Cosa resta del futurismo? Annunci e reperti .

 

 

 

Ma cosa è stato il futurismo che mise a soqquadro il mondo? Il 2 dicembre nell’ottantesimo anniversario della morte del suo fondatore, Filippo Tommaso Marinetti, si è aperta alla galleria nazionale d’arte moderna di Roma una grande mostra, con tanto di convegno e catalogo sul futurismo. Proviamo a rimettere insieme i cocci sparsi del futurismo.

Per cominciare, audacia è la parola d’ordine del Manifesto futurista. L’entusiasmo per l’infinito, l’ebbrezza delle velocità che corre verso la luce e l’assoluto. Anche i verbi nel futurismo vanno all’infinito, mentre le parolibere nuotano nel cielo e la punteggiatura va a farsi benedire. È guerra alla forza di gravità. A capitanarli è il loro galvanizzatore, FTM, erotico, giocoso, bellicoso.

Curioso il futurismo, è il primo movimento d’arte totale proteso nell’universo, senza confini, fenomeno globale dall’America alla Russia, ma al tempo stesso è legato all’amor patrio e alla nazione. La famiglia è vista dai futuristi come una prigione da scardinare nel nome della liberazione del sesso; Dio deve liberarsi delle chiese, mettersi al passo della velocità futurista e accettare che alla natura da lui creata si aggiunga la creazione della tecnica, opera del suo sostituto procreatore, l’uomo. Ma la patria, no, la patria non si tocca per i futuristi, è il perno del loro credo, nonostante la portata globale del movimento e degli ambiti che persegue. Il futurismo fiorisce tra Milano e Parigi, che lo amplifica a evento mondiale, con sosta artistico-letteraria a Firenze, ma poi dilaga a Mosca e New York: è il primo movimento davvero globale. Il futurismo non si limita all’arte, si dilata all’architettura, alla letteratura, alla cucina, al costume, al teatro, al cinema, alla radio, alla musica, alla tecnologia, alla guerra, alla politica, insomma alla vita e alla morte. Uno stil novo tecnologico fondato sul mito della macchina, delle officine e della velocità. Una forma di delirio dionisiaco, non più indotto dal vino e da eros ma dall’ebbrezza della velocità, congiunta al mito della macchina che mette le ali alla condizione umana. Il futurismo diventa il canto della società industriale, l’arte applicata all’epoca del capitalismo. La velocità per Marinetti è la nuova religione della modernità. La macchina unita alla velocità delinea anche una nuova grafica e una nuova estetica, nuovi costumi e più slanciati design; anche i corpi tendono quasi a fendere l’aria, a farsi aerodinamici, appuntiti. La magrezza diventa sinonimo di bellezza, la grassezza evoca la lentezza, la viltà borghese, il panciafichismo goffo. La velocità delle macchine, a cominciare dalle automobili, è segno di esuberanza e di vitalità, insomma di felicità. Il culto della velocità si unì nel futurismo al mito della giovinezza di cui fu impregnato il Novecento. La gioventù futurista diventa col fascismo «giovinezza primavera di bellezza». La gioventù futurista è una gioventù bruciante; mezzo secolo dopo la parabola giovanilista declinerà nella gioventù bruciata, per finire poi nel ’68. Attivismo assoluto, agito ergo sum. C’è la modernità alla massima potenza e c’è il germe del fascismo come attivismo e volontà di potenza. Il culto della velocità si fece poi maniera, così come il futurismo ebbe il suo rococò ed entrò perfino nelle detestate accademie. Al punto che si può azzardare un’archeologia della velocità, qualcosa che evoca la Vittoria di Samotracia, esaltata da Marinetti (e superata dall’automobile). Anche la velocità finì in museo, imbalsamata come una tentazione ardita del passato. Restò la velocità dei rapporti telematici, che si fece anzi simultaneità; ma si perse il suo mito, applicato alla vita e alla macchina.

