Io amo Io, non voglio nessun tu, nessun noi…

“Mi amo troppo per stare con chiunque”: è la frase che Sara Campanella, la ragazza uccisa a Messina, aveva scritto sui social come biglietto da visita del suo profilo. È stata affissa alle fermate dei bus della città, sventolata nei cortei di piazza e presentata nei telegiornali come una bandiera di libertà e una rivendicazione dei diritti della donna; una sorta di manifesto, testamento, motto e canone di comportamento. Non si sono resi conto che è una frase terribile. È una dichiarazione di solitudine narcisistica, di egoismo e di egocentrismo assoluto, di onanismo mentale; proclama la rottura col mondo e con gli altri, la rinuncia a priori a ogni vero amore, a ogni legame affettivo, e in prospettiva a ogni dedizione e proiezione verso la famiglia, i figli, gli amici, la società. Mi amo troppo, non ho tempo né spazio per voialtri, tutti, dovrei sottrarlo a me stesso.

La pietà per la sua precoce, assurda morte, per la sua giovane vita spezzata, vittima di un ragazzo che pretendeva di essere amato e non tollerava di essere respinto, resta intatta e totale. Ma non deve indurre a esaltare quella frase che è invece la rivelazione di una tragica condizione giovanile. Non è il pensiero isolato di una ragazza che si ama troppo ma è piuttosto la forma mentis più preoccupante diffusa tra le ragazze e i ragazzi. È la variante peggiorativa di un’altra frase che si ama ripetere: l’importante è star bene con se stessi. Se quel che conta è solo quello, allora posso tranquillamente fregarmene degli altri, lasciarli morire o andare al diavolo, e perfino compiere azioni di ogni tipo, anche criminale, se mi fanno star bene. E se invece fosse vero il contrario, che l’importante è star bene con gli altri, ossia trovare un giusto equilibrio tra la propria vita e quella di chi sta intorno, dare e ricevere, scambiarsi i doni dell’amicizia e dell’affetto, curarsi del mondo? Certo, è naturale che l’istinto di autoconservazione ci porti a preoccuparci prima di noi, poi di chi sta più vicino a noi, quindi degli altri. Ma un conto è vivere solo per noi stessi, un altro è vivere a partire da se stessi e poi allargarsi al mondo, a cominciare da chi ci è più caro e vicino.

Amare se stessi in positivo vuol dire non buttare via la propria vita, non sprecarla, rispettarsi, curarsi, avere anche un po’ di fierezza e amor proprio: ma la proclamazione di un amore esclusivo di sé, autoreferenziale, in cui non c’è posto per gli altri, è l’inizio del male, il passaggio dalla solitudine benefica all’isolamento. Che società potrà nascere da chi adotta quel motto? Già la parola nascere è abusiva in quel contesto, in cui il massimo che ci si può aspettare è autoriprodursi e rispecchiarsi; non certo generare relazioni, amicizie, amori, creature.

Una sponda a questo universo autocentrato la dà oggi su la Lettura del Corriere della sera Roberto Saviano che, in un momento di sconforto, appoggiandosi a un libretto mortifero, scrive un articolo dal titolo “L’umanità è una malattia” in cui si professa omovacantista, ovvero auspica la fine dell’umanità e inneggia all’antinatalismo, ovvero al rifiuto di mettere al mondo altri umani. Saviano abbraccia convinto la “filosofia antinatalista” e spera di trovare il coraggio di essere coerente fino in fondo. “Dopo di me il diluvio”, è il grido d’angoscia dei narcisisti frustrati, degli egocentrici delusi che scoprono di non essere al centro del mondo e allora “Muoia Sansone con tutti i filistei”, perisca l’umanità intera.

Ma al di là dello stato mentale di Saviano, del suo maledettismo letterario e dei suoi travagli personali (gli auguriamo di passare questo brutto momento, o come si dice a Napoli, “a nuttata”) il tema che qui preme sottolineare riguarda in realtà una generazione allevata ad amare se stesso sopra ogni altra cosa, persona, principio o valore e a rigettare legami con chiunque. Viviamo nell’epoca dell’individualizzazione tragica, come la definisce Ulrick Beck; l’io si sradica, non si sente erede di nessuno e rifiuta di essere padre/madre di nulla; perde la realtà, il mondo, la natura, la storia, la società. S’inabissa nella sua solitudine, munita solo di connessione tecnologica. Salvo poi, contraddittoriamente, nutrire la paura di essere escluso, di essere tagliato fuori, quel che in sigla si chiama Fomo (fear of missing out). Così vive on line la sua esistenza virtuale, in rete ma fuori dal reale, è connesso da remoto ma sconnesso dalla vita vera e dalla sue prossimità; ha contatti senza avere legami. A tale proposito segnalo una bella sezione della rivista Formiche dedicata a Teen lonellines machine, quella solitudine adolescenziale e giovanile aggrappata alla macchina, uno smartphone o altri mezzi. In quel contesto fiorisce Narciso, e trova fondamento quella frase “maledetta” che diventa frase di culto, anche perché consacrata dal sacrificio della vittima che l’ha pronunciata.

