Da John Berger, “My beautiful”…complotto.

 

Il desiderio sessuale, quando è reciproco, dà vita a un complotto di due persone contro il resto dei complotti in atto nell’universo. È una cospirazione a due.  Il piano è offrire all’altro una possibilità di respiro in mezzo al dolore del mondo. Non la felicità, ma una sorta di sospensione fisica davanti all’enorme responsabilità dei corpi nei confronti del dolore. In ogni desiderio c’è tanta compassione quanto appetito. Entrambe le cose si complementano. Il desiderio è inconcepibile senza la ferita.  Chi vive senza ferite, vive anche senza desiderio. Il desiderio si propone di proteggere il corpo desiderato dalla tragedia che lo raffigura, e ancor di più, si sente in grado di farlo.  La cospirazione consiste nel creare insieme uno spazio, un luogo, necessariamente temporale, per esimersi dalla ferita inguaribile della carne.  Questo luogo è l’interno dell’altro corpo.  I cospiratori si perdono, ciascuno dentro dell’altro, dove nessuno potrà mai scovarli.

Il desiderio è uno scambio di nascondigli.

 

desiderio

L’amore non è già fatto. Si fa.

 

L’amore non è già fatto. Si fa.
Non è un vestito già confezionato,
ma stoffa da tagliare, cucire.
Non è un appartamento “chiavi in mano”,
ma una casa da concepire, costruire,
conservare e spesso riparare.
Non è vetta conquistata, ma partenza dalla valle,
scalate appassionanti,
cadute dolorose nel freddo della notte
o nel calore del sole che scoppia.
Non è solido ancoraggio nel porto della felicità
ma è un levar l’ancora, è un viaggio in pieno mare,
sotto la brezza o la tempesta.
Non è un “si” trionfale,
enorme punto fermo che si segna fra le musiche,
i sorrisi e gli applausi, ma è una moltitudine di “si”
che punteggiano la vita,
fra una moltitudine di “no”
che si cancellano strada facendo.
Non è l’apparizione improvvisa di una nuova vita,
perfetta fin dalla nascita,
ma sgorgare di sorgente
e lungo tragitto di fiume dai molteplici meandri,
qualche volta in secca, altre volte traboccante,
ma sempre in cammino verso il mare infinito.

 

Michel Quoist

love puzzle

Elogio dell’asino… articolo troppo bello, un peccato non condividere il mio scrittore preferito.