L’ideologia di Marinetti riverbera nei nomi dati alle sue tre figlie: Ala, Luce e Vittoria. La parola chiave per intendere l’epoca e la punta acuminata del futurismo è fiamma, cioè fuoco, ardere/ardire. «Allegri incendiari dalle dita carbonizzate» li definisce il Manifesto futurista, e vari poeti futuristi, perfino Palazzeschi, dedicano versi al fuoco; dietro quel fiammeggiante universo c’è il Fuoco, dall’omonima opera di Gabriele D’Annunzio allo scoccare del Novecento e tutto il richiamo di fiamme, faville, scintille, fiaccole e arditi che incendia il primo ventennio del secolo scorso. Prima fenomeno artistico, poi interventismo bellicoso, il futurismo si fa movimento politico, alleato al nascente fascismo. Quando il futurismo assunse connotati politico-rivoluzionari, si presentò come una promessa integrale di svecchiamento; via il senato, via il papato, via la monarchia, via i parassiti, via il matrimonio. Democrazia economica, parità dei diritti, espropri. Al centro del Novecento come del futurismo è l’uomo nuovo, il mondo nuovo, l’ordine nuovo che per i futuristi è in realtà un disordine nuovo, ma creativo. Marinetti è definito dal “passatista” Prezzolini un «formidabile disorganizzatore». Fascista e sfascista. Del futurismo restano molti annunci di rivoluzione senza seguito: come i bozzetti di architettura futurista di Sant’Elia, l’indigeribile ma stravagante cucina futurista, l’assurda e non indossabile moda futurista, la rumorosa inascoltato musica futurista, il teatro, il cinema futurista e via dicendo. Resta invece, e smagliante, la pittura futurista, la scultura, un po’ meno la poesia.

Un’avanguardia inconclusa, che perciò resta sempre giovane promessa, come Boccioni e Sant’Elia, che morirono giovani. Del futurismo restarono molte promesse, tante opere, briosi reperti di una paradossale archeologia.

Marcello Veneziani      

Alain Elkann è un letterato vero perché non militante

Scrive libri tranquilli e brevi da cui una piccola perla la estraggo sempre. Stavolta è il disinteresse del poeta in “Il silenzio di Pound”:

“Morli non aveva alcuna ideologia o appartenenza politica. Per lui qualunque regime politico conceda la libertà era il migliore”. La penso come il protagonista del nuovo romanzo di Alain Elkann, “Il silenzio di Pound” (Bompiani), uno scrittore in parte inventato e in parte corrispondente a Elkann medesimo (l’ho capito a pagina 122 dove Morli si dice amico di un pittore e di suo padre, molto evidentemente Bernardo ed Enzo Siciliano, amici dell’autore). Mi viene dunque da pensare di pensarla come Alain che sebbene di origine ebraica ha dedicato all’antisemita Pound un romanzo privo di acredine. Mi piace Alain (lo chiamo spesso per nome sia perché lo conosco sia per distinguerlo dai figli) perché è scrittore svagato, non militante, non prepotente: un letterato vero. Scrive libri tranquilli e brevi da cui una piccola perla la estraggo sempre. Stavolta è il disinteresse di Pound: “Dato che era così affascinato dal fascismo perché non era andato a vivere a Roma, più vicino al suo idolo Mussolini? Avendo scelto di vivere in Italia, perché non aveva cercato di avere per sé un ruolo più importante? Il fatto che stesse a Rapallo dimostrava che non era quello che cercava”. Non so cosa cercasse Pound ma so cosa cerco io: nei libri cerco la disappartenenza e in quelli di Elkann la trovo.

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Qui abbiamo solo Proust…

«Qui abbiamo solo Proust!» – ha allargato le braccia come in una sorta di orgogliosa, divertita rassegnazione, il giovane addetto della Maison de Tante Léonie a Illiers-Combray, quando gli ho chiesto se lì intorno ci fosse un bar aperto, o un posto dove mangiare qualcosa. La risposta mi ha fatto vergognare della domanda, e in qualche modo di me stesso: tra qualche attimo potrò vedere il copriletto a fiori dell’infanzia, la stanza di e da cui parla Proust all’inizio della Recherche, e mi preoccupo di dove mangiare?

La verità è che in un lunedì di agosto, nella controra muta e senza passanti di Illiers, l’unica sembianza umana che puoi incrociare è proprio la sua. Di nuovo, solo Proust, o meglio la statua di bronzo che lo ritrae bambino, seduto su una panchina in quel momento molto assolata. «Non hai caldo, Marcel?»

