Com’è triste vedere Francesco inerte davanti alla morte. Esultano gli ex Pci.

Una volta si segnavano tutti, ora non lo fa neppure Bergoglio a Palazzo Madama per non urtare una cerimonia laica. E per Veltroni e compagni il gesto suona ormai come un’offesa

Com'è triste vedere Francesco inerte davanti alla morte. Esultano gli ex Pci

Un fatto straordinario, ha detto Walter Veltroni commentando il Papa entrato e uscito dalla camera ardente di Napolitano senza nemmeno un segno della croce. Lo dico anch’io: è proprio un fatto straordinario. E però in senso opposto: a differenza del Veltroni gongolante su RaiTre lo giudico un fatto straordinariamente negativo. Un tempo il segno della croce lo facevano tutti e in tante occasioni. Mia nonna, la ricordo come se fosse ora, lo faceva anche quando sentiva la sirena di un’ambulanza. Io che pure non sono né nonno né Papa lo faccio ogni volta che entro in un cimitero. È un gesto per me naturale che significa almeno due cose: pietà verso i morti e preghiera verso chi ha promesso di farli risorgere. E figuriamoci se non lo faccio in una camera mortuaria, un posto dove non mi metto certo ad analizzare la fede o la non fede del defunto: lo faccio e basta. Del resto se i famigliari fossero infastiditi da simili visioni potrebbero sempre affiggere un cartello: «Ingresso vietato ai cristiani» In tal caso girerei i tacchi e me ne tornerei a casa, siccome non entro dove non posso essere me stesso. E per un cristiano il segno della croce è per l’appunto cruciale. Un tempo lo facevano tutti e adesso non lo fa nemmeno il Papa. Non mi piace fare la parte dell’apocalittico, è un ruolo ingrato, ma se quanto accaduto nella camera ardente del Senato non evidenzia lo stato agonico del cattolicesimo romano ditemi voi. Per Veltroni la fissità bergogliana testimonia il «grande rispetto del pontefice nei confronti delle istituzioni di questo Paese». L’ex capo del partito democratico sembra dunque confondere il segno della croce con la pernacchia. Ma se davvero i segni cristiani sono considerati ormai alla stregua di insulti, perché non andare oltre? Perché non avvicinarsi ancor più alla sensibilità del mondo incredulo? Nel corso della loro storia i gesuiti lo hanno fatto molte volte: andarono in Cina per evangelizzare e a forza di avvicinamenti finirono cinesizzati, andarono verso il comunismo per cristianizzarlo e a forza di avvicinamenti finirono comunistizzati… Il Papa gesuita che ha fatto trenta al prossimo funerale potrebbe fare trentuno: presentarsi in clergyman, senza quell’assurdo, anacronistico abito bianco e soprattutto senza quell’impressionante croce sul petto, indelicata verso atei, buddisti, maomettani, zoroastriani

Veltroni su RaiTre ha parlato ovviamente anche di politica. Argomento su cui sembrava più ferrato. Sembrava. Secondo lui Napolitano ha sempre «fatto ciò che andava fatto, agendo nell’interesse nazionale». Secondo me nell’elogio veltroniano mancava un «sovra»: in almeno due occasioni (guerra di Libia e cacciata di Berlusconi) il cosiddetto Re Giorgio agì nell’interesse sovranazionale. Ma non è questo il momento e non è questo l’articolo, non vorrei andare fuori tema e torno al nocciolo della questione che è squisitamente religiosa.

Un Papa così inerte è sconfortante per tutti i fedeli. Starsene impalato davanti a una bara è un venir meno alla propria missione, assegnata da Gesù a Pietro (e dunque ai suoi successori) durante l’Ultima Cena: «Conferma i tuoi fratelli». Un Papa che davanti alla morte si mostra senza parole né gesti non conferma: smentisce. Forse è stato ultra rispettoso verso l’ateo morto, di sicuro è stato poco riguardoso verso i cristiani vivi, in primis quelli che nei paesi islamici hanno pagato e pagano la manifestazione esteriore del proprio cristianesimo con persecuzioni e carcere, a volte col patibolo. In ogni tempo i grandi pensatori cristiani hanno assegnato grande valore al segno della croce. Per Tertulliano bisognerebbe farselo «ad ogni passo, quando si entra e quando si esce, nell’indossare i vestiti, a tavola, nell’andare a letto…». Per Ratzinger è nientemeno che «la sintesi della nostra fede». Invece il video del Papa immoto e silenzioso al Senato mi è sembrato una sintesi dell’agnosticismo costituzionale. E mi ha fatto venire in mente una poesia poco allegra di Cesare Pavese, quella che finisce così: «Scenderemo nel gorgo muti». Vade retro! Gesù nel Vangelo di Matteo ci esorta a fare l’esatto contrario: «Gridatelo sui tetti!». Lui che da quindici secoli fa il segno della croce nel mosaico di Sant’Apollinare in Classe.