Qui s’innesta come ulteriore deformazione della realtà l’uso becero dei cosiddetti femminicidi per armare il femminismo contro i maschi assassini potenziali e incitare alla lotta per l’autorealizzazione. Dopo ogni femminicidio c’è questa chiamata alle armi per combattere il maschio violento e mobilitarsi in una specie di lotta di genere, succedaneo della lotta di classe. Il presupposto falso e fuorviante di questo esercito della salvezza è che si fronteggi con un esercito di maschi potenziali femminicidi, che sarebbe lì di fronte a loro e vorrebbe opprimere e anche sopprimere la donna insubordinata. E invece non c’è nessun esercito maschile contro cui combattere; il novantanove per cento dei maschi non usa violenza verso le donne, semmai è intimidito, in fuga o si arrocca sulla difensiva. I femminicidi sono aberrazioni di singoli che hanno perso la testa; non sono vittime di uno scontro sociale di genere. Non c’è nessun esercito nemico da battere ma ci sono solo individui solitari che uccidono per incapacità di vivere, dipendenza assoluta dalla loro partner e fragilità distruttiva e autodistruttiva. Sono, lo ripeto, uomini-narciso, che vivono specchiandosi nell’altro e quando lo specchio si rompe (porta male) le schegge diventano coltelli per uccidere chi ha infranto la loro immagine proiettata nella vita di lei.

Alla fine siamo tra due deserti di solitudine: quella di chi ritiene di dover alzare i ponti col resto del mondo perché ama troppo se stessa e quella di chi escluso dalla prima si vendica e uccide l’oggetto proibito del suo ego che chiama amore. Narciso contro Narciso, solitudine contro solitudine mentre le tifoserie inveiscono e incitano alla lotta. Ma il vero nemico è l’egolatria di massa. Viva Io, a morte l’Io altrui. Così muore una società, non solo un individuo.

Marcello  Veneziani

Se non mangi l’agnello non sei un cristiano.

E non si può cucinare col Bimby e simili, che sono perfetti per cosine poco virili. Possono senz’altro essere utili nelle mense degli asili e degli ospedali, possono avere varie funzioni, ma non la funzione Rito. All’agnello arrosto non ci arrivano
L’agnello di Pasqua non si può cucinare nel robot da cucina. Non si può proprio, e significherà pur qualcosa. Dentro quel trabiccolo al massimo puoi cucinare uno spezzatino ossia un piatto feriale, non festivo, una ricetta melanconica e non troppo religiosa perché l’agnello obbligatorio nel pranzo pasquale (se non lo mangi non sei un cristiano, sei uno dei tanti apostati, uno dei molti deculturati) sarebbe meglio fosse intero. Il fondatore della Pasqua, Dio, ha detto: “Lo mangerete arrostito al fuoco, con la testa, le zampe e le viscere”. Da Esodo 12,9 è tutta una decadenza, chiaro, però dev’esserci un limite anche allo sfacelo. Il pater familias, armato di coltelli, deve difendere la prerogativa di fare lui, in tavola, tagli e porzioni. I robot da cucina, Bimby e dintorni, sono perfetti per creme e vellutate, risotti, straccetti. Cosine poco virili, tendenzialmente vegetali e, se carnivore, blandamente tali. Cucineranno forse le polpette, questi marchingegni, non certo le bistecche, e anche col bollito pare abbiano grosse difficoltà. Non dubito possano essere di aiuto nelle mense degli asili e degli ospedali, dove si devono sfamare mocciosi e malati. Hanno varie funzioni ma non la funzione Rito. All’agnello arrosto non ci arrivano. Dio non vuole.

Camillo Langone__da __ IL  FOGLIO

 

agnello

 

Nostalgia del Papa grande…

Nell’aprile di vent’anni fa si celebrò il congedo maestoso della cristianità cattolica apostolica e romana dal mondo e dal tempo. Dopo una lunga malattia e un lunghissimo pontificato, morì Giovanni Paolo II e la sua impronta apparve grandiosa sulla storia del secolo e sulla fede cristiana. Grandiosa fu pure la cerimonia di addio al Papa; parvero le esequie planetarie di un’epoca a lui dedicata. Andava via un gigante, Karol Magno, al secolo Wojtyla.