Uscito dalla casa museo piena di luce, con la suggestione -forse naif- di aver attraversato o abitato davvero qualche pagina della Recherche, ho sentito distintamente un rumore credo inudibile altrove, in qualunque posto con un passaggio più o meno sostenuto di automobili: la serranda elettrica di un piccolo supermercato alla riapertura. Qui, nel piccolo paese di Illiers che da qualche decennio porta anche il nome immaginato da Proust, Combray, le spire capitalistiche da orario continuato non hanno ancora attecchito. Conquistato qualche snack, noto su uno scaffale dietro la cassa delle scatole di cioccolatini bluette. Rimandano all’inverno, lontane promesse di souvenir rimaste lì, velate di polvere.

C’è scritto sopra Marcel Proust, con un disegno stilizzato del suo volto. Il sole di Illiers Combray mi fa ben sperare per Cabourg, ma il tempo, a oltre due ore di strada, può variare anche di molto. Mi preoccupo del tempo perché sono stato lì proprio ieri, e a pochi passi dal Grand Hotel dove soggiornava Proust, in quella che nell’«eteronimia» dei luoghi della Recherche diventa Balbec, nel suo italiano poco allenato, una signora gentile mi ha invitato alla cena speciale che dovrebbe tenersi stasera sul lungomare. «Qui non passano mai italiani, lei ci sarà domani sera?» In un giorno stabilito di fine agosto, a Cabourg, le persone del posto portano da casa tavoli, sedie e qualcosa da mangiare, e così si compone una tavolata interminabile all’aperto, tra sconosciuti. «Se dovesse piovere, bisognerà aspettare l’anno prossimo». Ho tenuto per me il pessimismo, ma le nuvole nere sopra di noi, ieri, mi hanno fatto pensare che sarà per la prossima estate, e in fondo è anche un modo per dirsi: ci saremo ancora.

La signora sembrava colpita quanto me da una coppia di mezza età. Elegantissimi, e come appena arrivati da un viaggio lungo cento anni, marito e moglie sono stati a lungo a fotografarsi davanti all’ingresso dell’hotel – forse soggiornavano lì, non lo so. Il taglio degli abiti fuori moda, i colori pastello, i gesti misurati, sembravano davvero provenire da un altro mondo, da salotto proustiano. E a proposito di Proust, e di casa sua, forse avrei davvero dovuto chiedere scusa al giovane addetto della Maison de Tante Léonie per avergli chiesto di un posto dove mangiare – come uno entrato lì per caso, e che ha solo fame. A Rouen, alla casa museo Flaubert, non me lo sarei potuto permettere. Solo per averle viste esitare nel riprendere l’ombrello all’ingresso, il custode ha letteralmente incenerito le persone che stavano uscendo insieme a me dal museo. Guardava tutti con una tale impazienza! Però in effetti c’è sempre, l’attimo in cui ti chiedi se quello è davvero il tuo ombrello. La pesante porta di legno si è chiusa alle spalle di noi ultimi avventori della giornata con una grande forza, come se non solo il custode ma anche lo stesso Flaubert volessero dire allo sparuto gruppo di Bouvard e Pecuchet di cui ero parte: «Via, levatevi di torno!». Per le visite, si sa, non sempre è un buon momento – ma in alcuni casi, vale la pena comunque.
Paolo Massari

 

Proust

 

Paolo Massari è in libreria con “Tua figlia Anita” (Nutrimenti)

“Non rifiutare i sogni” .

“Non rifiutare i sogni” è una poesia di rara intensità, che trasmette al lettore il potere del sogno come mezzo per guardare alla vita in modo differente, quasi come una parola magica in grado di riplasmare le nostre esistenze.

“Non rifiutare i sogni”
Non rifiutare i sogni in quanto sogni.
Tutti i sogni possono
esser realtà, se il sogno non finisce.
La realtà è un sogno. Se sogniamo
che la pietra è la pietra, quello è la pietra.
A correre nei fiumi non è un’acqua,
ma è un sognare, l’acqua, cristallino.
Maschera i propri sogni
la realtà e dice:
«Io sono il sole, i cieli, l’amore».

Mai però se ne va, mai si allontana,
se fingiamo che sia più d’un sogno.
E viviamo sognandola. Sognare
è quel modo che l’anima
ha per non farsi mai sfuggire
quel che le sfuggirebbe se smettessimo
di sognare che è vero quello che non esiste.
Solo muore
un amore se non è più sognato
fatto materia e che si cerca in terra.

