indolore, che a massacrarlo. E il disprezzo che PPP raccoglieva in certi ambienti neofascisti poteva tradursi in un gesto, in un plateale disprezzo, non in un omicidio. Dall’altra parte, Pasolini attaccava il potere ma non aveva nulla in mano per accusarlo; costruiva processi letterari sulla base di vaghi presentimenti, condannava simbolicamente nel suo tribunale morale, a suo modo “religioso”, ma non sapeva nulla che potesse veramente preoccupare i potenti. Ma era peccato mortale mettere in dubbio la narrazione epica del Pasolini vittima dei Poteri forti e della bestia fascista.
Giuseppe Zigaina, artista famoso e amico di Pasolini, sostenne invece la tesi opposta: che Pasolini cercò la sua morte, la costruì nell’opera e nelle modalità, scelse perfino il luogo e il giorno della sua morte, in un rituale premeditato a lungo e preannunciato in alcune sue pagine. Gli dedicò più scritti, poi raccolti in Hostia, Trilogia della morte, che ora rivede la luce ancora da Marsilio con una bella prefazione (postuma) di Cesare De Michelis che fu il suo editore. Nei suoi film e nei suoi scritti, Pasolini prefigurò e sceneggiò la sua morte, sostiene Zigaina, nella sua meccanica e nei suoi particolari. Ritenne che la libertà in fondo consistesse nella “libertà di scegliere la propria morte” e fu lui a scegliersi la morte, nel segno di una “brutta, triste, piatta libertà”. Una morte lurida e infame, l’esatto contrario del “trionfo della morte” dannunziano; ma Pasolini nel suo estetismo tragico, nel suo vitalismo decadente, e nel suo corteggiar la morte, fu l’immagine speculare e capovolta di d’Annunzio. Pasolini, come d’Annunzio e come Yukio Mishima, cercava la mors triumphalis, per passare alla gloria eterna letteraria; mania di grandezza, narcisismo, estrema vanità e voluttà, ancora una volta dannunzianesimo capovolto. Solo con la morte per lui si compie il senso della vita e dell’opera; è il sigillo sacro che sottrae all’infamia e all’incomprensione del mondo. In quella estrema decisione-recisione, Pasolini cercò l’esperienza del sacro, seppure invertita; Zigaina si sofferma sull’influenza che ebbe su di lui Mircea Eliade, lo studioso del sacro e delle religioni, nonostante fosse culturalmente agli antipodi. Pasolini cercò il nesso sacrificale tra violenza e sacro, approfondito da René Girard.
Da sinistra accusarono Pasolini di estetismo, decadentismo e spiritualismo. Per lui “Non c’è conformismo peggiore di quello di sinistra” (citava come esempio Dario Fo), che poi “viene fatto proprio anche dalla destra”. Pasolini confessa di essere comunista “per istinto di conservazione”; a volte persino “mi faccio cattolico, nazionalista, romanico nella mia ricerca”, il mondo per lui “è un insieme di madri e di padri verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante e di bisogno di violare tale rispetto venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose”.
Il suo per Zigaina fu un martirio scientemente perseguito e allestito. Decide di morire nella notte tra il 1 e il 2 novembre, di domenica – come suo fratello Guido, partigiano bianco ucciso dai partigiani rossi – e la sua opera è disseminata di segnali e presagi di quel che poi sarebbe accaduto. “O domenica di gloria flagellata”, “interminabile domenica”. E muore a Ostia, che più volta appariva nei suoi scritti, di cui Zigaina ricorda il significato: “Hostia vuol dire vittima sacrificale offerta alla divinità”. Anche se è più probabile che Ostia storicamente derivi dal latino Os, bocca, cioè sbocco, foce.
Zigaina mette in fila scritti e tracce dei suoi film ma sottolinea che lui si è limitato a coordinare gli elementi che lo stesso Pasolini ha sparso lungo la via; a suo parere la “teoria” sulla morte cercata è di Pasolini stesso: volle finire in croce, a modo suo. Non a caso nel film Il Vangelo secondo Matteo aveva scelto sua madre Susanna a interpretare la Madonna davanti a suo Figlio in croce. È lui a scrivere in Orgia del suicida che “ha fatto buon uso della morte” nel ruolo di “vittima che vuole uccidere”. È lui a descrivere la cornice rituale, letteraria, scenografica. “Sono come un gatto bruciato vivo,/pestato dal copertone di un autotreno/ impiccato dai ragazzi a un fico”(Una disperata vitalità). Perfino Enzo Siciliano nella sua Vita di Pasolini si pose l’interrogativo: “Pasolini chiese a se stesso di morire? Il suo assassinio fu un suicidio per delega?”. Zigaina ricorda l’ultima poesia di Pasolini, scritta in friulano, dedicata a un ragazzo fascista; a lui il poeta consegna la sua eredità che condensa in un “difendi, conserva, prega” che contraddice la vita e la militanza intellettuale di Pasolini stesso. Nel “testamento” che Pasolini lascia al ragazzo fascista scrive: “Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odi, portalo tu”. “Io non potrei”.
Tanta letteratura e tanto cinema si è abbattuto sulla sua morte. Poi c’è la cronaca nuda e terribile, e la testimonianza della donna, Maria Teresa Lollobrigida, che scoprì il corpo di Pasolini all’Idroscalo e racconta: “Pensavo che fosse immondizia”, poi come in un film o un testo pasoliniano commenta: “Ma tu vedi stii fiii de ‘na mignotta che ce vengono a buttà davanti a casa la monnezza”. Poi scopre che è il corpo di un uomo, “aveva la testa fracassata, i capelli impastati di sangue. Stava a faccia in giù con le mani sotto”. In quella “monnezza” si celava un poeta.

