Abbracciami forte, abbracciami alto….

Bene, suppongo che ora sai già tutto,
sai delle mie paure e dei miei traumi,
sai che sono abituata a fuggire tutto il tempo
e che finire e concludere dei cicli
costituisce per me ogni volta una sfida.
Ora sai che mi perdo guardando le nuvole
e che mi metto a parlare senza controllo
se sento che mi stai guardando.
Ora sai che quel fatto di essere pazza
non è uno scherzo,
così come sai cosa dire
per farmi perdere il controllo.
Suppongo che sai già che cammino piano
e che rido così alto, così forte.
Ora sai che sono vulnerabile e fragile.
Che mi prendo delle confidenze
e che alla più piccola provocazione
rispondo con una carezza.
Sono rimasta sorpresa
che tu non ti mettessi a correre,
che restassi, come fanno i coraggiosi,
a sentirmi parlare
e ad ascoltarmi con gli occhi,
a osservarmi mentre io fingevo di non farlo
e facevo finta di non accorgermi.
Ora che lo sai e che non sei fuggito,
ora che rimani
e che vedi il mondo insieme a me,
amico mio, mio complice,
per favore… abbracciami
e raccogli i miei pezzi piano piano.
Ora che hai conosciuto questo mostro,
abbracciami forte,
abbracciami alto.

Mercedes Reyes Arteaga

 

tumblr_nlw5ikcofn1taace4o1_1280

Crepet: “Io penso che le persone gentili siano persone migliori”.

Crepet: “Io penso che le persone gentili siano persone migliori“, per questo educare alla gentilezza è la sfida più importante di oggi. In un tempo in cui si premiano cinismo e arroganza, la gentilezza rischia di sembrare debolezza. Eppure è il primo vero atto educativo, dentro la scuola e dentro le famiglie…

“Sei sempre gentilissimo”, mi è stato detto. Una frase semplice, forse detta per cortesia, ma che mi ha fatto riflettere. Perché oggi la gentilezza, che dovrebbe essere normale, viene spesso percepita come qualcosa di raro. Viviamo in un tempo in cui chi urla viene scambiato per deciso, chi è freddo per efficiente, chi è cinico per intelligente. E invece, tra tutte le qualità umane, la gentilezza è forse la più importante, e la più rivoluzionaria. La gentilezza non è debolezza. Non è buonismo. È ascolto, è rispetto, è cura. È il modo in cui ci rivolgiamo agli altri, è il tono che scegliamo, è la capacità di non ferire quando potremmo. È saper dire “grazie”, “scusa”, “come stai?” con sincerità. È presenza, è attenzione, è umanità.  Eppure, oggi, ci siamo abituati all’opposto. In molte famiglie si è smesso di insegnare la gentilezza. Nella scuola, si parla tanto di competenze e valutazioni, ma troppo poco di relazioni. E allora accade che si tolleri l’insulto, si accetti l’arroganza, si premi la prepotenza, perché “nella vita bisogna farsi valere”. Come se la gentilezza fosse un ostacolo, invece che una forza educativa. Ma educare alla gentilezza non è una debolezza: è un atto di cura profonda, soprattutto verso chi, crescendo, non ha ancora imparato a gestire le proprie emozioni. Un bambino che non è educato alla gentilezza non imparerà mai davvero a stare con gli altri. Ecco perché essere gentili è, prima di tutto, una responsabilità degli adulti.  La famiglia è il primo luogo in cui si impara (o non si impara) la gentilezza. Non servono grandi discorsi. Bastano i piccoli gesti: uno sguardo, un tono pacato, una parola detta con delicatezza anche quando si è stanchi o arrabbiati. Perché il genitore che grida sempre, che comanda senza dialogare, non sta formando un bambino forte, ma un bambino spaventato. E un bambino spaventato sarà un adulto insicuro.

Lo stesso vale per la scuola. Una scuola che ignora la gentilezza è una scuola che rischia di diventare fredda, tecnica, disumanizzante. E invece, educare è molto più che insegnare nozioni. È aiutare un ragazzo a diventare consapevole degli altri, a cooperare, a non ridere del dolore altrui, a saper chiedere scusa, a saper accogliere. Il vero successo educativo non è un ragazzo perfetto nei voti, ma un ragazzo che sa prendersi cura . A ricordarcelo, con forza, è anche Paolo Crepet, che in un’intervista ha detto: “Io penso che le persone gentili siano persone migliori. Uno che sbraita, che urla, non dà il meglio di sé. Io ho conosciuto persone di grandissima intelligenza, a volte anche capaci di grandi discussioni, ma non era gente che avrebbe preso un fucile e ti avrebbe ammazzato. Quindi, la genialità in qualche modo ha a che fare con la costruzione, non con la distruzione.”

Ecco il punto: la vera intelligenza non ha bisogno di ferire. La vera forza non si impone, ma si offre. Le persone più capaci non sono quelle che distruggono, ma quelle che costruiscono, ogni giorno, nelle parole, nei gesti, nelle relazioni.Abbiamo bisogno di gentilezza. Non quella di facciata, ma quella radicata nella consapevolezza che ogni essere umano merita rispetto, ascolto, attenzione. La gentilezza non è solo una virtù: è ciò che ci tiene umani. Per questo, educare alla gentilezza è oggi il compito più urgente. Perché un bambino non educato alla gentilezza sarà un adulto ferito, confuso, in lotta col mondo. Invece, un bambino cresciuto nella gentilezza sarà un adulto capace di fare la differenza. Per sé, per gli altri, per il mondo. In queste ore, mentre questo articolo viene letto e condiviso da migliaia di persone, torna una domanda fondamentale: stiamo davvero educando i nostri figli alla gentilezza, o ci stiamo arrendendo a un modello urlato, freddo, competitivo? Ripartire dalla gentilezza è forse l’unico modo per restare umani.
di  La Redazione di__A Scuola  oggi

 

elefante

Diserbo o biodiversità sana?