Pedro Salinas

La poesia “Non rifiutare i sogni”, ci invita a sognare,a non rinnegare i nostri sogni solo perché possono sembrare astratti e fantasiosi, a non averne paura, ma a lasciarci catturare dalla loro magia.Se la natura è un sogno ,lo stesso vale per la vita; infatti secondo Salinas “Tutti i sogni possono esser realtà, se il sogno non finisce. ”
Dobbiamo credere in ciò che la nostra mente crea quando sogniamo, in modo che il sogno si concretizzi nella realtà: un po’ la stessa visione cantata nella fiaba di Cenerentola “I sogni son desideri / di felicità”. La dimensione onirica del sogno si fonde con la natura nei versi di Salinas “Se sogniamo che la pietra è la pietra, quello è la pietra.
A correre nei fiumi non è un’acqua, ma è un sognare, l’acqua, cristallino. ” Ciò sta a comunicare il fatto che non ci sia nulla di più concreto che sognare, una condizione che si manifesta già a partire dagli elementi naturali che ci circondano.

Sogniamo ciò che vorremmo accadesse, sogniamo ciò che amiamo e desideriamo, sogniamo ciò che di bello ci circonda in natura. La dimensione onirica ci aiuta a capire cosa davvero cerchiamo nella vita e, allo stesso tempo, può aiutarci a realizzarlo.

Un sogno d’amore
“Sognare
è quel modo che l’anima
ha per non farsi mai sfuggire
quel che le sfuggirebbe se smettessimo
di sognare che è vero quello che non esiste”.

Pedro Salinas ci insegna che sognare è un movimento dell’anima, è un ciclo ininterrotto di potenza e atto, di rincorsa di desideri e della loro realizzazione, di amori incompiuti che plasmano mondi per non smettere mai di sognare, e di amare.

fonte__Libreriamo

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I racconti di Ugo Ojetti, pieni di parole degne di nostalgia.

Parlano di matrimoni e dunque di adulteri, d’altri tempi (1912), perfetti per sapere come comportarsi in questo tempo emotivo, esibizionistico e loquace.

Si sfugga alla tirannia del presente leggendo i libri del passato.
Consentono di tirare il fiato e a volte insegnano perfino a vivere. E’ il caso di “Donne, uomini e burattini” di Ugo Ojetti. Sapevo Ojetti poligrafo, critico d’arte, organizzatore di mostre, giornalista culturale, diarista, un ovvio mio riferimento, ma non sapevo di suoi racconti. E invece eccoli, riemersi grazie alle Edizioni Mondo Nuovo. Sono un po’ pirandelliani e molto mondani, molto piacevoli. Contengono parole degne di nostalgia come “governante”, “ammogliato”, “scapolo”, parlano di matrimoni e dunque di adulterii. Fra tutti consiglio il primo in cui un conte bolognese vede, non visto, la moglie mentre bacia un di lui amico sulla bocca. Proprio Laura, “sempre calma, misurata, meticolosa, casalinga”, di reputazione specchiata. Che fare? Un duello? Una piazzata? Il conte è un uomo d’ordine, detesta gli eccessi e pensa alla famiglia. “Figli: anche per essi bisognava essere prudenti”. Ci riflette per qualche pagina e infine ha la prova che l’amico è riservatissimo, “una tomba”. Come del resto la contessa: “Ella aveva peccato, ma con una discrezione signorile”. Saggiamente soprassiede, nemmeno gliene parlerà, come se non avesse visto nulla. Un racconto d’altri tempi (1912) perfetto per sapere come comportarsi in questo tempo emotivo, esibizionistico e loquace.