 Marcello Veneziani

Bellezza, mezza salvezza…

 

C’è ancora posto per la bellezza nell’era della tecnica, della finanza e del canone woke? Appare obsoleta, inutile, discriminatoria, la bellezza, succube di una visione estetica del mondo. Venticinque anni fa, con Giorgio Albertazzi, scrissi e lanciai il manifesto della bellezza. Amante e lettore di Dante e di d’Annunzio, Albertazzi portava allora in scena Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, che era un monumento alla bellezza; ricordo una sua memorabile interpretazione nella Villa Adriana di Tivoli, e ci parve presente il grande imperatore. Nel manifesto, che scrissi e firmai con lui e pochi altri amici, cercai di definire il bello in dieci punti che qui riassumo.

La bellezza è amica della misura e nemica dello sconfinamento, è amica del mondo reale e nemica del mondo astratto, amica del dono e nemica dell’utile, amica dell’eccellenza e nemica della mediocrità, amica della lievità e nemica della pesantezza, amica della varietà e nemica dell’uniformità, amica della distinzione e nemica della separazione, amica del mito e nemica della ragione calcolante, amica dello spazio e nemica del tempo, amica dell’essere e nemica del niente. Ogni affermazione aveva una succinta spiegazione.

La bellezza è la gloria del mondo cantata dalla luce. Il Bello nel suo senso ultimo è il simbolo del Bene, ovvero la metà visibile della tessera. L’altra metà abita nei cieli. Il bello quaggiù è il riflesso del bello trascendente.

In quella tesi c’era l’eco di Platone e di Plotino, il filosofo del bello; c’era l’amore dei greci per la bellezza e l’amore cristiano del bello. L’ordine è bellezza e la bellezza è ordine, ambedue si fondano sulla misura e sull’armonia. Entrambi danno forma all’informe e s’oppongono al caos che deforma gli elementi e li confonde. I principi fondativi dell’ordine corrispondono ai principi costitutivi della bellezza, descritti da San Tommaso: proportio, integritas e claritas, proporzione, integrità e chiarezza. In cielo e in terra, dalle partiture musicali alle sculture, fino all’ordito e la trama dei tappeti, stretto è il nesso tra ordine e bellezza. L’ordine degrada quando diviene meccanico e non organico; così la bellezza degrada quando non è disegnata dalla luce ma è solo involucro e apparenza, e dunque è solo estrinseca e non intrinseca. L’ordine è maschile e la bellezza è femminile, l’ordine è adulto e la bellezza è giovanile, l’ordine infonde serenità e la bellezza gioia. L’ordine è la finestra e la bellezza è la luce che vi penetra. Ordine e bellezza sono principi metafisici planati nella realtà. L’ordine è il disegno intelligente che organizza il mondo.

Verità è bellezza diceva Keats, anche se altri autori, da Leopardi a Nietzsche, ci insegnano che la bellezza è piuttosto il velo apollineo e illusorio disteso sulla tragedia del mondo. Oltre Apollo, diceva Nietzsche, c’è Dioniso che squarcia il velo della menzogna dorata e ci conduce oltre la bellezza. Verso dove? Verso la tragedia, l’infinito, il delirio. O verso il sublime, come lo figurarono Burke e Kant, che è la bellezza sconcertante, smisurata, che ci turba ma ci affascina.

Anche un autore maledetto come Baudelaire sottolineava il legame tra ordine e bellezza, in quei famosi versi ripresi da Manlio Sgalambro e da Franco Battiato in Invito al viaggio: “Laggiù tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà. Il mondo s’addormenta in una calda luce di giacinto e d’oro”.

La bellezza può essere naturale e soprannaturale o suscitata dall’arte e dall’intelligenza. La bellezza emana un’aura, che non è solo di un’opera d’arte, come diceva Walter Benjamin, perché può derivare da un carisma, una grazia, una luce intrinseca a un soggetto e un luogo e non solo frutto dell’artista.

