La salvezza di Napoli è nella favola…

 

 

 

Napoli si salva solo nel mito mentre è dannata nella realtà. Non è un paradiso abitato da diavoli, come diceva Benedetto Croce, citando Goethe. Perché ha l’inferno sotto casa. Persino Galileo Galilei localizzava la porta dell’inferno nei Campi flegrei, a due passi dalla città; il lago d’Averno dantesco si trova lì. Non a caso la guida di Dante all’inferno, il suo tassista d’eccezione, è un napoletano d’adozione, Virgilio, che evidentemente conosceva i posti infernali. Il Vesuvio, il fuoco, lo zolfo, un paesaggio infernale sotto la buccia amena di un eden baciato dal sole, dal cielo, dalla natura. Napoli è un paradiso poggiato sull’inferno, un roof garden sull’abisso; i suoi abitanti sono poveri diavoli, anche quando sono furbi e ingannatori. Perché alla fine vivono peggio degli altri, anche se magari sognano di più, grazie al mito e alla loro indole festosa e fantasiosa.
Pensavo a Napoli come mito sotto l’effetto ammaliante del film Parthenope di Paolo Sorrentino. Amo i suoi film, i dialoghi, la fotografia, le sequenze, le musiche, l’atmosfera, quando entra nella sfera del favoloso, del sogno, della fantasia coinquilina della realtà. E Parthenope ne riflette lo splendore, con pochi punti down. Il film naviga come una fiaba smaliziata nella mitologia napoletana, anche più recente: da Achille Lauro, o’Comandante, a Sophia Loren, da Maradona alla stessa Partenope, nata come Afrodite dall’onda del mare. Di vertiginosa, incantevole bellezza, pericolosa e in fondo impenetrabile come una Sirena. Da perdere la testa. Anche nella realtà l’attrice ha le generalità di un mito, si chiama Della Porta Celeste.
Don Achille è il pascià di una Napoli ricca e potente ma in fondo generosa, empatica col suo popolo e la sua città. Maradona è il mito sotto traccia di Sorrentino come ne È stata la Mano di Dio. A Sophia Loren, rappresentata nella sua volgarità venale e nel suo carisma di diva, è affidato invece il discorso più terribile su Napoli e sui napoletani. Il mito vivente si rivolta contro la realtà della sua città e del suo popolo. Altre figure incontra Partenope, lo scrittore americano, il cardinal blasfemo, il riccone, il professore misantropologo; amori inesplicabili, casti e profanatori. L’amore di Sorrentino per la sua città non lo acceca, anzi gli dona una spietata vista: se nella realtà Napoli è una brutta chiavica nella visione affascina il suo splendore e la sua saudade che la rendono inimitabile, cioè mitica.
Forse non è solo Napoli a salvarsi nel mito, ma il sud, e perfino l’Italia intera, una volta perduta la storia, la realtà, la natalità. Anche se vedendo ora Roma né il mito né la storia né la cristianità riescono più a sollevarla da quella decadenza senza gloria; obesa di turisti e lurida, malata e rattoppata, insozzata e paralizzata. Il Giubileo tra due mesi sembra esserne l’estrema unzione.
Roma e Napoli sono come il latino e greco, due lingue morte, seppur gloriose. Parthenope, giusto il nome, è la nostra grecità rispetto alla romanitas; ma una grecità turchina, turchese, infiltrata da un aroma turco, un nonsoche di orientale, bizantino e musulmano, ma temperato dall’irridente scetticismo dell’indole napoletana. Il turco napoletano non è solo un film di Totò ma una mezza vocazione napoletana. Non è un caso che a sollevare il velo di Napoli sia stato un regista turco come Ferzan Ozpetec, con Napoli velata. Anche Mario Martone, con Nostalgia, ha raccontato una Napoli buia, intima e torbida sotto la buccia del mito e il suo canto ammaliatore.
