…e poi c’è la vita invivibile …e i nuovi zombi!

La droga dei nuovi zombie

La droga dei nuovi zombie

 

 

Cos’è lo stupefacente osservato a Seattle e perché è differente da cocaina ed eroina.

 Alcuni la chiamano droga-zombie. Ne avevo sentito parlare da diverso tempo, ma non avevo mai potuto osservare in presa diretta i suoi effetti. Nel nostro Paese, da quello che mi risulta, non circola ancora. Mi è capitato questa estate in una Seattle dall’aria triste e abbandonata di incontrare le sue vittime in piena downtown. Quello che colpisce è la postura bloccata dei corpi, come colpiti da una paralisi inquietante; corpi sospesi, vivi ma senza vita, marmorizzati, imprigionati in un denso e infernale torpore, immobilizzati, specie di sculture morte, ripiegate su se stesse, accartocciate in posizioni irreali. Come i corpi pietrificati di Pompei in fuga dalla incandescenza della lava: corpi irrigiditi in una sorta di ultimo spasmo di vita, corpi senza scampo, senza più vie di fuga.

La sostanza è un mix chimico micidiale di due molecole: la xilazina utilizzata per lo più nella medicina veterinaria come prodotto sedativo per animali di grossa mole e il fentanyl, un oppioide sintetico con effetti analgesici. Questi nuovi tossicomani li chiamano zombie. Nei film horror gli zombie appaiono per lo più nella forma dei morti che riprendono imprevedibilmente vita, che ritornano spettralmente dal mondo buio dell’oltretomba alla ricerca di vita umana da sbranare. Nel centro di Seattle, invece, questi giovani zombie apparivano solamente come vite già morte. Non dunque come vite morte che ritornano spettralmente vive, ma come vite vive che appaiono già intaccate dalla morte. Davvero impressionante anche per uno psicoanalista abituato ad avere a che fare anche con le forme più gravi della sofferenza umana. Lo sfondo il degrado sociale e la povertà, la vita esclusa, schiacciata nell’angolo, lasciata cadere.

Quanto è diversa questa droga da quelle che abbiamo già conosciuto? Negli anni Settanta del secolo scorso l’eroina si era configurata come il paradigma trasgressivo dell’intossicazione. L’estasi, il paradiso artificiale, la fuga dalla realtà, ma anche la contestazione nei confronti del sistema, il suo ripudio radicale, la sua condanna senza appello. Distruggersi per non fare parte di un mondo i cui valori erano anarchicamente rifiutati. Quel primo paradigma trasgressivo dell’intossicazione implicava la dissociazione dal conformismo della vita borghese e l’illusione che potesse esistere una vita differente, svincolata dall’ideologia dei consumi e dalla violenza del capitalismo. Abbiamo poi conosciuto un paradigma completamente diverso. È quello iperattivo che trova nella cocaina la sua sostanza ideale. Abbiamo tutti in mente la sulfurea figura di The Wolf of Wall Street di Scorsese, interpretata da uno straordinario Di Caprio. In questo caso la contestazione del sistema ha lasciato il posto alla sua più estrema assimilazione. In primo piano non è più il flash del godimento eroinomane come via di accesso (illusoria) ad un altro mondo, ma l’avidità senza scrupoli e senza tregua di un godimento pienamente omogeno alla pulsione neo-libertina del capitalismo finanziario.

Il consumo della cocaina non dissocia la vita dal sistema, ma la rende competitiva, rafforza il principio di prestazione, amplifica la volontà di potenza del proprio Io. Mentre l’illusione del paradigma trasgressivo dell’eroina consisteva nel raggiungere una forma di vita alternativa a quella del consumatore borghese, quella sostenuta dalla cocaina si definisce come una sorta di corsa maniacale verso un godimento senza limiti. Mentre l’eroina è una droga dell’inconscio, la cocaina è una droga dell’Io. Questo ultimo paradigma della droga-zombie sembra invece introdurci in un universo differente. La contestazione trasgressiva del sistema (eroina) e la sua assimilazione iperattiva (cocaina) ha lasciato il posto ad un altro paradigma. Quello che la droga zombie mette in luce è che la finalità ultima della droga è sempre una finalità mortifera. Freud aveva parlato a questo proposito del principio del Nirvana: azzerare le tensioni della vita, estinguere la spinta del desiderio, condurre la vita verso lo zero assoluto. La droga zombie dichiara in modo inequivocabile questa finalità ultima dell’intossicazione. Nessun paradiso artificiale, nessuna trasgressione, nessuna critica al sistema. Ma anche nessun potenziamento narcisistico del proprio Ego, nessuna volontà di potenza, nessun godimento neo-libertino. Quello che resta è solo la vita che rigetta la vita, la vita già morta, la vita bloccata, immobilizzata, la vita senza alcuna avvenire di vita. Si tratta dell’anima più propria dell’intossicazione, della sua vocazione più profondamente nirvanica. È la faccia in ombra della maniacalità neo-libertina.

