Chiedo silenzio…

 

Chiedo silenzio di Pablo Neruda è una delle poesie più belle del poeta cileno, un inno all’amore e alla donna della sua vita Matilde Urrutia.

Ma, soprattutto, la poesia di Neruda è una lezione sulle cose che veramente contano nella vita. C’è un momento in cui si abbandona tutto ciò che è futile banalità, seppur mascherata di grandezza, per vivere solo le cose autentiche.

Chiedo silenzio

Ora, lasciatemi tranquillo.
Ora, abituatevi senza di me.

Io chiuderò gli occhi

E voglio solo cinque cose,
cinque radici preferite.

Una è l’amore senza fine.

La seconda è vedere l’autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.

La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.

La quarta cosa è l’estate
rotonda come un’anguria.

La quinta cosa sono i tuoi occhi.

Matilde mia, beneamata,
non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io muto la primavera
perché tu continui a guardarmi.

Amici, questo è ciò che voglio.
E’ quasi nulla e quasi tutto.

Ora se volete andatevene.

Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellandomi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.

Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere.

Accade che sono e che continuo.

Non sarà dunque che dentro
di me cresceran cereali,
prima i garni che rompono
la terra per vedere la luce,
ma la madre terra è oscura:
e dentro di me sono oscuro:
sono come un pozzo nelle cui acque
la notte lascia le sue stelle
e sola prosegue per i campi.

È che son vissuto tanto
e che altrettanto voglio vivere.

Mai mi son sentito sé sonoro,
mai ho avuto tanti baci.

Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.

Lasciatemi solo con il giorno.
Chiedo il permesso di nascere.

Pablo Neruda

In questi versi c’è tutta la sensibilità che un uomo matura nel tempo ,diventando sempre più quel saggio, al quale il concetto di amore è condizione essenziale del vivere.
Pablo Neruda parla agli amici che lo circondano.
E, in Pido Silencio,esordisce manifestando la voglia di isolarsi da tutto ciò che lo circonda, per esigenza di pace interiore, voglia di rigenerarsi, di rinascita, voglia di tempo per poter godere di alcune cose .Per questo ha bisogno di una pausa dal suo quotidiano,troppo affollato da quegli impegni che gli rubano tempo alle stagioni della vita, che scorrono ,inesorabilmente perdute all’amore. Il poeta vuole vivere le cose essenziali della vita, nella sua semplicità di affetti e grandi amori come quello per la moglie Matilde, i cui occhi lo fanno continuamente innamorare e godere immensa gioia. A questa felicità non vuole rinunciare per niente al mondo.

OIG4

Ci si abitua.

Ci si abitua.  Sì, tante volte sentiamo dire, o lo diciamo noi stessi.

Ci si abitua, lo diciamo, o lo dicono, con una serenità che sembra autentica, perché in realtà non esiste, o ancora non si è scoperto, altro modo di manifestare all’esterno con tutta la dignità possibile le nostre rassegnazioni.   Quello che invece nessuno domanda è a costo di cosa, ci si abitua.

José Saramago

bella

Trovare la strada,quella giusta poi…

Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada.  Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi lì, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada?  Sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto.

Alessandro Baricco __“City”

 

dove sto

” La biblioteca di Babele”.

 

La-frase-di-Borges-sullimmortalita-della-Letteratura-1024x537

 

La frase di Jorge Luis Borges è tratta da una delle sue opere più emblematiche, La biblioteca di Babele. In questa frase, filosofia e poetica si associano per riflettere la sua profonda meditazione sull’immortalità della conoscenza e quanto l’umanità sia effimera a confronto con l’eternità unversale.