Se il cinema ha reso attraente la Puglia attraverso lo splendore bianco della sua luce, dei suoi paesi, tra campagna, cucina e mare, il cinema restituisce la regalità a Napoli attraverso il mito, che è insieme nostalgia, sapienza di velare e svelare, fascinazione e mistero. Anche torbido, e violento.
E poi tutto quell’universo brulicante sotto la sua superficie che proviene dal mondo magico dei munacielli e degli scazzamurielli, delle santarelle e della pezzentelle, dei femminielli e dei malommi; e costeggiando il mondo dei morti, delle cape gloriose e delle capuzzelle, le anime d’o’ purgatorio; e le megere, gli iettatori, la mitologia urbana, tra figure che spiccano per la loro eccentrica singolarità ma recitano sempre una parte in commedia; sono tipi, se non maschere. Un teatro dal vivo, e anche dal morto, in certi casi. Napoli ha persino un suo dio apposito, san Gennaro, con poteri straordinari; quel santo taumaturgo e sanguinante che per Alexandre Dumas “è il vero dio di Napoli”. Insomma Napoli oltre che un inferno ad hoc ha anche un dio tutto suo.
Perché “la realtà è deludente” e per sopportarla, e farsela piacere, occorre darsi alla favola, al miracolo. E quando non è possibile, meglio arrendersi alla natura, al sole, al mare, e ai suoi figli. Come Partenope o come il figlio d’o’ professore, un immenso, bianco chiattone mitologico fatto di acqua e sale; un enorme frutto di mare, una balena ridente, spiaggiata in salotto a vedere la tv, un monstrum che suscita meraviglia e paterno, fraterno affetto.
Gli dei napoletani, a differenza di quelli siciliani, di cui parlava Tomasi di Lampedusa, non si prendono mai sul serio, sanno ridere, capiscono di non abitare nell’Olimpo ma in condominio, non sono pugnaci come i pupi siciliani ma salaci come Pulcinella. Non prendono sul serio la vita, non si battono per l’onore, nonostante la guapparia; ma cercano il modo migliore per aggirarla, coglionarla, e sopravvivere allegramente ai morsi della fame e alle pernacchie della farsa.
Il mito preserva la giovinezza, a cui questo film è dedicato; la giovinezza vissuta come sospensione favolosa del tempo e trasfigurazione magica della realtà. Poi la vecchiaia è il ritorno al reale.
Lasciatevi catturare dal fascino di lei, Parthenope. Io ne sono stato stregato e ho vissuto con lei una storia d’amore unilaterale per due ore. Ho amato il suo sguardo, i suoi sorrisi, il suo corpo, le sue movenze, le sue pronte risposte, la sua sfuggente, venerea lievità. Avrei detto anch’io a lei, come le dice o’Comandante: “se avessi quarant’anni di meno mi sposeresti?” Ma già conosco l’astuta risposta: “E se li avessi io quarant’anni in più mi sposeresti?”. Eccoli, i raggiri del tempo, gli amori beffardi perché non combacianti, le non coincidenze fatali sui binari divergenti del caso.
L’unico riscatto è nel mito. E il fascino vero del cinema, al di là delle menate ideologiche e degli stereotipi ossessivi di oggi, è nella sua capacità di suscitarlo. Cantami o diva….