Camillo Langone   

L’agosto di Cesare Pavese e non solo…

Agosto, il mese adolescente

Agosto non è un mese ma uno stato d’animo; è l’adolescenza dell’anno, in cui si esce dal mondo e dal tempo e si entra nella natura e nel mito. Il tempo è sospeso anche se corrono i giorni, e ciascuno vive in agosto l’esperienza primitiva del ritorno all’origine. La festa patronale, le stelle di San Lorenzo e l’apoteosi del ferragosto, le cicale e le notti bianche, il caldo e il mare, i corpi liberi e vogliosi di vita; e poi la luna e i falò, la spiaggia, la bella estate, feria d’agosto. Cesare Pavese cantò, sin nei suoi memorabili titoli appena citati, la bellezza e il mito d’agosto e dell’estate.  Da meridionale associo agosto al sud, è il mese del ritorno a sud, della discesa a sud di tanti settentrionali. Eppure se l’agosto naturale e sensuale, marino e salmastro, solare e notturno, è situato al sud, l’agosto in parole e poesie è associato a uno scrittore del nord più profondo che raccontò le Langhe e le sue colline. Lui, Pavese. Agosto, dicevo, è il mese adolescente. In agosto di solito debutta l’adolescenza, i primi amori, le prime scoperte, la libertà e la trasgressione già nel tirar tardi la sera e allontanarsi da casa. Ma in agosto è il mondo adulto che torna adolescente, perché cerca il gioco, il trastullo, la vita senza diaframmi che si mostra nuda, come i corpi e i pensieri. Agosto è poi maledetto perché è mese di folle e di file; tutto si fa meno bello per spalmarsi come una crema abbronzante su più persone. Ma l’età di agosto è l’adolescenza, dimentica gli affanni passati e quelli venturi, è una tregua, un oblio, una fuoruscita dai giorni consueti. Nell’adolescenza, spiega Pavese in Feria d’agosto, c’era un tesoro che noi non sapevamo; c’è fascino e stupore, come dentro una favola. Tutto è visto con altri occhi, sotto altra luce: è l’essenza del mito. Verrà poi la nostalgia a ricordare quel tempo mitico, gremito di simboli, però ci mancherà “la purezza iniziale di vivere nell’essere genuino”. Gli unici paradisi a noi concessi, si sa, sono i paradisi perduti; lo disse Proust, lo disse Borges, lo dice in altri modi Pavese. Quando sei in paradiso non ci fai caso; quando ci ripensi e ne avverti la mancanza il paradiso è già perduto. Prima si vive, poi si conosce, non si vive e si conosce nello stesso tempo; questo è il mistero di vivere secondo Pavese. L’infanzia per lui è il vivaio dei simboli; l’adolescenza sprigiona la voglia di viverli con tutti i sensi, anche quelli nascosti. La vita adulta, avverte Pavese, aggiungerà ben poco al tesoro infantile di scoperte. L’essenza dello stupore, lo stato di grazia, per lui, non è restare dentro se stessi ma spargersi nei luoghi fino a sparire dentro di essi: farsi quel campo, quel cielo, quel bosco; aggiungo, quel mare. Io non esisto, esiste il cielo. Io non esisto, esiste agosto. Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico, dice Pavese. Nessun bambino sa cosa sia il paradiso dell’infanzia; anzi, l’infanzia è poetica solo per gli adulti. C’è nel bambino “un immediato e originario contatto alle cose”. Che si perde quando si diventa adulti, e finisce agosto. Tornando nei panni dello scrittore, Pavese annota: “quando si prende in mano la penna per narrare sul serio, tutto è già accaduto, si chiudono gli occhi e si ascolta una voce che è fuori dal tempo”. Il poeta cerca di “rinverginarsi” dice Pavese, cioè tenta a ritroso di ritrovare la purezza perduta. La narrazione, l’arte, è il ritorno cosciente all’adolescenza, ossia a quella stagione della vita che è ponte tra il mito e la realtà, tra l’infanzia e la vita adulta, tra lo stupore e la conoscenza. Cosa rende mitico e sacro un paesaggio? È avvertire quello spazio nella sua unicità. Così sono nati i santuari, nota Pavese; isolando un luogo dal mondo, come è d’altronde il significato etimologico di templum. “Feste, fiori, sacrifici sull’orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombre silvestri. Lì sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare un dio”. Prima che cogliere il significato delle parole, sentite la musica, il ritmo, l’atmosfera propizia, il suono delle parole che cantano quei luoghi. Il mito è lì. La festa ricelebra il mito e insieme lo instaura ogni volta, come se fosse la prima volta. Pavese scriveva queste cose all’indomani della Grande Storia, subito dopo la tragedia della guerra mondiale, in quel Novecento dove tutto era schiacciato sotto il peso della storia. La letteratura come il cinema, si rifugiava nel realismo per applicare la narrazione storica alla vita minuta dei giorni e della gente comune. Pavese invece presta l’ascolto al mito, nello stormire delle foglie, riconosce il battito della natura, volge lo sguardo al piano simbolico, avverte da lontano la danza del dio. La storia nel suo tempo è un divenire incessante, imperativo; una retta che corre verso l’infinito, il progresso è la sua legge inesorabile ed euforica: invece Pavese si rifugia in agosto, nell’adolescenza, nel mito, nella natura, sente il ciclo della vita e delle stagioni, scorge la circolarità dei destini e il loro perentorio accadere. Negli anni trenta si era rifugiato nella letteratura americana, di cui sentiva l’afrore giovanile e selvaggio delle passioni contro il retaggio senile della storia europea. La mitopeia infantile, scrive, ha questo di particolare: le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. È una conoscenza di seconda mano, non si vedono le cose la prima volta, “quello che conta è sempre la seconda”. Ciascuno di noi, avverte, possiede una mitologia personale: e qui la mente di ciascuno si popola di ricordi mitizzati della propria infanzia d’agosto. “A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, e tutto era bello, specialmente di notte”.

Fu proprio in agosto che Pavese si tolse la vita. D’estate era nato, d’estate chiuse il suo cerchio. La bella estate.

Marcello Veneziani

Il sud è un geo-pensiero fruttuoso..Dalla Gazzetta del mezzogiorno.