“Forse mi inganneranno la vecchiaia e la paura, ma sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi e che la Biblioteca sia destinata a permanere: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta”

Borges e la Biblioteca come metafora dell’Universo, un luogo in cui siano conservati tutti i libri e la conoscenza nota, ma anche in embrione tutta la conoscenza possibile , che si scriverebbe in ogni combinazione immaginabile di lettere e simboli. Praticamente Borges immagina che la conoscenza sia infinita, e l’ idea che la Biblioteca rimanga immutata e incorruttibile, mentre l’umanità si estingue. Il seguito di tutto questo è una montagna di interrogativi esistenziali. Dopotutto, se l’umanità coi suoi eccessi è destinata ad estinguersi , a chi potrà servire questa immensa biblioteca, se nessuno sentirà il bisogno di consultarla ?
La Biblioteca, simbolo dell’intera eredità culturale umana, potrebbe rimanere intatta, ma a quale scopo? Troppo riduttivo sarebbe erigerla a
testimonianza vuota della nostra esistenza, un monumento all’inutilità. L’immortalità della Biblioteca, in contrasto con la mortalità dell’uomo, crea una tensione tra ciò che è eterno e ciò che è temporaneo. Borges sembra suggerire che, mentre l’uomo cerca disperatamente di lasciare un segno duraturo, di costruire qualcosa che possa sopravvivere oltre la sua vita, alla fine tutto ciò può rivelarsi vano. La conoscenza, la cultura, l’arte sono tutte espressioni della nostra umanità, ma senza di noi, esse non hanno alcuno scopo. Allora perchè si stanno anche anticipando questi tempi, con il rifiuto di tutto quello che è stato cultura, non solo nei libri, ma nella realtà di un’umanità, che con noi e il nostro retaggio ha nulla da spartire. Evidentemente il destino dell ‘eterno universale è destinato, almeno per gli umani a rimanere quell’immenso vuoto in cui, per una magia quantistica ci troviamo a galleggiare, senza scopo e importanza.

Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso.

Dobbiamo fare di tutto per dimostrare la massima gratitudine. Questo è un bene nostro, allo stesso modo che la giustizia non riguarda gli altri, come comunemente si crede: gran parte ricade su se stessa. Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso. E non lo dico perché chi è stato aiutato vuole aiutare, chi è stato difeso vuole proteggere e perché il buon esempio ritorna sulla persona che lo ha dato, (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori, e se uno con le sue azioni ha insegnato che si può offendere, non trova commiserazione quando viene a sua volta offeso); ma lo dico perché ogni virtù trova in se stessa la sua ricompensa. Non la si esercita in vista di un premio: il guadagno di un’azione virtuosa consiste nell’averla compiuta.  Dimostro gratitudine non perché un altro spronato dal mio precedente esempio mi aiuti più volentieri, ma per compiere un’azione dolcissima e bellissima; sono grato non perché mi conviene, ma perché mi piace. Per renderti conto che le cose stanno così, sappi che se potrò dimostrare la mia gratitudine solo sembrando ingrato, se potrò ricambiare un favore solo sotto l’apparenza di un’offesa, con la massima tranquillità realizzerò questo giusto proposito anche a prezzo dell’onore. Nessuno, secondo me, tiene in maggior conto la virtù, nessuno le è più devoto di chi rovina la propria reputazione di uomo onesto per non tradire la propria coscienza.  Perciò come ho già detto, il dimostrare gratitudine è un bene maggiore per te che per il tuo prossimo; a lui càpita un fatto comune, di tutti i giorni, riavere quello che ha dato, a te un fatto importante, generato da uno stato d’animo di intensa felicità, aver dimostrato gratitudine. Se la malvagità rende infelici e la virtù felici, e l’essere riconoscenti è una virtù, hai dato una cosa comune e ne hai ottenuta una di valore inestimabile, la coscienza della gratitudine, che nasce solo in un animo straordinario e fortunato.

Seneca__Lettere a Lucilio___ I secolo d.C.

th gratitudine

” Dinanzi ai libri aperti parlavamo più di amore che di filosofia”.