Ho trascorso un pomeriggio, una controra assolata di aprile, in una masseria pugliese a guardarci negli occhi e a studiarci con un’asina. Si chiamava Nina, dal pelo grigio-biondino e aveva nei suoi occhi qualcosa di arcaico, di naturale e di soprannaturale, superstite di un mondo perduto. Gli asini sono stati a lungo i più assidui compagni di vita e di lavoro. Ora sono spariti, incompatibili con l’età della tecnica. Abitavano il mondo magico delle origini, durato fino alla nostra infanzia, ne portavano il peso; oggi sembrano portarne il lutto. Antichi mezzi di locomozione e di trasporto merci, antenati delle moto e delle utilitarie, dei carrelli della spesa e dei trolley.
Animale evangelico, l’asino portò sul suo dorso il Figlio di Dio, nel giorno delle Palme, e pure sua Madre. Il suo raglio, sgraziato come il suo destino, la sua schiavitù senza riscatto, la fatica infinita come l’ingratitudine nei suoi confronti.
Figurava nelle favole di Esopo e di Fedro, si faceva asino d’oro nelle Metamorfosi di Apuleio; era con Zarathustra alla festa dell’asino, lui faceva il verso e ragliava I-A, che sarebbe poi diventato l’acronimo dell’Intelligenza Artificiale. A scuola, l’alunno ottuso e ignorante era definito somaro; due orecchie d’asino crebbero a Pinocchio quando disertò la scuola. La maestra, che insegnava l’umiltà, ci chiamava asinelli quando cominciavamo una frase con Io: “Io asino primo”, diceva; quell’I-O era per lei una variante del suo raglio e una spia della nostra presunzione. Anche il prof diceva che fare lezioni a noi studenti svogliati e disinteressati era come “un lavativo in culo al ciuccio”, cioè un’impresa inutile. Disprezzando le popolazioni dure di comprendonio, Federico II così motteggiava i sudditi di una cittadina pugliese: “gens bitontina tota asinina”.
Incapace di scegliere, l’asino finiva col morire perché non sapeva se prima sfamarsi o dissetarsi. E’ il paradosso di Buridano, usato da tanti filosofi, da Aristotele a Spinoza. L’asino veniva perfino accusato di bullismo vigliacco, sferrando un calcio al leone morente. Asino espiatorio, più del capro, caricarono sulla sua groppa e sulla sua fama troppi vizi e negatività degli umani. Lo adottò come simbolo il Napoli calcio, che un tempo aveva il cavallo, nobile retaggio del Regno borbonico. Ma la squadra, cent’anni fa, andava male e allora sorse la diceria che il suo testimonial più appropriato fosse il ciucciarello di Fechella, un venditore ambulante che aveva un somaro malridotto e scorciato. Ma col tempo il ciuccio diventò portafortuna per la squadra e fu amato come mascotte.
Anni fa sull’isola di Santorini ebbi un’avventura con un asino. Per salire dal porto al borgo non c’era che un mezzo, l’asino. Asini greci, per giunta; più antichi, più cocciuti e mitici degli altri, forse più astuti, più levantini. Montai sull’asino con qualche iniziale riluttanza che il somaro avvertì. Faceva un caldo feroce, e la povera bestia non se la sentiva di salire ancora una volta lungo il tortuoso cammino. Allora decise di farmela pagare. Faceva le curve larghe, strisciando il parapetto. Quando c’era il precipizio rasentava il burrone, per istigarmi al suicidio o per spaventarmi. Quando il tornante volgeva all’interno radeva la roccia per farmi strusciare la gamba e lacerarmi la gamba e il pantalone grigio-asino. A nulla valevano i tentativi di raddrizzarlo con le briglie, gli appelli e le mazzate. Alla fine, quando smontai dal suo dorso, emise un raglio di felicità liberatoria, a cui feci eco anch’io, adeguandomi al suo linguaggio. Fu la sua lotta di classe e di liberazione contro noi odiati turisti e parassiti. La sua gioia era l’assenza momentanea di fatica. Non chiedeva piacere, solo riposo. Gli asini, di notte, sognano altre notti.
I somari sono cavalli che non ce l’hanno fatta o che non si sono montati la testa. Il mulo tentò una mediazione equa, anzi equina. L’asino ricorda Poppea che faceva il bagno nel latte d’asina e Gina Lollobrigida popputa sull’asinello in Pane amore e fantasia. Gli asini portavano sul dorso i doni della terra. Ricordano le strade fuori dal tempo, gli alberi a cui si attaccavano per interminabile tempo, i silenzi della campagna divorata dal sole e animata dal vento. Vivono nei proverbi antichi, metafore viventi della stupidità umana. Gli asini svegliano l’eros in campagna, dove chi s’imboscava era “arrapato a ciuccio”. Evocano gli déi, sono figure mitologiche a cui la scomparsa dal mondo ha donato la grazia ulteriore dell’invisibile. Portatore ignaro di una sapienza che traspare dal suo sguardo ebete ma misterioso. Il suo fiato nella mangiatoia fu il primo climatizzatore dell’umanità, riscaldò Gesù e famiglia. Fu il primo strumento tecnologico, la prima scuola guida per donne e ragazzi prima di passare al cavallo; una specie di veicolo senza targa, di bassa cilindrata, rispetto alla berlina equina. E’ stato l’animale più utile e più maltrattato, più prezioso e più vilipeso, insieme al maiale. Ridicolizzato sul piano estetico, etico e intellettuale. Quanta santa modestia in quelle orecchie lunghe e basse: auribus demissis, dicevano i latini.
Ai bambini quando andava una bevanda di traverso, le mamme dicevano per far sollevare loro la testa: vedi l’asino che vola? Per non soffocare, anche ora dovremmo alzare lo sguardo e stupirci per l’asino che vola. Gli asini volano davvero, quando non li vede nessuno. Avevano conoscenze altolocate per via del presepe e ora che sono spariti dalla terra, se ne sono andati in cielo. Perché di loro che hanno patito in silenzio e servito in umiltà, è il regno dei cieli.