Alla festa della Taranta mi hanno chiesto di parlare del sud stasera a Sternatia. Il tema è riassunto in un’espressione che coltivo da anni: cogito ergo sud. Al meridione non tocca adeguarsi all’unione europea o inseguire i modelli del nord, diventando solo una caricatura a rimorchio e a comando; ma far riemergere l’anima pensante del meridione e renderla fruttuosa nel presente.
Parto da una celebre espressione usata con disprezzo da Gianni Agnelli verso un politico meridionale: intellettuale della Magna Grecia. Ad avercene di intellettuali della Magna Grecia, ma veri. Se le sognano in altre parti d’Europa le fervide menti meridionali, se le sognano le dinastie industriali come gli Agnelli (basterebbe dire che oggi il miglior erede degli Agnelli è Lapo Elkann; ho detto tutto, diceva Peppino a Totò).
Si tratta di compiere una piccola rivoluzione: quel che conta non è sempre e solo essere al passo coi tempi ma a volte è prezioso essere al passo coi luoghi, sentirsi non contemporanei ma conterranei. Ossia mettere a frutto il legame geografico comune col sud, la nostra matria. Questo significa geofilosofia, un pensiero all’altezza dei luoghi, figlio di un paesaggio, di una storia in una terra, di una cultura derivata da coltura, e fluente come il lungo mare nostrano. C’è un legame creativo e fecondo tra il genius loci e il pensiero, tra i caratteri, i miti, le musiche e le danze, come la taranta, e il pensiero mediterraneo, amato da Paul Valéry, Albert Camus e Jean Grenet, indagato a Bari alla luce del pensiero meridiano da Franco Cassano. C’è un legame fortissimo tra pensiero e natura, tra l’ideario e il cibario, che potrebbe affascinare anche oltre il sud e trasformare le onde anomale e provvisorie del turismo in una scoperta antropologica, uno stile di vita, una modalità di pensiero da frequentare con più fruttuosa assiduità. Dalla frenesia dell’ora all’ozio creativo della controra.
Da anni disperdo al vento del sud il seme di un progetto per la raccolta del pensiero mediterraneo, di una Fondazione che se ne prenda cura, di un Ateneo che lo tenga a battesimo, di un giornale o più giornali che se ne facciano veicoli… Un campo di ricerche in cui promuovere studi e arti, iniziative ed eventi, rinascita di luoghi, senso del bello e amor del luogo, mitologia del sud e letteratura identitaria. Qualcosa che riprenda in modo originale le intuizioni del meridionalissimo Giambattista Vico (a cui ho dedicato una biografia in uscita tra una settimana da Rizzoli), gli studi antropologici di Ernesto de Martino e tutto il filone sommerso del pensiero meridionale, non meridionalista; mediterraneo, meridiano, non lagnoso o solo retrospettivo.
Quanto ai ritardi del sud, li vedo anch’io, ma proviamo a fare un discorso diverso: siamo gli ultimi in fila alla vecchia cassa, ma se stiamo attenti, saremo i primi appena se ne apre una nuova. Non sto parlando di cassa per il mezzogiorno, dico fuor di metafora che i nostri ritardi in materia di industrializzazione e di modernizzazione potrebbero diventare un’opportunità ora che il modello verso cui ci muoviamo è postmoderno e postindustriale. Il terziario, i servizi, la tecnologia, il lavoro a casa, la creatività, l’accoglienza delle popolazioni anziane e benestanti del nord Europa, la ricerca di campi inesplorati, la cultura, la natura, il culto di bio.
Parliamo sempre di chi se ne val sud, ma se ci occupassimo pure di chi resta? Se oltre i migranti ci interessassimo ai restanti o restii? E poi l’originalità di un approccio non tecno-scientista, ma mito-umanista. Immaginate cosa può fare un Parmenide, un Pitagora, un Platone con uno smartphone in mano, un pc, un cervello artificiale al suo servizio… Provate a pensare inauditi incroci anziché ripetere vecchie formule tardomoderne e cascami di ideologie andate a male. Il sud non è solo un modo di dire ma anche di fare e di pensare. Il mondo visto dalla controra.

Marcello Veneziani

Non amerai altri che te stesso…

 

Io amo Io, ossia sposarsi con se stessi

In origine era la famiglia numerosa. Poi venne la famiglia simmetrica e quadrangolare, padre madre figlio e figlia. Quindi la famiglia con figlio unico. Si passò poi alla coppia senza figli, anche dello stesso sesso. Poi fu varata la famiglia mononucleare, composta da un solo membro, il single. Adesso siamo arrivati alla sologamia. Di che si tratta? Il single si ama a tal punto che decide di convolare a nozze con se stesso e sposarsi con un rito ad hoc. Matrimonio narcisistico, potremmo dire, celebrato allo specchio, in un selfie. Garanzia di indissolubilità. Un’installazione di Elena Ketra al Gazometro di Roma ha figurato una donna che sposa se stessa, con tanto di marcia nuziale. A Kyoto esiste il self-wedding per singoli che amano se stessi al punto da prendersi in sposo/a; conta “lo stare bene con se stessi”, imperativo assoluto della nostra epoca. L’artista la motiva a contrario come una forma di “inclusione sociale” giacchè “amarsi è necessario per poter amare in modo libero ogni altro essere umano”.
Quel matrimonio onanistico, autoreferenziale, in cui si è sposo, sposa e figlio della propria unione, è una esibizione simbolica; portata all’estremo, rappresenta la tendenza e lo spirito della nostra epoca.
A conferma di questa tendenza ad amare se stessi sopra ogni cosa, e considerare lo “star bene con se stessi” come l’unico vero fine e requisito per l’esistenza, si possono citare altri due fatti concomitanti. Uno è il congelamento degli ovuli, o dei semi, che nasce da una motivazione originaria comprensibile: se sono single e temo che con gli anni perderò la fecondità, cerco di mettere in salvo la mia possibilità di riprodurre, per consentire – in caso di unione fuori tempo massimo per il mio corpo – di avere ugualmente figli. Ma l’ideologia sottostante al congelamento non è l’impulso alla maternità e tantomeno il desiderio di fare famiglia e coronare l’unione con un consorte; ma la possibilità di autoriprodursi, di lasciare in banca, congelato, la propria virtuale riproduttività, come si congelano anche corpi malati e senili che sperano di poter “risorgere” alla vita quando si troveranno le cure giuste per superare quella malattia ora mortale. Sentitele le single che depositano ovuli nella banca del futuro: è un modo per perpetuarsi, per lasciare lo stampino di se stessi, garantirsi se non l’immortalità, una possibilità di replicarsi ed eludere la mortalità.
Ancora una volta la religione, la filosofia di vita che traspare in queste scelte è lo sconfinato amore per se stessi, e l’inclinazione a pensare il partner non come colui col quale si desidera dividere la vita, giurarsi e praticare amore reciproco, e coronare la propria unione con uno o più figli; ma come l’inseminatore occasionale, il fuco rispetto all’ape regina, ossia il semplice donatore di seme che serve per ingravidare e consentire alla donna autarchica di riprodursi. Non un figlio, dunque, quanto una replica di se stesse, un modo per rigenerare il proprio io e i propri geni.
Per coronare questa visione autarchica e autoreferenziale della vita, consideriamo infine un altro aspetto, recentemente ribadito da una sentenza della magistratura. E’ possibile mutare la propria sessualità e tutto quello che ci identifica, comprese le generalità, semplicemente con un’autocertificazione o un’autopercezione. Lo ha stabilito una sentenza recente del tribunale di Trapani: si può cambiare sesso senza operazione chirurgica o mutazione ormonale, ma per un “puro” desiderio di farlo. Per cambiar sesso non c’è bisogno nemmeno di sottoporsi a un’operazione in modo da mettere anche la legge con le spalle al muro davanti a un’evidente mutazione genetica; basta sentirsi di un altro sesso per modificare i propri dati anagrafici e la propria identità sessuale.
Se la legge non parte dalla realtà oggettiva e da quel che noi siamo secondo evidenza e natura, ma deve sottomettersi a ciò che noi vogliamo essere, allora non solo la percezione del sesso dovrebbe costituire motivo sufficiente per la mutazione dei dati. Ma anche la percezione anagrafica: se io mi sento trent’anni di meno, vivo, vesto, penso e sono come un ragazzo, o se mi sento più africano o asiatico che italiano, perché non riconoscere la variazione d’età o di etnia rispetto a quel che dice la mia anagrafe? Un tema che avevamo già posto provocatoriamente in un controcanto paradossale di un anno fa. E che potrebbe estendersi oltremisura: se mi sento cinghiale, potrà bastare la mia percezione e la mia volontà di ungulato per decretare il mio cambiamento anagrafico e statutario? O l’umanità non può essere revocata, per la semplice ragione che non sarebbe mai possibile l’inverso, ovvero la domanda di un cinghiale di essere riconosciuto umano? Per avanzare una tale richiesta e manifestare la tua volontà devi essere almeno umano, non appartenere al regno animale, vegetale o minerale.
Naturalmente sono paradossi, resta però il principio di fondo: non conta più la realtà e la sua evidenza, la natura e la fisiologia, anzi non conta più l’oggettività; conta il soggetto, il suo sentire e volere soggettivo. Qui torniamo al punto di partenza: Io sono quel che voglio essere, se decido posso perfino sposarmi con me stesso, e riprodurmi in modo autarchico, usando il seme altrui come concime anonimo, impersonale. Io amo io, e basta.
Resta solo una domandina per voi: siete contenti di questa conquista, alzate le spalle dicendo che i tempi mutano, o vi rifiutate di accettare la fine ingloriosa dell’umanità, della natura, del buon senso e della civiltà?

