Camilleri e De Crescenzo scrittori pop, non giganti..

Nella stessa settimana di mezza estate, un luglio di cinque anni fa, il Sud, l’editoria italiana e la letteratura popolare persero due grandi pop-writer e due figure pubbliche con grande seguito: Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo. Entrambi hanno reso più accattivante il sud, i suoi linguaggi, il suo modo di vivere e di pensare, la Sicilia di Camilleri e la Napoli di De Crescenzo. La sorte ha dato a Camilleri il privilegio di vivere una lucida e riverita vecchiaia, ha recitato per vent’anni il ruolo di Grande Vecchio e di Oracolo Siculo della Tv e delle Lettere. Invece ha dato a De Crescenzo un ventennio di declino e di ritiro dalle scene pubbliche per ragioni di salute. Ricordo vent’anni fa a una cena De Crescenzo si presentò esibendo un biglietto preventivo di scuse perché non riconosceva i volti delle persone, anche a lui note o addirittura amiche. I primi tempi si pensò a una spiritosa trovata dello scrittore, che conoscendo molte persone non ricordava i loro nomi e dunque era un modo gentile e simpatico per scusarsi in partenza della distrazione e non passare per superbo e scostante. In realtà soffriva di prosoagnosia, una malattia seria.

Entrambi sono stati scrittori assai popolari, e l’uno deve molto alla traduzione televisiva dei suoi romanzi, l’altro al cinema e alla partecipazione attiva nella simpatica scuola meridionale di Renzo Arbore. De Crescenzo si tenne sempre lontano dalla politica e dalle ideologie, si definì monarchico, indole di destra ma votante a sinistra, un po’ ateo e un po’ cristiano, ma preferì non mischiarsi nelle vicende della politica. Camilleri invece da anni ormai aveva assunto il ruolo di testimonial della sinistra, si era schierato apertamente in modo radicale, con qualche nostalgia del comunismo e un’antipatia viscerale che tracimava nell’odio verso Berlusconi ieri e verso Salvini di recente, fino alla famosa dichiarazione del vomito. Ma per giudicare un autore si deve avere l’onestà intellettuale e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nella letteratura. A questo criterio ci sforziamo di attenerci, ma l’aperto schierarsi di Camilleri gli è valso da morto una glorificazione veramente esagerata. Mentre De Crescenzo ha avuto un trattamento sottotono.  Eppure De Crescenzo, oltre a riabilitare con arguzia il sud, aveva avuto il merito non secondario di aver reso simpatica e popolare la filosofia a tanti, e soprattutto la filosofia antica. Aveva reso famigliare la figura di Socrate, i presocratici, lo Zarathustra nietzschiano, stabilendo un ponte con la Magna Grecia. I professori di filosofia trattavano con sussiego De Crescenzo, come se fosse un abusivo del pensiero e un profanatore della filosofia: ma lui non ha trascinato in basso la filosofia, ha innalzato il lettore comune facendogli scoprire e amare la saggezza dei filosofi. Lui è stato un campione amabile di filosofia pop. Quanti accademici contemporanei hanno allontanato i lettori dalla filosofia, coi loro linguaggi involuti che nascondevano scarsa originalità e più scarso acume. Allontanavano la gente senza avvicinarsi alle vette del pensiero. Meglio De Crescenzo a questo punto…

Dal canto suo Camilleri è stato uno scrittore di talento, ha inventato un suo linguaggio gustoso e simil-siciliano, ha scalato le classifiche librarie quanto e più di De Crescenzo, anche perché la narrativa tira più della saggistica, le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo, aiutato dal successo televisivo di Montalbano che è una delle fiction più vendute nel mondo.  Ma i necrologi agiografici, gli infiniti servizi dedicati dai tg, i paragoni con Pirandello e Verga, e perfino con i classici, non gli hanno reso un buon servizio.   Quando muore un personaggio pubblico bisogna rispettare la memoria e difenderlo dai suoi detrattori come dai suoi esagerati incensatori. Camilleri intrigava con le sue trame, sapeva gigioneggiare in video e sul palco, col suo tono da cassandra sicula e l’aura istrionica del vegliardo, assumendo un ruolo ironico-profetico. Grande affabulatore. Sul piano civile, sbandierava l’antifascismo, seppure molto postumo, ieri antiberlusconiano, poi antisalviniano. Una polizza per farsi incensare, come era già avvenuto in vita, e come è avvenuto in morte. Era uno scrittore bravo, un giallista e un autore di polizieschi di successo, non un Gigante, non il Grande Scrittore che entra nella storia della grande letteratura. Non esagerate, Camilleri rimane nella bestselleria corrente e nella personaggeria di scena del nostro tempo. Non rendetelo ridicolo, paragonandolo a Pirandello e Verga e pure a Sciascia. E’ come se negli anni trenta avessero paragonato Guido da Verona e Pitigrilli, autori di successo e di talento, a D’Annunzio e Pirandello. Via, abbiate senso della misura e delle proporzioni. Non mettetegli pennacchi e aureole, abbiate rispetto di un morto; lo scrissi allora sui social e oltre a una marea di consensi ricevetti insulti isterici dai suoi fan, che sono spesso lettori di un solo autore, non hanno termini di confronto, e credono che leggere Omero o Camilleri, Proust o Saviano sia la stessa cosa. La mia polemica non era rivolta contro Camilleri ma contro chi lo usa per scopi politici e lo innalza a tal punto da rendergli un cattivo servizio. Sappiate distinguere il successo dalla gloria, il cantastorie dalla storia, il “colore” dal pensiero. Pirandello descrisse a teatro la condizione dell’uomo contemporaneo, la perdita delle verità, l’avvento del relativismo; Camilleri seppe intrattenere, piacevolmente, migliaia di lettori e milioni di spettatori. Sono due cose diverse. Camilleri non è Pirandello, e De Crescenzo non è Benedetto Croce. Lo dico per difendere la verità e la memoria di ambedue, De Crescenzo e Camilleri.