Panorama, Marcello Veneziani

 

Perché i giapponesi sono tra i più longevi al mondo? Il “segreto”è nei bambini .

 

Secondo uno studio pubblicato su The Lancet i bambini giapponesi risultano tra i più sani al mondo e, in prospettiva, la popolazione risulta tra le più longeve. Ecco perché

Perché i giapponesi sono tra i più longevi al mondo? Il segreto è nei bambini

 

I bambini più sani al mondo sono i giapponesi. Secondo i risultati di uno studio pubblicato su The Lancet i bambini che nascono oggi in Giappone hanno una prospettiva di salute migliore dei coetanei occidentali. Il Paese del Sol Levante è famoso per la sua alta “aspettativa di vita” grazie soprattutto ai modelli di stile di vita e alimentazione. Se si guardano i dati non è un caso che meno di un bambino su 5 sia in sovrappeso, mentre il tasso di obesità sia al 4,2%. Dati eccezionali rispetto a quelli dei Paesi europei, dove in media il 29% dei bambini tra i 7 e i 9 anni risulta essere in sovrappeso (obesità inclusa), con variazioni molto significative tra le Nazioni. L’Italia, per esempio, è quarta per prevalenza di sovrappeso e obesità infantile con tassi appena al di sotto del 40%, superata solo da Cipro, Grecia e Spagna. Ma qual è il segreto dei giapponesi?

Il valore dell’alimentazione

A partire dalla scuola elementare, ai bambini viene servito un pranzo composto da piatti molto salutari, spesso caratterizzati dalla presenza di riso e pesce, con alimenti coltivati localmente e preparati al momento in loco. Le opzioni alimentari malsane non sono disponibili. «Gli italiani cominciano già la mattina, a colazione, a mangiare molti zuccheri», ha raccontato Davide Libreri, pediatra dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «Il latte c’è sempre, come se fosse un alimento fondamentale, ma il bambino non deve per forza prendere il latte al mattino». Che cosa può mangiare come alternativa? «Lo yogurt, un toast, del pane con del prosciutto, pomodori e formaggio o le uova. Bisogna cambiare l’approccio alla colazione, che può essere anche salata. Ciò che conta è che ci sia un apporto bilanciato di zuccheri e di grassi buoni».I bambini giapponesi, a pranzo, spesso consumano un piatto a base di riso, che ha un apporto glucidico un po’ più alto rispetto a quello della pasta, ma allora perché non ingrassano? «Perché non mangiano il riso, ma un po’ di riso, che a volte è raffreddato e il processo di raffreddamento migliora l’impatto sulla glicemia, perché rallenta la trasformazione degli amidi in zuccheri», ha specificato Libreri. Un’altra differenza importante riguarda le bibite: i bambini giapponesi non consumano soda e bibite gassate, ma solo acqua e tè. «Noi, invece, introduciamo tantissime bevande zuccherate. Bisognerebbe agire sull’idratazione, educando il bambino a bere acqua o infusi, ma senza zuccheri aggiunti. Inoltre, ricordiamo che il classico succo di frutta, anche se c’è scritto che è senza zuccheri aggiunti, in realtà contiene un concentrato eccessivo di fruttosio». E poi è un prodotto lavorato, non fresco, spesso arricchito di conservanti e coloranti. È meglio una spremuta? «È meglio la frutta fresca, anche con la buccia, che contiene fibre, che riducono l’assorbimento degli zuccheri e favoriscono il processo digestivo».

A scuola di educazione alimentare

I bambini giapponesi studiano educazione all’alimentazione a scuola. Gli studenti visitano le fattorie locali e apprendono nozioni su alimentazione, cucina e buone maniere. Nei plessi scolastici, non ci sono distributori automatici e i pasti delle mense sono preparati completamente da zero, non contengono prodotti congelati e sono i un motivo di orgoglio nazionale.
E, salvo restrizioni dietetiche, nella maggior parte dei distretti i bambini non possono portare il cibo a scuola finché non raggiungono le superiori. E non è tutto, sia alle elementari che alle medie, gli studenti indossano camici e berretti bianchi e partecipano, a turno, al servizio. «In Italia manca, purtroppo, il discorso di un’educazione alla nutrizione», ha continuato il pediatra Libreri, convinto che anche qui i bambini potrebbero partecipare attivamente alla mensa. È solo una questione culturale, proprio come la merenda, che non dovrebbe essere caratterizzata dalle merendine, ma da prodotti meno lavorati, come la frutta o la frutta secca, da inserire anche nei distributori.