Camillo Langone  __da __IL  FOGLIO

Ugo Ojetti

L’Occidente, le armi e il nulla…

 

 

L’Occidente ha distrutto le basi su cui è poggiato: la cristianità, lo Stato sovrano, la civiltà del diritto, il pensiero critico e la storia. Non è più la guida del mondo, è disfattista al suo interno e bellicoso all’esterno, crede di salvarsi con la forza delle armi e l’uso intermittente dei diritti dei popoli e delle nazioni. Ha perso l’intelligenza del reale, la capacità di capire il mondo e la vita, abdicando in favore di un individualismo radicale asservito alla tecnica e alla finanza. Ha perduto il pensiero critico che sa distinguere e il pensiero fondativo che sa generare.
Ho letto e condiviso La sconfitta dell’Occidente di Emmanuel Todd, edito da Fazi, e ricaverò dalla sua impietosa analisi alcuni spunti decisivi per comprendere lo stato delle cose. Todd è uno storico, antropologo e sociologo francese, autore di libri importanti.
Infilarsi nel conflitto russo-ucraino e anzi favorirlo, appoggiarlo, parteciparvi è stato per Todd l’errore fatale dell’Occidente; la Russia è rimasta stabile, non cederà sull’Ucraina, che sta perdendo, come ha avuto il coraggio di dire Viktor Orban al Parlamento europeo. Appiattita sulla Nato e sugli Stati Uniti l’Europa sta offrendo lo spettacolo di “un suicidio assistito”. Mentre il resto del mondo preferisce sempre più chiaramente la Russia all’Occidente ai piedi degli Usa. Todd fa un paragone storico interessante: “la Russia comunista aveva trovato un alleato nel proletariato occidentale, quella divenuta oggi conservatrice troverebbe ancora i propri alleati nelle classi operaie dell’Occidente, divenute anch’esse conservatrici (più che populiste o di estrema destra)”. L’asse Washington-Londra-Varsavia-Kiev è oggi la direttrice principale del potere americano in Europa. Inoltre, a suo parere, l’opera di macelleria compiuta a Gaza dallo Stato d’Israele, soprattutto con armi americane, e accettata dall’Europa, ha spinto l’intero mondo islamico, Turchia e Iran inclusi, dalla parte dei russi. Per non dire degli altri fronti aperti. Todd sottolinea che “l’immoralità dell’Occidente di fronte alla questione palestinese non ha fatto altro che rafforzare l’ostilità del Resto del mondo”.
L’Ucraina che l’Occidente vorrebbe adottare, con la sua indipendenza nel 1991 – dopo secoli di appartenenza alla Russia prima zarista e poi sovietica- aveva perduto già prima della guerra milioni di abitanti per via dell’emigrazione, dominata dagli oligarchi e dalla corruzione, al punto da sembrare un paese in vendita con un potere che elimina il dissenso, la stampa non allineata e i gerarchi caduti in disgrazia con metodi non migliori di quelli russi. La scomparsa della nostra capacità di concepire la diversità del mondo, nota, ci impedisce di avere una visione realistica della Russia.
Osserva Todd che l’ipotesi di una ripresa militare-industriale degli Stati Uniti è da escludersi in forza della scarsità di ingegneri a loro disposizione, rispetto ai russi (e ai cinesi) e per la loro predilezione per la produzione di denaro anziché di macchinari.
Il collasso morale e sociale deriva a suo dire dal collasso del protestantesimo, che rende irreversibile il declino americano e apre gli Usa e l’intero occidente al destino del nichilismo. Da allievo di Max Weber osserva che se il protestantesimo è stato la matrice del decollo dell’occidente e del capitalismo, ora è la sua morte a causarne la dissoluzione.
Intanto lo stato-nazione si dissolve e trionfa la globalizzazione; gli individui sono ormai privi di qualsiasi credenza collettiva. Il collasso della religione ha spazzato via il sentimento nazionale, l’etica del lavoro, il concetto di una morale sociale vincolante, la capacità di sacrificarsi per la comunità. Todd distingue altre fasi prima di giungere allo “stadio zero” della religione dove i valori non contano più e ne attesta l’avvento attraverso l’osservazione di pratiche cadute velocemente in disuso nei battesimi, nei decessi, nella partecipazione alle funzioni domenicali, ma soprattutto con l’equiparazione tra i matrimoni omosessuali e quelli tra uomo e donna.
Ci era stato prospettato che l’individuo sarebbe stato più grande una volta liberato dal collettivo e dai legami sociali; invece è accaduto il contrario: l’individuo, dice Todd, può essere grande solo all’interno e attraverso una comunità. “Stiamo diventando una moltitudine di nani mimetici che non osano più pensare con la propria testa ma che si dimostrano capaci di intolleranza tanto quanto i credenti di un tempo”. Ci è rimasto il bigottismo intollerante, non l’uso dell’intelligenza critica.
Attualmente, rileva Todd, l’Europa si trova impegnata in una guerra contraria ai suoi interessi e autodistruttiva; l’Unione Europea è scomparsa dietro la Nato, oggi più che mai asservita agli Stati Uniti, con un tasso di ubbidienza prossimo al 100%, in un clima totalitario. La Russia, nota, non rappresenta alcuna minaccia per l’Europa occidentale: in quanto potenza conservatrice, oggi come ai tempi del Congresso di Vienna, nel 1815, il suo desiderio è di creare una partnership economica con l’Europa, in particolare con la Germania. È nel suo interesse avere una sponda europea.
L’Unione appare a Todd un sistema pesante e complesso, ingestibile e letteralmente irreparabile; “il lato oscuro del desiderio sarebbe che la guerra liberasse l’Europa da se stessa”. Del resto, una nazione è un popolo reso cosciente da un credo collettivo e una élite che lo governa in base a tali convinzioni. Restano solo i popoli. E conclude notando che nell’era della religione zero, cresce un bisogno primario di violenza. Da qui la diagnosi che ho inevitabilmente riassunto: l’Occidente è affetto da nichilismo che è rifiuto della realtà, bisogno di distruzione di sé e degli altri, negazione della verità e di ogni comprensione ragionevole del mondo. L’analisi è tranchant, forse troppo, anche se supportata da molti dati e da argomentazioni convincenti.
A mio giudizio non si tratta di tornare indietro, impresa impossibile, e nemmeno di arrendersi ai regimi autocratici, teocratici e dispotici, e adattarsi ai loro inaccettabili modelli. Si tratta, invece, di pensare il nuovo, il sacro, la sovranità, il legame sociale, a partire dal rapporto tra élite e popolo, con le prime ormai ridotte a oligarchie autoreferenziali e i secondi a massa globale.
E di darsi una missione, compatibile con la realtà e le eredità della civiltà.
“La sconfitta dell’occidente” di Todd rischia di rientrare nel fiorente filone apocalittico che da un secolo a questa parte annuncia il tramonto dell’Occidente. Ma aiuta al risveglio brusco dal sonno della ragione, che genera mostri e spinge l’avanzata del nulla in Occidente. Il nulla armato.