Marcello Veneziani 

Sangiuliano martire o marpione?

 

 

Sono amico di Gennaro Sangiuliano, attuale ministro della cultura, e perciò non mi sembra elegante difenderlo o attaccarlo per la vicenda che riguarda Maria Rosaria Boccia. Se fossero in ballo questioni importanti o risvolti penali il criterio sarebbe diverso; ma fino a prova contraria, si tratta di una questione di (in)opportunità e di (mal)costume. Non entrerò dunque nel merito della vicenda. Su quel che ha scritto l’altro giorno su La Verità Mario Giordano si può essere d’accordo o in disaccordo ma si deve oggettivamente riconoscere la libertà di giudizio di Giordano e de la Verità: niente sconti, indulgenze e compiacenze nel valutare l’operato di un ministro del governo Meloni. Io vorrei invece fare alcune notazioni di ordine generale.

L’osservazione preliminare è che il potere è da sempre assediato e insidiato da arrampicatrici e arrampicatori. Sarebbe facile poi ricordare casi gravi ma sottaciuti di familismi o di favoritismi da parte di ministri e politici del centro-sinistra; carriere nel segno e nel nome della parentela e dei legami affettivi, oltre che dell’affiliazione e dell’appartenenza ideologica e politica. Non è una novità, anzi: la novità semmai è il rilievo dato a questa vicenda e la morbosa attenzione.  Ma quando gli accusatori di Sangiuliano sollecitano l’intervento e le indagini di magistrati e Corte dei conti, oltre le interrogazioni parlamentari in merito, a me sovviene un capitolo ministeriale passato indenne e inosservato perché investiva direttamente governi, ministri ed esponenti del centro-sinistra. Riguarda il cinema, visto che ci troviamo nei giorni del Festival del Cinema di Venezia.  Prima che arrivasse il governo Meloni correvano lauti finanziamenti pubblici e sostanziose agevolazioni fiscali a film, autori, registi e produttori di nessun valore culturale e di vistoso fallimento commerciale. Finanziamenti a pioggia, milionari, su film flop, e agevolazioni disinvolte in virtù della cosiddetta tax credit. Solo nel 2022 sono stati erogati circa 850 milioni di euro, e sulla stessa lunghezza d’onda stavano procedendo nel 2023, fino a che c’è stato il cambio di governo. Tra i vari casi ne vorrei ricordare uno, particolarmente assurdo e particolarmente dimenticato dalla grande stampa e dai media. Mi riferisco ai film Te l’avevo detto e Magari di Ginevra Elkann, sorella di John (e di Lapo) e figlia di Margherita Agnelli. Quando era ministro della cultura Dario Franceschini lo Stato ha buttato via quasi tre milioni di euro per finanziare due opere che furono un assoluto flop e che non avevano alcun particolare pregio culturale. La regista della famiglia Agnelli-Elkann, ex Fiat, ricevette per la precisione 2.828, 044, 32 euro tra crediti d’imposta e contributi a fondo perduto. Un film incassò appena 117 mila euro nelle sale. L’altro, precedente, era andato ancora peggio: aveva beneficiato di oltre un milione di euro ma aveva incassato in sala appena 12 mila euro, con l’attenuante in quel caso che era uscito al tempo del covid. Non vi parlo della preistoria ma di ieri, risalgono agli ultimi tempi della lunga gestione Franceschini del Ministero della Cultura. Lo stesso ministero che non aveva ritenuto di sostenere il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, poi esploso nelle sale e nei media.   Ma in questo caso, oltre l’ispirazione “progressista” del film e dell’autrice, c’è da sottolineare che i soldi pubblici sono andati a sostenere l’opera di una persona proveniente dalla dinastia degli Agnelli-Elkann e dell’impero Fiat, azienda già nota per aver scaricato sul pubblico le perdite private e aver beneficiato di incentivi e ammortizzatori statali; mentre si statalizzavano le perdite si continuavano a privatizzare i profitti; fino al paradosso di un’azienda-simbolo dell’Italia che batte bandiera straniera, anche sul piano fiscale, salvo usare ancora il marchio italiano.

Ma torniamo al cinema. Quanti autori magari di qualità ma senza mezzi economici adeguati, sono stati dimenticati per destinare invece il sostegno pubblico a chi potrebbe farne a meno? I soldi vanno ai ricchi, ai figli o amici dei potenti, anche se i loro film sono dei clamorosi flop non solo in sala: una logica che ben si sposa con l’universo radical chic e col mondo editoriale controllato dalla famiglia suddetta. E quando i media nostrani o della Casa sono costretti a occuparsi del capitolo scabroso e imbarazzante dei finanziamenti pubblici sbagliati, riescono a fare l’esempio di Saverio Costanzo, figlio di Maurizio Costanzo, che pure ha fatto qualche film di qualità, ma non “osano” nemmeno citare il caso Elkann.