Dare il buon esempio a tavola

I genitori giapponesi sono molto attenti al consumo dei pasti in famiglia, vissuto come un rituale. Ispirano i loro figli fin dall’infanzia a provare a gustare un’ampia varietà di cibi sani e diversi. E praticano la moderazione flessibile, quando si tratta di cibi meno salutari, che si traduce nel concedere ogni tanto un biscotto, un gelato o pizza e patatine, mantenendo le porzioni piccole e meno frequenti. E ciò vale per tutti, non solo per i bambini. «Il buon esempio a tavola deve avvenire fin dallo svezzamento», ha consigliato Libreri, sostenitore dell’auto svezzamento. Ovviamente, finché sono piccoli bisogna cercare di preparare cibi senza (o con poco) sale e utilizzare cotture semplici. Crescendo la dieta è più libera, ma è importante continuare a proporre pasti sani, possibilmente consumati tutti insieme e senza la presenza di dispositivi digitali accesi. «Ci sono genitori attentissimi fino ai 12 mesi, poi a 18/20 mesi lasciano i bambini mangiare patatine, gelato e barrette al cioccolato, ecc. Non ha molto senso, perché o credo che sia importante impartire un certo tipo di educazione, che poi si porterà nel futuro, per ridurre il rischio di obesità e ipertensione, o è inutile essere così talebani dai 6 ai 12 mesi e poi liberi tutti». Inoltre, bisogna ridurre le porzioni perché «non abbiamo bisogno di mangiare così tanto».

Favorire il movimento

Secondo l’ Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre il 98% dei bambini giapponesi va a scuola a piedi o in bicicletta. Ciò permette ai piccoli di rispettare la raccomandazione di svolgere 60 minuti di attività fisica da moderata a intensa al giorno semplicemente camminando da e verso la scuola. «I bambini della scuola elementari dovrebbero avere più tempo di giocare al pomeriggio, mentre spesso sono sovraccaricati dai compiti. C’è tanta attenzione all’istruzione, ma poca all’attività fisica», ha precisato il pediatra. Gli studenti della primaria praticano 2 ore la settimana di motoria per l’ordinamento di 40 ore. «La cosa più importante che abbiamo è la salute e ci dedichiamo così poco? È un paradosso, parliamo di prevenzione e poi, nel luogo in cui i bambini dovrebbero imparare a gestirsi, insegniamo che il tempo che devono dedicare all’attività fisica e motoria è limitato». Via libera quindi agli sport, soprattutto quelli di squadra, che insegnano anche il rispetto delle regole, e agli stili di vita attivi, quindi fare le scale, invece di prendere l’ascensore, andare – se possibile – a scuola a piedi e far giocare i bambini al parco, invece che lasciarli casa davanti alla tv e al tablet.

Valentina Rorato__Il Corriere della Sera

Spiragli di luce in terra ma Dio resta in ombra…

 