Marcello Veneziani  

Le relazioni umane, necessarie per vivere,ci fanno anche soffrire,ma ci riempiono di quello che siamo…

 

Noi esseri umani siamo per natura animali sociali. Abbiamo bisogno della relazione per vivere, dei legami che instauriamo, giorno dopo giorno, con chi ci circonda. Amore, amicizia, parentela… se non avessimo i nostri cari intorno, nulla sarebbe uguale. A volte, però, i rapporti si perdono, si rompono, vanno sfaldandosi nelle pieghe del tempo. La poesia di Gabriel García Márquez, intitolataPerderai molte persone, parla proprio di questo.

Perderai molte persone
nel tuo cammino.
Certe lentamente, senza accorgertene.
Una telefonata in meno, un messaggio dimenticato.
Altre per scelta, tua o non tua.
Alcune però ti rimarranno addosso.
Basterà una foto dimenticata
tra un libro,
una canzone alla radio ed ecco che te ne ricorderai.
Sorriderai.
Magari ti chiederai come stanno
affrontando le loro battaglie.
Se sono felici. E … forse
ti commuoverai pensando
a come le avete affrontate voi
insieme le battaglie.
Poserai la foto, spegnerai la radio
e di nuovo continuerai la tua giornata cercando di scrollarti
di dosso quella sensazione di aver perso … insieme a loro almeno un po’ di te.

La vita, rappresentata attraverso la metafora del cammino, presenta per sua natura cambiamenti e deviazioni.Le persone che incontriamo spesso non rimangono accanto a noi per l’intera durata del nostro percorso.. Per questo non vuol dire che queste siano meno rilevanti di altre: coloro i quali incontriamo lungo il percorso, spesso, ci plasmano, infondendo dentro di noi pezzi di loro. Attraverso il rapporto con l’altro cresciamo, cambiamo,e si crea un legame quasi indissolubile,anche se ci sono periodi di assoluta dimenticanza . Così accade, senza che ce ne accorgiamo, che il ricordo salti fuori per caso o fatalità, e con esso la malinconia, la dolcezza, o anche la rabbia, di ciò che è stato e non ritornerà.Ci chiederemo come stiano, cosa staranno facendo in quest’istante, se magari qualche volta pensino a noi… Poi la vita continuerà come se nulla fosse accaduto. O quasi, perché come loro hanno lasciato un pezzo di sé in noi, noi abbiamo infuso un pezzo di noi in loro. Abbiamo guadagnato e perso, tutti.