Allora io dico: ma come, stiamo cercando di vedere se da qualche parte, magari in un pernottamento o in un viaggio siano stati spesi soldi pubblici per una vera o presunta consigliera del ministro Sangiuliano, senza titoli adeguati per coprire questo incarico, mentre si tace di vistosi, enormi sperperi e di veri favoritismi e familismi. S’invocano magistrati e corte dei conti su eventuali “spiccioli” pubblici spesi in modo improprio e passano inosservati milioni di euro sperperati, per giunta neanche per sostenere il cinema povero e alternativo; ma aiutando la rampolla di una dinastia potente che ha imperato per decenni nel nostro Paese. A Sangiuliano non si perdona, tra l’altro, di aver fermato questo sperpero, aver imposto un tetto ai finanziamenti statali e aver agganciato i sostegni pubblici ai risultati effettivi di mercato, limitando ai film di elevata qualità artistica la corsia preferenziale degli aiuti governativi. Una scelta di buon senso che deve aver ulteriormente acuito l’odio nei suoi confronti. Naturalmente ogni storia va giudicata in sé e per sé, una vicenda non lava l’altra, e va riportata alle sue reali proporzioni; e non interferisce con un giudizio complessivo sull’operato e l’esposizione mediatica di Sangiuliano e sul profilo culturale. Ma la disparità vistosa e disgustosa nei giudizi e nel rilievo dato ai fatti e alla loro gravità dimostra ancora una volta il retrobottega del potere culturale in Italia, l’intolleranza faziosa e l’omertà mafiosa quando si tratta di robe di “cosa nostra”. Malignità finale sul malcelato bigottismo che aleggia su questa vicenda: ma se Sangiuliano avesse avuto come suo consigliere e accompagnatore un transgender, un gay o un migrante, i bigotti indignati avrebbero chiuso almeno un occhio?

Marcello Veneziani

Chi ha inventato il Festival del cinema di Venezia e perché?

La Mostra del cinema di Venezia, inaugurata il 6 agosto 1932, fu il primo festival cinematografico al mondo: venne finanziata dal conte Giuseppe Volpi per rilanciare il Lido.

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Tra le eredità del Ventennio fascista c’è anche la Mostra del cinema di Venezia. Inaugurata il 6 agosto 1932 in occasione della Biennale d’arte, che all’epoca aveva già 39 anni di vita, fu il primo festival cinematografico al mondo. La prima edizione, non competitiva, si svolse sulla terrazza dell’Hotel Excelsior al Lido di Venezia. La seconda edizione si svolse due anni dopo, perché legata alla cadenza della Biennale, dal 1º al 20 agosto 1934. A partire da quest’edizione le nazioni in gara erano 19. Già dalla terza edizione, 1935, la manifestazione divenne a cadenza annuale.

Il conte ministro. L’idea di una rassegna cinematografica internazionale l’aveva avuta Luciano De Feo, direttore dell’Istituto Luce e fu appoggiata dal conte Giuseppe Volpi di Misurata (1877-1947), ministro delle Finanze dal 1925 al 1928, e all’epoca direttore della Biennale di Venezia. Il conte, che era diventato ricchissimo grazie anche alle concessioni sulle coltivazioni di tabacco in Montenegro, voleva infatti rilanciare le fortune del Lido di Venezia.  Una rassegna cinematografica “quasi libera”. Benché il suo scopo fosse valorizzare le pellicole italiane (nel 1937 fu premiato Scipione l’Africano) e affermare la supremazia dei nostri film su quelli hollywoodiani, negli Anni ’30 la mostra rappresentò l’unica occasione di vedere film di generi diversi, tra cui autentici capolavori del cinema straniero, opere americane, sovietiche, francesi mai proiettate in Italia. L’Oscar italico. La prima edizione non prevedeva premi, ma dal 1934 fu istituita la Coppa Volpi per i migliori interpreti maschile e femminile. Un “Oscar” italiano che si assegna ancora oggi.

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Addio Alain Delon..

Macron: ‘Delon più che una star, un monumento francese’. Claudia Cardinale: ‘Il ballo è finito’
“Mister Klein o Rocco, nel Gattopardo o il Samurai, Alain Delon ha interpretato ruoli leggendari e ha fatto sognare il mondo – ha scritto su X il presidente francese Emmanuel Macron ricordando Alain Delon -. Prestando il suo volto indimenticabile per stravolgere le nostre vite. Malinconico, popolare, segreto, era più che una star: era un monumento francese”.

