Il piacere…

 

Tutto il mistero del piacere nel corpo di una donna sta nell’intensità della pulsazione che precede l’orgasmo. A volte è lenta, uno due, tre palpiti che poi lasciano attraverso il corpo un liquore di fuoco e ghiaccio. Se il palpito è debole, in sordina, il piacere è come un’onda più gentile. Il seme dell’estasi esplode con maggiore o minore energia, quando è più ricco tocca ogni porzione del corpo, vibrando attraverso ogni nervo, ogni cellula. Se il palpito è intenso, il suo ritmo e il battito sono più lenti, e il piacere più durevole. Frecce di carne cariche di elettricità, una seconda onda di piacere cade sulla prima, e poi sulla terza, che tocca ogni terminazione nervosa, attraversa il corpo come una corrente elettrica.  Un arcobaleno di colori sferza le palpebre. Una schiuma di musica cola dalle orecchie. E’ il gong dell’orgasmo. A volte una donna sente il proprio come uno strumento appena sfiorato, altre volte raggiunge un acme tale che pare sia impossibile andare oltre. Tanti orgasmi. Alcuni provocati dalla tenerezza, alcuni dal desiderio, alcuni da una parola o da un’immagine vista durante il giorno. A volte il giorno stesso chiede un orgasmo, giorni di sensazioni accumulate e di sentimenti inesplosi. Ci sono giorni che non si concludono con un orgasmo, quando il corpo è addormentato o sogna altri sogni. Ci sono giorni in cui l’orgasmo non è piacere ma dolore, gelosia, terrore, angoscia. E ci sono giorni in cui l’orgasmo si verifica nella creazione, un orgasmo bianco.

Anais  Nim

 

Il piacere

Dedicato a tutti quelli che non riescono a vedere il proprio valore.

 

Carolina parla poco e cammina senza far rumore, si nasconde dalla vita perché non è come vorrebbe, perché non riesce a smettere di sentirsi in difetto. Non riesce a sentirsi mai “abbastanza”. E nessuno sa perchè, ma lei sussurra una canzone. Lei cammina e va lontano, ma mai abbastanza, lei lavora e sputa l’anima a lavare i pavimenti, a lustrare le maniglie di portoni, che custodiscono famiglie in doppiopetto, che salgono le scale e la salutano come quando accarezzi la testa di un cane, come quando sorridi come a dire “ti guardo per sentirmi migliore, ti guardo ancora per convicermi  di nuovo”. Lei china sulla scale sputa l’anima e i sospiri d’ammoniaca e se lo chiede e sottovoce si risponde “mai abbastanza”.

Carolina occhi scuri come il fondo della notte, si ferma un attimo e ti guarda come a dire “non azzardarti far domande, non devi accorgerti di me, è inutile che insisti, non ti lascerò entrare”. Ti sorride come a dire “adesso lasciami passare, come i viaggiatori alle stazioni, che appena son passati non ricordi neanche il viso, neanche il suono della voce, neanche se siano mai esistiti veramente”. E si guarda Carolina, nello specchio dell’ingresso e vede zigomi sabbiosi come le dune che scalava a dieci anni, vede guance screpolate, come gli affreschi nelle chiese sconsacrate, che ti senti a disagio solo a vederle a lontano. Dovrebbero esserci anche gli occhi, forse nascosti chissà dove, ma tira a indovinare, meglio non rischiare di incrociarli in quello specchio, che lei lo sa che fanno male, ti si piantano addosso, ti tormentano, ti ricordano che respiri ancora. Decisamente è meglio non rischiare. Carolina che tiene un diploma e trenta grammi di speranze in un cassetto, che se lo apre sente l’odore di quei giorni di risate, di pasticcini e luci al neon e tutti a dire “adesso sì che sei speciale, adesso esci e fatti valere e trova un uomo e metti su famiglia, che è così che si deve fare”.

mai-abbastanza1

Ma lei già lo sapeva di non esserne capace, di non sapere come fare, di non essere mai abbastanza. Lei ha un figlio che ha vent’anni, vive a Londra per amore e un marito di quaranta fuggito chissà dove e non è vero che il tempo cura le ferite, per lei ogni giorno che finisce non fa altro che aumentare il sale sulla pelle, i pensieri fanno male e si piazzano di taglio sul respiro, come i gradini che torturano le ginocchia. Che a pensarci la sua storia è un po’ così, un dolore lieve e costante, che ti logora e ti scava, implacabile, incessante. Carolina che si sdraia sulla sera, come fanno le tovaglie sopra i tavoli, quelle che sono un po’ fuori misura e lasciano uno spigolo scoperto alle intemperie. Si sdraia per abitudine, in un silenzio devastante, in una solitudine che disturba. Tiene una foto sotto al cuscino, c’è un bambino che sorride, ha i suoi, occhi neri come il fondo della notte, lei si raggomitola i pensieri e si addormenta sussurrando una canzone. Il mondo fuori è soddisfatto. Carolina mai abbastanza  . La canzone che sussurra l’ha sentita un giorno, chissà dove e fa così: Da adesso in poi.