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Fonte_Libreriamo                                                                                                          

Meglio le omissioni della memoria…

 

Più si sfugge al memoir, più il memoir ti insegue, dico io.
Viva i ricordi! Risponde un mio amico. Lui tifa per l’autofiction, perché manda in pezzi la questione del vero e del falso.
Meglio i segreti e le manomissioni della memoria, ribatto io. Non so se è per una perdita di fiducia rispetto al privato e ai ricordi o per il bisogno di smontare entrambi, ma per me l’invenzione è ancora una possibilità e quando sfocia nel fantastico diventa traguardo. Irreale e nonsense permeano la mia infanzia, e uso un tempo presente non a caso, perché se ne fregano dell’età adulta. Sono il codice che ancora guida i dialoghi con mia sorella. Nel mondo dove ci incontriamo le persone diventano personaggio. In un batter d’occhio sono sopraffatte da una caratteristica che ci colpisce, ne divengono succubi. Non pensate a nulla di speciale, basta un accento storto nel modo di poggiare le sillabe, un ciondolare la testa guidando. Da lì parte la storia. Devo scrivere un pezzo per «Futura», le dico. A mia sorella intendo.
Racconta di quando papà in ospedale ha detto alla sua prima figlia che tu non esistevi, propone tutta entusiasta. Da noi i ricordi sono souvenir divertenti. Li sfogli come nei piccoli libricini di disegni che lasci scorrere veloce tra il polpastrello e l’indice. Sono favola, anzi, sono fumetto. Ripetuti, intatti, senza tempo. Eccola spingermi nel memoir, quando io dal memoir sfuggo.
Che pizza che sei, esclama e ritenta: Allora racconta una bugia, una di quelle che ci hanno detto e che è diventata vera. Stufa di convincermi, si tuffa in acqua. Sole, così si chiama mia sorella, nel memoir ci vive, ci ha fatto pure un film. Ora è ferma vicino alla boa. Si sbraccia perché è apparso l’uomo-pesce. È un tipo filiforme che passa quattro ore al giorno a camminare in acqua, senza mai uscire. Pianta l’ombrellone e lo lascia solitario ad attenderlo. Cappello e braccia a fiaschetta viaggiano lungo l’orizzonte marino avanti e indietro, fino al tramonto.  Sulla riva il nostro cane abbaia. Non ha intenzione di venirci a salvare, poi si immerge, spingendo il muso a pelo d’acqua per insultarci. Lei, il cane, ha una lingua strafottente. Parlano così gli animali e i peluche della nostra infanzia. Sono duri dal cuore tenero, scorretti per partito preso, con un alfabeto da eroi western. Il peggiore è l’orso, dotato di immensi poteri. È stato lui a insegnarci la regola aurea: il dolore è dietro l’angolo e la vita è una combinazione dinamica di sogno e delusione.
Parlare così a due ragazzine, si fa? Parrebbe di sì.
Lui, come gli altri, si presenta al mondo attraverso le nostre parole, in una sorta di ventriloquia perpetua. Se tutto ha coscienza della sua identità e ha un linguaggio per dirsi, persino il cane e il pupazzo, tu chi sei? Nella mia scrittura è guerra aperta tra parola e intimo, e la fuga dal memoir è continua. Mi pare di averlo già detto. Preparo un corso di storytelling e lo intitolo: La verità è ancora desiderabile? Looking-glass self. Una bella definizione per raccontarsi, ma qui il vetro è opaco. Il mio privato è una storia che sciopera. I ricordi sbattono sul mio muso ed io li invito a cambiar rotta. La scrittura che frequento si è sviluppata tra due estremi. Sono un uomo e una donna, piuttosto belli. Uno taceva fin troppo, libero di abitare tutti i mondi a sua disposizione. Taceva al punto che in fin di vita – pur di negare l’evidenza – dice a una donna: qui non c’è nessuno. Il nessuno sono io che gli tengo la mano. Dall’altro capo c’è una lei che inventa un quotidiano dove verità e bugie godono dello stesso status. Nel suo finale, lei rivendica quella narrazione con un’epigrafe: ho fatto tante sciocchezze, ma che bella vita! Ecco tra questi due estremi c’è la parola, la mia. Una parola che latita sul personale e insegue le storie degli altri. Il linguaggio è il brodo primordiale che definisce loro e un po’ definisce me .«Futura» si chiama questa newsletter. A me interessa la giovinezza come la frontiera personale da cui ci si affaccia incontrando lo sguardo del mondo ed il proprio. E non si sa nulla dell’uno e dell’altro.
Piacere si dice, e ci si presenta, neanche tanto certi di piacersi. L’invenzione rende lo sguardo di un personaggio così elastico che puoi trascinarlo all’altro capo del tempo, tenderlo come un arco e, al momento finale, scrivere: che bella vita. È quello che accade a Nicaredda, il protagonista del mio libro, un tipo che da niente ha disegnato il mondo.