Dinanzi ai libri aperti parlavamo più di amore che di filosofia, ed erano più i baci che le sentenze. Più ai seni che ai libri correvano le mani, e gli occhi riflettevano l’incanto dell’amore più spesso che non si volgessero alla lettura del testo. Per non suscitare il minimo sospetto talvolta la percuotevo, ma era per amore non per furore, era per piacere non per ira, un piacere più soave di qualunque balsamo. A poco a poco gustammo bramosamente tutti i gradi dell’amore, senza trascurarne alcuno e se l’amore ebbe mai il potere di escogitare piaceri insoliti noi ce li concedemmo.

Pietro Abelardo__ Lettere (inizi XII secolo).

 

abelardo ed Eloisa

 Ricordate chi era Abelardo, il consacrato del   Medio Evo, il cui amore per una fanciulla diventò un mito come quelli celebri di Dante e Beatrice,  Petrarca e Laura,  Paolo e Francesca ? Chi era Lei?

Elisewin e Adams…io e te.

Elisewin e Adams…io e te.

Leggo e rileggo. Ci sono autori verso i quali provo un ‘attrazione, una specie di innamoramento, che mi riporta a periodi sulle loro pagine. Alessandro Baricco è uno di questi, leggerlo è perdersi sempre in storie speciali i cui personaggi sono sempre persone particolari, magari eccentriche,ma mai banali , che la vita fa muovere su palcoscenici reali nel loro surreale, perchè il mondo è fatto di persone di ogni genere, tutte diverse tra loro eppure spesso accomunate da un caso che le porta a scoprirsi in incontri inimmaginati e inimmaginabili, ma quasi sempre salvifici.Ieri ho riletto per l’ennesima volta “Oceano mare” e mi sono persa ancora una volta in questo brano,dove la storia di Elisewin e Adam mi racconta la favola di una ragazzina e di un uomo più grande, che il destino ha legato per sessant’anni e che non riesco a dimenticare…

 

https://youtu.be/a-mLBHN7vFw CLICCA L’IMMAGINE

Nelle terre di Carewall, non smetterebbero mai di raccontare questa storia. Se solo la conoscessero. Non smetterebbero mai. Ognuno a modo suo, ma tutti continuerebbero a raccontare di quei due e di un’intera notte passata a restituirsi la vita, l’un l’altra, con le labbra e con le mani, una ragazzina che non ha visto nulla e un uomo che ha visto troppo, uno dentro l’altra – ogni palmo di pelle è un viaggio, di scoperta, di ritorno – nella bocca di Adams a sentire il sapore del mondo, sul seno di Elisewin a dimenticarlo – nel grembo di quella notte stravolta, nera burrasca, lapilli di schiuma nel buio, onde come cataste franate, rumore, sonore folate, furiose di suono e velocità, lanciate sul pelo del mare, nei nervi del mondo, oceano mare, colosso che gronda, stravolto – sospiri, sospiri nella gola di Elisewin – velluto che vola – sospiri ad ogni passo nuovo in quel mondo che valica monti mai visti e laghi di forme impensabili – sul ventre di Adams il peso bianco di quella ragazzina che dondola musiche mute – chi l’avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano – accarezzando le gambe di una ragazzina si possa correre così veloci e fuggire – fuggire da tutto – vedere lontano – venivano dai due più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l’universo, e invece nemmeno si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è il meraviglioso – questo continuerebbero a raccontare, per sempre, nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai – lontani abbastanza – per trovarsi – lo erano quei due, lontani, più di chiunque altro e adesso – grida la voce di Elisewin, per i fiumi di storie che forzano la sua anima, e piange Adams, sentendole scivolare via, quelle storie, alla fine, finalmente, finite – forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano – e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore, sesso, sapore – tristezza, forse – perfino tristezza – desiderio – quando lo racconteranno non diranno la parola amore – mille parole diranno, taceranno amore – tace tutto, intorno, quando d’improvviso Elisewin sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell’uomo dentro, gli afferra le mani e pensa: morirò. Sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell’uomo dentro, gli afferra le mani e, vedi, non morirà.