Marcello Veneziani                                                                                      

Scompare il freno a mano, e l’uomo è defitivamente addomesticato dalla tecnica..

Comprare una macchina nuova e scoprire che esiste il freno di stazionamento elettronico. I vantaggi sono risibili. Torna in mente Jünger: “Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quello dell’animale da macello”

Compro una macchina diesel per tornare all’antico e scopro che è scomparso il freno a mano. Dove caspita è finito? Chiedo al venditore, sorride: è stato sostituito da un freno più moderno, il freno di stazionamento elettronico. Al progresso non c’è proprio modo di sfuggire… Vantaggi? Il venditore sorride di nuovo: adesso li fanno così. Insomma non li conosce nemmeno lui i vantaggi. Per trovarli devo guardare su internet e sono, sarebbero, due: 1) libera spazio; 2) è comodo. Il vantaggio 1 è risibile: eliminando la leva del freno si liberano pochi centimetri cubi. Il vantaggio 2 è inquietante: a chi mai un pulsante risulterà più comodo di una leva? A un ibrido uomo-mollusco? Ovviamente ci sono degli svantaggi, il primo è la manutenzione maggiore: per settare il freno c’è bisogno di taratura elettronica, dunque di personale iperspecializzato. Mi torna in mente Jünger: “Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quello dell’animale da macello”. Il freno di stazionamento elettronico, di utilità dubbia e fragilità certa, è un’altra tappa dell’addomesticamento dell’uomo da parte della tecnica. Che ormai è del tutto autonoma e serve innanzitutto a sé stessa. E’ la tecnica a decidere il percorso: l’uomo può soltanto sorridere, accettare, atrofizzarsi.

Camillo Langone_da_IL FOGLIO         

mani legate                                                              

Speciale empatia…

Riservo a pochi il diritto di avere accesso al mio cuore e per me raccontarsi è una forma di intimità. Ho un’idea d’amore e amicizia oramai rara, perchè ogni legame per me richiede profondità. Il bene che ti darò sarà un prolungamento del bene che mi voglio.

La mia felicità diventerà la tua ed il tuo dolore sarà anche il mio. Questo è l’unico modo di amare che conosco. Un modo che mi lega tanto a chi amo, ma anche un modo che mi dimostra quanto sia doloroso confondere gli altri con te stesso.

Charles Bukowski

 

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L’overparenting è una trappola per genitori e figli. Si chiama così la tendenza, facilitata dalla tecnologia, a controllare sempre più i figli, dalle cose di scuola alle uscite, con conseguenze di cui si discute molto.

 