Dopo di lui venne un papa acuto e gentile, che non aveva l’attitudine a regnare e a scuotere i popoli; alle sue dimissioni subentrò un papa pop, green e poco ieratico che cercava la simpatia del suo tempo e si curava meno del collasso della fede cristiana. Sicché dopo vent’anni non si è spenta la nostalgia di Giovanni Paolo II, della sua figura, della sua voce, del suo carisma, del suo volto luminoso, ma anche dei suoi gesti rituali e perfino teatrali, della potenza dei suoi messaggi e della sua parola. Nostalgia della sua Chiesa, del suo pontificato e della sua tempra, di quel che visse e affrontò, la sua lotta al nazismo e al comunismo, il suo amor patrio e il suo vano appello all’Europa a unirsi nel nome delle radici cristiane.

Giovanni Paolo II fronteggiò la scristianizzazione del mondo a partire dall’occidente, nel tempo del nichilismo gaio e dell’ateismo pratico, in cui l’Occidente si vergognava di sé e il fanatismo islamico si espandeva. Affrontò il deserto dell’indifferenza e il gelo del cinismo. La sua lunga lotta con l’Occidente sazio e disperato fu coronata da un magnifico insuccesso. E’ stato il papa dell’Europa che si unisce e tramonta, del comunismo sconfitto da un altro materialismo, del riarmo islamico e dal relativismo etico. Mai un papa ha parlato così tanto e a così tanta gente e mai è stato così inascoltato. Amato ma non seguito. Giovanni Paolo II fermò l’onda del Concilio Vaticano II, ma senza tornare indietro, alla Chiesa preconciliare. Vanamente il Papa invocò il riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa, si oppose alla deriva morale dell’Occidente e al dominio globale del capitalismo. Non abbracciò l’idea di uno scontro di civiltà e di un conflitto religioso con l’Islam. Per lui la prima minaccia all’occidente e alla cristianità non proveniva dall’esterno ma dall’interno. La stessa caduta del comunismo a cui il Papa contribuì in modo decisivo, non fu letta da lui solo come la vittoria dei valori di libertà e dignità umana ispirati dal cristianesimo: ma come il passaggio dall’ateismo ideologico e militante del comunismo all’ateismo pratico e consumista delle società egoiste e capitaliste.

A differenza di Papa Francesco, mai tornato in Argentina, Giovanni Paolo II tornò più volte nella sua patria polacca, rivolse appelli vibranti al risveglio spirituale e religioso e al risorgimento nazionale e tradizionale del mondo slavo. In Polonia il Papa celebrò la sua patria, s’inginocchiò davanti alla tomba del Milite Ignoto, ricordò il sacrificio di martiri ed eroi, difese il patrimonio millenario della tradizione cristiana, affidandolo nelle mani della Madre di Dio, e infine sollevò un grido, da “figlio della terra polacca” e da pontefice: “Scenda il tuo Spirito! E rinnovi la faccia della terra”. Cominciò allora il risorgimento della Polonia e poi di altri paesi dell’est che portò alla disfatta del comunismo e alla caduta di odiosi muri e cortine di ferro. Finì il comunismo, cominciò l’Europa. In un’altra tappa polacca, Papa Wojtyla si appellò “al linguaggio degli avi” e alle “lingue slavi affini”, definendosi non a caso “il primo Papa slavo nella storia della Chiesa”. Forse proprio per questo – aggiunse – Cristo lo ha scelto”. E seguitò: “Questo Papa porta nel suo animo profondamente impressa la storia della sua nazione e anche la storia dei popoli fratelli e limitrofi”. E ancora: “Non è un disegno provvidenziale… che questo Papa slavo proprio ora esprima l’unità spirituale dell’Europa cristiana?”.

Lo ricordo nel 2002 quando il Papa entrò nell’aula di Montecitorio come un apostrofo bianco e curvo, in mezzo al blu istituzionale dei poteri civili. La chiave del suo discorso in Parlamento fu la tradizione, “il patrimonio di valori trasmesso dagli avi”, l’impossibilità di comprendere l’Italia e l’Europa “fuori da quella linfa vitale costituita dal cristianesimo”, la necessità di “fondare la casa comune europea sul cemento di quella straordinaria eredità religiosa, culturale e civile che ha reso grande l’Europa nei secoli”, “le tracce gloriose che la religione cristiana ha impresso nel costume e nella cultura del popolo italiano”, le testimonianze d’arte e di bellezza fiorite in Italia nel nome della fede, il diritto naturale e il sentire comune tramandato; e il suo appello agli italiani a “continuare nel presente e nel futuro a vivere secondo la sua luminosa tradizione”. Un grande discorso che dista anni luce dal presente.