(Panorama, n.31) Marcello Veneziani

 

Quando il ricordo insiste…

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Luna Park, banco dei pesci rossi

 

Era lunedì mattina, erano le otto. Alberto smontava dal turno di notte. Pioveva, ma lui non aveva nessuna voglia di prendere un mezzo di trasporto e ritornare subito a casa sebbene fosse stanco dopo tre angioplastiche e due massaggi cardiaci di un’ora a fine turno e una pioggerellina fastidiosa che gli entrava tranquillamente fra il bavero del cappotto alzato e il collo. Teneva in mano un ombrellino di color rosso e lo guardava dall’interno. Le bacchette piegate, storte e in leggero movimento, ricordavano le zampette di un ragno impegnate nel tessere una ragnatela; all’esterno invece sembrava un papavero in balia del vento. Quel futile riparo gliel’aveva prestato la sua collega che montava il turno successivo, con la promessa che glielo avrebbe riportato il giorno dopo. Sarebbe stato meglio tornare a casa, prepararsi un buon caffè e farsi una doccia calda, ma decise di fare due passi. Voleva stare fuori al di là del vento e di quella fastidiosa pioggerellina. Voleva andare al Parco Sempione. Tagliò per il quartiere di Brera e si diresse verso il parco. Spense il cellulare e continuò a camminare. Quella mattina non era di reperibilità. Era libero di dormire, correre, leggere o comunque non fare altro per tutto il giorno. Alberto, dopo la morte della moglie, non riusciva più a stare molte ore in quella casa. L’aveva messa in vendita, in affitto, aveva abbassato drasticamente il prezzo di vendita suscitando infinite perplessità da parte dei parenti, l’aveva trasformata in un semplice dormitorio di lusso. La verità era che Alberto non si dava ancora pace. Era pieno di dolore e di rabbia. Non aveva mai accettato quell’ingiusta condanna a morte a una donna di soli ventinove anni: sua moglie aveva avuto un infarto davanti ai suoi allievi durante una supplenza di latino. E lui quella mattina di febbraio era lontano per un congresso. Era tranquillo solo in reparto e soprattutto in sala operatoria dove nessuno gli poneva domande o gli dava consigli. Era lui che gestiva e guidava quelle ore. Era lui che tentava di salvare una vita, un cuore interrotto, fermo per alcuni minuti o fermo per sempre. Ma con sua moglie non aveva potuto fare nulla. Lui era lontano. Lei era morta mentre lui era a un brunch con un collega americano. Quando atterrò a Malpensa trovò la stessa pioggerellina e suo fratello Luca all’uscita. Si abbracciarono forte e non si dissero nulla. Arrivarono a casa e lei era distesa. Ancora bella e con un lieve sorriso. Il colore della sua pelle ricordava il marmo illuminante del Canova ma i suoi tratti rappresentavano i segni di una separazione definitiva. Lei sarebbe scomparsa per sempre a soli ventinove anni. Quella notte Alberto, con una manata violenta buttò per terra il vaso trasparente dei pesci rossi. Si sbriciolò e i pesci saltellarono per alcuni secondi, poi rimasero per una settimana sul pavimento. Immobili e puzzolenti. Fu la domestica a buttarli via. Giunto nel parco si accorse di un piccolo Luna Park addormentato fra le mura del Castello Sforzesco e le fronde secche degli alberi. I banchi erano chiusi e nessuno si aggirava a quell’ora. Scoprì un banco con la scritta: ”Si vincono pesci rossi!”. Sorrise e si sedette su una panchina davanti a quella frase un po’ scolorita e leggermente storta. Si accese una sigaretta, rimase lì tutto il giorno.