Mentre questa si consuma nella sua spinta avidamente illimitata di consumo, il drogato-zombie ha gettato la spugna, si è ritirato dalla gara perpetua di tutti contro tutti, punta solo ad annientarsi, a ridursi alla dimensione minerale di una scultura senza anima.

Massimo  Recalcati    da La Repubblica

Vivere tanto per vivere… un presente destinato a durare…

04_Massaggi

ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Massaggi

Due di notte, una fitta nebbiolina sfuoca e amalgama con il buio della notte le lampade dei lampioni. Barcolla. Sa di aver bevuto troppo. Quattro bicchierini di grappa. La grappa non l’ha mai retta. Il suo amico gli propone di accompagnarlo a casa ma lui lo ringrazia e preferisce rimanere seduto un altro po’ al tavolo. Poi esce verso la sua macchina. Più volte la spalla del suo cappotto struscia sui muri delle case. Si ferma. Si guarda attorno e non vede nessuno. Meglio! Continua  a camminare oscillando come un metronomo. Si ferma di nuovo. Vede una panchina, riparte. Cade con il sedere sulla panchina e nasconde i tratti del suo volto nelle mani. Alza il mento e apre il cancello sudato delle sue mani e vede una fontana. Si sciacqua la faccia e riprende il suo cammino. Non ricorda più dove ha parcheggiato la  macchina. Improvvisamente il suo sguardo si infila in una stradina e vede una piccola insegna luminosa. Un taglio rosso nel nero. La nebbiolina si mescola con la luce rossa smarginando  quel rettangolo luminoso. Cambia bruscamente direzione e si dirige verso quel rettangolo che gli accende curiosità. Cambia passo e inizia a correre. Inciampa e cade in avanti. Si rialza e spolvera il suo cappotto di Hugo Boss. E’ sotto a quella luce rossa. La fissa con insistenza e un leggero sorriso affiora dal suo volto. “Massaggi”, sull’insegna c’è scritto “Massaggi” e soprattutto “aperto”. Fa dei respiri grandi. Si mette in bocca una mentina e suona il campanello. Edoardo è un uomo alto. Anche quando è un po’ brillo riesce sempre a mantenere una certa eleganza e raffinatezza. Adora parlare in inglese e gli fa piacere recitare la parte dello straniero distratto, leggermente confuso ma gentile ed educato. Ama recitare quella parte perché si prende in giro e ama osservare gli sguardi attoniti o indifferenti della gente sconosciuta. A volte viene accolto, altre volte ignorato. Ma lui si diverte tantissimo. Fa finta di non capire e inizia a farfugliare, a muovere le mani con arte. Quando è ubriaco è un attore nato ed è meno diffidente verso le persone. Entra in un piccolo ingresso. C’è un banco nero. Dietro, una piccolissima figura di donna. A malapena si vedono gli occhi. Si alza e aggira il banco la donna gli sorride e lo saluta. Sopra di lei una lampada a forma di Drago. La polvere ha sostituito la nebbiolina fuori. C’è un silenzio assoluto che si impasta con diversi odori: sudore, candele, profumo di bassissima qualità. Chiede un massaggio completo e si siede su una panca di legno. Vicino a lui una pianta di plastica che ha perso molte foglie. Sembra una lisca di pesce fossile. Intorno a lui tutto è finto e scadente. La piccola donna arriva accompagnata da una ragazza e gli propone un bagno prima del massaggio. Trenta più venti: totale cinquanta. Sarà la ragazza a lavarlo. La guarda e scopre un sorriso, un lieve sorriso di circostanza. Accetta e la segue. I suoi fianchi ricordano le forme laterali del violino. Sono stretti e perfetti nelle curve. I suoi capelli sono neri e lunghi. Ha tatuata una farfalla sulla spalla sinistra. La piccola donna è ritornata dietro al banco come un soprammobile nero dagli occhi piccolissimi. La stanza dove entrano ha le pareti di legno e su di esse sono appese altre piante di plastica. Sopra il lettino c’è un televisore al plasma che proietta un video musicale. Il soggetto è una cascata gigantesca. I suoni sono acuti e ripetitivi. Alla destra del lettino c’è una semplice vasca circondata da una piccola staccionata. Tutto è finto ma a lui non interessa, vuole spogliarsi fare un bagno caldo e viversi un  massaggio. La ragazza lo aiuta a spogliarsi. Lui oscilla ancora un po’ ma è leggermente più lucido. I contorni si fanno più netti e meno sfuocati. Vede meglio le mani di lei. Dita lunghissime e affusolate. Dita da pianista. Sono leggere e profumate. Lo aiuta a spogliarsi. E’ lenta nei movimenti. Senza dirgli una parola lo mette a suo agio. Edoardo è completamente nudo. Sul fianco sinistro ha una linea più chiara. E’ leggermente più rossa rispetto al colore della sua pelle. E’ lunga diciotto centimetri. Circa trenta punti: operazione al rene. Un disegno della chirurgia che non cancellerà più. La ragazza lo nota e gli sorride. Poi, con la punta dell’indice della mano destra ripercorre dal basso verso l’alto e viceversa quella stradina fatta da un bisturi sul corpo di lui. Edoardo la guarda e non dice nulla. Anzi, alza il braccio sinistro e la invita con un semplice movimento del mento a passeggiare un altro po’ su quel segno indelebile. Lei lo invita a distendersi sul lettino mentre prepara la vasca. E’ immerso nell’acqua. Le dita di lei si muovono sul corpo di lui con leggerezza. Esce dalla vasca e la vede meglio. Lo asciuga sempre lentamente e gli offre un paio di mutande di carta morbidissima. Rischia di cadere su una gamba. Lei interviene subito e lo sostiene, non conosce l’italiano balbetta solo qualche frase. Si distende e lei comincia a mettergli addosso un olio profumato. Il tempo passa ma nessuno se ne accorge. L’uomo chiude gli occhi e si lascia trasportare.  Il suo corpo sta diventando una sfoglia e un suo desiderio sta lievitando. La ragazza si ferma. Lui apre gli occhi. Il tempo  questa volta è davvero finito. Lui si aspetta una proposta, una cifra. E’ sicuro! Lei si avvicina al suo orecchio, lui pensa già alla cifra, cinquanta? sessanta? Ma lei gli sussurra: ”Tu bello! Bello, bello uomo! Che fa tu qui?” Edoardo non capisce e prova a sfiorarle le braccia, ma lei si allontana subito ed esce dalla stanza. Edoardo rimane disteso e molto sorpreso. Niente prestazione sessuale? Ma non è possibile! Poi, dopo un paio minuti sente la voce della piccola donna:” Uscire, uscire. Si chiude!”.