Anche Papa Wojtyla tendeva la mano all’Africa, apriva all’accoglienza, si appellava alla carità e alla solidarietà, invocava la giustizia sociale e amava i poveri. Ma il contesto dei suoi appelli era opposto a quello del suo successore Bergoglio: Giovanni Paolo II predicava, pregava, accoglieva nel nome della civiltà europea e della tradizione cristiana, tenendo ben saldi i riferimenti all’identità religiosa dei popoli e delle nazioni. Non chiedeva di abbattere i confini ma di conciliare l’amor patrio e i diritti delle nazioni con la carità e il dialogo. Vent’anni dopo si avverte ancora la sua mancanza. Karol Magno.

 Marcello Veneziani                                                                                                                                   

Ricordo di una madre…

 

Oggi nacque colei da cui sono nato. Notizia che non vi riguarda, lo so bene, anniversario così intimo e personale da essere però universale. Il ricordo di una madre è di tutti, evoca il sentimento primario, più elementare, più originario, più viscerale e intenso che ci sia. Non c’è natività senza maternità, perfino del figlio di Dio. L’amore materno è il primo amore che non si scorda mai, scrissi in un libro sull’amore. Ricordiamo con tenerezza il primo innamoramento ma l’amore per la madre dura tutta la vita, e oltre. Il suo amore è cura per eccellenza.
Tanti anni fa scrissi la cronaca della morte di una madre. Oggi vorrei invece partire dalla sua nascita. Si chiamava Mimì, al secolo Giacomina. Nacque al tempo della prima guerra mondiale. I suoi ricordi d’infanzia e poi di giovinezza erano allegri e solari, tanta gente in casa, tante feste, suo padre che raccontava alle bambine il film appena visto al cinematografo, la madre che suonava la chitarra e aveva bei boccoli d’oro. Le feste in casa, tra amici di famiglia, i balli, la radio, il grammofono, le frittelle, le prime occhiate amorose. Poi la storia vera d’amore, un arco della città vecchia sotto cui si vedevano e si baciavano di nascosto e che lei battezzò l’arco dell’amore (mio padre era reticente, pudico e sornione; ma sotto sotto aveva piacere che sua moglie lo raccontasse). Una foto al mare mentre una barca a vela passa alle loro spalle, e quell’attimo di perfezione è per sempre. Poi una foto nel palco del teatro locale, che con spirito e megalomania una loro didascalia spaccia per il palco della Scala dove gli innamorati ragazzi salutano il pubblico che applaude al loro amore.
La lontananza di lui che studia a Roma; quindi la seconda laurea di lui a Napoli, dove si laureò pure lei, ospite degli zii. Gli incontri furtivi, le scappatelle di mio padre, scoperte dall’implacabile investigatrice; a volte in flagranza, mio padre si toglieva gli occhiali, come se il non vedere gli garantisse di non essere visto. E la fuitina d’amore, il matrimonio rapido e ristretto al tempo della seconda guerra mondiale, nel giorno dell’Immacolata. La guerra, la chiamata alle armi, l’età dell’oro in piena guerra a Monte Sant’Angelo, il paese di San Michele Arcangelo, dove lui non ancora trentenne faceva il preside e lei insegnava lettere nella stessa scuola pubblica a conduzione famigliare. Lo ricordavano come il loro paradiso, nel pieno vigore della vita, tra una nascita e un’altra, tra provviste di ogni bendidio al tempo della penuria e delle tessere del pane; viaggi avventurosi dal Gargano, su carri improvvisati; poi il bombardamento di Foggia mentre mia madre incinta veniva presa per mano da uno sconosciuto, per lei fu un angelo, e la salvezza. Lunghi anni insieme, la famiglia cresce, dopo tanti anni un figlio d’appendice, imprevisto e coccolato. Mia madre smette d’insegnare per accudire l’ultimo arrivato, non ci sono più nonne ausiliarie. Passano gli anni, l’amore si riversa soprattutto sui figli. Di mio padre, ormai, mia madre parlava bene solo alle spalle, o quando era distratto e assente; appena si voltava, tornava in presenza, lei lo criticava, era il babbo espiatorio. Lui la prendeva con filosofia, ricordando che pure Santippe tormentava Socrate, a cui aveva dedicato un saggio empatico. E si sfilava, si assentava, entrava nel suo mondo di libri, mare, cultura e natura, più frutta e cicorielle di campagna. Mia madre era l’asse portante della casa, praticava il familismo amorale e amorevole, per lei i figli venivano prima di tutto, anche di lei, non parliamo di mio padre. Negli ultimi anni, quando tornavamo a casa a trovarli, si sedeva su una sedia piccola, scomoda, per bambini, pur di lasciarci le poltrone e i divani, in un assurdo rito sacrificale. Quando si pranzava lei era sempre in piedi, ed erano vane le esortazioni di mettersi a sedere, doveva controllare