Alberto conobbe sua moglie per un tappo di sughero sulla testa davanti a una fila di peluche. Conigli bianchi numerati. Semplici bersagli su un nastro in movimento.

 

 

Una vacanza in Grecia…

 

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Una vacanza in Grecia

 

Rachele uscì dalla saletta piena di sostanze chimiche. Barcollante si diresse verso suo figlio. Pronto e oramai esperto nella manovra, la prese per il braccio e l’accompagnò nella stanza delle poltrone verdi. Lei barcollò ma riuscì a stare in piedi. L’avambraccio del figlio diventò una ringhiera di legno stretta nella morsa delle sue dita. Dieci poltrone di similpelle disposte su due pareti. Cinque pazienti sulla parete di destra, cinque su quella di sinistra. L’uno di fronte all’altro. Quel verde lucido rifletteva schegge di luce negli occhi. Davano fastidio soltanto agli esterni e non ai pazienti. Questi ultimi appena seduti, chiudevano subito gli occhi. Rachele, invece, non li chiudeva. Aspettava silenziosa la sua giovanissima amica dopo il trattamento. Non si accontentava di salutarla con un sorriso. Voleva accoglierla a modo suo: voleva intrecciare, annodare e forse sciogliere quel groviglio di sguardi fra lei e la sua giovanissima conoscente. Nemmeno Penelope sarebbe riuscita a entrare fra loro due, in quella trama di vita, con le sue dita. Troppo intima e selettiva. Una donna vecchia e una ragazza. L’età in quella saletta conta, eccome se conta. Non è un pregiudizio, è un dato di fatto che muove troppe domande. Quella donna di ottant’anni non accettava di vedere quella giovanissima ragazza davanti a lei. Provava rabbia e si sentiva impotente e a tratti quasi in colpa davanti a quel seme appena interrato e subito costretto a germogliare dentro un foulard di Emilio Pucci intorno alla testa. Simona aveva diciott’anni. Quest’anno esame di maturità classica. Quest’anno vacanze premio in Grecia.

Simona arrivava dieci minuti dopo nella stanza delle poltrone verdi. Sempre accompagnata dalla sua amica Roberta. Si sedeva piano. Lentamente appoggiava la schiena poi la testa e subito rivolgeva un leggero sorriso verso Rachele. Non si parlavano, si guardavano con attenzione, con avidità. Il verde smeraldo degli occhi di Simona si mescolava con il marrone chiaro della vecchia. Nasceva così un colore nell’aria, nella stanza, che forse Masaccio avrebbe usato per la sua cappella Brancacci, per Adamo ed Eva, per i cacciati dal paradiso terrestre. Ecco i biglietti per la Grecia! – disse Roberta con il tono della voce troppo alto.

– Abbassa la voce…stordita! – rispose Simona.

– Ascolta bellina! Quest’anno ci andiamo sul serio…basta rimandare…e poi ce lo meritiamo!

– Tu, ma io…troppe assenze…

– Ma smettila!

– Corri troppo…però mi piacerebbe – disse Simona facendo un sorriso alla sua amica e rammendando un altro sguardo con Rachele.

– Da sole…s’intende…

– Certo! Tu Circe e io Calipso!

– Io…ho una casa a Tinos…se volete… – intervenne Rachele.

– Grazie Rachele! – rispose Simona.

In quella stanza dalle poltrone verdi le parole o pesano come barili pieni di sabbia o viaggiano come particelle alla velocità della luce quando c’è la voglia di comunicare. Rachele non perse l’occasione per offrire la sua casa a quelle due maturande.

E’ mattina, Rachele e suo figlio sono già nella stanza dalle poltrone verdi di similpelle. Rachele aspetta Simona. Rachele ha finito il ciclo, ma ritorna lì tutte le mattine. E’ ostinata. E’ testarda! E’ lì lo stesso! Rachele vuole vederla a tutti i costi. Rachele vuole darle le chiavi. Si siede e chiede a suo figlio le chiavi della casa al mare. Suo figlio lascia la stanza delle poltrone verdi e va nel corridoio a leggersi il giornale. Rachele stringe quel mazzo. Separa le chiavi e le guarda: cancello, portone, cantina, serra, fienile, voliera. Le lima nell’attesa di vedere Simona e non vuole sapere niente di lei…

 

Di che vive una famiglia di oggi?

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Chicken & Chicken

 Arianna aveva sette anni e tutti i sabati aspettava suo padre davanti al portone di casa. Era alta un metro e pesava ventisei chili. L’azzurro dei suoi occhi era potente quando ti guardava. Quasi imbarazzante per la sua forza e bellezza. Se non ci fosse stato il setto nasale a fare da argine e gli zigomi alti, quell’azzurro sarebbe straripato sui tratti del suo piccolo volto come un fiume in piena. I suoi sguardi, senza dire una parola, spesso sbriciolavano gli argini rassicuranti e consolatori degli adulti intorno a lei. Arianna era stata bocciata in prima elementare. Un anno in silenzio. Muta. Aveva deciso di non parlare più con gli adulti. Poi dette un’altra possibilità a quel mondo e piano piano cominciò a leggere e a scrivere. Arianna era una bambina che amava vivere, giocare e nascondersi nel silenzio. Il resto, per lei, sebbene non ne fosse pienamente consapevole, era soltanto regole, sintassi, accenti, frasi convenzionali da rispettare. Le piaceva osservare le facce degli adulti durante il suo mutismo. Proposte, suppliche, sorrisi forzati, imbarazzi, gesti nervosi. Fondamentalmente detestava usare le parole, i suoni, le punteggiature, gli accenti. In fondo aveva ragione: le regole grammaticali e quelle convenzionali non possiedono un contenuto affettivo. Sono regole e basta! Regole da rispettare! Necessarie, senza dubbio, ma non sono tutto. Comunque la bambina, fondamentalmente, non amava vivere nel mondo degli adulti.