Il messaggio che non vorresti mai ricevere a mezzanotte è il messaggio di un altro genitore, inizia con «non sono solito intervenire nelle questioni dei ragazzi…», continua con «ma tuo figlio ha fatto questa cosa orribile» e di solito proviene da una persona che è assolutamente solita intervenire a gamba tesa in questioni minori come il prestito di cancelleria. Di solito opto per la parte del cane bastonato, e rispondo con iperboli fuori luogo che sono “mortificatissima” e che mio figlio è un essere abbietto; e in genere la contromossa funziona, ridimensionando l’ira del genitore elicottero.Tenersi informati sui dettagli della vita scolastica e relazionale dei bambini in età scolare e ostinarsi a timonarla da remoto è solo uno dei primi segnali dell’overparenting, un fenomeno che – originatosi negli anni Ottanta in una società americana che vedeva espandersi la forbice sociale – insorge innocentemente tra neogenitori che al parco non tollerano il minimo graffietto, ma continua pericolosamente con la geolocalizzazione degli adolescenti attraverso l’opzione “trova il mio iPhone” o, come nel caso di una famiglia che conosco, con l’installazione di telecamere di sicurezza in tutte le stanze della casa, bagni compresi, per sorvegliare i figli liceali mentre in genitori sono in ufficio. «Ma lo sai che tuo figlio è a casa mia? Ho appena visto la sua giacca buttata sul divano in un’inquadratura del soggiorno». (Ovviamente io non lo sapevo.)  Da genitore poco elicottero – per questioni di tempo e salute – non amo sentirmi riferire pettegolezzi sui miei figli. Di solito fermo gli zelanti informatori: non l’ho saputo perché non lo voglio sapere. Ovviamente, la maggior parte di loro pensa che io sia una sciamannata. La storia dell’overparenting è molto più complessa e interessante di quanto la banale aneddotica personale possa restituire, e i suoi effetti sono dibattuti da studi e ricerche che ne comprovano alternativamente i danni o i benefici. Se negli anni Settanta, quando il gap salariale tra laureati e non-laureati negli Stati Uniti era piuttosto basso, lo stile genitoriale passò da autoritario a permissivo, negli anni Ottanta, in concomitanza con l’allargarsi del dislivello sociale, e quindi con l’aumentata competitività per entrare nelle scuole giuste, si sviluppò uno stile “interventista”, caratterizzato da grandi investimenti nelle attività extrascolastiche, un monte ore triplicato ad affiancare i figli nei compiti, e un’ansia da prestazione generalizzata.

Uno studio dell’Università di Minnesota del 2018 osservava che bambini i cui genitori tendevano a pilotare i giochi nella prima infanzia sviluppavano nel tempo più problemi relazionali e disturbi d’ansia, e una minore capacità di problem-solving. Un’indagine più recente invece, confluita nel volume Love, money and parenting: how economics explain the way we raise our kids, sostiene che in una società diseguale, quelli che chiamiamo eccessi genitoriali portano a benefici duraturi. Pare infatti che i ragazzi monitorati costantemente dai genitori (quelli, insomma, che a differenza dei miei figli non dimenticano mai il flauto) ottengano voti più alti degli altri. A questo proposito, mi viene da obiettare due cose. La prima è che altrettanti studi attestano l’aggravarsi della salute mentale dei ragazzi adolescenti (sebbene questa condizione venga associata più spesso agli strascichi della pandemia o l’utilizzo degli smartphone, che con le pressioni dei genitori). La seconda obiezione – più ironica – è che, nella mia modesta esperienza, la ragione per cui i ragazzini over-parentizzati ricevono voti migliori è esattamente il terrore che professori e presidi provano ormai verso questo tipo di genitori, sempre pronti a contestare una nota, una valutazione, una scelta educativa dell’insegnante. Si arriva a un punto in cui i più rilassati di noi iniziano a sentirsi in colpa per non essere al corrente di ogni futile risvolto della vita del proprio figlio, a sentirsi in difetto per non aver partecipato a tutti i ricevimenti professori e open-day cittadini; finendo per adottare controvoglia uno stile più presenzialista e aggressivo, pur di difendere i propri orfanelli dalle ingerenze di quegli altri. Una cosa a cui forse noi genitori di minorenni non pensiamo mai, ma su cui varrebbe la pena di concentrarsi, è che un certo livello di coinvolgimento negli affari dei propri bambini oggi si traduce in una relazione altrettanto dipendente con i figli nella fascia 18-34 anni. E non mi riferisco alla vecchia e sana famiglia allargata coi nonni a portata di mano; perché i figli under 34 non li fanno, i nipoti. Mi riferisco proprio al cordone ombelicale come fardello eterno.