 

 

Giorni soleggiati, e la vita è facile… se sei un giovane Mourning Dove con il tuo genitore oppure un coniglietto  bambino che ha voglia di  erba fresca gustosa e profumata, fuori  dal diserbo  che  gli esseri umani praticano sistematicamente per avere un giardino perfetto, ma solo per i loro occhi,  che non  vedranno mai questi meravigliosi spettacoli della natura vera.

Salviamo i ricordi di un sud sparito…

 

 

“C’era una volta il sud” racconta, come nelle fiabe, un’epoca che non è più la nostra: il sud della civiltà contadina e delle famiglie numerose, il sud devoto e superstizioso, arcaico e “fatigatore”, il sud delle processioni, dei matrimoni infiniti, dei funerali accorati, del lutto prolungato, della vita di campagna, della vita ai bordi del mare, dei circoli, delle sale da barba o dello struscio di paese. Il sud comunitario, animato e taciturno, dei lunghi silenzi e delle larghe conversazioni. Mondi spariti, o in via di scomparsa, di cui cerchiamo di mettere in salvo la memoria e le sue ultime tracce, prima che cali il silenzio, la notte o l’oblio. Il movente di quest’opera è duplice: capire quanta vita c’è dentro una fotografia, in quella gente, in quel tempo, in quelle facce che non ci sono più e capire cosa avviene dentro di noi quando vediamo, rivediamo e salviamo una foto del passato; quali effetti e affetti suscita un’immagine. Una foto è anche un segno di riconoscimento e di riconoscenza verso il passato. Il sud è il mondo di ieri per eccellenza, l’infanzia del mondo, la provincia dell’universo; è la nostra antichità, che a volte purtroppo è solo arretratezza se non età primitiva, breve è il passaggio dall’antico all’antiquato; l’album fotografico è la terra dei sentimenti, il luogo d’ombre e di luce della nostalgia, la casa dei miti stavolta nella loro riduzione domestica e familiare. Nella fotografia ritroviamo la geografia poetica del meridione. Il viaggio fotografico che abbiamo compiuto è in bianco e nero, e questo magari stride col solare e colorito meridione, che esprime luce e vivace policromia. In compenso il bianco e nero ritrae volti che sembrano anime, caratteri, biografie, forme interiori temprate dalla vita. Il bianco e nero sembra quasi una radiografia profonda, anche delle sue superfici. E dona distanza magica al tempo perduto. Il bianco e nero ha una potenza evocativa della luce e della notte di cui la foto a colori è solo una pallida, banale rappresentazione.

Il “c’era una volta” vale anche per la fotografia a cui dedico alcune riflessioni in conclusione del libro: che ne è della foto nell’epoca del digitale, del selfie, della moltiplicazione all’infinito di immagini? Tutti fotografi, nessun fotografo. Troppe immagini nessun ricordo.

In questo viaggio non ci sono facce famose ed eventi storici. È la storia impersonale e corale di un’epoca attraverso i suoi anonimi abitanti, la vita della gente comune, la quotidianità di un mondo. L’intento è mettere in salvo i volti di persone care o ignote, preservare il ricordo di come erano.

“Quando saremo lontani da questo piccolo paese in cui siamo nati e viviamo, quando finalmente ci sentiremo nascere dentro amore e nostalgia per le cose che oggi ci circondano e mortalmente ci annoiano (…) quello sarà veramente il nostro paese: perché la lontananza darà dolci cadenze alla noia di oggi e all’angustia; e diventerà un po’ amore quel che ora è insofferenza e reazione” Così scrive Leonardo Sciascia in Fuoco nel mare. È l’amore retroattivo, nostalgico, postumo, di chi ama ormai solo a distanza e riconosce da lontano quel che non riconosceva da dentro e da vicino. Riflessione che combacia alla perfezione seppure in direzione inversa con quella più nota di Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. (La luna e i falò). Hai bisogno di un luogo di partenza, per abbandonarlo e poi ricordarlo come la tua origine, il punto fermo da cui ti sei allontanato. Sciascia e Pavese, uno scrittore del sud, uno scrittore del nord, ma legati da un doppio filo: la provincia, col suo mondo piccolo, e la campagna, il legame carnale con la terra, quasi una parte del proprio corpo. In entrambi la lontananza mitizza, la distanza accresce la magia di un legame, altrimenti vissuto sul posto con una certa insofferenza e tanta voglia di partire.

Il bambino che cresceva nel paese, almeno fino al boom economico, che al sud arrivò in ritardo, anzi in differita, abitava in realtà tre mondi reali: conosceva il paese – la piazza, il corso, le case, i negozi, i paesani – ma conosceva pure la campagna, gli animali, la civiltà contadina, fino a pochi decenni fa prevalente e contigua al paese e interattiva con il borgo; e infine, nei paesi rivieraschi, conosceva il mare a due passi da casa, l’universo marino, i pesci, i ricci, le cozze, i polpi, le nasse, le reti, i bagni nel mare, le nuotate. E la stessa cosa vale per chi aveva le montagne a due passi da casa.