Alessandro Baricco, (da) “Oceano Mare”, 1993.

 Sunset Taverna

Ero stata in vacanza a Stavròs diverse estati prima. Quante, mi era impossibile stabilirlo ragionevolmente: mi veniva da dire «appena un paio» e «cento almeno» ed entrambi i conti mi sembravano tornare. Un motivo c’era. Tra la scoperta dell’Akrotiri e il ritorno in quella zona dell’isola di Creta, stava lunga distesa una forma, vuota e trasparente come la muta di una serpe, una fragile spoglia fantastica che avevo abbandonato a un certo punto, e che pure ero io: ancora, non più. La sentivo sotto i piedi, attraverso i sandali sottili, mentre camminavo sulla spiaggia nella mia pelle nuova. La calpestavo e lei si sbriciolava, arrendevole, come si erano sbriciolate al vento, al sole, all’acqua, chissà quante pietre e conchiglie, tutte cose dure e solide; altro che la vita.

Ero diretta verso la grande taverna, sempre piena di luci e di festa che, me lo ricordavo bene, stava fuori dal perimetro del Blu Beach. Mi lasciavo alle spalle i villini bianchissimi, sparpagliati a monte della piscina e del bar, svuotati e immobili a quell’ora, nel sortilegio del primo pomeriggio di luglio. Avevo verificato: era rimasto tutto come allora. Potevo dunque proseguire la mia missione fuori dal villaggio.

Mentre affondavo nella sabbia e sudavo sotto il sole greco, mi sentivo di nuovo la bambina che giocava a fabbricarsi in testa scenari avventurosi, affannandosi in pochi metri di mondo, che diventavano il suo vasto dominio. Intanto, sorrideva non vista: nessuno dei grandi aveva minimamente idea di quello che stava accadendo, che era lì lì per accadere, di emozionante, di straordinario… Poveri sciocchi. Quella volta, però, l’unica grande in giro ero io e mi sorrideva il mare, che la sapeva più lunga di me.

Superato un piccolo schieramento di sdraio vuote e ombrelloni chiusi, passata una baia d’acqua purissima, raccolta da due bordi di rocce come in un palmo, ero arrivata su quella frangia estrema di litorale occupato dalla taverna del Tramonto, detto però in inglese, Sunset, che fa subito un altro effetto. Non avevo più pensato al nome e mi tornava così, sul posto, dove, a considerare bene lo spettacolo che avevo di fronte, mancava tutto tranne la possibilità del tramonto.

Del locale erano infatti rimasti solo i muri e le fondamenta, uno zoccolo di calcestruzzo di circa tre metri e, sopra, uno spazio ampio, rettangolare, interrotto da colonne, totalmente aperto sul lato lungo, a oriente, chiuso sugli altri tre da muri coperti di graffiti, da angoli piastrellati; forse la vecchia cucina, i bagni. C’erano ancora segni di sanitari e tubature divelti. Dai tre finestroni a ovest e a nord, il mare si sporgeva a guardare dentro. Si rammentava degli ospiti che, fino alle prime ore del mattino, ogni sera, rimanevo a fissarlo nel buio, buttando, mezzi ubriachi, mezzi felici, i sassi invisibili dei loro desideri a fiore d’onda, a rimbalzare tra i riflessi della luna.

E tra gli ospiti, mi veniva in mente, sulla veranda, in un angolo, una ragazza con un vestito bianco sopra il ginocchio, le spalle scoperte. Stava seduta sull’orlo di una sedia. Accanto, un tavolo ancora mezzo ingombro di piatti e bicchieri, musica greca tutto intorno. Allungava le gambe abbronzate, come se dovesse scivolare via, le caviglie intrecciate, i piedi nudi. A poca distanza da lei si ballava. Il personale della taverna aggirava con destrezza, per nulla infastidito, il cerchio che si era formato in mezzo al locale e che girava vorticoso, per poi fermarsi e incitare qualcuno al centro, impegnato in un a solo. Quello che sembrava l’oste, intanto, girava tra i clienti in maniche di camicia. Ogni tanto si voltava a guardare lo spettacolo e batteva le mani a tempo. Poi riprendeva le sue visite. Parlava in greco coi greci e in un inglese che diventava greco a forza di suoni scivolati e aspirati, di occhiate e alzate di mento, con gli altri ospiti.