Con la dichiarazione Dignitas infinita, Papa Bergoglio ha acceso finalmente un po’ di speranza e di fiducia nei cattolici di sempre e nella gente di comune buon senso, che si riconosce nella realtà della vita, nei suoi legami più forti e non nelle ideologie e nelle pratiche diffuse che vogliono negarla. Il documento del dicastero della dottrina della fede non cambierà certo le sorti del mondo, in balia di poteri e culture ben più potenti e prepotenti rispetto alla chiesa e al messaggio cristiano; ma segna un’apertura significativa e una solenne promessa d’impegno. C’è chi l’ha interpretata come un contentino ai conservatori ma non dobbiamo dimenticare le altre parti del documento che riprendono alcune tematiche sociali, pauperiste e green, care a Bergoglio e che hanno fatto parlare di lui come di un papa “comunista”, tutto accoglienza, migranti, dialogo con l’Islam, ecologia e socialismo.Con Dignitas infinita il Papa e la sua Chiesa hanno cercato di abbracciare la difesa della vita, della nascita, della maternità, della famiglia e della natura insieme con la difesa dell’ambiente, dei poveri, degli oppressi, dei migranti, delle donne e di coloro che soffrono. E sullo sfondo la difesa della pace e dei popoli dalla guerra e dalla volontà di supremazia. Ci sono cose che non piacciono ai conservatori e altre che non piacciono ai progressisti, ma il documento si può considerare nel complesso coerente allo spirito evangelico e cristiano, o quantomeno è un punto di equilibrio, anche se in certi passaggi appare a taluni troppo conservatore e reazionario o ad altri troppo socialista e rivoluzionario. Per altri ancora sarà un esempio gesuitico di cerchiobottismo, un’astuzia di pesi e di contrappesi per tenere insieme versanti diversi. Va riconosciuto il suo coraggio di opporsi allo spirito del tempo e ai suoi poteri dominanti, siano essi di natura economica, militare e politica, che ideologica, intellettuale o di genere  . Dobbiamo dunque rivedere il nostro giudizio su Papa Francesco? Non deve spaventare il suo socialismo, il suo anticapitalismo e alla fine nemmeno il suo terzomondismo, anche se non sono nelle vostre corde. Pur con qualche disagio e dissenso si può comprendere la sua posizione anche in seno alla fede. Ma la vera mancanza, il vero deficit nel papato di Bergoglio è un altro. Il Papa è restio ad affrontare il tema cruciale a cui è chiamato nel suo ruolo di pastore, vicario e apostolo: la scomparsa di Dio, l’eclissi della fede, l’avanzata dell’ateismo e del nichilismo, l’assenza di senso religioso che domina la nostra epoca. Il Papa risolve il cristianesimo nella difesa della vita e nell’incontro con l’umanità ma non affronta questo tema più arduo, più difficile ma necessario e indispensabile per il Massimo Rappresentante della Chiesa.  Esprimere la vocazione solidale e socialista nel mondo capitalista o la difesa della vita, della nascita e della famiglia nel mondo egoista e nichilista, non bastano se gli uomini voltano la spalle a Dio, alla fede e al senso religioso, anche solo come domanda. Ma è quella, prima ancora che la battaglia per la vita, per la pace o per la giustizia sociale, la priorità che si addice al Papa. Di riflesso e di conseguenza manca nel suo Papato la difesa della civiltà cristiana, dell’identità religiosa, del sacro, dei simboli e della sua tradizione. Come se la sua unica preoccupazione, la sua sola missione fosse di rispondere al suo tempo; e nel nome dell’oggi sacrificare, vanificare o cancellare ogni eredità del sacro e della tradizione. Un segnale di questo cedimento apparve anche nel pontificato peraltro grandioso e luminoso di Giovanni Paolo II: quando per un centinaio di volte Woytila chiese scusa al mondo degli errori e degli orrori compiuti nel passato dalla Chiesa e dai suoi pontefici. Apparve allora come un atto di umiltà, ma alla fine diventava un atto di presunzione: ritenere che il suo pontificato potesse ergersi ad arbitro supremo di una storia millenaria e che solo la Chiesa del nostro tempo, col suo papato, avesse capito, riconosciuto e reso onore alla verità. Invece ogni cosa va rapportata al suo tempo, non possiamo chiedere scusa per conto d’altri, di altre epoche, in altre situazioni, e di altri pontefici. Perché la verità è figlia di Dio e non è figlia del tempo. Non è un mistero che nel passato ci sono state pagine infami nel nome della Chiesa e della fede, ci sono stati papi pessimi e sono stati commessi abusi, violenze e corruzione, ai nostri occhi inconcepibili. Ma se è per questo, sono inconcepibili nel nostro tempo anche le pagine di santità, di martirio, di fede e di dedizione totale che rifulsero del passato. Se un papa deve abbracciare il mondo e ogni versante della fede, ogni sensibilità, deve anche abbracciare la storia da cui proviene, e caricarsela tutta sulle spalle, come una croce; perché quella storia non fu solo gloriosa ma non fu nemmeno solo infame. E’ storia di uomini, seppure ispirati da Dio; dunque imperfetti, coi loro limiti ed errori. Per ogni ingiustizia nel nome di Cristo i secoli hanno offerto storie luminose di abnegazione, di sacrificio, di dedizione; per ogni rogo di streghe e di eretici ci furono esempi fulgidi di martirio e di carità. Noi oggi siamo incapaci degli uni e degli altri, di quei crimini come di quella santità. E questo risale al motivo di fondo che prima dicevamo: la fede è fredda, quasi spenta e non dà luogo da noi né a fanatismi né a dedizioni gloriose. Mancano i santi, non ci sono gli esempi da imitare, dobbiamo accontentarci solo dei virtuosi sermoni. Per ricorrere a un’immagine, è come se della Basilica di San Pietro fosse rimasto solo il colonnato che sembra avvolgere l’umanità in un abbraccio largo e accogliente; ma fosse sparita la basilica con la cupola, dov’è il carisma e la liturgia, il sacro e il santo, la tradizione e la preghiera, la testa e il cuore della fede. Manca il senso religioso. E non può essere sostituito né dalla solidarietà umanitaria né dalla difesa della vita. E’ un grande passo avanti la difesa senza ambiguità, chiara, decisa e precisa, della vita rispetto alla morte e all’aborto, della maternità e della famiglia rispetto alle maternità surrogate e alla “pericolosissima teoria del gender”. Ma che ne è di Dio nei cieli e del senso religioso in terra?