Ma non solo. Il paesano conosceva più mondi per la semplice ragione che le numerose famiglie – allargate, allungate, aperte ad amici, compari e conoscenti – ti mettevano in confronto permanente con mondi diversi dal tuo: i vecchi, gli adulti, i bambini. C’era una connessione verticale tra generazioni che oggi è molto più difficile, stentata. Poi l’esperienza del paese era multisensoriale. Non c’era solo la parola e la vista, c’era anche l’olfatto, tra odori e puzze, il gusto forte dei sapori veraci; il tatto, ovvero il contatto di prossimità, il toccarsi oltre al parlarsi, molto in uso tra le genti del sud, il fiatarsi addosso. Le case in paese erano centri fiorenti di vita; la gente entrava e usciva di continuo, si chiamavano dai balconi, dalle finestre e dalle strade, bussavano all’improvviso, venivano a trovarti senza preannunciarsi e senza appuntamenti, non programmavi né prenotavi le visite. Famiglie numerose comportavano sciami generazionali in transito continuo nelle proprie case. Società aperte, altro che chiuse.

Insomma il mondo del paese era più ricco, vario e movimentato di quello telematico e internettaro di oggi. C’era più umanità e calore di vita. Anzi la vita nella sua semplicità sembrava nascere, crescere e finire spontanea; e c’era la vita gratis, che vuol dire per grazia, dove i beni primari sono accessibili a portata di mano, senza comprare, vendere, andare in negozio. Nessuna voglia di tornare indietro, in quel mondo c’era pure miseria, durezza, asprezza, disagi e vera povertà; comunque non sarebbe possibile e noi non saremmo più capaci di viverci. Però lasciateci il gusto dolceamaro di ricordarcene, con un velo innocuo di nostalgia.

Marcello Veneziani

Il sorriso di Robert Doisneau. Per chi ama la fotografia…

Il sorriso di Robert Doisneau


“L’umorismo non è che pudore davanti all’emozione” Robert Doisneau

Voglia di leggerezza? Niente di meglio che sfogliare insieme qualche immagine di un poeta della fotografia come Robert Doisneau (1912-1994) (di lui e delle sue foto più famose ho parlato qui e qui).Più di quattrocentomila scatti conservati nel suo archivio e una carriera lunga sessantacinque anni, da quando comincia a lavorare come fotografo per le officine Renault, all’ingresso nell’agenzia Rapho, fino alle ultime foto a colori. Sessantacinque anni passati, per lo più, nella sua città, Parigi “a catturare gesti ordinari di gente ordinaria in situazioni ordinarie” e, proprio attraverso quella gente comune, a ricreare nelle sue immagini, “un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere”. Per cogliere la poesia e l’emozione del quotidiano il suo segreto è quello di guardare al mondo come a un palcoscenico e di aspettare il momento giusto per scattare, oppure- se la buona occasione tarda troppo- di creare lui stesso delle messe in scena, dei “teatrini”, in cui rappresentare i piccoli fatti della vita.  Sempre con lo sguardo gentile di chi sa osservare quello che lo circonda con rispetto, con un pizzico di umorismo, ma anche con quella dolcezza che traspare in tutte le foto della sua lunga carriera

Ecco qui come sa captare la tenerezza del bambino che ripete lo stesso gesto dei due uomini che, seri e assorti, passeggiano davanti a lui:

O qui, invece, come sa fissare, col suo obbiettivo, lo stupore di vedere una dignitosa signora, che siede su una una panchina, leggendo tranquillamente il suo giornale, con una allina al guinzaglio.

oppure, in questa “Information scolaire” del 1956, come riesce a restituire la spontaneità, con cui un ragazzino cerca ispirazione, guardando il soffitto, mentre il suo compagno di banco ne approfitta per copiare

In questa immagine del 1956 i protagonisti sono due sposini tutti eleganti- lei in bianco e lui in doppio petto e con il suo bel fiore all’occhiello- che si concedono un brindisi improvvisato al banco un bistrot, mentre, accanto a loro, un operaio, con i vestiti  sporchi di grasso, paga, indifferente, il suo calice di vino.

Immagini che sembrano prese nell’immediatezza del momento, anche quando, come nella serie “La glace” del 1948, sappiamo che si è nascosto apposta nella bottega di un antiquario per spiare le espressioni di interesse o di finta indifferenza, con cui, per esempio, moglie e marito guardano il quadro di una donna nuda

E che dire poi, di questa “Bolides” del 1952, tutta incentrata sullo sguardo perplesso, con cui il bambino, dall’alto della sua macchinina sportiva, contempla la carcassa di un’automobile abbandonata vicino al marciapiede

Dalla fine degli anni’50, lo stile di Doisneau è così ben definito che viene coniata per lui l’etichetta di “fotografo umanista”, vale a dire, di fotografo attento agli uomini e alla vita di tutti i giorni.  Un generoso ottimista, capace di rappresentare, negli anni del secondo dopoguerra,  le gioe semplici di una passeggiata, di un bicchiere di birra a un caffè o di un bacio scambiato per strada da una coppia di innamorati:

La sua è la Parigi  del quartiere di periferia in cui è nato, quella degli operai e delle famiglie della piccola borghesia.  Lontana le mille miglia dalle cartoline stereotipate della Tour Eiffel come dal degrado di oggi, è una cittá dove i ragazzini possono ancora pattinare per strada come in questa “Enfants aux patins” del 1953.

o, in tutta innocenza, come in questa “Pipi pigeon” del 1952 fare pipi contro lo stesso muro, mentre un piccione avventuroso si posa sulla testa del più piccolo di loro:

È la stessa Parigi, in cui, la luce del sole di una tranquilla giornata primaverile, fa emergere, come in questa “Diagonales” del 1953, il gioco di linee formato dalle connessioni delle pietre dei gradini del Lungosenna

o, in cui ci si può fermare a guardare- e siamo nel 1978- l’allegra confusione della doppia fila dei bambini che attraversano Rue de Rivoli, aggrappati l’uno all’altro

Piccole storie, raccontate con un misto di naturalezza e di artificio, a cui il bianco e nero aggiunge la sensazione di nostalgia che si prova di fronte a un album di famiglia, in cui si riconoscano espressioni, gesti e movimenti.