La bellezza ha molto a che fare con la civiltà mediterranea, pagana, cattolica e bizantina, che nel nome della luce, ebbe il culto delle icone e di une religione figurativa, in cui anche la divinità era a immagine e somiglianza umana, anche se per la fede è l’uomo a immagine e somiglianza divina.

La grazia del bello era concepita nel mondo classico come statica, inerte, “a miracol mostrare”. Sicché nella modernità è accaduto che la bellezza, ferma nel suo essere, sia sopraffatta dalla bruttezza, dinamica nel suo divenire e funzionale. Il brutto è mobile, avanza, la bellezza no, dunque è perdente. Provò il futurismo a mettere la bellezza in movimento, a immaginarla dinamica e non più statica, figlia della tecnica e non solo della natura; la bellezza delle macchine, della velocità. La bellezza non era solo nel creato e nell’imitazione del creato, ma era frutto del lavoro creativo e immaginativo, artificio. Che ne sarà al tempo dell’intelligenza artificiale? “La politica della bellezza” s’intitolava un aureo testo di James Hillman, psicanalista junghiano, dedicato alla necessità del bello per animare le città e le comunità, nell’epoca in cui prevale la dittatura del brutto. Certo, la politica della bellezza non è la bellezza della politica: ma oggi in ambo i sensi, il legame tra bellezza e politica è un rapporto di pura fantasia, un delirio. Eppure il tema del bello e la polis dovrebbe toccare in modo speciale noi italiani, per il primato mondiale dell’Italia nella bellezza delle arti, dei centri storici e del paesaggio.

La bellezza salverà il mondo, diceva Dostoevskij e noi continueremo a chiederci: ma chi salverà la bellezza che è un bene delicato e deperibile?

Marcello Veneziani

Alcune frasi di Antoine de Saint-Exupéry sui sogni, ti faranno capire se il sogno che insegui è giusto per te o devi cambiarlo.

 

Antoine de Saint-Exupéry non era solo lo scrittore del Piccolo Principe, ma un uomo che ha vissuto sospeso tra cielo e carta. Era un aviatore, un sognatore con i piedi decisamente fuori dalla terra. Nato nel 1900, ha trascorso buona parte della vita tra motori d’aereo e tramonti nel deserto, due cose che per lui avevano un punto in comune: la libertà. Non scriveva per vendere libri, ma per cercare risposte. A sé stesso, al mondo, alla vita. E in quella ricerca, i sogni erano la bussola che lo guidava.

Per Antoine de Saint-Exupéry, sognare non era una fuga, ma un modo per dare un senso concreto alla realtà.

“Fai della tua vita un sogno, e di un sogno, una realtà”

diceva, come se la vita senza un sogno fosse solo un elenco di faccende da sbrigare.
Ne ha parlato ovunque: nei deserti di Terra degli uomini, tra le stelle del Piccolo Principe, nei diari e nelle lettere scritte durante i suoi voli solitari. Per lui, i sogni erano missioni, non illusioni. Qualcosa che ti obbliga ad alzarti la mattina e a sopportare perfino la sabbia negli occhi, se serve.

Sognare, per Saint-Exupéry, non è desiderare qualcosa, ma diventare qualcuno. Un sogno, se è vero, ti cambia la direzione di volo.

“Fate in modo che i vostri sogni divorino la vostra vita…”
E poi c’è lei, la frase più citata, tatuata, scritta sulle tazze e (purtroppo) anche usata nei post motivazionali:

“Fate in modo che i vostri sogni divorino la vostra vita, così che la vita non divori i vostri sogni.”

Una frase bellissima, e un po’ pericolosa se letta male. Saint-Exupéry non diceva “butta via tutto e inseguì un unicorno rosa”. Diceva piuttosto: scegli sogni degni di divorarti.
Perché la vita, si sa, tende a fagocitare tutto: la routine, le bollette, il traffico, le notifiche. Se non stai attento, ti risvegli un giorno con i sogni mezzi digeriti e la sensazione di non sapere più cosa ti appassiona davvero. Lui, che aveva rischiato la vita più volte per inseguire il suo sogno di volare, sapeva bene cosa significasse essere “divorati”. Ma lo accettava, perché quella fame aveva un senso. Ci sono sogni che ci nutrono, e altri che ci svuotano. Il trucco è capire da che parte sta il tuo. Quando un sogno ti divora… nel modo sbagliato
C’è un momento in cui il sogno smette di ispirarti e comincia a logorarti. Ti toglie il sonno, la serenità, la curiosità. E lì bisogna fare una domanda che Saint-Exupéry avrebbe amato: “Questo sogno mi fa vivere o mi sta solo consumando?”. Se la risposta è la seconda, è tempo di cambiare rotta. Il sogno giusto non ti rende perfetto, ma ti tiene vivo. Ti fa sopportare le difficoltà, ma non ti annienta.
Saint-Exupéry non inseguiva i sogni per fuggire dalla realtà, ma per darle un senso. Se invece un sogno ti fa dimenticare chi sei, non è un sogno: è un buco nero con un bel vestito addosso.