Marcello Venaziani

La stupidità infinita dell’uomo con il denaro digitale…

 

La banca si ferma e le persone non possono pagare. Ma non basta il dover lasciare la spesa lì, continuano testardamente con card e telefoni. Cashfree brainfree

Dignità infinita, dice il Papa riguardo l’uomo. Stupidità infinita, dico io riguardo il medesimo. Per giorni sito, app, bancomat di Banca Sella sono rimasti bloccati, impedendo ai correntisti di compiere qualsivoglia operazione: per dirne una, pagare. C’è chi si è trovato alla cassa del supermercato e, senza banconote, ha dovuto lasciar lì la spesa. Un simile episodio avrebbe dovuto accendere una lampadina nella mente oscurata dei progressisti, solitamente urbani, che si vantano di non toccare contanti da anni. Quelli che al bar pagano il caffè con lo smartphone. Contactless moneyless. Avrebbe dovuto far scattare un grande movimento di lotta al denaro digitale, finalmente compreso come strumento per l’asservimento totale dell’individuo alla Tecnica e allo Stato. Un movimento benedetto dalla Chiesa, fra l’altro, perché non esiste dignità senza libertà. Ma niente. Continuano a pagare (se ci riescono) con card e con telefoni. Cashfree brainfree.

Camillo Langone___da IL FOGLIO

denaro digitale

Una statua tatuata in Santa Maria dei Miracoli, a Roma…

Una statua tatuata in Santa Maria dei Miracoli, a Roma. Ma le profonazioni corporee sono espressamente proibite: credere in Dio e nei santi, non ai preti..

La biopazzia al potere…

 

In concomitanza con il convegno internazionale sulla maternità surrogata , a Roma in questi giorni, mentre cercavo documentazione al riguardo , mi è capitato sotto gli occhi un articolo del 1917 di Marcello Veneziani, che mi è parso molto attuale. Anche se da allora pure le menti più ottuse e bigotte si sono assuefatte a queste abitudini quasi correnti, anche se nessuna delle nuove regole viene ancora imposta per legge, e per fortuna, anche se ognuno ha diritto di vivere la proprio vita come meglio preferisce,da quando l’uomo vive secondo certe regole, che regole non sono, ma sono eventi naturali, seguendo principi che nel corso dei secoli si sono mantenute, mi pare normale,che rimangano apertissime molte questioni etiche e morali e di queste si possa discutere, nonostante il mainstream.