Vanessa Tonnini

Vanessa Tonnini è in libreria con “Grammatica di un desiderio” (Neri Pozza)

 

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Chiedo silenzio…

 

Chiedo silenzio di Pablo Neruda è una delle poesie più belle del poeta cileno, un inno all’amore e alla donna della sua vita Matilde Urrutia.

Ma, soprattutto, la poesia di Neruda è una lezione sulle cose che veramente contano nella vita. C’è un momento in cui si abbandona tutto ciò che è futile banalità, seppur mascherata di grandezza, per vivere solo le cose autentiche.

Chiedo silenzio

Ora, lasciatemi tranquillo.
Ora, abituatevi senza di me.

Io chiuderò gli occhi

E voglio solo cinque cose,
cinque radici preferite.

Una è l’amore senza fine.

La seconda è vedere l’autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.

La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.

La quarta cosa è l’estate
rotonda come un’anguria.

La quinta cosa sono i tuoi occhi.

Matilde mia, beneamata,
non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io muto la primavera
perché tu continui a guardarmi.

Amici, questo è ciò che voglio.
E’ quasi nulla e quasi tutto.

Ora se volete andatevene.

Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellandomi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.

Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere.

Accade che sono e che continuo.

Non sarà dunque che dentro
di me cresceran cereali,
prima i garni che rompono
la terra per vedere la luce,
ma la madre terra è oscura:
e dentro di me sono oscuro:
sono come un pozzo nelle cui acque
la notte lascia le sue stelle
e sola prosegue per i campi.

È che son vissuto tanto
e che altrettanto voglio vivere.

Mai mi son sentito sé sonoro,
mai ho avuto tanti baci.

Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.

Lasciatemi solo con il giorno.
Chiedo il permesso di nascere.

Pablo Neruda

In questi versi c’è tutta la sensibilità che un uomo matura nel tempo ,diventando sempre più quel saggio, al quale il concetto di amore è condizione essenziale del vivere.
Pablo Neruda parla agli amici che lo circondano.
E, in Pido Silencio,esordisce manifestando la voglia di isolarsi da tutto ciò che lo circonda, per esigenza di pace interiore, voglia di rigenerarsi, di rinascita, voglia di tempo per poter godere di alcune cose .Per questo ha bisogno di una pausa dal suo quotidiano,troppo affollato da quegli impegni che gli rubano tempo alle stagioni della vita, che scorrono ,inesorabilmente perdute all’amore. Il poeta vuole vivere le cose essenziali della vita, nella sua semplicità di affetti e grandi amori come quello per la moglie Matilde, i cui occhi lo fanno continuamente innamorare e godere immensa gioia. A questa felicità non vuole rinunciare per niente al mondo.

OIG4

Ci si abitua.

Ci si abitua.  Sì, tante volte sentiamo dire, o lo diciamo noi stessi.

Ci si abitua, lo diciamo, o lo dicono, con una serenità che sembra autentica, perché in realtà non esiste, o ancora non si è scoperto, altro modo di manifestare all’esterno con tutta la dignità possibile le nostre rassegnazioni.   Quello che invece nessuno domanda è a costo di cosa, ci si abitua.

José Saramago

bella