La ragazza con il vestito bianco guardava due ballerini, due ragazzi sui vent’anni, come lei. Erano i più bravi e più chiassosi. Anche loro, tra un salto, uno schiocco di mani e un opa, la guardavano. Anzi, ballavano per lei, perché era molto bella e loro pure. Quando si accorgeva dei loro occhi, si girava e si metteva a parlare con qualcuno, coperto dalla folla, sorridendo improvvisamente, da seria che era un attimo prima; o rovesciava la testa indietro, sullo schienale della sedia, e si stirava annoiata. Fissava la luna capovolta, mentre il vestito scendeva sul seno e saliva sulle gambe. In una pausa dei balli, me lo ricordavo bene, erano scesi insieme dietro la taverna, sugli scogli, senza parlare. Degli amici si sbracciavano a chiamarli, dalla spiaggia. Forse li avrebbero raggiunti.

Quella sera io tenevo in braccio mia figlia ancora piccola. C’era anche mia madre, più giovane. Aveva ballato anche lei. Il vino bianco resinato, servito freschissimo, le aveva impedito di opporsi al genero, che la voleva a tutti i costi nella mischia. Io ero rimasta seduta a guardarli per un po’. Poi eravamo andate via. Era l’ora di dormire. Avevamo attraversato da sole la baia, la spiaggia attrezzata, per salire fino al nostro villino bianchissimo. Dall’altra parte della taverna i ragazzi forse facevano il bagno.

Non ero mai stata dall’altra parte. Così ho aggirato quel grande involucro vuoto e ho trovato, svoltando a sinistra, un altro muro scrostato, un altro tag; ma non un disegno, una frase in corsivo greco: Abbiamo scritto con lo spray il nostro amore per rendere famosi questi muri, ti ricordi?
Sì, mi ricordavo.
– Mamma, ma cosa fai? – La voce di mia figlia arrivava da dentro.
– Arrivo – risposi d’istinto e tornai dentro. La trovai a gambe divaricate e braccia conserte in un fascio di luce che entrava da un finestrone. Aveva lo sguardo corrucciato di una super eroina adolescente ed era incantevole. Sfidava così tutto quel cumulo di rovine, quel tramonto in un primo pomeriggio di luglio.
– Ma com’è che mi hai trovata? – chiesi.
– Guarda che non è mica così lontano. Dalla piscina ti vedevo che camminavi… Voglio fare il bagno. Dai, vieni, che non c’è ancora nessuno. Mi annoio da sola -.
Saltò giù dallo zoccolo di calcestruzzo e si avviò attraverso la piccola baia. Io dietro a lei.

La taverna aveva chiuso qualche anno prima; quanti, nessuno del Blu Beach sapeva dirlo con esattezza. Dovevano essere molti visto lo stato di abbandonato del luogo. Eppure, non erano convinti che fosse passato effettivamente molto tempo. I due soci avevano litigato, uno se ne era andato, l’altro non ce l’aveva fatta a fare fronte da solo a tutte le spese … C’era dietro una faccenda d’amore, c’entrava una donna, assicurava la signora del bar, alzando gli occhi al cielo. I camerieri annuivano, non credo perché ne sapessero qualcosa. La storia pareva loro verosimile. Anche a me, dopo tutto.