Il sogno come atto di coraggio
Per Saint-Exupéry, sognare non era da ingenui, ma da coraggiosi. Solo chi osa sognare può costruire qualcosa che duri.

“Un mucchio di sassi smette di essere un mucchio di sassi quando qualcuno vi vede una cattedrale”.

Il sogno è quella visione che trasforma l’ordinario in straordinario. Ma bisogna saperlo riconoscere, alimentare, e soprattutto: non lasciarsene schiacciare.

Sogna, ma scegli bene cosa ti divora
Antoine de Saint-Exupéry ci ricorda che la vita senza sogni è un volo rasoterra, ma anche che i sogni sbagliati possono farci precipitare. Quindi sì, lascia che i tuoi sogni divorino la tua vita, ma solo se ne vale la pena. Perché i sogni veri ti fanno sentire vivo, non esausto. Ti danno le ali, non ti bruciano i motori.

Frasi di Antoine de Saint-Exupéry

“Fate in modo che i vostri sogni divorino la vostra vita, così che la vita non divori i vostri sogni.”
“Fai della tua vita un sogno, e di un sogno, una realtà.”
“I miei sogni sono più reali di queste dune, di questa luna, di queste presenze.”
“Mi domando se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua.”
“Un mucchio di sassi smette di essere un mucchio di sassi nel momento in cui un singolo uomo lo contempla, portando con sé l’immagine di una cattedrale.”
“Ciò che rende bello il deserto è che da qualche parte vi è nascosto un pozzo.”
Romina Cardia

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Perdere la gravità.

 

Non siamo mai solo l’immagine che gli altri costruiscono di noi, quella visione cristallizzata in un frammento di tempo, catturata da uno sguardo che interpreta senza conoscere il fondo. Eppure, quando ci troviamo in un Paese sconosciuto, il nostro cervello diventa come cera sotto il sole, malleabile e pronto a ridisegnarsi, a cambiare forma.

Io mi sono trovata così nei mesi che ho trascorso a Londra.

Un viaggio per provare a rivoluzionarmi e dare una scossa alla stasi esistenziale, per provare a sfruttare pienamente il mio potenziale. C’è qualcosa nell’estraneità del nuovo luogo che ci dà la libertà di sfuggire ai ruoli che ci sono stati cuciti addosso, e forse, lontano dagli occhi familiari, possiamo riscoprirci coraggiose, estroverse, tutto ciò che temevamo di non essere mai state. Forse la narrazione cambia perché siamo noi stesse, in un luogo estraneo e misterioso a raccontarci in modo differente.

A Londra c’è il rischio piacevole e gratificante di sentirsi catapultate in un romanzo di Virginia Woolf, dove il confine tra il sé e il mondo esterno si dissolve in un intreccio di impressioni e riflessi, e così anche noi possiamo smettere di essere osservatrici passive della nostra vita, e permettere all’aria del nuovo paese di trasformarci. Possiamo, da lontano, ridere della fragilità delle etichette che ci portiamo dietro con l’ironia amara tipica di David Foster Wallace, per citare due scrittori che ho portato con me nel viaggio, vedendo in questo nuovo terreno un gioco che ci permette di essere molto più di quel che gli altri pensano o vedono.

Nel nuovo paese ho scombinato i paramenti e le misure. Misura per misura, mi sono gettata oltre la siepe con un tuffo un po’ da batticuore, verso un territorio ignoto del quale non capivo lingua e coordinate: un primo approccio un po’ violento e arido.
Siccità completa, era l’estate 2022. Poco per volta, dopo aver preso in considerazione l’idea di aver commesso l’errore più grave della mia vita, mi sono riscoperta felice, ho trovato una parte della mia personalità che giaceva inascoltata.

Una delle più grandi differenze a livello di esteriore e interiore l’ha fatta la nuova passione per il climbing.