Sono le tre e mezzo. Quasi tutti dormono. L’uomo con il suo cappotto di Hugo Boss lascia alle sue spalle quel rettangolo luminoso. E’ sicuro, non ritornerà più in quel centro estetico. Quel rosso elettrico si spegne. E la stradina con Edoardo diventa buio.

 

Andrea Salvatici

 

Condivido questo articolo di Marcello Veneziani. Perchè scrivere di un argomento, quando c’è chi l’ha scritto meglio di quanto potrei fare ?

La guerra civile dei pregiudizi

Il mondo al contrario e i suoi nemici. Proviamo a leggere la contesa tra i due mondi come se fossimo osservatori esterni. Da una parte vige la dominazione woke, sintesi del politically correct, della cancel culture e del bigottismo progressista e dall’altra vive il mondo reale, naturale, normale cioè comune. Come spiegare il conflitto uscendo dalle polemiche e dalle invettive? È la guerra tra nuovi e vecchi pregiudizi: questi derivano dall’esperienza e dal senso comune, consolidato nel tempo, quelli derivano dai cambiamenti e dall’ideologia del cambiamento che reputa positivo ciò che muta. I pregiudizi del primo tipo si possono definire conservatori o tradizionali, e attengono a un patrimonio di pratiche, sentimenti, culture, il cui uso consolidato e universale ci fa percepire come naturali, giusti, normali. I pregiudizi del nuovo tipo invece reputano negativo ciò che persiste nella propria identità e difende le tradizioni e giudicano positiva ogni emancipazione da quei contesti, ogni rovesciamento e fluidità.
I pregiudizi del primo tipo sono prevalentemente popolari, attengono a un comune sentire tramandato, che s’intreccia alla vita reale dei popoli e ai loro legami famigliari, civili e religiosi da più generazioni. E tutto questo si pone come “naturale”. I pregiudizi del secondo tipo, invece, sono minoritari, se non elitari, attengono a minoranze, ideologie e scelte che contrastano o dissolvono i rapporti  pre-stabiliti e tutto ciò che viene definito naturale.
La mistificazione corrente è ritenere che i primi siano pregiudizi, derivati da superstizioni, ottusità, rigidità, oscurantismi, mentre i secondi siano giudizi maturi, critici, evoluti. E invece no, sono pregiudizi ambedue, e non solo nella connotazione negativa che solitamente diamo alla parola pregiudizio, ma in un’accezione più ampia e asettica: i pregiudizi sono giudizi che non si formano nella nostra mente  , ma  che  precedono i ragionamenti e che ereditiamo dall’ambiente circostante, dalle generazioni precedenti, dalla vita dei popoli o da alcune minoranze egemoni – élite, oligarchie, sette, fazioni – o sono prefabbricati dalle agenzie ideologiche e comunicative dominanti in questo tempo. Che i pregiudizi siano necessari alla società non lo dicono solo autori conservatori, come Burke o de Maistre, o conservatori più recenti come Roger Scruton, ma anche filosofi ermeneutici come Hans George Gadamer. Ma primo tra tutti lo diceva Giambattista Vico quando sottolineava l’importanza del verosimile e del senso comune : quando non si possiede il vero, attenetevi al certo. Le superstizioni, per Vico, non sono nocive idiozie oscurantiste, ma come dice la parola stessa, sono tranci superstiti di antiche certezze. E citando Plutarco, il filosofo napoletano diceva che con la superstizione sorsero luminose nazioni, mentre dall’ateismo – oggi diremmo dal nichilismo cinico – non ne è sorta mai nessuna.
Come sopravvivere a una società divisa tra pregiudizi opposti e insormontabili, c’è una possibile mediazione o perlomeno un patto, una tregua per garantire la convivenza senza rinunciare ciascuno alle proprie convinzioni? Il problema è doppio: distinguere da una parte tra i pregiudizi e i giudizi, che necessitano di senso critico; e dall’altro distinguere tra i pregiudizi e la realtà evidente e storicamente radicata. Faccio due esempi calzanti nei nostri giorni.
Riconosciuta la libertà di vivere nella sfera privata secondo le proprie scelte purché non danneggiano gli altri, si possono poi avere valutazioni e priorità diverse nella sfera pubblica. Ma non si può pretendere di imporre i propri pregiudizi agli altri e condannare i pregiudizi altrui all’infamia, alla gogna e all’espulsione. Si può discutere se una società debba tutelare o no prima la famiglia naturale o tradizionale rispetto alle altre nuove unioni, o se debba equipararle in tutto e per tutto, e ci si può dividere su queste divergenze; ma non si può capovolgere la realtà al punto di ritenere quasi un reato, comunque un’infamia, definire per esempio normali le coppie naturali e tradizionali e diverse le coppie omosessuali. Lo sono rispetto alla procrezione, ai millenni precedenti, alla civiltà di cui siamo figli, alla maggioranza delle persone. Salvo poi garantire anche i diritti dei diversi.