tutto e tutti, a cominciare dalla sua ansia di sfamarci, a tambur battente. Viveva ormai barricata nel suo regno, negli ultimi suoi anni, quando cominciarono a farle brutti scherzi il cuore e il pancreas. Ma era piena d’energia, spiritosa in salotto e litigiosa in cucina con sua sorella, con cui scoppiavano risse verbali che poi finivano nel nulla o nella dolcezza e nella risata degli Amarcord di famiglia. Lo scontro avveniva sempre dopo pranzo e finiva quando si alzava dalla mitica controra mio padre e diceva: “non mi avete fatto dormire”; allora si coalizzavano contro di lui, il pappasonno con la pretesa della quiete in pieno giorno. Mia madre rifuggiva il sonno, lo considerava una piccola morte, comunque una resa; amava la luce, la parola, il giorno, il movimento. La sera viveva su una latitudine diversa da quello di mio padre, andava a dormire solo quando non ce la faceva più. E si addormentava quasi seduta, al letto, come se dovesse da un momento all’altro alzarsi e scappare. Il sonno del pronto intervento. Lei cercava spiragli di luce dalle tapparelle, che da noi si chiamano sgarrasse; lui invece si bendava gli occhi col fazzoletto, si metteva le mani sul viso, si rannicchiava, in posizione fetale, per rinascere nel mondo di Morfeo.
Era intelligente mia madre, intuitiva e un po’ sensitiva, capiva al volo. Devota, superstiziosa, di cui poi rideva, salvo praticarla. Mai di venerdì, mai in tredici a tavola, mai vestirsi di nero, mai croci e cappelli sopra il letto, mai in novembre (intero), mai tante cose. Mai parlare di morti, testamenti, cimiteri e funerali; alla larga da chi parlava sempre di chi era morto e di malattie. Con le donne di servizio aveva un rapporto strano: era contenta quando non venivano o si davano malate, e quando lavoravano d’estate lei andava appresso col ventaglio, per darle sollievo, mettendosi al servizio di chi era al suo servizio. Pregava, recitava il rosario e faceva volantinaggio di suppliche a noi figli, almeno nei giorni di Maria. Da quando ero partito, era convinta che vivessi di stenti lontano da lei, denutrito e patito e al mio rientro mi riempiva di sontuosi corsi di recupero; poi mi raccomandava di mettermi la maglia di lana, che avevo dismesso a tredici anni ma non ho mai osato dirglielo. Mio padre invece mi chiedeva in ogni viaggio se avevo incontrato qualcuno di Bisceglie, il nostro paese. Domanda assurda all’apparenza, soprattutto quando ero all’estero, ma sempre fondata, perché davvero lo incontravo sempre. Li vedo da lontano, mio padre alto e lungimirante come uno sherpa miope che va avanti, e dietro lei, a passi brevi e veloci, piccola e circospetta. Mia madre nacque in primavera e in primavera se ne andò. Di lei mi resta l’eco della voce, il suo amore implicito, senza effusioni; mai un bacio ai bambini per preservare la loro immunità. Pensaci Giacomina, come noi pensiamo te. E la gioia di vedermi quando tornavo a casa. Quella gioia mi manca, salvo che un giorno torni lei, per sempre.

Marcello Veneziani                                                                                                                      

Le ninfee del Vietnam..

 

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La raccolta delle ninfee nel Delta del Mekong è un’attività tradizionale che avviene principalmente durante la stagione delle piogge Ogni autunno, il delta del fiume Mekong, in Vietnam, si riempie di magnifici gigli d’acqua, dopo le piene del fiume. Dall’inizio di settembre a metà novembre, i contadini della provincia di Long An passano le loro giornate dedicandosi alla raccolta dei gigli. Lo spettacolo è sorprendentemente piacevole alla vista . Il fotografo Trung Huy Pham ha deciso di ritrarlo con una serie di magnifiche fotografie aeree.  Sfidando il caldo soffocante e l’acqua alta, Pham è riuscito a fare davvero un bel lavoro. In molte delle foto, le acque scure offrono un contrasto piacevole con i fiori colorati e con i tradizionali cappelli indossati dal contadini vietnamiti. Molti dei gigli d’acqua sono bianchi o di un rosa intenso. I primi sbocciano solo di notte, e sono anche chiamati “fiori fantasma”.
La raccolta dei gigli d’acqua attira la curiosità di molti fotografi e viaggiatori, ma è un lavoro duro per i contadini, che devono radunare i gigli e caricarli sulle barche. Queste piante crescono da sole, senza il bisogno di particolari cure, e rappresentano un guadagno extra per molti. Possono essere usati come decorazione, ma anche come cibo: i boccioli sono commestibili e le piante vengono usate per il tè. Queste foto mostrano una ricca e antica tradizione, ma anche un lavoro molto duro, pur se il risultato sono queste foto bellissime-