Secondo sondaggi del Pew Research Center di Washington, la gran parte di genitori e figli americani non è d’accordo con me. I primi si dichiarano soddisfatti dei rapporti intensi coi propri giovani adulti, e questi ultimi a loro volta apprezzano i consigli di vita provenienti da cinquantenni esperti e genuinamente interessati a loro. Eppure, questo perpetuo “parental control” che da un lato previene i comportamenti a rischio dei giovani e innalza il loro livello di istruzione, dall’altro li scoraggia a formare nuove famiglie, lasciandoli in una precarietà emotiva e in un bisogno di attenzione e cura che aumenta l’occorrenza di malattie mentali, e soprattutto rinnova il bisogno della tutela genitoriale. Le ricerche citate si rifanno a osservazioni fatte nel lungo periodo su una generazione per la quale l’uso della tecnologia non era ancora così invasivo. Quel che ancora è poco trattato è quanto le tecnologie recenti abbiano allargato le potenzialità del controllo. Dagli anni Dieci a oggi, le chat e sotto-chat di genitori sono diventate incubatori di panico collettivo e dietrologie, nonché facilitatori dell’emarginazione degli elementi meno assimilabili, e naturalmente strumenti atti allo spionaggio costante dei propri bambini e dei passi falsi degli insegnanti. Alle scuole medie, gli stessi telefoni, regalati direttamente ai bambini, sono diventati cercapersone, microchip, termometri dell’umore e suggeritori di risposte persino durante le lezioni, tanto che alcuni genitori forniscono ai figli perfino un telefono rotto da consegnare nella cesta all’inizio della mattinata, per poter tenere addosso il secondo smartphone funzionante. La mattina, collegandosi all’app del registro scolastico, gli ansiosi controllano l’esito dell’appello, e se il figlio risulta “assente” si attaccano subito al telefono. Il poveraccio di solito è solo cinque minuti in ritardo: inutile marinare la scuola con gli strumenti attuali di tracciamento; inutile mentire sulle strade percorse, perché il braccialetto contapassi collegato all’app Salute di papà potrebbe smentirli anche su questo. «Quella disgraziata non è a dormire dall’amica a Porta Romana», diceva un padre durante una cena guardando l’iPhone. «La localizzo in mezzo a un campo. È a un rave fuori Milano. Lei non sa che la seguo col satellite».

Alcuni professori, per normalizzare la socializzazione degli adolescenti, propongono gite smartphone-free nella natura. Ma anche lì c’è un’alzata di scudi: se voglio sentire mio figlio ogni sera, ne ho il diritto. Non c’è da stupirsi se metà degli adolescenti, seguiti da mamma e papà su Instagram, abbiano secondi profili segreti dove condividono la loro vera identità, costretti a sdoppiarsi e a essere trasgressivi più per mancanza di privacy che per vera ribellione. Ma quali sono i sentimenti dietro alla mania di controllo di questo tipo di genitori? In piccola parte, c’è l’egoismo di voler placare le proprie ansie o di volersi affermare attraverso figli eccellenti; ma per lo più, c’è il desiderio sincero di proteggerli dai pericoli di un mondo che capiamo sempre meno e di oliare le strade che dovrebbero portarli ad avere “successo.” Qualcuno ha detto anche che orientare i comportamenti dei figli a compiacere le aspettative del mondo della scuola e del lavoro rischia di formare generazioni di individui meno liberi e meno creativi. Io penso che fare proiezioni sulla felicità e l’affermazione personale di bambini che vivranno in un mondo surriscaldato e abitato dall’intelligenza artificiale sia poco realistico. Se dobbiamo allentare le maglie del controllo genitoriale, è perché la dedizione richiesta da un simile approccio e consentita dai mezzi a disposizione è potenzialmente illimitata, e fa male prima di tutto a noi adulti.  Lo so perché io stessa, per non farmi mettere i piedi in testa, ho finito per dover diventare un po’ control-freak dei figli. Ma qualche volta, in teoria per punirla per qualcosa, tolgo il telefono a mia figlia. Lei immancabilmente in quelle settimane offline arriva a casa in ritardo, ha contrattempi, perde cose per strada. Io inizio a chiamare la scuola, gli insegnanti, le vicine, i panettieri sulla strada. Ma poi penso a me stessa, a quando a mezzanotte cercavo a Parigi una cabina telefonica per dire ai miei che ero rientrata in collegio. E penso che in quella mezz’ora di macabri scenari mia figlia è proprio il contrario che in punizione: lei in quella mezz’ora è una ragazza libera. E mi sto liberando anch’io, che mi devo allenare a perderne pian piano le tracce prima di ritrovarmi a cullare una venticinquenne insicura. E sono ancora più orgogliosa di me quando torna a casa, e incasso la sua storia inventatissima sull’imprevisto che l’ha fatta tardare. Sono orgogliosa della mia tempra finché arriva mezzanotte e qualche over-parent mi messaggia: «Non è mia abitudine interferire con le vite dei ragazzi, ma è bene che tu sappia che tua figlia alle sei di sera cazzeggiava allo skatepark».