Altro esempio: larga parte della società considera chi entra in un paese senza permesso, come un clandestino, come d’altronde ha sempre sancito il diritto internazionale e ogni ordinamento nazionale: poi si può discutere tra chi avversa gli ingressi abusivi di massa e chi invece tende a giustificarli nel nome della solidarietà. Ma non si può capovolgere la realtà al punto da ritenere un reato non la clandestinità ma il chiamare clandestini coloro che effettivamente lo sono. Noi siamo ormai in questa fase e questo spiega il divorzio clamoroso tra le opinioni delle élite e della gente (vedi il boom del libro di Vannacci o il successo di Trump sotto processo).
Lo sforzo che si richiede ad ambo i versanti è di riconoscere che viviamo in una società conflittuale ed esistono almeno due visioni contrapposte, che dobbiamo sforzarci di riconoscere, pur continuando legittimamente ciascuno a sostenere la propria. E stabilire un perimetro di contesa, dove è lecito nutrire tesi diverse, senza arrivare alla scomunica dell’avversario. Ma partendo dalla realtà, tenendo conto dell’esperienza dei popoli, della natura come dei mutamenti sociali. Si possono avere interpretazioni diverse, adottare diversi comportamenti e preferire soluzioni divergenti. Possono differire i giudizi, ma non si può negare l’evidenza della realtà; si può criticare l’avversario ma non lo si può offendere o negargli il diritto di esprimere le sue opinioni e le sue preferenze.
So che a dirlo è più facile che a farlo. Ma partire almeno da un atto di reciproco riconoscimento, senza rinunciare alle proprie convinzioni e quel che riteniamo essere il bene comune, è il fondamento di una civiltà prima che di una libera democrazia. Parole al vento, ma vanno dette e sparse…

Marcello Veneziani       

Ecco quali sono i modelli ideali di donna e uomo secondo l’IA.

La bellezza ai tempi dei social troppo spesso passa attraverso i filtri.

Pelle chiara, vita da vespa e seno straripante, lei. Spalle larghe e addome di marmo, lui. Sono la donna e l’uomo ideali secondo le immagini generate dall’intelligenza artificiale all’interno di un progetto di sensibilizzazione sui disturbi alimentari. Da molto tempo i giovani sono alla ricerca dell’ideale di bellezza, sia femminile che maschile. Se un tempo lo si cercava nel mondo vip specialmente dello spettacolo, ora sono i social a dettare i canoni di bellezza da raggiungere. Ora , se pensiamo che quasi nessuna foto viene postata senza prima essere passata sotto ogni tipo di fotoritocco, oggi alla portata di chiunque, possiamo immaginare che queste bellezze siano irraggiungibili.Per questo, “Progetto Bulimia” ha pensato di mettere in guardia sul problema sfruttando la tecnologia del momento, ossia l’intelligenza artificiale, per condurre un esperimento “rivelatore”.
Usando tre diverse intelligenze artificiali generatrici di immagini per bellezza femminili e maschili, addestrate su Instagram, Snapchat e altre reti sociali ,le IA in questione ,Dall-E 2, Stable Diffusion e Midjourney, hanno prodotto immagini ,nella maggior parte dei casi ,ai limiti del grottesco.
I corpi di donne e uomini appaiono irrealistici, con misure estremizzate sia per quanto riguarda le parti femminili (vite snelle e seni prosperosi), sia per quelle maschili, con uomini che appaiono come versioni photoshoppate di bodybuilder, con l’aggiunta di essere immagini estremamente sensuali. “Considerando che i social media utilizzano algoritmi basati sui contenuti che catturano maggiormente l’attenzione degli utenti, è facile indovinare per quale motivo i rendering appaiano così sessualizzati”, spiegano i ricercatori.
Inoltre più del 40 per cento delle immagini generate dai programmi di IA rispecchiano anche caratteri discriminatori e razzisti proponendo per lo più modelli di pelle bianca e olivastra (nel 53% dei casi) e con capelli biondi (nel 37%).
I ricercatori concludono dunque che nell’epoca in cui quasi niente di quello che si vede sui social è reale, senza ritocchi insomma, sia mentalmente che fisicamente più sano mantenere le aspettative sulla realtà, evitando di andare incontro a disturbi seri come bulimia e anoressia.