“Come le lampade hanno bisogno di petrolio, così gli uomini hanno bisogno di essere nutriti di una certa quantità di ammirazione. Quando non sono abbastanza ammirati, muoiono”, (Henry de Montherlant – Pietà per le donne).

Pinocchio non c’è più__blog

Addio al doppiaggio ?

 

Drive-Away Dolls di Ethan Coen, in sala dal 7 marzo, verrà distribuito solo in lingua originale coi sottotitoli. Ecco perché potrebbe essere l’inizio di un cambiamento.

 CLICCA L’IMMAGINE PER IL TREILER
https://www.esquire.com/it/cultura/film/a46682921/doppiaggio-lingua-originale-drive-away-dolls/?utm_source=pocket-newtab-
preview for Drive-Away Dolls - Official Trailer (Universal Pictures UK)
Nel 2024 probabilmente non ha più senso parlare di una guerra – o almeno,
di uno scontro – tra doppiaggio e lingua originale. Nel corso del tempo, le due cose sono andate di pari passo, hanno imparato a convivere e a sostenersi a vicenda (ora l’ho visto in italiano, prossimamente lo recupererò in originale) e grazie alla possibilità che tutte le piattaforme danno di scegliere la lingua della serie o del film che si vuole vedere le differenze sono state pressoché appianate. Non al cinema, però, dove la tradizione – perché è una tradizione, con una sua scuola, le sue famiglie, i suoi grandi protagonisti – del doppiaggio continua a essere più diffusa e incisiva. Il perché è abbastanza ovvio: doppiare un film in italiano permette di raggiungere un pubblico potenzialmente più vasto. Come ha sottolineato Alessandro Rossi, storica voce italiana e direttore del doppiaggio de Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki, il doppiaggio è “un’esigenza commerciale, non un’esigenza artistica”. E questa esigenza commerciale deve rispondere a un’operazione culturale: “Se noi dissociamo l’esigenza culturale dall’operazione culturale, si creano dei mostri”.
ragazzo airone ultimo film miyazakicourtesy of Lucky Red

Insomma, è importante avere bene in mente quelli che sono gli obiettivi del doppiaggio. E tenere in considerazione anche la quantità di titoli che in questi ultimi anni hanno invaso, rischiando talvolta di sommergerlo, il nostro mercato. I doppiatori, gli adattatori e i direttori del doppiaggio sono un numero limitato, più o meno stabile. La stessa cosa non si può dire delle serie e dei film che, ogni mese, arrivano in Italia: continuano a crescere, non diminuiscono, e se da una parte questo assicura alla categoria che lavora nell’industria del doppiaggio un’occupazione praticamente costante dall’altra mette a dura prova la qualità delle singole interpretazioni, delle traduzioni e delle sessioni di registrazione. Ciò che inevitabilmente diminuisce è il tempo. E le distribuzioni che sono pronte ad aspettare, a posticipare l’uscita a un’altra finestra, sono veramente poche. Così come sono veramente pochi quei professionisti che, pur di mantenere un certo standard, sono disposti a rifiutare un’offerta (attenzione: non è una cosa né scontata né tantomeno dovuta; è chiaro che si parla di lavoro e, quindi, di rispondere a necessità quotidiane). Non è un caso se ultimamente, sulle piattaforme streaming, alcuni titoli sono stati pubblicati prima in lingua originale e solo in un secondo momento hanno ricevuto un doppiaggio italiano. È indubbio che questa è la direzione verso cui si sta muovendo il mondo intero. Anni fa, durante la cerimonia degli Oscar, lo disse anche il regista Bong Joon-ho: una volta superato l’ostacolo dei sottotitoli, avrete accesso ad altri mondi e ad altre storie.

hollywood, california july 22 margaret qualley attends sony pictures once upon a time in hollywood los angeles premiere on july 22, 2019 in hollywood, california photo by axellebauer griffinfilmmagic
Axelle/Bauer-Griffin//Getty Images