A queste immagini Doinseau alterna i ritratti di celebrità, da Picasso, a Prévert a Dior e i reportage per Life o le riviste patinate come  Vogue.

Ma, quando può, libero da vincoli o da commissioni, torna a fotografare la sua città, cogliendone gli aspetti più inediti, come in questa “Elicopteres”del 1982

In tutta la mia vita mi sono sempre divertito“:- afferma Doisneau.

E c’è da credergli, perché la sua, in fondo, non è solo una maniera di fotografare, ma una lezione di vita. Quella di non guardare il mondo con indifferenza, ma con immutata meraviglia, non cessando mai di scoprire e di ascoltare “la piccola musica”  che è dentro e fuori di noi. La forza delle sue foto sta tutta nell’opporre alla malinconia, ma anche alla pesantezza del vivere, un umorismo bonario e affettuoso e la condivisione silenziosa di un sorriso.

Colui che fosse capace di replicare un giorno d’Estate –

Un giorno d’estate

 Colui che fosse capace di replicare un giorno d’Estate –
Sarebbe più grande di esso – anche se
Fosse il più minuscolo del Genere Umano -E se – fosse capace di riprodurre il Sole –
Nel momento del suo calare –
L’Indugiare – e lo Scolorare – intendo -Quando l’Oriente è stato superato –
E l’Occidente – divenuto Ignoto –
Il Suo Nome – rimarrebbe –

(da “Poesie”, 1862)____   Emily  Dickinson

.Il genere umano è riuscito a portare uomini sulla superficie della Luna e sonde tra le rocce di Marte e tra gli anelli di Saturno. Ha saputo dividere l’atomo e sfruttarne l’energia. Ha costruito palazzi sempre più alti e treni sempre più veloci, ha vinto la forza di gravità facendo volare aeroplani. Ha sconfitto malattie dal nome spaventoso ed è riuscito a mappare il genoma del DNA.

Ma una cosa gli resta impossibile: riprodurre la bellezza della natura, realizzare la meraviglia di un giorno d’estate o la limpida estasi di un tramonto. E ce lo ricorda Emily Dickinson, con il suo stile piano e delicato.

 .

C’era una volta il sud ma ora non c’è più…

 

 