Un futuro senza (o quasi) zanzare?

Pare, secondo studi recenti, che le zanzare abbiano un udito particolarmente raffinato, in grado di percepire anche vibrazioni;forse per questo motivo ci ronzano intorno fino poi a pungerci coi loro fastidiosi spilli proboscidei. Al tramonto le zanzare si riuniscono in migliaia di esemplari, maschi e femmine ed ogni individuo emette il suo suono, più forte quello dei maschi mentre quello delle femmine è più flebile. Per questo il maschio affina di continuo il suo udito per poter individuare la femmina con cui accoppiarsi. Ora gli studiosi, che hanno compreso così bene come funzioni l’orecchio delle zanzare sono fiduciosi di riscire ad individuare una proteina capace di indebolire, quasi all’assordamento ,l’orecchio dei maschi, impedendogli così l’accoppiamento con fortissima riduzione di questi fastidiosissimi insetti, che sono pure veicoli di gravi malattie per l’uomo. Indubbiamente sarebbe una scoperta formidabile, ecosostenibile , con risultati certi, che libererebbe l’uomo da questo tormento ,meglio di qualsiasi repellente sia stato provato fino ad oggi. Confidiamo in un prossimo futuro per avere serate e notti tranquille…

zanzare

Come il tempo condiziona il pensiero…

 

ragazza

In un quadro del 1860 di Ferdinand Georg Waldmüller viene ritratta una giovane donna che passeggia in un paesaggio bucolico, tenendo tra le mani quello che a un primo sguardo sembra proprio essere… un cellulare.È un mistero che ritorna di moda periodicamente, ma fa sempre scalpore.

Gli amanti della fantascienza ,che di questa vivono,hanno visto subito la prova di una viaggiatrice nel tempo, anche se fin troppo integrata nell’epoca , mentre c’è chi invece ha provveduto a dare una spiegazione storico-culturale, rivelando la vera natura dell’oggetto tenuto tra le mani dalla ragazza.
Come hanno fatto notare diversi critici d’arte, i viaggi nel tempo non c’entrano: la ragazza avrebbe tra le mani un libro di preghiere o, secondo l’account Twitter The Daily News Opinion, una piccola Bibbia, in una versione molto diffusa a metà Ottocento grande quanto il palmo di una mano.

Non è la prima volta che scoviamo (presunti) viaggiatori nel tempo in quadri antichi: un altro esempio è il dipinto del 1937 dell’artista italiano Umberto Romano, Mr. Pynchon and the settling of Springfield , dove uno dei personaggi sembra osservare uno smartphone – che in realtà è probabilmente un semplice specchio.

pinc. Romano

Ciò che ha maggiormente stupito Peter Russell, il funzionario governativo in pensione che per primo, nel 2017, notò lo strano oggetto sul dipinto di Waldmüller, è come il contesto in cui viviamo influisca sulla nostra capacità di interpretare ciò che vediamo: “Nel 1860 qualunque osservatore avrebbe identificato nell’oggetto che la ragazza ha tre le mani un libro di preghiere: oggi, tutti vediamo una giovane donna assorbita dalle notifiche del suo smartphone”. Infatti la figura del dipinto riflette ,come uno specchio, milioni di donne per le strade del mondo civilizzato.

  Da Focus

 

Il sud è un geo-pensiero fruttuoso..Dalla Gazzetta del mezzogiorno.