“Il ballo è finito. Tancredi è salito a ballare con le stelle…per sempre tua, Angelica”: rivivendo un’ultima volta le storiche scene che li videro indimenticabili protagonisti de “Il Gattopardo”, Claudia Cardinale affida all’ANSA le sue ultime parole per Alain Delon. “Mi chiedono parole – dice – ma la tristezza è troppo intensa. Mi unisco al dolore dei suoi figli, dei suoi cari, dei suoi fan… Il ballo è finito. Tancredi è salito a ballare con le stelle… Per sempre tua, Angelica”.

Alain Delon,nato  l’8 novembre 1935 a Sceaux nell’Alta Senna, se n’è andato per sempre a 89 anni ; con lui se ne va la grandeur frances .
Anche se solo adesso ha deposto la corona Alain Delon, indimenticabile re del cinema francese, se l’era già sfilata nel 2017 con l’annunciato ritiro dalle scene: “Ho l’età che ho – diceva-. Ho fatto la carriera che ho fatto. Ora, voglio chiudere il cerchio. Organizzando incontri di boxe, ho visto uomini che si sono pentiti di aver fatto un combattimento di troppo. Per me, non ce ne sarà uno di troppo”. Ben più del peso degli anni e dell’orrore nel vedere allo specchio la sua leggendaria bellezza sfiorita, a minare la sua voglia di vivere c’era stato un ictus (destino condiviso col suo eterno amico-rivale Jean-Paul Belmondo) e poi la diagnosi di un linfoma lentamente insinuato nei polmoni. Da combattente irriducibile il vecchio leone aveva ancora salito la scalinata di Cannes nel 2019 per una Palma d’onore che risarciva l’unico Prix César ottenuto in carriera. Poi si è piegato definitivamente alla solitudine, una segreta compagna che in più momenti della vita l’aveva accompagnato nel tunnel della depressione. (di Giorgio Gosetti)
Non c’è cosa più triste di una bellezza sfiorita né cosa più amara di una giovinezza appassita. La vecchiaia che per tutti è un declino, agli occhi dei belli è una catastrofe; quelli che più hanno avuto dalla vita, dalla giovinezza e dall’amore, sprofondano ancora di più nell’abisso degli anni.(M. Veneziani)
Alain Delon aveva avuto dalla vita una bellezza sfolgorante, aveva avuto le donne che voleva, ne ha amate alcune, come Romy Schneider , un amore travolgente ,tragico, che lasciò un segno profondo nella sua vita, che trovò poca pace in senso amoroso. Credo sia stato l’uomo più amato di tutto il mondo, almeno per le donne della mia generazione . Lo porterò nel cuore, continuando a vedere i suoi occhi azzurri, il suo sorriso bastardo e la sua tristezza, che il suo cuore non riusciva a nascondere  ,mai . Addio Alain Riposa in Pace !

Alain Delon

Una riflessione particolare…da Federico Fellini.

Non ho molto da dire.

Credo di aver imparato molto poco in tutti questi anni: ho imparato che ci sono molte cose sconsiderate che puoi fare. E tra quei milioni una che è ancora più sconsiderata delle altre. E di solito fai quella.

Ho imparato che il blu e il nero insieme sono un cazzotto in un occhio.

Ho imparato che certi odori si fissano nella memoria, e quando li risenti è come se tutti quegli anni non fossero mai passati.

Ho imparato che il sabato è meglio della domenica.

Ho capito che chiunque ha qualcosa da raccontare, ma ho capito anche che l’odio per certe persone ti aiuta a vivere meglio.

Ho imparato che certe mattine saresti disposto a dare via un braccio pur di dormire alti cinque minuti.

Ho constatato che alcune città sono capaci di farti scordare anche come ti chiami.

Ho imparato che ci sono persone così esteticamente stupefacenti che emanano addirittura luce propria. Sembrano, non so… fosforescenti!

Ho capito che non c’è da preoccuparsi se a 40 anni non sai che fare della tua vita, se hai ancora una gran voglia di giocare. Forse sei l’unico che ha capito qualcosa.

Ho imparato che se ripeti una parola tante volte, all’improvviso perde di significato.

Ho imparato che a volte avresti talmente tanta voglia di fare l’amore con una determinata persona che glielo chiederesti in ginocchio.