Ma come ti salta in mente di dedicare un nuovo libro a un racconto di pensieri, sentimenti e immagini intitolato “C’era una volta il sud”? Il mondo ha altro per la testa che i ricordi del passato, per giunta del sud e della provincia; il mondo è in preda a troppe cattiverie per mettersi a fare l’elegia del tempo andato, è tempo di attaccare o difendersi, di azzannarsi prima che ti azzannino… E poi siamo nel tempo dell’Intelligenza artificiale. Ma sì, certo, avrete ragione voi, però non vogliamo concederci una pausa, pensare ad altro, lasciarci visitare da immagini, figure e memorie che ci ristorano la mente e riaprono le braccia ai nostri cari?
È un libro di immagini e scritti dedicato al sud ma sono convinto che anche chi non è del sud si troverà a casa: perché si parla di un tempo passato che non fu solo a Mezzogiorno, perché si parla di provincia e non c’è cosa più universale che il mondo provinciale, il piccolo paese, il piccolo rione, la località che ci avvolse nella sua calda prossimità, a nord come a sud, e ovunque. È un libro in formato grande, illustrato (in libreria, edito da Rizzoli) in cui si può seguire il filo delle fotografie, tutte in bianco e nero perché riportano a un passato mitico, diverso dal presente; o si può seguire il filo del racconto di pensieri e di ricordi che si intreccia all’album fotografico. Ma cosa dici, di che parli? È un passeggio, anzi uno struscio nel tempo, un viaggio multisensoriale tra gli odori, i sapori, le voci, le figure, i pensieri di un mondo che viene descritto come chiuso, piccolo, asfittico e locale e invece non è vero. Quel mondo era molto più grande nel suo piccolo rispetto al mondo globale di oggi che è solitario, virtuale, introverso: c’era il paese, c’era la campagna, c’era il mare (o per altri la montagna), c’erano gli animali, c’erano i vecchi e i bambini, tanti bambini, c’era la comunità, c’era l’antichità, c’era il favoloso, c’erano altri mondi oltre quello presente. Ed era un mondo aperto, corale, altro che chiuso; le case erano un via vai di famigliari, tanti figli, tanti cugini, le nonne e le zie “vacantine” che vivevano nella stessa casa, e altrettanti amici, vicini di casa, persone che uscivano ed entravano di continuo dalle porte, parlavano dai balconi e dalle finestre; era un insieme aperto, e all’aperto. Si viveva la vita gratis, nel senso che si pagava solo poche cose perché pochi erano i soldi, ma quasi tutto era gratis, per natura, cortesia, come l’acqua delle fontane, le panchine del giardino, il mare in cui bagnarsi, i frutti appesi da cogliere per le strade, i giochi. Vuoi dire che vivevano nel paradiso terrestre e non lo sapevano? Ma no, che dite. Quel mondo era anche duro, crudele, classista, affamato, malvestito, inclemente. Non puoi rimpiangerlo, tantomeno è possibile ritornarvi, e anche se volessi e potessi farlo non ci torneresti, non riusciresti più a vivere in quel modo.
E allora perché raccontarlo? Perché ci fa bene, ci fa stare bene, ci restituisce fette di vita, angoli di paese, ricordi e care presenze ora assenti; perché incuriosisce, diverte, fa pensare, e suscita pure qualche sentimento, magari ci aiuta a non perdere la nostra sensibilità, a non diventare automi o umanoidi artificiali. Il mondo non era racchiuso nello smartphone.
C’era una volta il sud narra con testi e immagini un mondo favoloso, un’epoca che non è più la nostra da decenni: il sud della civiltà contadina e delle famiglie numerose, il sud devoto e superstizioso, arcaico e “fatigatore”, il sud delle processioni, dei matrimoni, dei funerali, del lutto prolungato, della vita di campagna, della vita ai bordi del mare, dei circoli, delle sale da barba o dello struscio di paese. Ci sono innumerevoli scorci, quadretti di vita, immagini e figure di quel tempo, modi di dire e di fare, di quel mondo arcaico che non fu l’età dell’oro semmai l’età del pane come la chiamò Felice Chilanti. Un mondo comunitario, povero e aspro ma ricco di umanità. Figure mitiche e fenotipi, come il ciaciacco, o sgalliffo, lo sparamiinpetto, lo speranzuolo, e poi il barbiere di compagnia, la prostituta, la masciara, la bizzoca, il sacrestano. Mondi cancellati, o in via di scomparsa, di cui cerchiamo di mettere in salvo la memoria e le sue ultime tracce, prima che cali la notte e la frettolosa dimenticanza. Le foto non riguardano personaggi famosi, eventi celebri, non sono foto d’arte o di eventi storici, ma sono immagini della vita quotidiana, della gente comune; foto ricordo, in prevalenza amatoriali, private e personali, tratte dagli album di famiglia e dai ricordi paesani.
A questo viaggio ho voluto aggiungere in fondo al testo alcune riflessioni sul significato della fotografia nella nostra epoca, cercando di smentire luoghi comuni o di vedere lati nascosti di quel mondo: la fotografia è il diorama del ritorno, nasce da una forma di nostalgia preventiva, la volontà di salvare l’attimo fuggente e le vite in transito. Non è vero che l’era della riproducibilità tecnica dell’arte uccide l’aura che un tempo riguardava l’opera d’arte. A dircelo è proprio colui che teorizzò in un famoso saggio quella morte dell’aura: in quelle stesse pagine Benjamin scrisse – in un passaggio trascurato da tutti – che quell’aura resta nelle fotografie che ritraggono volti, anche se sono immagini seriali, perché sprigionano a rivederle, quel ricordo affettivo, quell’atmosfera, quella magia indicibile di figure care perdute nel tempo. Se il tempo per Platone è l’immagine mobile dell’eterno, la fotografia è l’immagine immobile di ciò che è passato. La fotografia trasforma in mito il passato. Il poeta Coleridge sognò di trovarsi in paradiso, e qualcuno gli donò un fiore. Al suo risveglio, il sognatore si trovò con quel fiore in mano. Così è la fotografia, come i fiori venuti in sogno e poi portati nella realtà. A me capitò un’esperienza analoga: sognai che ero bambino e mio padre mi dava una delle sue caramelle all’orzo. Quando mi svegliai trovai davanti a una fila di libri, appena traslocati, una caramella all’orzo che poi tenni per anni in vista. Nel libro consiglio pure un esercizio particolare con le foto, per rianimarle e vederle rivivere. Scopritelo se vi interessa.
Giorni fa sono tornato nella piazza del mio paese, detta il Palazzuolo, dove giocavo da bambino e dove un tempo si faceva lo struscio: la piazza è un quadrato vuoto al centro e circondato come da una cornice senza quadro, da due file di alberi e una serie di panchine, cinque per ogni lato, in tutto venti. Era la controra e mi sono accorto che su ciascuna di queste panchine c’era una persona sola, e non i gruppi, come succedeva un tempo. Sarà stato un caso momentaneo, ma ho avuto la percezione che i venti di solitudine e le venti solitudini sulle venti panchine della piazza, dicano davvero che il sud c’era una volta e ora non c’è più, è solo una periferia del mondo globale, sempre più devitalizzata, denatalizzata, svuotata, in declino sociale e demografico. Ho scritto questo libro per ripopolare almeno virtualmente quelle panchine.