Il giorno dopo, alla stessa ora, tornai alla taverna, spoglia fantastica, fragile che avevo abbandonato e che stava là, a tramontare in pieno sole. Eppure, sì, mi ricordavo altre forme, spazi, ore. Mi confondevo in mezzo a tutti i personaggi di una festa d’estate. La spiaggia deserta sull’Akrotiri era fatta dei granelli di una gigantesca clessidra che si era rotta.

Francesca Sensini
sunset taverna

   Illustrzione  Lavinia Fagiuoli

Francesca Sensini è in libreria con “Afrodite viaggia leggera”, Ponte alle Grazi

Camilleri e De Crescenzo scrittori pop, non giganti..

Nella stessa settimana di mezza estate, un luglio di cinque anni fa, il Sud, l’editoria italiana e la letteratura popolare persero due grandi pop-writer e due figure pubbliche con grande seguito: Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo. Entrambi hanno reso più accattivante il sud, i suoi linguaggi, il suo modo di vivere e di pensare, la Sicilia di Camilleri e la Napoli di De Crescenzo. La sorte ha dato a Camilleri il privilegio di vivere una lucida e riverita vecchiaia, ha recitato per vent’anni il ruolo di Grande Vecchio e di Oracolo Siculo della Tv e delle Lettere. Invece ha dato a De Crescenzo un ventennio di declino e di ritiro dalle scene pubbliche per ragioni di salute. Ricordo vent’anni fa a una cena De Crescenzo si presentò esibendo un biglietto preventivo di scuse perché non riconosceva i volti delle persone, anche a lui note o addirittura amiche. I primi tempi si pensò a una spiritosa trovata dello scrittore, che conoscendo molte persone non ricordava i loro nomi e dunque era un modo gentile e simpatico per scusarsi in partenza della distrazione e non passare per superbo e scostante. In realtà soffriva di prosoagnosia, una malattia seria.

Entrambi sono stati scrittori assai popolari, e l’uno deve molto alla traduzione televisiva dei suoi romanzi, l’altro al cinema e alla partecipazione attiva nella simpatica scuola meridionale di Renzo Arbore. De Crescenzo si tenne sempre lontano dalla politica e dalle ideologie, si definì monarchico, indole di destra ma votante a sinistra, un po’ ateo e un po’ cristiano, ma preferì non mischiarsi nelle vicende della politica. Camilleri invece da anni ormai aveva assunto il ruolo di testimonial della sinistra, si era schierato apertamente in modo radicale, con qualche nostalgia del comunismo e un’antipatia viscerale che tracimava nell’odio verso Berlusconi ieri e verso Salvini di recente, fino alla famosa dichiarazione del vomito. Ma per giudicare un autore si deve avere l’onestà intellettuale e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nella letteratura. A questo criterio ci sforziamo di attenerci, ma l’aperto schierarsi di Camilleri gli è valso da morto una glorificazione veramente esagerata. Mentre De Crescenzo ha avuto un trattamento sottotono.  Eppure De Crescenzo, oltre a riabilitare con arguzia il sud, aveva avuto il merito non secondario di aver reso simpatica e popolare la filosofia a tanti, e soprattutto la filosofia antica. Aveva reso famigliare la figura di Socrate, i presocratici, lo Zarathustra nietzschiano, stabilendo un ponte con la Magna Grecia. I professori di filosofia trattavano con sussiego De Crescenzo, come se fosse un abusivo del pensiero e un profanatore della filosofia: ma lui non ha trascinato in basso la filosofia, ha innalzato il lettore comune facendogli scoprire e amare la saggezza dei filosofi. Lui è stato un campione amabile di filosofia pop. Quanti accademici contemporanei hanno allontanato i lettori dalla filosofia, coi loro linguaggi involuti che nascondevano scarsa originalità e più scarso acume. Allontanavano la gente senza avvicinarsi alle vette del pensiero. Meglio De Crescenzo a questo punto…