Ho imparato che una sigaretta, specie se sei a terra, può addirittura salvarti la vita.

Ho scoperto che esistono persone talmente scassapalle da rappresentare un vero e proprio ornamento ai testicoli.

Ho imparato che non c’è cosa più inebriante che impuntarti sulla tua scelta. E poi sbagliare.

Ho imparato che il conforto degli amici a volte può esserecrudele.

Ho imparato che la voce di Frank Sinatra è uno dei motivi per stare al mondo. E la Heineken è l’altro.

Ho imparato che il sale si mette prima che l’acqua cominci a bollire.

Ho capito che certe regole sono fatte per andarci contro.

Mi sono accorto che non c’è cosa più divertente che dare ragione a un idiota. E dentro ridere.

Ho scoperto che con gli anni i tuoi errori e i tuoi rimpianti impari ad amarli come figli.

Ho imparato che la nostalgia ha lo stesso sapore della cioccolata bollente.

Ho imparato che i film di Ingmar Bergman non sono solo capolavori: sono lezioni di vita.

Ho capito che niente è più bello che alzarsi la notte mentre tutti gli altri dormono e girovagare in solitudine come un cane tra i rifiuti, alla ricerca di una qualsiasi sensazione appagante.

Ho imparato che se ti chiedono di fare cinque cose e all’ultimo momento ne aggiungono due, tu inevitabilmente dimentichi le prime tre.

Ho imparato che certa gente ha la testa solo per separare le orecchie.

Ho imparato che la tua camicia preferita attira il sugo in modo micidiale.

Ho imparato che non c’è cosa più bella che svegliarsi una mattina senza sapere che ore sono, senza riconoscere la stanza e soprattutto senza ricordare come ci sei arrivato.

Ma soprattutto ho imparato che i giorni veramente importanti nella vita di una persona sono cinque o sei in tutto.

Tutti gli altri fanno solo volume.

Così fra sessant’anni non ti ricorderai il giorno della tua laurea, o quello in cui hai vinto un Oscar.

Ti ricorderai quella sera in cui tu e i tuoi amici, quelli veri, avete fumato 10 sigarette a testa e ubriachi persi avete cantato per strada a squarciagola fradici di pioggia.

Quelli sono i momenti in cui la vita davvero batte più forte.

Federico Fellini

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C’era una volta Marcello, il latin lover…

 