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Le sottrazioni…

Il tempo sta passando ed ho imparato a fare le sottrazioni. Tolgo e sempre meno voglio. Meno rumore,meno parole vuote che si dissolvono nel vento. Tolgo tacchi che facevano male scelgo passi comodi e sinceri.  Strade che non graffiano l’anima per arrivare chissà dove. Tolgo I vestiti che stringono,le abitudini che soffocano, le persone che restano solo per convenienza e non per amore, non per verità.

Voglio meno ma  che quel poco sia vero. Una casa che profuma di pace ,una vita che non chiede di essere corsa ma vissuta.  E mentre tolgo mi accorgo che guadagno . Guadagno spazio per respirare, tempo per fermarmi a guardare il cielo, silenzio per ascoltare me stessa  .Il tempo passa ed è un dono .

Mi insegna che nel sottrarre c’è la vera ricchezza.-

M. Campeti.

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L’abolizione di un ente inutile: il padre-

 

Padre, sei licenziato. Dopo tanto femminismo, fluidità, utero in affitto, giunge finalmente il tentativo finale di abolire il padre a norma di legge. La proposta avanzata in Senato è di Dario Franceschini, influente padrino del Partito Democratico. Come è entrato Franceschini in maternità? Con questo ragionamento: dopo secoli in cui i figli hanno preso il cognome del padre stabiliamo con una nuova legge prenderanno solo il cognome della madre (che poi proviene da suo padre). Ciò servirà, a suo dire, a sgombrare il campo dai tanti problemi che ha innescato il doppio cognome, o la scelta tra i due. È una cosa semplice, dice il senatore venuto dalla Dc e dalla Margherita (senza capperi), ma è anche “un risarcimento per un’ingiustizia secolare che ha avuto non solo un valore simbolico, ma è stata una delle fonti culturali e sociali delle diseguaglianze di genere”.

Chissà se il Pd, in sigla Padri defunti, accoglierà in toto la proposta di Franceschini ma è in sintonia col nuovo corso di Elly Schlein, di cui Franceschini è stato massimo sponsor. Un’altra battaglia civile di cui si avvertiva fortemente l’urgenza…

Ma torniamo alla realtà. I padri già patiscono una specie di sparizione progressiva: contano sempre meno, anche se pagano sempre più in caso di separazione e divorzio, e quando non sono emarginati, si defilano per conto loro, si danno alla latitanza, si riducono ogni giorno di più a figuranti, o quantomeno personaggi secondari e comparse in quel circoletto antiquato, un tempo denominato famiglia.

Una legge, per ora virtuale, li esonererà definitivamente dal loro ruolo e dalla loro responsabilità; li cancellerà, come si usa ormai da tempo in vari ambiti, grazie allq cancel culture. La società senza padre, prefigurata nel Sessantotto, prende finalmente corpo (mutilato).

La famiglia tradizionale aveva un punto di equilibrio che per molti secoli e nella gran parte dei casi ha retto all’urto della vita: la figura paterna non era ridotta a quella dell’inseminatore occasionale o peggio del flacone anonimo ma era chiamata anche dando il patronimico alla responsabilità giuridica e nominale di assumersi un compito reale riguardo alla famiglia. La figura materna era già insostituibile secondo natura, nella realtà delle cose; dalla madre si nasce, la madre allatta e nutre, il rapporto con lei è decisivo; e poi, come dicevano gli antichi, “mater semper certa est”. Del resto il cambiamento sociale dei tempi aveva già riconosciuto alla donna ruoli, diritti e doveri, responsabilità e opportunità pari a quelle del coniuge. Ora si vorrebbe sconfiggere l’ormai defunto patriarcato rifondando il matriarcato, che apparteneva a epoche e società ancora più arcaiche.