Alla festa della Taranta mi hanno chiesto di parlare del sud stasera a Sternatia. Il tema è riassunto in un’espressione che coltivo da anni: cogito ergo sud. Al meridione non tocca adeguarsi all’unione europea o inseguire i modelli del nord, diventando solo una caricatura a rimorchio e a comando; ma far riemergere l’anima pensante del meridione e renderla fruttuosa nel presente.
Parto da una celebre espressione usata con disprezzo da Gianni Agnelli verso un politico meridionale: intellettuale della Magna Grecia. Ad avercene di intellettuali della Magna Grecia, ma veri. Se le sognano in altre parti d’Europa le fervide menti meridionali, se le sognano le dinastie industriali come gli Agnelli (basterebbe dire che oggi il miglior erede degli Agnelli è Lapo Elkann; ho detto tutto, diceva Peppino a Totò).
Si tratta di compiere una piccola rivoluzione: quel che conta non è sempre e solo essere al passo coi tempi ma a volte è prezioso essere al passo coi luoghi, sentirsi non contemporanei ma conterranei. Ossia mettere a frutto il legame geografico comune col sud, la nostra matria. Questo significa geofilosofia, un pensiero all’altezza dei luoghi, figlio di un paesaggio, di una storia in una terra, di una cultura derivata da coltura, e fluente come il lungo mare nostrano. C’è un legame creativo e fecondo tra il genius loci e il pensiero, tra i caratteri, i miti, le musiche e le danze, come la taranta, e il pensiero mediterraneo, amato da Paul Valéry, Albert Camus e Jean Grenet, indagato a Bari alla luce del pensiero meridiano da Franco Cassano. C’è un legame fortissimo tra pensiero e natura, tra l’ideario e il cibario, che potrebbe affascinare anche oltre il sud e trasformare le onde anomale e provvisorie del turismo in una scoperta antropologica, uno stile di vita, una modalità di pensiero da frequentare con più fruttuosa assiduità. Dalla frenesia dell’ora all’ozio creativo della controra.
Da anni disperdo al vento del sud il seme di un progetto per la raccolta del pensiero mediterraneo, di una Fondazione che se ne prenda cura, di un Ateneo che lo tenga a battesimo, di un giornale o più giornali che se ne facciano veicoli… Un campo di ricerche in cui promuovere studi e arti, iniziative ed eventi, rinascita di luoghi, senso del bello e amor del luogo, mitologia del sud e letteratura identitaria. Qualcosa che riprenda in modo originale le intuizioni del meridionalissimo Giambattista Vico (a cui ho dedicato una biografia in uscita tra una settimana da Rizzoli), gli studi antropologici di Ernesto de Martino e tutto il filone sommerso del pensiero meridionale, non meridionalista; mediterraneo, meridiano, non lagnoso o solo retrospettivo.
Quanto ai ritardi del sud, li vedo anch’io, ma proviamo a fare un discorso diverso: siamo gli ultimi in fila alla vecchia cassa, ma se stiamo attenti, saremo i primi appena se ne apre una nuova. Non sto parlando di cassa per il mezzogiorno, dico fuor di metafora che i nostri ritardi in materia di industrializzazione e di modernizzazione potrebbero diventare un’opportunità ora che il modello verso cui ci muoviamo è postmoderno e postindustriale. Il terziario, i servizi, la tecnologia, il lavoro a casa, la creatività, l’accoglienza delle popolazioni anziane e benestanti del nord Europa, la ricerca di campi inesplorati, la cultura, la natura, il culto di bio.
Parliamo sempre di chi se ne val sud, ma se ci occupassimo pure di chi resta? Se oltre i migranti ci interessassimo ai restanti o restii? E poi l’originalità di un approccio non tecno-scientista, ma mito-umanista. Immaginate cosa può fare un Parmenide, un Pitagora, un Platone con uno smartphone in mano, un pc, un cervello artificiale al suo servizio… Provate a pensare inauditi incroci anziché ripetere vecchie formule tardomoderne e cascami di ideologie andate a male. Il sud non è solo un modo di dire ma anche di fare e di pensare. Il mondo visto dalla controra.

Marcello Veneziani

Esselunga…dai Racconti di vetro di Andrea Salvatici.