Marcello Veneziani

La follia della mamma intenzionale…

 

Fatemi capire. Ho sentito in tv e sui giornali le fanfare euforiche che esultavano per il riconoscimento delle famiglie lesbiche grazie alla nota sentenza della Corte Costituzionale e mi stavo quasi commuovendo sentendo che la cosa più importante era salvare i bambini, finalmente riconosciuti e rispettati nei loro diritti e nei loro affetti. Anzi, per rendere più convincente il pistolotto, e farlo digerire anche ai perplessi, dicevano che si è trattato di riconoscere la realtà, di non negare più la vita e l’evidenza; voi conservatori che sbandierate da sempre il principio di realtà arrendetevi al principio stesso che voi sbandierate. E allora io mi sono chiesto: ma cosa succedeva prima di questo pronunciamento della corte suprema, e cosa sarebbe successo senza? Bambini strappati con la forza dalle loro madri adottive e magari anche biologiche, perché figli della colpa – cioè nati nella compravendita di semi, di uteri in affitto o artificiali, commissionati da due lesbiche – madri costrette ad abortire o a lasciare il frutto del peccato sulla ruota degli esposti, o peggio in un cassonetto; figli maltrattati ed esclusi da ogni asilo e da ogni gioco perché non a norma di legge, senza permesso di soggiorno sulla terra e non so che altro ancora. Poi ho guardato la realtà, cioè quel che succede veramente e mi sono accorto che tra il prima e il dopo non cambierà nulla di tutto questo. I bambini vivevano e vivranno con le due mamme lesbiche, e se vivranno qualche incertezza e qualche inquietudine sarà appunto per la realtà della loro situazione: perché a differenza dei loro coetanei avvertiranno di non avere un padre, di non vivere in una famiglia naturale e tradizionale. Ma sul piano della vita pratica non cambieranno le loro condizioni di vita; e nemmeno sul piano affettivo, quel che c’era ci sarà, nel bene e nel male.

Non sono un giurista, tantomeno un ginecologo, i miei studi sono filosofici, con interessi collaterali di tipo storico, letterario, politico e sociologico. quindi vi parlo in questa veste. A me pare che l’unica vera implicazione, pratica e giuridica, di questa sentenza sia questa: in caso di separazione, la pseudo-madre aggiuntiva rispetto all’ipotetica madre biologica avrà il diritto di vedere il suo figlio adottivo esattamente come succede ai padri nelle coppie di separati; e in caso di morte della madre biologica, la madre aggiunta subentrerà nel ruolo di genitore. Penso che la stessa cosa accada in tema di eredità. Disposizione che si poteva e si può ancora prevedere sul piano legislativo, con una legge del Parlamento, semplicemente rendendo più snella, rapida e duttile l’adozione. Senza toccare la struttura familiare e la definizione di maternità e di paternità (ridotta ormai a un cammeo, una comparsata, una momentanea pennellata, toccata e fuga).

E allora che cosa è in gioco, veramente, perché tutto queste fanfare che inneggiano al progresso, ai diritti, all’emancipazione o alla sconfitta della società oscurantista e arretrata, della bestiale famiglia naturale e dell’ottusità patriarcale della società tradizionale? In realtà non è in gioco la realtà ma un simbolo e un principio condensato in una definizione: maternità intenzionale. La donna che convive con la madre biologica e che comunque non ha partecipato alla fecondazione e alla gravidanza, viene considerata madre a tutti gli effetti perché lo è sul piano delle intenzione. Non è la realtà che conta ma l’intenzione, non il fatto oggettivo di essere madre ma il desiderio soggettivo di sentirsi madri. La questione, come vedete, va al di là della questione omosessuale e della coppia lesbica, e investe un principio che è la negazione della realtà, della natura, della vita e della tradizione ma anche del diritto che poggia sull’universalità della legge e sull’oggettività dei fatti; non è la realtà che conta ma come tu ti senti, ti percepisci, e desideri. È il principio che sta passando anche nel rifiuto di riconoscere la differenza oggettiva e biologica tra maschio e femmina; quel che conta è come tu ti senti. Anzi, di più come tu ti senti adesso, in questo momento, perché nel corso del tempo puoi pure cambiare i tuoi desideri. “L’importante è come io mi sento”, crolli il mondo ma conta solo il soggetto, libero, autogestito, autocreato. Io non sono quel che la natura, l’evidenza, la realtà dicono che io sia, ma quel che voglio essere.

Mi pare che lo stesso principio che facciamo valere sul sesso possiamo farlo valere in altri ambiti, per esempio sull’età: se io mi sento giovanotto, nonostante l’anagrafe e la biologia, se sono un ragazzo intenzionale, come quella donna è madre intenzionale, se mi comporto da ragazzo e frequento ambienti e persone della mia età intenzionale, perché negare questo mio statuto, perché non riconoscerlo giuridicamente, con tutto quello che comporta? E se io giovane mi sento già pensionato, perché impedirmi il pensionamento iperanticipato, che coincide con la mia sacra volontà? Ma io che amo il surrealismo, Pirandello e Buzzati, Borges e Ionesco, io che amo il paradosso, porto il principio alle estreme conseguenze. Se io sono quel che mi sento, e la mia intenzione è quella che conta e stabilisce il mio vero statuto, bene lo confesso: io mi sento una giraffa, e vorrei essere riconosciuto pubblicamente come tale. In sovrappiù, vi do anche una giustificazione adeguata: un vero filosofo è una giraffa, perché la sua testa è lontana dal suo corpo, esattamente come lei, grazie al lungo collo, e dunque la sua mente è lontana dalle cose terrene e dalla sua pancia, dal suo sesso, dalle sue zampe; la giraffa è animale filosofico anche perché vede le cose dall’alto, ha una visione del mondo molto più ampia degli altri animali, e un distacco aristocratico dalle cose terra terra. Non riesce nelle bassezze, la giraffa filosofa, non riesce nelle piccinerie, né passa nelle strettoie e dentro canali, gallerie, case. La sua canzone preferita è il cielo in una stanza, perché la giraffa ha per patria il mondo, come il filosofo per Socrate, non può vivere in una stanza, sotto un soffitto e un tetto. Sarebbe una vita costretta e dolorosa, obtorto collo…