La palestra a pochi minuti da casa mi permetteva in dieci minuti di salire come una scimmia all’altezza spaventosa di quindici metri, in cima a una parete di cartongesso e aria condizionata tra i capelli. E così, da lassù, ho cominciato a sentirmi una conquistatrice attiva e altezzosa.
Sono io: mi arrampico tutta imbragata e assicurata all’autosostegno, avverto la scarica elettrica che mi attraversa le gambe, una tensione che mi chiede se buttarmi giù dalla scogliera. Questa sensazione di essere così sopraelevata distrugge ogni paura all’istante, supera qualsiasi zona protetta per mostrarti l’abisso senza pudore. Lo puoi osservare con calma, valutare l’impatto mortale, aggrappata alle corde. Una volta lì mi assale l’onda sonora di un coro greco antico. È il mito di Demetra, dea dell’amore materno e del ciclo naturale della vita e della morte che si materializza e mi invade, lei che ha perso tutto, la figlia, il controllo, la terra moriva con il suo dolore di madre in lutto, una spirale di disperazione. Sento questo mito nella carne, come se anch’io fossi intrappolata in quella spirale inesorabile.

Per alcune di noi, come me, c’è una voce che sussurra che a mezz’età siamo un po’ da buttare, che quello che non è successo è perché non eri abbastanza. Non tutte ascoltano questa voce minimizzante ma la mia vita ne era stata pervasa. È un destino che ci portiamo dentro, forse perché Demetra abita dentro di noi in modo troppo invadente e talvolta perdiamo la presa sul mondo e cadiamo giù, da sole, senza spinta.

E mentre sento il fuoco nelle gambe, nei muscoli, e vedo la mia testa evaporare in mille schizzi d’ira, senza un perché mi lascio cadere indietro, sospesa nell’aria, solo l’imbragatura è legata alla corda che mi bloccherà a metà della rupe, rallentando la corsa, come se stessi calando me stessa giù, come una Demetra che ha lasciato andare tutto per un attimo, dal cielo agli inferi ad occhi chiusi.
Ed è bellissimo.
Perdere la realtà e la gravità.
Fanculo, Demetra.

Francesca Sangalli è in libreria con «A Londra non serve l’ombrello» (Giunti)

 Illustrazione di Federica Fabbian

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Autunno (1923) di Trilussa, geniale poesia che svela come tutto finisce, anche l’amore

Autunno di Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, Roma 1871-1950) è una poesia che, attraverso il romanesco, offre con malinconica ironia una scomoda verità: ogni cosa nella vita è destinata a finire, compreso l’amore.Autunno è una poesia che fa parte della raccolta Le Storie di Trilussa, pubblicata per la prima volta nel 1923.

Autunno di Trilussa
Indove ve n’annate,
povere foje gialle,
come tante farfalle spensierate?
Venite da lontano o da vicino?
da un bosco o da un giardino?
E nun sentite la malinconia
der vento stesso che ve porta via?
Io v’ho rivisto spesso
su la piazzetta avanti a casa mia,
quanno giocate e ve correte appresso
fra l’antra porcheria de la città,
e ballate er rondò co’ la monnezza
com’usa ne la bona società.

Jeri, presempio, quanti mulinelli
ch’avete fatto in termine d’un’ora
assieme a un rotoletto de capelli!
Èreno forse quelli
ch’ogni matina butta una signora…
Je cascheno, così, come le foje,
e, come a voi, nessuno l’ariccoje
manco in memoria de li tempi belli!

Forse quarche matina,
fra l’antre cose che ve porta er vento,
troverete le lettere amorose
che me scriveva quela signorina,
quela che m’ha mancato ar giuramento.
L’ho rilette e baciate infìno a jeri:
oggi, però, le straccio volentieri
e ve le butto… Bon divertimento!
Autunno è una lirica che unisce leggerezza e profondità, ironia e malinconia. Le foglie che cadono diventano il simbolo di una condizione universale. Tutto ciò che viviamo è destinato a svanire. È proprio in questa semplicità disarmante che la poesia trova la sua forza, trasformando un’immagine quotidiana in una riflessione universale.  La scelta di Trilussa di utilizzare il dialetto romanesco è cruciale per l’impatto della poesia. Il linguaggio informale e colloquiale crea una connessione immediata con il lettore, rendendo le riflessioni del poeta autentiche e vicine.

Parole come “monnezza”, “porcheria” e le espressioni colloquiali radicano la poesia in una realtà specifica e vissuta, impedendole di diventare eccessivamente sentimentale o astratta. Il dialetto infonde nella poesia un senso del luogo, siamo tra le strade di Roma, e una voce distintamente romana, una voce che è allo stesso tempo diretta e capace di profonda bellezza lirica. Questa è la virtù dei grandi.

Un Paesaggio che Cambia, dalle Farfalle Spensierate ai Rifiuti Urbani
La poesia si apre con un’immagine delicata e quasi stravagante, il poeta si rivolge alle “povere foje gialle”, paragonandole a “tante farfalle spensierate”. Questa similitudine iniziale stabilisce un tono di lieve malinconia, interrogandosi sull’origine delle foglie, “Venite da lontano o da vicino?”, “da un bosco o da un giardino?”. Allo stesso tempo chiede se esse sentano la tristezza del vento che le porta via.