Arianna Giorgia Bonazzi __rivista STUDIO

 

genitoriiperprotttivi

Al mondo tutto è possibile…

 

E l’uomo allora disse:

“La verità sul mondo, è che tutto è possibile. Se non l’aveste visto tutto fin dalla nascita e quindi non  lo aveste deprivato della sua stranezza vi sembrerebbe per quello che è, una tripletta in uno spettacolo di medicina, un sogno febbrile, una trance che si anima di chimere che non hanno né analogie né precedenti, un carnevale itinerante, un tendone migratorio la cui destinazione finale, dopo molti passi in molti campi fangosi , è indicibile e piena di pericoli oltre ogni calcolo.
L’universo non è una cosa con confini  ,e l’ordine al suo interno non è vincolato da alcuna latitudine nella sua concezione al fatto che si debba ripetere ciò che esiste là in qualsiasi altra parte. Anche in questo mondo esistono più cose fuori dalla nostra conoscenza , come l’ordine ,nella creazione che vedete  , è solo quello che avete messo lì, come una corda in un labirinto, in modo da non perdere la strada. Perché l’esistenza ha il suo ordine e la mente di nessun uomo può orientarla come vuole, poichè la mente stessa non è altro che una casualità fra tutte le altre.

Cormac McCarthy,  Meridiano di sangue, o,  Il rossore di sera nell’ovest-

 

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La sposa faidate, lui non lo sa..

Viva la sposa autarchica di Martina Franca. Una ragazza di quarant’anni si sposa in chiesa, nella bella chiesa di San Martino del bellissimo borgo pugliese, nei giorni del festival della Valle d’Itria; fa addobbare la chiesa di fiori, spende una cifra per il ricevimento nuziale, arriva in auto vestita da sposa e aspetta invano il suo sposo; ha deciso di convolare a nozze all’insaputa del suo prescelto o nonostante il suo parere contrario. Poi quando il parroco la invita a lasciare la Chiesa per evidente vizio di procedura, non può celebrare con lo sposo contumace, lei decide di sfogare nel mare di Puglia la sua solitudine di sposa faidate, autoreferenziale, solitaria. E il naufragar è salato in questo mare… Una storia surreale, per certi versi romantica, che colpisce in modo particolare me che scrissi anni fa La sposa invisibile. Stavolta invisibile è lo sposo, che esiste ma non ha mai detto di si alla sposa, si dice anzi che sia già impegnato.
La storia si può interpretare in tre modi diversi. Il primo è che l’amore di coppia è fondato su un elementare principio: la reciprocità. Mancando quella prima condizione, manca di conseguenza tutto il resto. Certo, l’amore è asimmetrico, a volte si ama senza essere (del tutto) ricambiati ma non si può prescindere dal consenso, almeno iniziale. Ci sono persone rimaste sole tutta la vita perché non sono riuscite a dimenticare o rimpiazzare il loro amore perduto. Esistono poi gli amori ideali, all’insaputa dell’amato o senza il suo consenso. Ma gli amori ideali non pretendono di convertirsi in realtà ad ogni costo. Restano nella sfera ideale, come l’amore di Dante per Beatrice e di Leopardi per Silvia, e si sublimano in ispirazione poetica. Diventano invece persecutori, paranoici e anche aggressivi quando pretendono amore anche se non sono ricambiati. I casi peggiori viaggiano tra lo stalking e la violenza, fino a uccidere la persona amata.
In questo caso pugliese l’amore autarchico non infierisce sulla persona amata; si limita alla scena virtuale, alle nozze unilaterali e incompiute.
Qui si accede a un secondo livello. Ed è quel fenomeno sociale, ormai diffuso da più di trent’anni, tra il Giappone e gli Stati Uniti, che è la sologamia. A differenza della sposa pugliese, le nozze qui non prevedono la presenza neppure virtuale – in cartonato o in ologramma – di uno sposo reale; è un consapevole matrimonio solo con se stessi. Una pratica più diffusa tra le donne, in misura minore dagli uomini; di chi sente il bisogno di celebrare il suo statuto di singolo, sposandosi con se stesso. Un amore narcisistico che nel mio libro dedicato all’Amore necessario ho catalogato attraverso la formula Io amo Io. Certo, un matrimonio così non ha bisogno di una chiesa e di un sacerdote, e nemmeno di un ricevimento, ma è in totale autarchia, è solipsismo nuziale, autosufficienza amorosa, una forma nuova di onanismo nuziale. È il sintomo più vistoso della solitudine contemporanea, la perdita dei confini tra il virtuale e il reale, l’individuo assoluto che non ha bisogno di nessuno e si marita con se stesso, in selfie, pur sapendo che la scelta non produce autogravidanza, al più ricorre a uteri in affitto e fecondazioni artificiali. Del resto, la nostra società prevede l’esistenza della famiglia mononucleare, che non allude alla mononucleosi ma vuol dire che il singolo fa famiglia da solo; da non confondere con la famiglia monoparentale, dove c’è un solo genitore ma ci sono figli, magari frutto di precedenti unioni. A me sembra assurdo e del tutto improprio definire famiglia qualcosa che ne è la negazione, perché priva di un noi. Chiamatelo come sempre è stato, celibato; la donna che non si sposa, da noi in Puglia, è chiamata vacantina, alludendo alla vacatio maritale; non si è sposata, è rimasta signorina.
A proposito, qui si accede al terzo livello, si lascia il nostro tempo e si entra invece nel nostro luogo. Il matrimonio resta nel sud, anche in tempi di single e di matrimoni di breve durata, il culmine della vita personale e sociale, il principale investimento famigliare e la principale industria, con un indotto pazzesco. Nozze che costano un occhio della testa, ricevimenti che dissanguano famiglie, feste che durano tantissimo, in proporzione più dei matrimoni che celebrano. Non a caso, in Puglia vengono a sposarsi anche pascià e sultani, perché la festa nuziale da loro dura a lungo, per giorni. Dodici ore filate tra attese, messa, lancio del riso, servizio fotografico, pranzo infinito, ballo, trenino, presepe familiare e amicale al completo; sfibrano anche i più volenterosi sposi e i più eroici invitati. E li conducono già durante il ricevimento a delineare separazioni e rotture tra i clan familiari. Il matrimonio al sud, in Puglia, è un test psico-attitudinale di convivenza nella lunga durata che comporta pazienza, resistenza, recita ad oltranza, capacità di sopportare il caldo e altre avversità: è davvero una scuola di alta formazione al sacrificio per mettere su famiglia.
In passato ho raccontato che in una interminabile festa nuziale, corse come una invocazione diffusa, il paragone tra nozze e funerali e la preferenza per questi ultimi: le celebrazioni funebri durano meno, non devi farti l’abito per la cerimonia, non devi dissanguarti coi regali e i ricevimenti; il morto non dà bomboniere e muore una volta sola, invece gli sposi a volte si risposano; ai funerali puoi partecipare anche restando in disparte, dopo la messa devi solo sobbarcati una breve passeggiata detta corteo funebre; e non c’è il disc jockey. Insomma, capite, se si arriva a rivalutare perfino i funerali, c’è qualcosa di perverso e di insopportabile in quelle cerimonie nuziali. Nozze, voce imperfetta del verbo nuocere. Si aggiunga che in Puglia il lancio del riso è considerato troppo lieve, da noi il riso va di solito con patate e cozze; ma il lancio di riso patate e cozze colpirebbe molto più pesantemente gli sposi e i loro accoliti, detti testimoni, lasciandoli felici e contusi.
Invece la sposa autarchica di Martina Franca ha sognato di sposarsi anche senza sposo e senza invitati, pur prevedendo in astratto entrambi. Si è sobbarcata gli oneri nuziali e ha risparmiato al mondo e allo sposo presunto quella terribile giornata nuziale nel caldo torrido di luglio. Dite quel che volete, ma considero questa scelta il più grande dono d’amore che la sposa ha fatto al suo sposo riluttante e ai suoi cari…