Dal canto suo Camilleri è stato uno scrittore di talento, ha inventato un suo linguaggio gustoso e simil-siciliano, ha scalato le classifiche librarie quanto e più di De Crescenzo, anche perché la narrativa tira più della saggistica, le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo, aiutato dal successo televisivo di Montalbano che è una delle fiction più vendute nel mondo.  Ma i necrologi agiografici, gli infiniti servizi dedicati dai tg, i paragoni con Pirandello e Verga, e perfino con i classici, non gli hanno reso un buon servizio.   Quando muore un personaggio pubblico bisogna rispettare la memoria e difenderlo dai suoi detrattori come dai suoi esagerati incensatori. Camilleri intrigava con le sue trame, sapeva gigioneggiare in video e sul palco, col suo tono da cassandra sicula e l’aura istrionica del vegliardo, assumendo un ruolo ironico-profetico. Grande affabulatore. Sul piano civile, sbandierava l’antifascismo, seppure molto postumo, ieri antiberlusconiano, poi antisalviniano. Una polizza per farsi incensare, come era già avvenuto in vita, e come è avvenuto in morte. Era uno scrittore bravo, un giallista e un autore di polizieschi di successo, non un Gigante, non il Grande Scrittore che entra nella storia della grande letteratura. Non esagerate, Camilleri rimane nella bestselleria corrente e nella personaggeria di scena del nostro tempo. Non rendetelo ridicolo, paragonandolo a Pirandello e Verga e pure a Sciascia. E’ come se negli anni trenta avessero paragonato Guido da Verona e Pitigrilli, autori di successo e di talento, a D’Annunzio e Pirandello. Via, abbiate senso della misura e delle proporzioni. Non mettetegli pennacchi e aureole, abbiate rispetto di un morto; lo scrissi allora sui social e oltre a una marea di consensi ricevetti insulti isterici dai suoi fan, che sono spesso lettori di un solo autore, non hanno termini di confronto, e credono che leggere Omero o Camilleri, Proust o Saviano sia la stessa cosa. La mia polemica non era rivolta contro Camilleri ma contro chi lo usa per scopi politici e lo innalza a tal punto da rendergli un cattivo servizio. Sappiate distinguere il successo dalla gloria, il cantastorie dalla storia, il “colore” dal pensiero. Pirandello descrisse a teatro la condizione dell’uomo contemporaneo, la perdita delle verità, l’avvento del relativismo; Camilleri seppe intrattenere, piacevolmente, migliaia di lettori e milioni di spettatori. Sono due cose diverse. Camilleri non è Pirandello, e De Crescenzo non è Benedetto Croce. Lo dico per difendere la verità e la memoria di ambedue, De Crescenzo e Camilleri.

Marcello Veneziani                                                                                      

Al mondo tutto è possibile…

 

E l’uomo allora disse:

“La verità sul mondo, è che tutto è possibile. Se non l’aveste visto tutto fin dalla nascita e quindi non  lo aveste deprivato della sua stranezza vi sembrerebbe per quello che è, una tripletta in uno spettacolo di medicina, un sogno febbrile, una trance che si anima di chimere che non hanno né analogie né precedenti, un carnevale itinerante, un tendone migratorio la cui destinazione finale, dopo molti passi in molti campi fangosi , è indicibile e piena di pericoli oltre ogni calcolo.
L’universo non è una cosa con confini  ,e l’ordine al suo interno non è vincolato da alcuna latitudine nella sua concezione al fatto che si debba ripetere ciò che esiste là in qualsiasi altra parte. Anche in questo mondo esistono più cose fuori dalla nostra conoscenza , come l’ordine ,nella creazione che vedete  , è solo quello che avete messo lì, come una corda in un labirinto, in modo da non perdere la strada. Perché l’esistenza ha il suo ordine e la mente di nessun uomo può orientarla come vuole, poichè la mente stessa non è altro che una casualità fra tutte le altre.

Cormac McCarthy,  Meridiano di sangue, o,  Il rossore di sera nell’ovest-

 

th (1)