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Esselunga

Vincenzo uscì dal suo studio pubblicitario alle ore venti e quindici un po’ prima rispetto al solito. La sua agenzia pubblicitaria era fra le più importanti e potenti di Milano. Aveva sbaragliato la concorrenza nazionale, ma soprattutto quella americana e adesso la sua creatura aveva un ruolo predominante nel mercato pubblicitario televisivo: campagne per la Fiat, per la Barilla, per la Superga, per l’Adidas, per la Nike.  Insomma, la sua agenzia era la numero uno. Premi, targhe, riconoscimenti internazionali, tutto contribuiva a rafforzare la sua qualità e creatività professionale. Alle ore venti e trenta era già con il suo carrello fra il corridoio dei detersivi e quello dei sottaceti, distratto e lontano da tutto, con una leggera fame e tanta voglia di andare a casa e mettersi sul divano a vedere qualche programma registrato di Lucarelli. Possedeva tutte le cassette della serie “Blu notte”. Persino al lavoro ripeteva ogni tanto al suo fidato collaboratore: ”Lui non sa … ma è già morto”. Lento e leggermente sfiorato da una stanchezza cronica oramai accettata senza nessuna conflittualità personale, Vincenzo provava a quell’ora una rilassatezza meravigliosa. Comprava quasi sempre broccoli, cimette di rapa, acciughe, aglio, peperoncini e pasta fresca, in particolare orecchiette pugliesi. Dopo il divorzio le sue serate si erano trasformate: all’inizio in un momento nuovo e assai eccitante, col tempo si era poi stancato di avventure occasionali e adesso difendeva fermamente il suo spazio personale. Non era una rinuncia alla nuova vita da single o un rifiuto del mondo femminile, era soltanto una voglia diversa di viversi. Voleva stare da solo dopo tre relazioni importanti e un matrimonio fallito. In lui non c’era né rabbia, né tristezza, né dolore. C’era solo il desiderio di godersi la sua vita per la prima volta da solo. Quella sera al supermercato comprò cimette di rapa già pulite e tagliate, parmigiano in busta, acciughe, peperoncino e orecchiette di pasta fresca. Domani non sarebbe andato al lavoro. Gara vinta, due giorni di riposo, quindi si comprò due bottiglie di Chianti, il solito, quello che beveva con Francesco ai tempi dell’università, ai tempi della prima occupazione degli anni novanta. Era affezionato a quel vino anche se non era fra i più pregiati ma quel rosso gli ricordava le serate con Francesco, che ora non c’era più, a Castellina in Chianti con le loro amiche di corso. Tutti davanti a un grande caminetto acceso. Quante discussioni filosofiche e quanti innesti meravigliosi fra una goccia di sudore e l’altra. Giunto alla cassa cinque si mise in fila dietro due ragazze che parlavano inglese speditamente. Vincenzo guardava le lamette e i giornali. Spostò lo sguardo e incontrò quello di una delle due ragazze: potente e immediato nel trattenere quello di Vincenzo nel verde dei suoi occhi. Lei gli sorrise e ritornò a sistemare i pochi prodotti acquistati con l’amica sul nastro della cassa: insalata già pulita, yogurt, cracker e una bottiglia di Rum cubano. Vincenzo rimase immobile e aspettò il suo turno. L’altra ragazza dai capelli biondi, gli passò il separatore con scritto “prossimo cliente”. La cassiera, una donna sui quarant’anni, passava i prodotti a grande velocità, la ragazza dai capelli biondi, sorridendo con un certo imbarazzo, si accorse di non avere i soldi per comparare la bottiglia di Rum cubano. Chiese all’amica un aiuto. Niente, nessuna delle due poteva  pagare la bottiglia e la cassiera continuava a dire in tono assai acido: ”Allora?”. Vincenzo capì un’esclamazione in inglese un po’ imbarazzata e intervenne con il suo perfetto inglese e con estrema delicatezza. “ Posso darvi una mano per la bottiglia? Senza offesa…”. Le due ragazze lo guardarono e annuirono sorridendo. Lui pagò la loro bottiglia, la cassiera si tranquillizzò e le giovani donne lo ringraziarono. Assomigliavano a due modelle. Alte, magre e vestite con  jeans e magliette bianche.

Vincenzo mise i suoi prodotti sul rullo e guardò le due sirene uscire senza voltarsi. Nel parcheggio aprì il lucchetto della bicicletta e vide le due ragazze non lontane da lui appoggiate a una macchina mentre fumavano una sigaretta. Gli fecero un sorriso invitante.

Inforcando la sua bicicletta gli passò accanto, rispose al sorriso e incominciò a pedalare con leggerezza.

da Il Corriere della Sera       

Quando capita è un bel giorno…

 

Mi piacciono le persone un po’ disordinate; la gente che non vive chiusa in una scatola e non sempre sta tra le righe, ma la cui integrità è più grande di qualsiasi libro di regole e la cui lealtà è più forte del sangue. E queste persone le ritrovi così, anche dopo anni di distanza, non sono cambiate e non hanno dimenticato nulla. Le ritrovi intatte, come  le  avevi lasciate. Nemmeno il tempo pare averle scalfite, nelle loro rughe si riesce  ad agganciare ancora la giovinezza perduta e , ricominciare con loro un nuovo periodo di vita, diventa la cosa più semplice ed eccitante da farsi. Succede anche, che un giorno qualsiasi, quando nemmeno immaginassi, abbia ritrovato degli amici carissimi, per una gioia grandissima!

A group of mature friends are sitting around an outdoor dining table, eating and drinking. They are all talking happily and enjoying each others company. The image has been shot from above and taken in Tuscany, Italy.

 

Termofilosofia e tirannia del Meteo .

 