Marcello Veneziani.         

Quando si incomincia a intravedere il traguardo della vita…

 

Cinque sono le cose che un uomo rimpiange quando sta per morire. Non saranno i viaggi confinati nelle vetrine delle agenzie che rimpiangeremo, e neanche una macchina nuova, una donna o un uomo da sogno o uno stipendio migliore.

La prima sarà non aver vissuto secondo le nostre inclinazioni ma prigionieri delle aspettative degli altri. Cadrà la maschera di pelle con la quale ci siamo resi amabili, o abbiamo creduto di farlo. Ed era la maschera creata dalla moda. La maschera di chi si accontenta di essere amabile. Non amato.

Il secondo rimpianto sarà aver lavorato troppo duramente, lasciandoci prendere dalla competizione, dai risultati, dalla rincorsa di qualcosa che non è mai arrivato perché non esisteva se non nella nostra testa, trascurando legami e relazioni.

Per terzo rimpiangeremo di non aver trovato il coraggio di dire la verità. Rimpiangeremo di non aver detto abbastanza ”ti amo” a chi avevamo accanto, ”sono fiero di te” ai figli, ”scusa” quando avevamo torto, o anche quando avevamo ragione. Abbiamo preferito alla verità rancori incancreniti e lunghissimi silenzi.

Poi rimpiangeremo di non aver trascorso tempo con chi amavamo. Non abbiamo badato a chi avevamo sempre lì, proprio perché era sempre lì. E come abbiamo fatto a sopportare quella solitudine in vita? L’abbiamo tollerata perché era centellinata, come un veleno che abitua a sopportare dosi letali. E abbiamo soffocato il dolore con piccolissimi e dolcissimi surrogati, incapaci di fare anche solo una telefonata e chiedere come stai.