Tuttavia, questa idilliaca immagine che la natura riesce ad offrire, viene presto messa in contrasto con la dura realtà dell’ambiente urbano. Il poeta ha osservato queste stesse foglie sulla “piazzetta avanti a casa mia”, dove la loro danza aggraziata diventa un “rondò co’ la monnezza”. Questo netto contrasto tra la bellezza idealizzata delle foglie come farfalle e il loro destino reale tra la “porcheria de la città” serve come una potente metafora dell’inevitabile decadimento e corruzione di tutte le cose. Che si tratti della bellezza della natura o delle emozioni umane, tutto inevitabilmente si deteriora. L’inclusione di un “rotoletto de capelli” tra i detriti personalizza ulteriormente l’osservazione del poeta romano, alludendo ai resti intimi e scartati della vita che si mescolano ai rifiuti anonimi della città.

Le lettere buttate via e gli echi dell’amor perduto
La poesia prende poi una piega più personale, quando il poeta immagina che il vento, che trasporta le foglie e la ciocca di capelli, possa un giorno portare anche le

lettere amorose
che me scriveva quela signorina,
quela che m’ha mancato ar giuramento.

L’introduzione di un amore perduto approfondisce la risonanza emotiva della poesia. Le foglie, i capelli e ora le lettere diventano tutti simboli di ciò che viene messo da parte e dimenticato.

La strofa finale offre il culmine emotivo della poesia.

L’ho rilette e baciate infìno a jeri:
oggi, però, le straccio volentieri
e ve le butto… Bon divertimento!

Il poeta confessa di aver riletto e baciato quelle lettere fino al giorno prima, aggrappandosi ai ricordi che contenevano. Tuttavia, con un gesto di liberazione deliberata e forse dolorosa mostra una magistrale miscela di rassegnazione, amarezza e un tocco di cinica ironia. Il “Bon divertimento!” rivolto alle foglie, ora portatrici dei suoi ricordi stracciati, racchiude lo stato emotivo complesso di chi sta lasciando andare un passato doloroso, riconoscendo l’assurdità del suo dolore romantico nella grande e indifferente danza della vita e del decadimento.

Una riflessione universale tra ironia e malinconia Il messaggio è chiaro tutti indistintamente sono uguali di fronte alla fine della vita, alla morte. Ogni essere umano nessuno escluso è destinato a conoscere il senso della fine, compreso il tradimento in amore. In questo modo, Trilussa anticipa una visione profondamente contemporanea della condizione umana, che attinge dalla mistica, dalle religioni, dai grandi classici della filosofia e della letteratura: di fronte all’immensità dell’universo, del Creatore tutti gli esseri umani sono chiamati a seguire lo stesso destino.

Da__Libreriamo

Il mio amico, me stesso…

 

Nel vano di tutte le finestre della casa c’era una piccola cassapanca che faceva da gradino, ma non bastava: per poter guardare fuori dovevi sdilungarti e premere il naso contro il vetro e bisognava crescere ancora di un bel po’ per poter arrivare sino alla maniglia e aprire. Era comunque uno dei miei posti segreti di osservazione. In punta di piedi sulla cassapanca spiavo quello che da lì si poteva vedere.

Uno spicchio di marciapiede, un portone e alcune delle finestre incorniciate di bugnato del palazzo di fronte, il muro di un giardino, da cui sbucava un cipresso allampanato, i fili della luce sotto le grondaie che, alla giusta stagione, si offrivano ai rapidi riposi delle rondini.

Un giorno d’improvviso ebbi l’impressione di vedermi a specchio nella finestra della casa di fronte, ma pallido, slavato, una larva.
Feci un cenno vago con la mano, ma la larva non rispose.
Insistei.
La figurina di cera staccò il naso dal vetro e scomparve nel buio di uno stanzone. Case antiche, grandi, con i pavimenti un po’ avvallati, dove tutto galleggiava come nell’ombra.

L’incontro muto si ripeté spesso e alla fine il pallido dirimpettaio mosse la sua mano in risposta. Poi il tempo intiepidì e i grandi spalancarono le finestre. Anche la casa di fronte aprì le sue. Approfittai della prima occasione di incontro diciamo così «a cielo aperto» per gridare un ciao entusiasta, ma l’altro voltandosi spaventato verso il fondo della stanza mi fece cenno di non parlare. Aveva ragione, pensai: non potevamo strillare, i grandi sarebbero intervenuti.

Mettemmo in pratica tutti i linguaggi muti che conoscevamo e molti ce ne inventammo ed era molto più divertente.

Gli incontri continuarono. Riuscii a capire che si chiamava Alfredo, anzi Alfredino. Riuscii a capire che non andava a scuola, beato lui, e che usciva raramente. Perché? Riuscii a capire che aveva una malattia, una specie di bronchite che non finiva mai.

