La luce della luna
Accadde durante quell’estate in cui il cielo pareva un fondale usurato, e le stelle non si vedevano mai, divorate dalle nubi di diossina sprigionate dagli incendi dei magazzini accanto al porto e sulle colline attorno alla città, e la luna invece si, ma simile a un disco opaco e dalla televisione e sui giornali raccontavano che qualcuno ci avesse perfino messo piede quarant’anni prima, proprio tra quei crateri e quelle montagne, in mezzo a quella polvere che lei supponeva finissima, sabbia d’argento a rilucere tra tutto il nero dell’universo.
Fu in quell’estate tanto spasimata – impressa come una decalcomania sui vetri freddi di altre stagioni cariche di piogge, e di mulinelli di foglie marcescenti, quell’estate che lei aveva invocato a lungo, finanche nelle nuvole grevi, e nella fatica dei giorni corti nei quali il buio arrivava troppo presto – e che come tutte le cose che troppo furiosamente si desiderano risultano alla fine belle unicamente nell’attesa.
Fu proprio in quell’estate, insomma, che i piccioni decisero di fare il nido sul tetto di onduline del ricovero delle biciclette, quello a cui si accedeva attraverso una porticina che dall’androne conduceva al cavedio dell’edificio (immaginate una stanzuccia cava, delimitata da muri e tappata da un tetto improvvisato. Tutto questo si vede però solo nell’entrarvi).
Dalle finestre che si aprivano su quello spazio, nell’affacciarsi, si ravvisava appena la copertura e anche se ci si sporgeva, e si tentava di guardare verso l’alto, il cielo no, non si poteva scorgere. Sopra quel tetto, in uno dei quattro angoli, fuscelli, steli, radici, in un’imprecisa corona d’accoglienza. Ci fu un continuo frullare d’ali nel cavedio, un tubare serrato, un chioccolio, e la sua disattenzione fu redarguita dai suoi gatti che iniziarono a sostare sotto la finestra del corridoio che dava sul cavedio e che lei non apriva mai.
Era come se li vedessero attraverso i muri, arricciando i musi in certi vibranti miagolii d’appostamento.
Fu per questo che se ne accorse e li scoprì e prese a osservarli.
Dalla prima covata sbucarono due uccelletti grigiastri. Lei si era persa la schiusa, ma si ritrovò comunque a monitorare la crescita veloce dei due volatili sgraziati, l’andirivieni della coppia adulta, il maschio e la femmina, che arrivavano a nutrire i piccoli in un trepestìo di passetti sulle onduline, un serrato sbatter d’ali col sottofondo di un pigolio d’urgenza e, in seguito, le prime goffe prove di volo.
Quando furono pronti a lasciare il nido semplicemente non ritornarono più.
Dopo pochi giorni al centro di quell’aureola scomposta intravide il biancore di un altro paio d’uova, lucide e lisce. I due piccioni adulti ripresero ad andare e venire. Nei momenti in cui erano incustoditi, dagli ovetti pareva risalisse un grido. Erano fragili ed esposti. Erano due occhi che si infiggevano nei suoi. E per quanto cercasse di ancorare lo sguardo altrove, sul bicchiere di plastica caduto inavvertitamente da qualche finestra e che ora ballonzolava sul tettuccio, su un cencio, su una cartaccia, dentro quel bianco e dentro quel grido, ci rifiniva sempre.
Si schiusero.
Sono brutti i piccoli di piccione, d’un grigio scuro e col collo troppo lungo, il becco enorme che prende il sopravvento. A pensare d’averli tra le mani, si può fantasticare d’avvertire una compattezza d’ossa di cartone, e il pulsare velocissimo di un cuore che sa le distanze del cielo.
I due piccioni adulti a un certo punto non tornarono. In città è così facile che muoiano.
Dei piccoli, ne sopravvisse uno.
E quell’unico pullo sulla tettoia diventò un peso insostenibile. Lei lo sapeva là. Lo sentiva pigolare. Nella pioggia. Nella notte. Tentò di nutrirlo, lanciando semi, ma il piccolo piccione sembrava come smarrito.
In quel buco inaccessibile e circondato da mura altissime, il piccolo piccione non poteva neppure vedere la luna. C’era un momento in cui la sua traiettoria raggiungeva uno zenit? Lei non lo sapeva. Immaginava piuttosto gli occhi del piccolo uccello solitario, così neri e mesti, rifrangerne la luce lattescente. La lucentezza della stessa luna sulla quale, alla televisione e sui giornali, si diceva che, quarant’anni prima, qualcuno ci avesse perfino messo piede. In quegli occhietti, due spilli scuri, ci finiva allora il lato buio, quello nascosto alla vista, le impronte dei passi sulla polvere finissima, la materia che diventa vulnerabile e imperfetta.
Piume e ossa, esposte alle intemperie. Un cuore, che conosce le distanze del cielo, a battere velocissimo sotto una luce che è soltanto rifrazione. Tremava, quell’uccello? Lei, chissà perché, supponeva che tremasse e, in qualche modo che non avrebbe saputo spiegare, avrebbe detto che era, quel tremito, lo stesso suo.
Piera Ventre è in libreria con «Stella randagia» (NN editore)
Illustrazione di Benedetta C. Vialli