Ma il vero problema è che si tende a far sparire l’idea, il corpo, il legame di quell’entità chiamata famiglia, fondata sul due più, una coppia più i suoi figli, e un tempo anche i nonni e tutto il parentado. Dare alla donna, oltre la naturale maternità, anche il ruolo di portatrice esclusiva del cognome, significa di fatto disfare la coppia e regredire al singolo: la donna sola, a parte la collaborazione tecnica e forse affettiva del maschio, si gestisce non solo l’utero ma anche il figlio. E decide da sola, come del resto decreta anche la legge sull’aborto, non solo se tenersi o meno il bambino ma anche il suo cognome. La donna con diritto di vita o di morte sui figli; l’uomo è solo uno spettatore (pagante), che può essere al più riconosciuto in “concorso esterno” di associazione parentale.

Lo spirito della proposta del resto è trasparente, e Franceschini lo spiega candidamente; attribuendo alla madre anche la responsabilità di trasmettere il cognome si risarcisce la donna dal danno antico di essere stata madre e per molto tempo sotto il regime maschile della patria potestà. Un chiaro incitamento alla paternità irresponsabile e volatile. Che ben si combina con la tendenza di molte donne, tra le poche che aspirano alla maternità, a far tutto da sole, a volere un figlio più che una famiglia, un loro discendente più che un marito. Datemi un seme e al resto ci penso io. Un modo sicuramente in linea con l’inseminazione artificiale e col desiderio di avere figli solo per propria soddisfazione di single. Che a proporlo sia poi un cattolico, che viene dalla vecchia mamma Dc, che sulla difesa della famiglia fondava la sua ragione sociale e il suo consenso, la dice lunga: se lo avesse proposto una leader femminista o un lgbtq+ sarebbe stato comprensibile; ma che lo faccia Fra’ Dario da Ferrara mi pare davvero una conferma che Babilonia è ormai la nostra città.

Intendiamoci, non è una mostruosità, in altri paesi accade, e in fondo piuttosto che ritenere il figlio una specie di prodotto solidale della collettività, della tecnologia, fino al sogno del figlio autocreato, vero self made man, almeno qui avremmo una madre. Ma si sta lavorando alacremente per la distruzione finale della famiglia, in un momento difficile e delicato per le coppie e per le famiglie, assestando un colpo letale, che sta tra il colpo di grazia e il calcio dell’asino al leone morente. Prendendo lo spunto da residui tossici di maschilismo e di gallismo, o casi limite di violenze, abusi e femminicidio, si può decretare la morte della famiglia? Si può cioè nel nome di chi maltratta la partner, penalizzare l’intera società e la stragrande maggioranza delle coppie in cui non c’è prevaricazione di uno sull’altra?

Presumo che la legge non sarà approvata. Ma, visti alcuni precedenti non sarei tanto sicuro…

Marcello  Veneziani           

Quello che nessuno mi aveva detto, sulla menopausa.

 

“Pare che la menopausa sia vicina” dichiarò il mio medico quando avevo trentasei anni e mi chiedevo perché stessi facendo tanta fatica a rimanere incinta. Per poco non caddi dal lettino.

“Cosa intende?”dissi, senza fiato. “Menopausa? Ma è roba da nonne! Io non sono neanche madre! E a proposito, è per questo che sono qui, per diventare madre! Ritiri tutto quello che ha detto! ”

Cercavo di scherzare, ma in realtà lo stavo implorando di dirmi che non era vero. L’idea di veder svanire il mio sogno di avere figli mi terrorizzava. Mentre me ne stavo lì seduta, scioccata, a rimproverarmi da sola, mi ricordai che una volta mia madre mi aveva detto di essere entrata in menopausa a quarantacinque anni, ma tra quarantacinque e trentasei c’era comunque una bella differenza. Per dirla tutta, non sapevo neanche cosa volesse dire davvero “menopausa “– a parte, con ogni probabilità, l’epilogo della mia carriera di attrice, che già di suo aveva ingranato più tardi rispetto ad altre colleghe. Poco dopo i trent’anni già molti avevano iniziato a dirmi che a breve non avrei più potuto interpretare ruoli da protagonista. Ero di fronte alla fine preannunciata? Supplicai il medico di dirmi qualcosa di più.

Lui mi spiegò che, dal punto di vista tecnico, la menopausa è un giorno solo, che si verifica quando è passato un anno dall’ultimo ciclo. Sopraggiunge in media a cinquantun anni e negli anni precedenti, nella fase oggi nota come “perimenopausa”, si possono percepire numerosi sintomi collegati alla diminuzione degli estrogeni: tra i più comuni si annoverano sudorazioni notturne, cicli irregolari, sbalzi d’umore e aumento di peso.