Per vivificare i nostri incontri gesticolanti pensai bene di riesumare e piazzare sul vasto davanzale della finestra un vecchio teatrino con tanto di fondali e quinte, fornito di una compagnia di burattini scalcagnati, di cui alcuni senza una gamba o senza un braccio. Ce n’era uno destinato a recitare sempre la stessa parte: il decapitato. Alfredo era estasiato, anche se non poteva sentire tutte le voci, pigolii, urla che ero capace di produrre, ovviamente sottotono, vista la segretezza dei nostri incontri. Durante una di queste performance, mi accorsi che accanto ad Alfredino era comparsa una donna, senza dubbio la madre che, pur con molta dolcezza, costrinse il figlio a ritirarsi. La finestra si chiuse.

Dopo qualche giorno, mia madre mi si avvicinò tutta compunta come la vedevo solo le rare volte che riceveva le signore col cappello a cui versava quella disgustosa cosa che chiamavano te, brodaglia che in casa appariva solo in quelle occasioni o per qualche malessere digestivo. Aveva ricevuto una telefonata dalla madre di Alfredino che mi invitava a fare una rappresentazione dei miei burattini a casa sua. Quella povera creatura aveva tanto insistito, tanto pianto. Quindi il giorno dopo sarei andato, ma… ma non dovevo toccarlo, né fare altri giochi, solo uno spettacolino, una merenda e poi via.
Non dovevo toccarlo?
No, lui era malato. Non poteva essere toccato.
Mi potrei ammalare anch’io?
No, potresti fargli molto male.
Ma come?
Se si fosse ferito, anche un graffio, avrebbe potuto dissanguarsi in poco tempo perché le sue ferite non si richiudevano: il sangue non coagulava.

Alfredo aveva quella che si chiama «la malattia reale», pontificò mia madre.
Reale dei re?
Sì, se la trasmettevano le famiglie reali perché si sposavano tra parenti.

Poi con un certo disprezzo: «Ma questi di essere nobili se lo sognano» e abbassando la voce: «Si chiama emofilia». C’era nel pronunciare la parola quel biasimo impietoso che da più grande capii chiamarsi «stigma». Né altro più volle dirmi. Ma afferrai che diceva alla serva: «Lei lo sapeva di certo che sarebbe potuto nascere così, ma l’ha voluto lo stesso». La condanna definitiva.

Il giorno dopo traversai la strada da portone a portone, come traversassi il Giordano. Lui era in fondo al salone, si alzò dalla sedia, e fermo sul posto, mi salutò con un cenno della mano, lo stesso che mi faceva dalla finestra. Io ruppi il silenzio con un vigoroso ciao Alfredino! che risuonò veramente inopportuno tra quelle mura.

La madre che mi aveva accolto con molta gentilezza e un po’ di sussiego si mise subito tra di noi per marcare una distanza invalicabile. Mi indicò un tavolino evidentemente predisposto per la mia performance e supervisionò con silenzioso disappunto le mie mani che manovravano per montare quinte e scene irte di spigoli e punte acuminate. Poi aprii il sipario e iniziai lo spettacolo. Dopo un po’ la signora, parzialmente rassicurata, se ne uscì dalla stanza, infischiandosene della scena tragica che si stava svolgendo sul palcoscenico, con un autoritario: «Vado a prepararvi la merenda». Non senza aver fatto al figlio un imperioso, ripetuto segno con la mano che lo inchiodava alla sedia.

Tutto filò liscio. Alfredino rideva e batteva le mani, io prolungai la pièce con una serie di confuse improvvisazioni. Tra i burattini c’era anche la strega di Biancaneve, naso adunco, porro peloso, cappuccio e veste nera. Decisi di finire lo spettacolo con una metamorfosi: facevo infilzare da una specie di Orlando la perfida megera che morendo si trasformava in un bellissimo principe (non si badava al gender ancora). Sipario.

Alfredino non applaudì anche perché intanto era rientrata la madre con due piatti di merenda: pane burro e marmellata. Da consumare ognuno alla propria postazione. Ma Alfredino con voce piagnucolosa si mise a chiedere alla madre di vedere i burattini da vicino e la madre alla fine consentì, naturalmente sotto la sua stretta supervisione.
«Quale vuoi vedere?»
«La strega» e le porgevo la strega e lei la metteva sotto gli occhi del bambino senza fargliela toccare.
«Orlando!». E le porsi Orlando.
La signora urlò: si era punta.
Bisogna sapere che per rendere Orlando più affascinante ed efficiente, io gli avevo legato alla mano un ben appuntito ago da lana trafugato dal cestino del cucito di casa. Tragedia! La signora prese per un braccio il figlio e lo trascinò fuori dalla stanza con una serie di cachinni agghiaccianti. Più per il pericolo corso dal figlio che per la sua feritina ancorché abbastanza profonda. Capii che era il caso di fare fagotto e mi affrettai a riporre baracca e burattini. Venne la serva per accompagnarmi. Addirittura attraversò la strada con me quasi temesse che potessi tornare indietro.