Per ultimo rimpiangeremo di non essere stati più felici. Eppure sarebbe bastato far fiorire ciò che avevamo dentro e attorno, ma ci siamo lasciati schiacciare dall’abitudine, dall’accidia, dall’egoismo, invece di amare come i poeti, invece di conoscere come gli scienziati. Invece di scoprire nel mondo quello che il bambino vede nelle mappe della sua infanzia: tesori.

Alessandro D’Avenia

 

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Ma perché nelle camere d’albergo dev’essere tutto così complicato?

 

“Dalle serrature agli interruttori, dal climatizzatore alle docce: c’è sempre almeno una cosa di cui non capisco il funzionamento”, scrive Marisa Fumagalli in “Te lo do io il design. Storie di evitabile follia“. Scoprire che il male è comune è un mezzo gaudio

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

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La rabbia___Poesia di Pier Paolo Pasolini-

 

Esiste l’odio ,esiste la rabbia; sono emozioni , sentire violenti che entrano in noi e ci trasportano quasi in un altro luogo dove ,a volte,si possono vivere impulsi e brutalità, non sempre accompagnati  dal nostro raziocinio. Quando agiamo,scatenati dall’ira , spesso poi ci pentiamo.Nei lontani tempi passati, credo che gli uomini fossero meno presi da questi scatti di ira. La quotidianità sempre uguale li rendeva assuefatti alle loro condizioni di vita, meno esposti a risentimenti, invidie. Ognuno accettava la sua condizione fin dalla nascita, pochissime le persone che vivevano molto bene, e questo era nella logica dei fatti. Oggi, esposti come siamo alla continua comunicazione, che ci arriva da ogni parte, sono poche le persone che vivono ancora nel più completo isolamento dell’analfabetismo, per cui siamo tutti esposti quotidianamente alle ingiustizie del mondo evidenziate dalla politica,dalla cronaca che ogni giorno si intrufolano nelle nostre vite. Pensiamo al recente attentato a Donald Trump, a quanto la violenza sia ormai normalizzata nel nostro mondo. Pensiamo al gossip, che ci mostra ogni giorno la dolce vita di chi nuota nella ricchezza, incurante delle miserie altrui. Non mi ha stupito imbattermi oggi in una poesia sulla rabbia, scritta da uno dei più considerati intellettuali , scrittori, poeti e uomini di cinema del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini.

L’autore, che unisce il piano ideologico a una dimensione più intima e autobiografica, cerca in se stesso le emozioni ,mettendone in luce le contraddizioni, che sono anche le nostre, e descrive l’emozione della rabbia, avvertita come un piccolo demone che avvelena l’anima.
Quando si è arrabbiati non si riesce a focalizzare altro: una delle emozioni più fisiche e potenti, che si irradia dalle viscere e ci fa diventare altro da noi, se non siamo in grado di governarla. Trasformiamo allora la rabbia in una fisicità prorompente: l’accecamento, l’incendio, la pancia… In una parola, un impulso ingovernabile,che ha bisogno di trasformarsi in azione, di scatenarsi al di fuori di noi per liberarci. Può una tale emozione diventare poesia? Si, ed anche  una poesia bella, intrigante, vera.. Infatti in questi versi Pasolini la fa vivere nel giardino “speciale” di sua madre, come un demonio che lo distrugge.

La rabbia –
Vado sulla porta del giardino, un piccolo
infossato cunicolo di pietra al piano
terra, contro il suburbano
orto, rimasto li dai giorni di Mameli,
coi suoi pini, le sue rose, i suoi radicchi.

Intorno, dietro questo paradiso di paesana
tranquillità, compaiono,
le facciate gialle dei grattacieli
fascisti, degli ultimi cantieri:
e sotto, oltre spessi lastroni di vetro,
c’è una rimessa, sepolcrale. Sonnecchia,
al bel sole, un po’ freddo, il grande orto
con la casetta in mezzo ottocentesca,
candida, dove Mameli è morto,
e un merlo cantando, trama la sua tresca.

Questo mio povero giardino, tutto
di pietra… Ma ho comprato un oleandro
nuovo orgoglio di mia madre
e vasi di ogni specie di fiori,
e anche un fraticello di legno, un putto
obbediente e roseo, un po’ malandro,
trovato a Porta Portese, andando
a cercare mobili per la nuova casa. Colori,
pochi, la stagione è così acerba: ori
leggeri di luce, e verdi, tutti i verdi…

Solo un po’ di rosso, torvo e splendido,
seminascosto, amaro, senza gioia:
una rosa. Pende umile
sul ramo adolescente, come a una feritoia,
timido avanzo d’un paradiso in frantumi…
Da vicino, è ancora più dimessa, pare
una povera cosa indifesa e nuda,
una pura attitudine
della natura, che si trova all’aria, al sole,
viva, ma di una vita che la illude,
e la umilia, che la fa quasi vergognare
d’essere così rude
nella sua estrema tenerezza di fiore.
Mi avvicino più ancora, mi sento l’odore…