(Un ringraziamento speciale va al recente incremento dell’uso del termine «perimenopausa», che l’Oxford Dictionary registra dai primi anni Trenta; «menopausa», invece, è una definizione coniata già nel 1821 da un medico francese di nome Charles-Pierre-Louis de Gardanne. Era decisamente ora di ampliare il nostro vocabolario!)

Era da un po’ che mi capitava di sudare di notte, ma nessun medico – e di medici ne avevo visti tanti, perché si fa una visita ogni volta che si iniziano le riprese di un nuovo film – ci aveva mai fatto troppo caso. Avete presente quando dal dottore vi danno quel questionario con un elenco sterminato di sintomi? Io facevo la crocetta vicino a “sudorazioni notturne “da anni, ma ogni volta le imputavano allo stress, o alla sindrome premestruale, o a una reazione allergica a qualcosa che avevo mangiato o bevuto, magari ai solfiti nel vino. E per me erano spiegazioni accettabili: spesso ero stanca o stressata dai ritmi frenetici delle riprese o dai viaggi internazionali per la promozione dei film.Dopo i trent’anni cominciai ad avere cicli troppo ravvicinati, certe volte ogni quindici o diciotto giorni. Pensai che fosse strano, eppure non mi venne mai in mente che potesse avere qualcosa a che fare con la menopausa. Ma in quel momento, nell’ambulatorio del medico, scoprii che i cicli irregolari e le sudorazioni notturne erano di fatto segnali di perimenopausa, e non erano causati dallo stress delle riprese o da un bicchiere di vino in più.  Mentre lasciavo l’ambulatorio, cominciai a metabolizzare la notizia: presto le mie mestruazioni sarebbero scomparse, e con esse la mia ultima speranza di rimanere incinta.
Immaginai di telefonare a mia madre.
Avrei esordito con una frase affettuosa, sensibile, piena di calore e di compassione per quello che aveva dovuto sopportare insieme alle altre donne della sua generazione: ” Ma che cacchio, mamma?”.

Perché non mi aveva parlato di più di questa inevitabile transizione?

Questo testo è un estratto dal libro ___Il coraggio di parlarne__ di Naomi Watts (Solferino)

ireneBidello

illustrazione di  Irene Bidelli

Qualcuno vuole anche…

Non tutti vogliono dirigere un’azienda. Non tutti vogliono essere i più grandi campioni del paese o far parte di svariati consigli d’amministrazione, non tutti vogliono avere i migliori avvocati, non tutti vogliono aprire gli occhi ogni mattina sul trionfo o la rovina nei titoli di giornale. Qualcuno vuol essere la segretaria che resta fuori quando si chiudono le porte della riunione, qualcuno vuole guidare la macchina del capo anche il giorno di Pasqua, qualcuno vuole eseguire l’autopsia del quindicenne che si è suicidato una mattina di gennaio, e l’hanno ritrovato in acqua una settimana dopo. Qualcuno non vuole andare in tivù, alla radio, sui giornali. Qualcuno vuole vedere il film, non esserci dentro. Qualcuno vuol fare il pubblico. Qualcuno vuol essere una ruota dell’ingranaggio. Non perché è costretto, ma perché lo vuole. Una pura questione matematica.

Così io me ne stavo seduto. Qui. Qui in giardino, e non avrei voluto essere in nessun altro posto al mondo.

Johan Harstad__ Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?

 
cezanne

       Paul Cezanne___ Campagna

L’intelligenza artificiale infantilizza le masse.

C’è una stagione per ogni cosa, ma ora tutti vogliono apparire più teneri e simpatici e chiedono ritratti fumettosi. Ed ecco l’uragano delle immagini in stile GhibliIntelligenza e rimbambimento. C’è una stagione per ogni cosa, da bambini i fumetti e i cartoni animati vanno bene, da grandi no, è come continuare a mangiare omogeneizzati. Invece l’intelligenza artificiale infantilizza le masse ed ecco dunque l’uragano delle immagini in stile Ghibli, dal nome di uno studio giapponese specializzato in pupazzetti. Tutti vogliono ritratti fumettosi con gli occhi grandi, tutti vogliono imbambolarsi, apparire più simpatici e meno autentici, senza profondità, in fuga dalla serietà. Il fumettista Igort dice a Repubblica che “i manga e gli anime sono ormai un esperanto grafico: riescono a comunicare emozioni superando le barriere culturali e creando un’estetica universale”. Allora ringrazio il Cielo di non essere interessato alle emozioni, semmai ai sentimenti, e di possedere muraglie altissime a difesa della mia cultura ossia della mia anima che gli anime, tanto carini, vorrebbero annientare.

Camillo Langone__da __IL FOGLIO

 

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