Marcello, ah Marcello. A cent’anni dalla sua nascita, a ventotto dalla sua morte, Marcello Mastroianni resta nell’immaginario collettivo, e nei suoi luoghi comuni, la rappresentazione verace dell’italiano: belloccio, serioso, loquace, latin lover e sex symbol, dalla voce un po’ nasale, inconfondibile ma senza tratti particolari. Tutti i grandi attori della commedia all’italiana erano in fondo comici, “ridicoli”, avevano perlomeno un lato caricaturale e grottesco che li rendeva beniamini del pubblico: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Monica Vitti, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, fino a Giancarlo Giannini e Paolo Villaggio, per non dire della generazione precedente, quella di Totò, Vittorio de Sica, Peppino de Filippo e Aldo Fabrizi.  Mastroianni, invece, era l’unico tra i più famosi che non voleva far ridere, attor brillante ma non comico, la sua figura non straripava mai dal ruolo assegnato nel film. Mastroianni restava dentro il racconto e la sua parte. Il tono della sua voce era duttile, si adattava all’allegro andante della commedia ma sapeva inoltrarsi anche nella voce trasognata e misteriosa di alcuni film felliniani, onirici e malinconici; e nei ruoli tragici di alcuni film, come Todo Modo o Fantasma d’amore. La sua versione femminile a cui era solitamente accoppiato nella saga cinematografica era Sophia Loren. Erano la Coppia primordiale del cinema italiano, l’Adamo ed Eva della nostra identità. Coppia brillante ma non sempre usata in ruoli brillanti; si pensi a Una giornata particolare di Ettore Scola. Però, a differenza della Loren, che quest’anno compie novant’anni, Mastroianni non ebbe mai l’Oscar, anche se ci andò più volte vicino. Mastroianni era l’attore italiano per antonomasia; attor simbolo, o come oggi si dice, “iconico”; per questa sua trattenuta vocazione alla commedia brillante e arciitaliana fu poi utilizzato anche in film più seri e meno caserecci come Sostiene Pereira, Oci Ciornie o il pirandelliano Le due vite di Mattia Pascal. E recitò molto anche all’estero. Anche nella commedia italiana Mastroianni fu attore nazionale, nel senso che non fu solo romanesco o laziale; fu pure siculo, napoletano o genericamente provinciale. Anche per questo Mastroianni appariva come l’idealtipo dell’attore, senza particolari virtù e virtuosismi, come invece il prodigioso Sordi o il mattatore Gassman. Fu l’attore felliniano per eccellenza, ma non si identificò nel cinema felliniano, fu anche altro. E non si identificò nemmeno nel ruolo dell’amatore e del seduttore, perché interpretò pure il suo contrario, come nel Bell’Antonio di Vitaliano Brancati, che diventò in quegli anni il paradigma dell’impotente. O come l’omosessuale di Una giornata particolare. Da ragazzo fui perseguitato da quel “Marcello come here” che Anita Ekberg nell’iconico bagno nella fontana di Trevi rivolgeva a Marcello Mastroianni ne La dolce vita, invitandolo a entrare nella mitica vasca berniniana. Quel grido fu per me un’iniziazione alla vita adulta, dopo che negli anni dell’infanzia ero stato Marcellino pane e vino, il protagonista di un’altra famosa saga cattolica e puerile. Poi diventò un tormentone un po’ molesto. Mastroianni rappresentò l’autobiografia della nazione soprattutto perché ne La dolce vita, sbarcava da provinciale in cerca di fortuna nella Roma godereccia e un poco malinconica del boom economico. E in quella storia di provinciale sbarcato a Roma si riconosceva l’autore che aveva scritto il film, il pescarese Ennio Flaiano; il regista che lo aveva realizzato, il riminese Federico Fellini; e pure il protagonista omonimo, il ciociaro Marcello Mastroianni. Tre provinciali alla conquista della Capitale. Ma in quel viaggio dalla provincia alla metropoli si riconosceva una fetta numerosa di italiani, soprattutto centro-meridionali, sbarcati nella Roma impiegatizia dei ministeri o in quella sognatrice di Cinecittà. A differenza degli altri grandi attori italiani, Mastroianni ha avuto la possibilità di realizzare alla fine della sua vita, un film-congedo, curato dalla sua ultima compagna, Annamaria Tatò, Mi ricordo, si io mi ricordo.   Mastroianni non rappresentò mai il cinema impegnato e ideologicamente schierato, ma non si sottrasse ad alcuni ruoli obbligati dallo spirito politico del tempo. Fa impressione vederlo schierato, con tutti i grandi registi e attori del cinema italiano nel picchetto d’onore alla morte di Enrico Berlinguer nel 1984. C’era quasi tutto il plotone del cinema italiano, dei grandi registi mancava solo Luchino Visconti, morto qualche anno prima ma comunista aristocratico e decadentista; non mancava nemmeno Federico Fellini che pure non era mai stato vicino al Pci e alla sinistra militante; e questo la dice lunga sull’egemonia culturale nel cinema italiano e sul potere di intimidazione o di pressione che esercitava, con relativo invito a conformarsi. Non si poteva mancare, e Mastroianni naturalmente non mancò . Mastroianni aveva compiuto studi modesti e nessuna accademia, in guerra si era arrangiato e l’aveva scampata, si tenne fuori dalla vita pubblica e dall’impegno civile. Ebbe famosi amori e una notorietà internazionale maggiore rispetto agli altri protagonisti della commedia all’italiana, magari più adorati in patria, ma meno esportabili all’estero. Nonostante la fama di essere pigro e in fondo riluttante, Mastroianni fu attore prolifico, duttile e non andò mai controcorrente. Morì a Parigi dove ormai viveva da anni ma la sua faccia restò il volto più famoso di quell’Italia della nostra infanzia, della nostra giovinezza, e comunque quella da cui proveniamo.

Marcello Veneziani