Ah, gridare è poco, ed è poco tacere:
niente può esprimere una esistenza intera!
Rinuncio a ogni atto… So soltanto
che in questa rosa resto a respirare,
in un solo misero istante,
l’odore della mia vita: l’odore di mia madre…
Perché non reagisco, perché non tremo
di gioia, o godo di qualche pura angoscia?
Perché non so riconoscere
questo antico nodo della mia esistenza?
Lo so: perché in me è ormai chiuso il demone
della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco;
sentimento che m’intossica
esaurimento, dicono, febbrile impazienza
dei nervi: ma non ne è libera più la coscienza.

Il dolore che da me a poco a poco mi aliena,
se io mi arrabbio appena,
si stacca da me, vortica per conto suo,
mi pulsa disordinato alle tempie,
mi riempie il cuore di pus,
non sono più padrone del mio tempo…
Niente avrebbe potuto, una volta, vincermi.
Ero chiuso nella mia vita come nel ventre
materno, in quest’ ardente
odore di umile rosa bagnata.

Ma lottavo per uscirne, là nella provincia
campestre, ventenne poeta, sempre, sempre
a soffrire disperatamente,
disperatamente a gioire… La lotta è terminata
con la vittoria. La mia esistenza privata
non è più racchiusa tra i petali d’una rosa,
una casa, una madre, una passione affannosa.
È pubblica. Ma anche il mondo che m’era ignoto
mi si è accostato, familiare,
si è fatto conoscere, e, a poco a poco,
mi si è imposto, necessario, brutale.
Non posso ora fingere di non saperlo:
o di non sapere come esso mi vuole.

Che specie di amore
conti in questo rapporto, che intese infami.
Non brucia una fiamma in questo inferno
di aridità, e questo arido furore
che impedisce al mio cuore
di reagire a un profumo, è un rottame
della passione… A quasi quarant’anni,
io mi trovo alla rabbia, come un giovane
che di sé non sa altro che è nuovo,
e si accanisce contro il vecchio mondo.
E, come un giovane, senza pietà
o pudore, io non nascondo
questo mio stato: non avrò pace, mai.

Pier Paolo Pasolini

 

la rabbia

Le persone scelgono sempre di più il silenzio…

Nell’ultimo anno la nuova frontiera è quella del silent reading party, il fenomeno che arriva dagli Stati Uniti per contrastare l’abuso degli smartphone nelle situazioni ricreative
Sarà il caos sempre più ingombrante delle città o forse la voglia di riscoprire un passato senza teconologia ad aver creato un nuovo trend abbracciato da sempre più persone: il “silent party”. In realtà, il protagonista di questa nuova moda non è tanto il “party” quanto più il silenzio, declinato in varie forme ed eventi. Già in passato, infatti, si erano diffuse le discoteche silenziose: cuffie alle orecchie, ritmo scatenato ma da fuori tutto tace.

L’idea è quella di condividere il silenzio insieme ad altre persone. Ecco allora piazze e grandi spazi, anche parchi, che diventano location ideali per vivere insieme un momento di tranquillità. Come ricorda il Corriere della Sera, sono diverse le attività che hanno come denominatore comune il silenzio. Dalle camminate e corse di gruppo, ai silent fitness e i silent cinema all’aperto. All’aperto o al chiuso, l’imperativo è semplice: niente telefoni. L’ambiente che circonda il lettore è calmo, accogliente, soft: candele, luci soffuse, in alcuni casi una leggera musica rilassante, per accompagnare chi legge in una dimensione lontana dalla città, non più in solitudine o in un bar affollato, ma insieme ad altre persone che vogliono condividere le stesse sensazioni.
A trainare la voglia di isolarsi dal rumore di fondo delle grandi città è forse il bisogno di riconnettersi alla natura, una sorta di new age del nuovo millennio che richiede l’abbandono, almeno momentaneo, di quegli strumenti teconologici così presenti nella nostra vita, per dedicarsi finalmente a qualcosa che non sia uno schermo, magari immersi in mezzo al verde della natura. In alcuni eventi, infatti, a essere protagonista non è il silenzio, ma il rumore. Il rumore lieve delle foglie, del vento, di un ruscello. Il canto di un uccello o il chiacchiericcio dei grilli, tutti suoni impossibili da ascoltare nella quotidianità della città. La cosa veramente importante è appartarsi in compagnia, per chi ha voglia di ritrovare se stesso  senza perdersi forse in una solitudine che non si ama per carattere, ma di cui  si sente impellente bisogno.

party di lettura