Si, ammetto, ho esagerato, o meglio ho portato un principio alle sue conseguenze estreme e surreali, un po’ per celia un po’ per coglionare. Ma volevo dire una cosa: la nascita è una cosa seria, una cosa sacra, e una cosa vera, biologicamente, carnalmente vera; ci possono essere e ci sono magnifiche madri adottive, qualunque sia l’orientamento sessuale, come ci sono pessime madri biologiche. Ma non si cancella la natura, il destino, la differenza, la realtà, la paternità, nel nome dell’eccezione, dell’abnorme, del relativo, del mutevole, delle voglie. La realtà è una cosa, l’intenzione è un’altra; da troppo tempo giustifichiamo gli errori e perfino gli orrori col beneficio delle buone intenzioni. Sappiamo invece che la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Per tornare a pazziare: quando potremo avere, col favore della Corte, il diritto inverso, di sentirci figli intenzionali di madri a noi estranee? Cioè quando potremo riqualificare l’ignominiosa definizione di figli di m.ignota, con la nota scurrile riduzione romanesca, in modo che i figli possano scegliersi strada facendo una madre che meglio corrisponde alle loro intenzioni e ai loro desideri? Quello si sarebbe un progresso, anzi una rivoluzione…

Marcello Veneziani

Il fotoromanzo della politica…

 

 