Prima di lasciarmi sul portone di casa, mi diede un bigliettino.

Era di Alfredino, v’era scritto: «Non sono una strega, non morirò per diventare un principe».

Rimasi fulminato. A casa dissi che era andato tutto benissimo, come al solito. Alfredino non si affacciò più alla finestra. Io partii per le vacanze.

Quando tornai mi dissero che i dirimpettai si erano trasferiti in una città in cui c’era un ospedale specializzato nella malattia di «quella povera creatura». Andai a frugare tra i burattini e ne tirai fuori il terribile Orlando. Mi chiusi in bagno e con la sua spada mi trafisse un dito. Volevo vedere in quanto tempo il sangue avrebbe finito di colare.

Franco Brogi Taviani

  Illustrazione di Roberto Cigna

me stesso

S’introduca l’educazione dannunziana..

Il suo noto “fare la propria vita come si fa un’opera d’arte” trova oggi nuova linfa. E’ un antidoto al gregarismo dilagante, che invita a fare della vita qualcosa di unico e prezioso

“Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”. Edoardo Sylos Labini ripete più volte questa frase del Vate in “Gabriele D’Annunzio. Una vita inimitabile” che mi sono visto su RaiPlay non essendo riuscito ad applaudirlo dal vivo ossia al Vittoriale, sulla nave Puglia (scenografia suprema) dove lo spettacolo è stato registrato. “Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”: esortazione che ovviamente conoscevo ma che fa bene risentire e merita diffusione universale. E’ la nuova attualità di D’Annunzio.

Ci fu un tempo in cui l’egotismo dannunziano poteva suonare, e così effettivamente suonava a molti, antipatico e anacronistico. Oggi invece appare un antidoto, un contravveleno estetico-filosofico al gregarismo dilagante e violento. Che cos’è un’opera d’arte? Qualcosa di unico e prezioso. D’Annunzio insegna a essere unici e preziosi, a non conformarsi, ad avere rispetto per sé stessi. Invece dell’educazione sessuale, dell’educazione ambientale, dell’educazione non-so-cosa, si introduca nelle scuole l’ora di educazione dannunziana.

Camillo Langone   

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La marchesa Von O e il primo rapporto sessuale rimosso della letteratura.

 
Heinrich von Kleist è l’autore del celeberrimo racconto «La Marchesa von O.» del 1808. Nel racconto si narra di una guerra che costringe la famiglia della marchesa a lasciare la città e a rifugiarsi in campagna. Durante l’invasione, un conte russo salva la marchesa da uno svenimento, ma poco dopo muore, gridando il nome di «Giulietta». Subito dopo, la marchesa scopre di essere incinta, un evento che appare assolutamente straordinario e incomprensibile poiché non ha avuto alcun rapporto sessuale. La madre e il padre sono sconvolti dalla notizia. Cosa fa la marchesa? Decide di mettere un annuncio sul giornale, dichiarando che chiunque si presenterà rivendicando la paternità del bambino che porta in grembo, sarà accolto e sposato. A presentarsi è il conte russo che si pensava fosse morto. In realtà era stato gravemente ferito, ma è sopravvissuto e si è ripreso. Rivendica la paternità e propone alla marchesa di sposarlo. Lei accetta, e la famiglia è felice di questa risoluzione.

L’elemento psicologico è la chiave del racconto, e Kleist lo esplora con una profondità unica
C’è, però, una scena impressionante in cui il padre della marchesa la prende in braccio, la palpeggia e addirittura la bacia. Questa scena è molto evidente nel film «La Marchesa von O.» diretto da Erich Nötrasse-Römer nel 1974. La scena ci lascia certamente turbati, ma non è il punto cruciale del racconto.

Il vero cuore della vicenda sta nel fatto che la marchesa è rimasta incinta nel momento in cui è svenuta. Questa è la novità straordinaria di Kleist: c’è qualcosa di oscuro, un rimosso che non è mai stato esplicitamente trattato nella letteratura occidentale. In effetti, la marchesa ha avuto un rapporto con il conte, ma non si rende conto di ciò che è accaduto, o forse lo rimuove dalla sua memoria. Questo elemento psicologico è la chiave del racconto, e Kleist lo esplora con una profondità unica.

Franco Cordelli

 

https://www.corriere.it/le-serie-del-corriere/otto-racconti-dell-800/la-marchesa-von-o-e-il-primo-rapporto-sessuale-rimosso-della-letteratura.shtml#:~:text=Le%20serie%20del,una%20profondit%C3%A0%20unica.