Insomma, questo caldo bruciante a sud, queste tempeste devastanti a nord, sono gli eccessi di un’estate come altre in passato o sono il segno di un drastico cambiamento climatico? Sono frutti bizzosi del caso e del maltempo o derivano da errori, disattenzioni e colpe umane? In altri tempi, mistici e messianici, avrebbero discusso se siamo alle soglie della fine del mondo oppure è uno di quei feroci ruggiti del solleone che periodicamente si affacciano nella storia climatica del mondo. Anche in quel caso, le catastrofi sarebbero state attribuite da alcuni ai peccati degli uomini, alla loro tracotanza, che i greci chiamavano hybris. E da altri agli imprevedibili capricci della natura. Stavolta, ad aggravare la scena si è messo il primo governo “di destra” della nostra repubblica, subito accusato di grave complicità nelle catastrofi, anzi di concorso esterno in calamità ambientali.
Proviamo a ragionare, non su basi scientifiche e nemmeno statistiche, dopo aver letto esaurienti spiegazioni e dettagliati paragoni col passato che conducevano a opposte conclusioni con dati alla mano.
Siamo in presenza di una termofilosofia, ovvero una filosofia del caldo, che s’intreccia a una specie di tirannia del meteo, altrimenti definibile come meteocrazia. Il precedente filosofico e teologico fu il terremoto che distrusse Lisbona nel 1755: c’è chi vide in quel terremoto una punizione divina (es. de Caussade) e chi trovò in quel sisma la prova dell’inesistenza di Dio (es. Voltaire). I primi furono detti oscurantisti, i secondi illuministi.
Ma torniamo al presente. Lasciamo fuori dal ragionamento le due ipotesi estreme, che sconfinano in due reati, non solo d’opinione: da una parte il negazionismo di chi nega il cambiamento climatico, e dall’altra il meteoterrorismo, di chi specula sul terrore meteo per trarre profitto politico, mediatico, industriale, commerciale.
Quel che possiamo constatare in partenza è che viviamo ormai da alcuni anni sotto la Cappa dell’Emergenza: si passa senza soluzione di continuità da un’emergenza a un’altra, sanitaria e farmaceutica, bellica e militare, poi ecologica da inquinamento, ora la bolla meteocatastrofica, più altre sottoemergenze che accompagnano le macro-priorità.
Terrorismo mediatico quotidiano, psicosi di massa indotta dai media, anche per vendere l’informazione: impresa sempre più difficile, necessita di dosi emotive sempre più forti. Emergenza vuol dire sospendere alcune libertà e tanta spensieratezza, vuol dire accettare sacrifici e restrizioni sempre per il nostro bene, controllare e sorvegliare, produrre campagne massicce, prescrizioni e proscrizioni di massa, più investimenti adeguati. E si tratta di additare alla popolazione un capro espiatorio su cui scaricare la colpa della situazione col relativo carico di paure, invettive e rancori.
Concorre a questo mutato “clima”, in ogni senso, la nostra mutata percezione e la nostra mutata soglia di sopportazione, molto più ridotta nel tempo, non solo a causa dell’uso massiccio di aria condizionata. La stoica sopportazione del caldo o delle intemperie nelle società antiche si è assai assottigliata in una società fisicamente e psichicamente fragile, delicata, benestante, un po’ nevrotica, fin troppo accessoriata e foderata di mediazioni. Ogni evento fuori controllo diventa estremo, biblico. E in una società di vecchi soffriamo di più gli eccessi climatici.
Ciò detto, è innegabile che qualcosa di diverso stia accadendo nel clima: non si tratta più di citare Plinio che già duemila anni fa diceva che sono finite le mezze stagioni. C’è qualcosa che nella nostra esperienza di vita, non avevamo vissuto: o per dir meglio, ricordiamo tanti eventi atmosferici avversi, di ogni tipo; ma si è intensificata la frequenza, è aumentata e accelerata. Per fare un paragone filosofico e umanistico, il clima sta mutando con la stessa velocità con cui ci stiamo disumanizzando, in vari ambiti, perdendo la consuetudine di mondi, visioni, morali, religioni e culture con una velocità impressionante. Qui fa capolino una visione metafisica della decadenza, ma in questa sede atteniamoci alla realtà.
Detto questo, è doveroso e urgente cercare di far qualcosa per prevenire, arginare, salvare il salvabile. Dunque non si tratta di abbandonarsi al liberismo teologico e climatico, e lasciar fare il corso della Natura; qualcosa bisogna fare per frenare le emissioni di gas nocivi, inquinamento, la moria di vegetazione e animali, e così via. E bisogna essere il più possibile tempestivi e incisivi. Riconosciuta la necessità di interventi, aggiungerei però due considerazioni intrecciate. La prima è che le possibilità che ha l’uomo di modificare l’ecosistema, l’equilibrio geotermico e il clima sono assai relative, ridotte; la nostra incidenza non va esagerata, siamo dentro processi più grandi che dipendono da fattori più vasti. E anche i fattori umani, a cominciare dal sovraffollamento del pianeta come mai era accaduto, sono quasi insormontabile, non possono essere risolti in modo efficace e razionale. Dunque non attribuiamo troppi poteri all’uomo. E qui torniamo alla filosofia del nostro tempo, anche in senso meteo: da anni rifiutiamo l’idea di evento catastrofico, di incidente, di calamità naturale. Cerchiamo dietro ogni evento una responsabilità, dei colpevoli per dolo, incuria o malvagità; sembra quasi che ogni morte sia causata da un incidente, un disguido, una mancanza di precauzione e prevenzione, insomma sia sempre responsabile qualcuno. Convinciamoci di una cosa: la prima causa, assoluta, di decessi è che siamo mortali. La morte non è un errore ma un destino. Non è colpa tua, mia, loro, della Meloni. Il fatto è che siamo mortali.

Da Panorama, di Marcello Veneziani