Suo padre parcheggiava la Bmw X 5 alle ore 13.30 nel parcheggio di via Olona. Alle 13.45 Arianna era già fra le sue braccia in Via San Vittore. Quella bambina, con dietro quel portone gigantesco, ricordava Alice nel paese delle meraviglie in una delle sue trasformazioni. Piccola, silenziosa, rimaneva immobile e tranquilla. Sapeva che sarebbe arrivato suo padre. Sapeva che avrebbero pranzato da Chicken & Chicken. Amava alla follia le alette fritte di pollo. Sua madre detestava e disapprovava il fritto, ma accontentava sua figlia. In fondo lo avrebbe mangiato soltanto una volta alla settimana con suo padre. E quelle alette fritte l’avrebbero resa felice.

Elisa, una mattina, dopo due anni dalla nascita di Arianna, senza tanti giri di parole annunciò al marito: ”E’ finita! Non sono più innamorata di te! E ho  voglia di vivere con mia figlia!”. Non disse altro. Chiuse la porta e uscì di casa con in braccio la figlia. Da quella mattina, erano  già trascorsi cinque anni. Lui si buttò nel lavoro e negli aperitivi milanesi per un anno intero. Tutte le sere a mangiare riso freddo e olive ascolane. E qualche rapporto occasionale  con un’altra divorziata, magari leggermente depressa, che non faceva altro che parlare prima di lavoro, poi al terzo bicchiere di vino si metteva  a piangere raccontando del suo ex e concludendo in macchina con un rapporto sessuale frettoloso. Lei ebbe una storiella con un collega sposato. Ma il ruolo di amante la stufò ben presto e si dedicò totalmente alla crescita della figlia. Entrambi rimasero su quel tram e continuarono a vivere su quei binari, ma questa volta da soli e non in coppia. Nessuno dei due cercò da quel deragliamento di cogliere un tratto inaspettato e nuovo nei loro caratteri. Si adattarono alla separazione come a una delle tante fermate che si incontrano lungo la linea.

Facevano il tratto di strada in silenzio, mano nella mano. La mano della bambina cominciava a sudare e si trasformava in una grondaia rotta. Era sempre così. Il padre stringeva con delicatezza la mano di sua figlia per trattenere meglio quel flusso d’acqua fino all’entrata del Fast Food.

 

Arianna ordinava sempre Family Meal. Una porzione troppo abbondante, ma c’era un patto fra loro due, che sarebbe durato una settimana: la bambina avrebbe mangiato una sola aletta di pollo fritto e un po’ di patatine e il resto del piatto lo avrebbe finito a casa suo padre nei giorni successivi.

La televisione accesa con il volume alto, cartoni animati, tavoli arancioni, pareti rosse, plastiche colorate, personale in rosso, odore di fritto, clientela che mangiava e parlava con la bocca piena.

E luci sparate sulla testa come in un vero allevamento di polli. Un allevamento di polli che ritrovi identico a Milano, a New York, a Berlino, a Tokio, a Dallas.

Arianna mangiava la sua aletta di pollo fritto e non staccava gli occhi dai Simpson. Suo padre la guardava, mangiando qualche patatina. Il piatto doveva rimanere quasi intero: sei pezzetti di pollo fritto rispetto ai sette, qualche patatina in meno, una salsa e mezzo rispetto alle due, una bibita che lui avrebbe bevuto sul lavoro. Quando finiva l’aletta di pollo fritto, Arianna rimaneva un’oretta a guardare il cartone animato e riprendeva la mano del  padre. Il piano rosso del  tavolo dove loro erano seduti diventava un lago artificiale, un lago di ceralacca.

Uscirono, sempre mano nella mano, e si salutarono davanti al portone di casa. Lui la sollevò e lei suonò il campanello numero cinque. Poi lei ritornò sulla terra e aiutata da suo padre aprì il portone. Scomparve e lui voltò le spalle. Aveva con sé, nella mano sinistra, il sacchetto con il piatto Family Meal. Prima di entrare nel parcheggio buttò quella porzione di alette di pollo fritte nel solito cestino della spazzatura davanti al Pam e si accese una sigaretta.

 

 Questo racconto è pubblicato su “Il Corriere della Sera”, il primo di una serie che il giornale si propone di pubblicare durante l’estate. Lo propongo per chi non l’avesse letto curiosa di sapere quali emozioni susciti in chi lo legge. Da parte mia ho provato una tristezza infinita, uno scoramento nel constatare come si sia ridotta oggi  la vita famigliare. La cosa che più mi rattrista è che tutto questo avviene in nome del diritto alla felicità, che è sacrosanto per ogni persona,  in nome dell’amore che non è eterno ed ognuno può permettersi di rinnovarlo,  e infine per favorire una crescita felice, equilibrata dei figli, che hanno il bisogno e  il diritto di crescere in ambiente sereno. In questo quadretto famigliare io non vedo tanta felicità .Rimarchevole il finale!!

Titanic, corsa contro il tempo per trovare il sommergibile disperso. Chi sono i passeggeri a bordo: il miliardario, il Ceo e l’esploratore