Stiamo giocando con le figurine. Provate per un momento a silenziare le polemiche correnti e a osservare il terreno di contesa su cui si affrontano governativi e oppositori, mass media favorevoli e contrari, non solo su questioni interne ma direi soprattutto internazionali. Anche nei vertici internazionali è tutta una battaglia a colpi di fotografie: chi sta con chi, chi c’è e chi non c’è nella foto, come è collocata rispetto agli altri e nel gruppo, in foto o nel breve filmato; che umore esprime la sua faccia e la sua postura, come è vista e considerata dagli altri, la guardano oppure non se la filano. Ho usato volutamente il pronome femminile perché la protagonista principale di questa classifica fotografica, almeno da noi, è lei, Giorgia Meloni, reginetta dei fotoromanzi politici. Ma il fotoromanzo è in fondo l’unica prova dell’esistenza dell’Unione Europea, che è una posa di gruppo prima che una storia comune e un progetto condiviso. Quel che conta è la foto col tavolo, o quella di gruppo in piedi. I contenuti non contano, né potremmo mai saperli, perché l’epoca delle immagini non rende tutto trasparente, visibile e comprensibile a prima vista ma al contrario: vela i contenuti con l’immagine e offre alla gente una copertina che è poi una copertura, getta in pasto un’icona, e poi tocca agli esegeti, ai dietrologi, ai fantasisti arguire cosa si saranno detti e quale sia la verità che viene fuori da quell’immagine, inerpicandosi avventatamente oltre le apparenze. La foto è la fisica del potere, il resto è tutta metafisica, e in questo caso metafisica vuol dire congettura, maldicenza, pettegolezzo, un ‘si dice’ elevato ad analisi. Vedi la foto dei Volenterosi con l’assenza di Meloni e i suoi nemici deducono esultanti che è stata esclusa, è isolata, non conta niente. Poi la vedi al centro della foto tra l’America e l’Europa, una persona che si è fatta Oceano Atlantico, tra la sponde Vance e la sponda von Der Leyen, e i suoi fan vedono la prova evidente della sua centralità geopolitica, che in realtà è una centralità fotografica, e notano nei suoi occhi sprizzare felicità e successo, una pioggia di stelline scendono dai suoi occhi, per la precisione cinquantuno dalla parte degli States e ventisette da quella dell’Europa. Così la giudicano di secondo piano appena nelle foto di gruppo va in seconda fila; ma è difficile che questo avvenga, e non solo perché l’Italia conta e lei è cazzutella, fotogenica e briosa ma per ragioni di statura: i diversamente alti come lei, per dirla nel linguaggio corretto, stanno per forza in prima fila nella foto di gruppo. Vale dall’asilo in poi. Poi la vedi baciarsi in foto o in video con mezzo mondo, abbracciarsi, fraternizzare, sorridere complice e confidenziale coi potenti della terra, tutti sempre più alti di lei, come i papaveri della canzone di Nilla Pizzi – “Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti e tu sei piccolina” – e la trovi simpatica e vezzosa come una puffetta, tra tanti Gargamella divenuti all’occasione amici, benevoli, cortesi; al punto da inginocchiarsi al suo arrivo a Tirana come ha fatto il gigantesco Edi Rama con un’espressione del volto e del corpo che sembra dire: “vieni piccolina, amore di papà, vieni tra le mie braccia”.
Anche le foto col Papa sono entrate in questo redditometro, vedere la faccia del papa e quella del suo interlocutore, intercettare dal labiale, assai difficile perché il papa ha labbra sottili. Cronometrare il nanosecondo dedicato a ciascuno, paragonarlo al tempo di Mattarella, che è l’unità di misura istituzionale. E vedere dove sono seduti i big al funerale del Papa uscente o all’investitura del Papa entrante, vicino a chi, e se si parlano, si sorridono, stanno a loro agio, al centro o ai margini della scena. La morfologia del potere assume una valenza estetica, da mimica facciale o da posa. Il carisma si è ridotto a un selfie. Lo stesso vale per Macron o Zelensky – quanti punti vale un foto con lui? Un tempo tanti, ora assai di meno, anzi a volte è una penalità. E così le foto accostate di Putin e Trump per simulare le telefonate; difficile invece trovare in foto un’espressione diversa in Xi JinPing, si può usare sempre la stessa o del decennio prima.
Un tempo c’erano i simboli politici, e contavano molto, oggi non ci sono più simboli e nell’epoca delle leadership personali, l’unico simbolo è la foto. Si fa politica a colpi di foto, larga parte delle analisi o dei like e dislike che imperversano nel tribunale permanente dei social, dipendono proprio dalla foto, dalla mimica, dai ciuffi e dalle stazze, dal modo di atteggiarsi e di sorridere. È l’immagine che precede il giudizio, anzi lo sorregge e perfino lo sostituisce, surrogando ogni contenuto. Poi tutto quello che succede dietro le quinte, tutti i colloqui telefonici e de visu, a immagini spente, non ci riguarda. Ma il photoshop non riguarda solo la politica. A Napoli, ad esempio, un giovane artista, Jr, ha coperto il Duomo con le foto di 606 napoletani. Lo ha fatto anche su altri monumenti nel mondo e si potrebbe definire fotopopulismo, il precursore è stato Oliviero Toscani. Ma il messaggio è che la religione non è il legame con Dio, tramite i Santi, la Madonna e i sacerdoti, ma è il legame di ciascuno con la gente. I veri titolari e destinatari della fede sono i fedeli stessi, un po’ come l’audience in tv; e invece no, la facciata nuda del Duomo ci rappresenta tutti, le 606 facce che la coprono rappresentano solo 606 persone. I simboli veri trascendono i singoli individui, e non sono mortali.
Insomma siamo tornati a giocare con le figurine, quelle altrui le chiamiamo figuracce; quelle belle, invece, fanno punteggio sul pallottoliere dei sondaggi. Ma oltre questo aspetto di facciata, questo ritorno all’infanzia e all’ingenuo affidarsi alle facce e alle faccette, c’è qualcosa di importante da capire. Come il voto non decreta l’esistenza di un popolo sovrano, perché poi tra il voto e le pressioni che lo precedono, le alleanze che lo seguono, le interpretazioni che si danno per non dire dei brogli e delle regole che vengono adottate a vantaggio di alcuni e contro altri, corre un oceano, altro che la sovranità popolare. Così le foto ti danno la parvenza del potere come una casa di vetro, una glasnost avrebbe detto Gorbaciov; ma più vedi la politica in foto e in video e meno la capisci, meno sai dove sta realmente andando, dove si nasconde l’Arcana Imperii e chi e cosa di fatto decide. Il potere è impenetrabile anche se ci illude di farsi vistoso, alla portata di tutti, magari partecipando anche a un torneo internazionale di Tennis o visitando paesi tra ali di folla e saluti di due secondi con singoli cittadini. Alla fine ti accorgi che il potere è ancora quello spettacolo di magnificenza, munificenza e di potenza, come al tempo dei re. E il suo principale messaggio al popolo è la sua apparizione, la sua messa in scena.
Le monarchie, incluso il pontificato, erano regimi di alta visibilità, oggi diremmo regimi fotografici, video-immagini ad usum populi. Festa, fotina e forca. Ma i simboli, i riti, le liturgie non erano solo orpelli decorativi bensì veri e propri messaggi, esercizi di potestà e di consenso, espressioni vive di legami condivisi. Perfino Machiavelli teneva in alta considerazione l’apparire oltre l’essere: sembrare vale più di essere, in molti casi.
Il senso di frustrazione, invece, ti sopraggiunge se oltre le immagini ti chiedi: si, va bene, ma cosa sta facendo al potere, come sta cambiando la vita pubblica con questo o quel regnante? Oltre la forma qual è il contenuto? E lì ti assale un sospetto di raggiro e messinscena quando ti accorgi che sotto la foto, dietro l’immagine, c’è poco e niente, non c’è un atto rilevante, un fatto significativo, una gran riforma, un’opera di cui parlare. Solo apparenza, facciata, fuffa, sorrisi e cartoni. Allora ti viene un’altra idea: che la politica non decida ma insceni, non si mette all’opera ma si mette in posa. Insomma, è tutta una questione di figurine.

Marcello Veneziani                       

La schiena di una donna…

La schiena di una donna è roba per intenditori. Ad amarne la bocca, gli occhi, i fianchi sodi si fa presto. È un fatto da poco. La schiena no, la schiena è un’altra cosa. È un privilegio di fiducia. È la sensualità che dà le spalle al mondo e guarda avanti. La schiena è femmina, e quando si volta lo fa perché non teme inganni. È spavalda, audace, baldanzosa. Ha un binario unico che le corre al centro. Un solco lungo il quale colano, dall’alto verso il basso, le pugnalate che non ha saputo evitare, le carezze liquide di certe mani belle. La schiena non trattiene, la forza di gravità glielo impedisce. La schiena sa come lasciar andare. È un battitore libero, il punto più selvaggio di una donna. Risalirla con la bocca, tenerla ferma con le mani accerchiarla in un abbraccio, è un colpo di fortuna. Ma certa gente non lo sa, e per questo la trascura. La schiena di una donna è la sua forza, il suo più antico cedimento. Si inarca quando ama, sta dritta quando deve, lì i baci sono più belli, i graffi fanno più male. Per capire una donna basta leggerne la schiena. Curva o tesa, morbida o nervosa. Se si lascia prendere, vuol dire che si fida. Se si gira di scatto è perché non torna indietro .

 

 Antonia Storace

 

schiena