Ma che razza di società sta sorgendo? È un tam tam quotidiano che colpisce la vita, la morte, la nascita, la famiglia. C’è una Grande Fabbrica dell’Opinione che   marcia a senso unico, in un corso accelerato di demolizione dell’umanità come l’abbiamo finora conosciuta. E impone a tappe forzate la corsa verso un mondo capovolto.La mamma diventa un ente superfluo, da sopprimere o da ridurre a utero in affitto per la gioia delle coppie omosessuali che vogliono comprarsi un figlio. E i magistrati, smentendo la legge, confermano la piena legittimità dei loro desideri e aggiungono che non c’è bisogno di geni per chiamarsi genitori. Ma la parola genitori, guarda un po’, deriva proprio dalla parola geni. Si può accettare la dizione “genitori adottivi” perché un padre e una madre suppliscono ai genitori biologici; ma due uomini dello stesso sesso che per un loro desiderio decidono di farsi il loro figlio non sono genitori in alcun senso. Al più sono tutori. La madre non è un accessorio sostituibile. L’abolizione della mamma segue a ruota la soppressione del papà, ente inutile in una società senza padre. La società parricida e matricida è una società senza figli, salvo quelli nati in provetta. Si deplora la politica che non segue subito l’onda emotiva e non legifera in materia come ordina l’Onda, coi suoi artefici e i suoi magistrati. E invece passa inosservato il silenzio assordante e imbarazzante, di Papa Bergoglio che di fronte allo stravolgimento della vita e della famiglia, dagli uteri in affitto ai suicidi assistiti, parla d’altro, fa finta di niente… Una generazione sta demolendo in poco tempo l’esperienza di tante generazioni che l’hanno preceduta, con una presunzione assoluta. E il Santo Padre tace. Cosa c’è alle origini di questa follia? C’è la perdita dei confini, del senso della misura, della natura e del limite. Sono io, solo io, a decidere quando morire e come; sono io a decidere, senza il concorso di una donna, di avere un figlio, affittando un utero o facendo shopping oltreoceano. Sono io a decidere se interrompere o meno una gravidanza non desiderata, anche se va di mezzo la vita di una persona.  La libertà e la modernità si riducono a non porre limiti ai miei desideri. Non conta nulla il resto, gli altri, i legami affettivi, la paternità, la maternità, la responsabilità di essere al mondo e di mettere al mondo.Non conta altro che la mia volontà. Questa è la follia del nostro tempo, il potere smisurato dei propri desideri che viene presentato come Diritto, Libertà e Autonomia. E chi si oppone viene accusato di vivere nel medioevo. Dimenticando che anche noi, nati in famiglie da padri e madri, siamo nati e cresciuti in quel medioevo. Se difendere la maternità, la paternità, la famiglia e la vita sono segni di medioevo, allora cos’è la modernità, il trionfo del disumano, la perdita del limite, la dittatura dell’Ego, l’abolizione della natura? No, signori, questo non è il futuro, questa è la fine della civiltà e la fuoruscita dall’umanità nel nome di un transumano geneticamente modificato, dove l’identità è sostituita dal desiderio, l’umano dal mutante e il noi siamo dall’Io voglio.

           Non confondete la fine con un inizio

Marcello Veneziani

Aspettiamo sempre,perchè?

Aspettare è una imposizione. Eppure è l’unica cosa che ci fa percepire fisicamente il logorio del tempo e ce ne fa conoscere le promesse. Esistono infinite forme di attesa: in amore, dal medico, alla stazione o nel traffico. Aspettiamo: l’altro, la primavera, i numeri del lotto, un’offerta, il pranzo, la persona giusta, e aspettiamo Godot. I compleanni, i giorni di festa, la felicità, i risultati sportivi, un referto. Una telefonata, il rumore della chiave nella toppa, il prossimo atto e la risata dopo il finale di una barzelletta. Aspettiamo che un dolore smetta e che ci colga il sonno o che il vento si plachi. Inerzia, distrazioni o noia: nel registro delle ore programmate, l’attesa è la pagina vuota da riempire. Che nel migliore dei casi ci ricompensa con la libertà.

Andrea Köhler L’arte dell’attesa

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Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com’è.

 

Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com’è.

Mettersi vicino a coloro per i quali questo mondo è diventato intollerabile e ascoltarli.

L’unico sogno che vale la pena di vivere è vivere finché si è vivi e morire solo quando si è morti.

Cosa significa esattamente?

Amare. Essere amati.

Non dimenticare mai la propria insignificanza.

Non abituarsi mai alla violenza indicibile e alla volgare disparità della vita che ci circonda.

Cercare la gioia nei luoghi più tristi,  inseguire la bellezza là dove si nasconde.

Non semplificare mai quello che è complicato  e non complicare quello che è semplice.

Rispettare la forza, mai il potere.

Soprattutto osservare. Sforzarsi di capire.

Non distogliere mai lo sguardo.

E mai, mai dimenticare.

John Berger – da  Modi di vedere

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