Titanic, corsa contro il tempo per trovare il sommergibile disperso. Chi sono i passeggeri a bordo: il miliardario, il Ceo e l’esploratore
Hanno quattro giorni di autonomia. I biglietti per un viaggio di otto giorni che includono immersioni al relitto a una profondità di 3.800 metri costano 250.000 dollari. Il mondo è davvero strano. Ci sono persone , che muoiono a migliaia, annegati , sepolti nel mare che li inghiotte, durante uno di quei viaggi chiamati della speranza, che dovrebbero traghettare questi emigranti verso un mondo che permetta loro di vivere dignitosamente  la vita. Fuggono dai loro paesi , con viaggi estenuanti, da  miserie  di ogni genere,e poi ce ne sono altre, che , per noia, per non saper più che fare coi soldi a vagonate in loro possesso, la morte in mare se la vanno a cercare. Con questo auguro  loro  che vengano ritrovati, in ottima saluta, e che  questa spaventosa esperienza li faccia pensare e ragionare su come spendere meglio i loro soldi. Dovrebbero avere quattro giorni di autonomia, sono vicini alla nave di appoggio, che li ha condotti fin lì, e, se non comunicano, sicuramente qualcosa di grave è successo.
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Le guardie costiere statunitensi e canadesi continuano le ricerche del piccolo sottomarino da turismo scomparso con cinque persone a bordo (tre turisti, il pilota e un assistente), dopo aver visitato il relitto del Titanic in una zona remota dell’Oceano Atlantico al largo delle coste del Nord America. Le autorità sono state informate domenica pomeriggio dall’operatore dell’imbarcazione, Ocean Gate Expeditions, della sua scomparsa, ha dichiarato il contrammiraglio John Mauger, della Guardia Costiera statunitense.

Le ricerche
I contatti con il Titan si sono persi dopo un’ora e 45 dalla sua immersione. «Stiamo lavorando molto, molto duramente per trovarlo. Le ricerche, sia in superficie che sott’acqua, riguardano un’area a circa 1.450 chilometri a est di Cape Cod, a una profondità di circa 4.000 metri» ha spiegato John Mauger, stimando che il sommergibile abbia ancora riserve di ossigeno fra le 70 e le 96 ore.

Chi sono i passeggeri a bordo
I primi nomi dei possibili passeggeri del Titan, il sottomarino da cinque posti della Ocean Gate Expediction scomparso mentre si sta avvicinando al relitto del Titanic, situato a 3.800 metri di profondità, sono: il miliardario appassionato di imprese impossibili, il pilota di sommergibili chiamato “Mr Titanic”, il ceo e fondatore della Ocean Gate, la società che alla cifra di 250mila dollari offriva «una occasione per uscire dalla vita di tutti i giorni e scoprire qualcosa di veramente straordinario».

Il primo nome, confermato dai parenti, è quello del miliardario britannico di 58 anni Hamish Harding a capo della Action Aviation, società legata all’aviazione con sede negli Emirati Arabi. Lo stesso Harding, appassionato di spazio e avventure, aveva condiviso poco prima sui social tutta la sua gioia per prendere parte all’esplorazione dell’antico relitto. L’avventuriero miliardario detiene tre Guinness World Record, tra cui quello della più lunga permanenza alla massima profondità dell’oceano da parte di una nave con equipaggio. A marzo del 2021, insieme all’esploratore oceanico Victor Vescovo, si è immerso nella profondità più bassa della Fossa delle Marianne. A giugno 2022, inoltre, si era recato nello Spazio con il razzo New Shepard di Blue Origin. Con lui anche Paul-Henri Nargeolet, 76 anni, forse uno dei maggiori esperti al mondo di Titanic. Ex membro della marina francese per 25 anni, Nargeolet era colui che guidò il Nautilus, piccolo sottomarino che nel 1987 dopo le prime scoperte confermò la presenza della nave e permise dopo 34 diverse immersioni di recuperare oltre 1800 oggetti del Titanic. In attesa di conferme sulla sua reale presenza sul mezzo, alcuni parenti hanno confidato che prima di partire «non si fidava di questo nuovo sottomarino in materiale composito e con oblò da 60 centimetri, ma ci sarebbe andato lo stesso per la bellezza della spedizione».

L’altro passeggero sembrerebbe essere il ceo della Ocean Gate Expedition, l’ingegnere aerospaziale Stockton Rush. Dal 2010 l’inizio del suo sogno: lui che voleva andare nello spazio ma non poteva per problemi alla vista, scelse di aprire le porte del turismo di profondità per permettere a persone facoltose di essere «uno dei pochi a vedere con i tuoi occhi il Titanic».

Secondo un comunicato diffuso dalla famiglia, riferito da Sky News, ci sono anche un uomo d’affari pachistano Shahzada Dawood e suo figlio SulemanShahzada fa anche parte del consiglio di amministrazione dell’Istituto SETI, con sede in California, che si occupa di ricerca di intelligenza extraterrestre.

I primi dettagli sull’incidente
Il mini-sottomarino Titan della compagnia turistica OceanGate pesa 10.432 chili, misura 6,7 metri di lunghezza e può contenere cinque persone per 96 ore. Il batiscafo avrebbe perso i contatti con l’equipaggio di Polar Prince, la nave usata per il trasporto all’area del relitto del Titanic, dopo un’ora e 45 minuti dall’avvio della discesa del batiscafo. Da allora è scattata l’emergenza.

La Ocean Gate offre un pacchetto di «otto giorni sette notti»
Gli unici mezzi commerciali in grado di arrivare a poca distanza dallo storico scafo sono quelli della Ocean Gate. Cosa offrono? Un pacchetto di «otto giorni sette notti» sul sottomarino per cinque persone, compreso di wi-fi e bagno disponibili. Un’esperienza che non è per tutti, visti i costi: ogni passeggero deve sborsare quasi 250mila dollari, oltre un milione, per ogni discesa negli abissi. Rush e i suoi avevano già fatto più spedizioni, finora operate con successo, raccogliendo anche materiali video utili per la ricerca scientifica. Sul sito della società si legge che la missione in corso era prevista dal 12 al 20 giugno: solitamente, prima di ogni immersione, ai turisti veniva fatto un briefing e un corso di sicurezza per poi immergersi per qualche ora, anche dieci talvolta.

Terza spedizione annuale della di OceanGate
Questa spedizione è il terzo viaggio annuale di OceanGate per raccontare il deterioramento del relitto del Titanic. Da quando è stato scoperto nel 1985, il relitto sta lentamente soccombendo ai batteri che mangiano il metallo. Alcuni hanno previsto che la nave potrebbe scomparire nel giro di qualche decennio, a causa dei buchi nello scafo e della disintegrazione delle sezioni. Nel 2021 il primo gruppo di turisti pagò da 100mila a 150mila dollari a testa per partecipare al viaggio. Per la spedizione del 2023 il sito web di OceanGate aveva scritto che quella che viene definita la «tassa di supporto alla missione» era di 250mila dollari a persona. A differenza dei sottomarini, che partono e tornano in porto con le proprie forze, i sommergibili richiedono una nave per essere lanciati e recuperati. OceanGate ha noleggiato la Polar Prince per traghettare decine di persone e il sommergibile fino al sito del relitto nell’Atlantico settentrionale. Il sommergibile avrebbe dovuto effettuare più immersioni in un’unica spedizione.

La maledizione del Titanic
L’idea di raggiungere i 3800 metri di profondità per ammirare ciò che resta del relitto della nave naufragata nel 1912, è dell’ingegnere aerospaziale Stockton Rush. Con la sua società Ocean Gate Expeditions, offre la possibilità di vivere un’esperienza unica, a contatto con l’oscurità delle fosse oceaniche, ma, soprattutto, con gli spettri del passato legati al transatlantico maledetto.

Progettato nel 1908, varato nel 1911 dai cantieri di Belfast per conto della White Star Line al costo complessivo di 1,5 milioni di sterline dell’epoca (circa 200 milioni di oggi) e registrato nel porto di Liverpool, il Titanic colò a picco con oltre 1.500 dei suoi 2.200 passeggeri circa – a dispetto della nomea pubblicitaria di nave «inaffondabile» – la notte del 15 aprile 1912, dopo aver urtato un iceberg alla prima traversata fra Southampton, in Inghilterra, e l’America. Scomparendo tra i flutti dell’oceano, a 370 miglia marine (600 chilometri) dalle coste canadesi di Terranova, senza mai riuscire ad approdare nel porto d’arrivo di New York.

Daniela Lanni, La STAMPA

Oggi 20 maggio è la giornata delle Api. Ricordiamole con affetto e gratitudine-

 

“Ode all’ape”
Moltitudine di api!
Entra ed esce
dal carminio, dall’azzurro,
dal giallo,
dalla più tenera
morbidezza del mondo:

entra in
una corolla
precipitosamente,
per affari,
esce
con un vestito d’oro
e gli stivali
gialli.

Perfetta
dalla cintura,
con l’addome rigato
da sbarre scure,
la testolina
sempre
pensierosa
e le
ali
bagnate:

entra
in tutte le finestre odorose,
apre
le porte della seta,
penetra nei talami
dell’amore più fragrante,

inciampa
in
una
goccia
di rugiada
come in un diamante

e da tutte le case
che visita
estrae
il miele
misterioso,
ricco e pesante
miele, spesso aroma,
liquida luce che cade a goccioloni,
finché al suo
palazzo
collettivo
ritorna
e nelle gotiche merlature
deposita
il prodotto
del fiore e del volo,
il sole nuziale serafico e segreto!

Moltitudine d’api!
Elevazione sacra
dell’unità,
collegio
palpitante!

Ronzano
sonori
numeri
che lavorano
il nettare,
passano
veloci
gocce
d’ambrosia:

è la siesta
dell’estate nelle verdi
solitudini
di Osorno. Sopra
il sole inchioda le sue lance
nella neve,
risplendono i vulcani,

ampia
come
i mari
è la terra,
azzurro è lo spazio,
ma
c’è qualcosa
che rema, è
il bruciante
cuore dell’estate,

il cuore di miele
moltiplicato,
la rumorosa
ape,
il crepitante
favo
di volo e oro!

Api,
lavoratrici pure,
ogivali
operaie,
fine, scintillanti
proletarie,
perfette,
temerarie milizie
che nel combattimento attaccano
con pungiglione suicida,

ronzate,
ronzate sopra
i doni della terra,
famiglia d’oro,
moltitudine del vento,
scuotete l’incendio
dei fiori,
la sete degli stami,
l’acuto
filo
di odore
che raccoglie i giorni,

e propagate
il miele
oltrepassando
i continenti umidi, le isole
più remote del cielo
dell’ovest.

Sì:
la cera innalzi
statue verdi,
il miele
sparga
lingue
infinite,
e l’oceano sia
un alveare,
la terra
torre e tunica
di fiori,

e il mondo
una cascata,
chioma,
crescita
inesauribile
di favi!

 Pablo Neruda

ape su fiori di lavanda

Come un lupo nella steppa…ai giorni nostri

 

Oh, è difficile trovare la traccia divina in mezzo alla vita che facciamo, in questo tempo così soddisfatto, così borghese, così privo di spirito, alla vista di queste architetture, di questi negozi, di questa politica, di questi uomini! Come potrei non essere un lupo della steppa, un sordido anacoreta in un mondo del quale non condivido alcuna mèta, delle cui gioie non vi è alcuna che mi arrida? Non resisto a lungo né in un teatro né in un cinema, non riesco quasi a leggere il giornale, leggo raramente un libro moderno, non capisco quale piacere vadano a cercare gli uomini nelle ferrovie affollate e negli alberghi, nei caffè zeppi dove si suonano musiche asfissianti e invadenti, nei bar e nei teatri di varietà delle eleganti città di lusso, nelle esposizioni mondiali, alle conferenze pei desiderosi di cultura, nei grandi campi sportivi: non posso condividere, non posso comprendere queste gioie che potrei avere a portata di mano e che mille altri si sforzano di raggiungere. Ciò che invece mi accade nelle rare ore di gioia, ciò che per me è delizia, estasi ed elevazione, il mondo lo conosce e cerca e ama tutt’al più nella poesia: nella vita gli sembrano pazzie. Infatti se il mondo ha ragione, se hanno ragione le musiche nei caffè, i divertimenti in massa, la gente americana che si contenta di così poco, vuol dire che ho torto io, che sono io il pazzo, il vero lupo della steppa, come mi chiamai più volte, l’animale sperduto in un mondo a lui estraneo e incomprensibile, che non trova più la patria, l’aria, il nutrimento.

Hermann Hesse, “Il lupo della steppa”, 1946.

 

solitudo