La decisione di Universal Pictures di distribuire Drive-Away Dolls, il nuovo film di Ethan Coen con Margaret Qualley e Geraldine Viswanathan, esclusivamente in lingua originale si inserisce nel solco di questi eventi. Dall’inizio dell’anno, al cinema sono arrivati diversi titoli in – diciamo così – doppia versione, e molte delle proiezioni originali sono sempre andate esaurite. Quindi una base numerica da cui partire, benché minima e ridotta all’eccezionalità di una distribuzione più centellinata, c’è. C’è, poi, la voglia di sperimentare, di provare a distribuire titoli come questo, firmati da un grande autore e con una loro specificità, in un certo modo. Ovviamente, così facendo, si riducono i costi: non ci sarà più un cast di doppiatori da dover pagare. E allo stesso modo sarà più facile – ma non per forza immediato – distribuire un film in contemporanea con gli Stati Uniti (che viste le differenze di comunicazione e di marketing può essere decisamente utile per non dover organizzare un’altra campagna pre-release). Le controindicazioni di un’operazione del genere sono abbastanza palesi: il pubblico a cui poter puntare sarà chiaramente di meno. Drive-Away Dolls arriverà in sala il 7 marzo. E sarà sicuramente interessante vedere come risponderà il pubblico e soprattutto come si piazzerà al botteghino, se riuscirà o meno a competere con gli altri titoli, molti dei quali doppiati o girati direttamente in italiano, programmati nei cinema.

Gianmaria Tammaro

Il bambino sull’albero di Natale presso Gesù, di F.Dostoevskij.

 

Il bambino sull’albero di Natale presso Gesù

Ma io sono un romanziere e mi immagino sempre che tutto sia avvenuto in un certo luogo in un certo momento, e che sia accaduto proprio alla vigilia di Natale, in qualche enorme città, con un gelo terribile.
Mi sembra di rivedere in una cantina un bimbo, ancora piccino, di forse sei anni e anche meno. Il bimbo si è svegliato un mattino nella cantina umida e fredda. Ha addosso una specie di camicina e trema. Il suo fato si trasforma in bianco vapore e lui, seduto sul baule, in un angolo, per la noia, fa fluire questo vapore dalle labbra  si diverte a guardare come vola via.
Tuttavia ha una gran voglia di mangiare. Fin dal mattino, si è avvicinato più volte al tavolaccio dove, su un pagliericcio sottile sottile, con il capo appoggiato ad una sorta di fagotto che le fa da guanciale, giace la madre malata. Come sarà  finita lì?
Probabilmente era giunta da un’altra città con il suo bambino e si era
improvvisamente ammalata. La padrona di quegli “angolini” era stata arrestata dalla polizia due giorni prima; gli inquilini si erano dispersi chissà dove per le feste  ed era rimasto solo un perdigiorno che non aveva atteso le feste per bere, e ormai da ventiquattro ore giaceva ubriaco, come morto. In un altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchietta ottantenne che un tempo era stata bambinaia e che ora moriva in solitudine, sospirando, lamentandosi e brontolando contro il bimbo, tanto che lui temeva di avvicinarsi troppo al suo angolo. Da qualche parte nell’andito era riuscito a trovare qualcosa da bere, ma di croste di pane non ne aveva scovate e almeno una decina di volte si era accostato alla madre
per svegliarla. Infine gli era venuto il terrore del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma i lumi erano ancora spenti. Tastando il viso della mamma si stupì che lei non facesse il minimo movimento e che fosse diventata fredda come il muro. «F proprio freddo qui» pensò il bimbo, e restò per un po’ immobile, dimenticando senza volerlo la mano sulla spalla della defunta, poi soffiò sui suoi ditini pe riscaldarli, si mise a frugare sul tavolaccio alla ricerca del suo berrettino e si avviò a tentoni verso l’uscita della cantina. Si sarebbe allontanato anche prima, ma aveva sempre temuto il grosso cane che stava tutto il giorno di sopra, sulla scala, davanti
alla porta dei vicini. Però il cane non c’era e lui si ritrovò di colpo in strada.
Dio, che città! Non aveva mai veduto nulla di simile. Da laggiù, da dove veniva, il buio era così fitto e un solo fanale illuminava tutta la via. Le casupole di legno avevano le imposte chiuse; non appena imbruniva la via diventava deserta e tutti si rinchiudevano in casa, e solo branchi di cani abbaiavano ed ululavano per tutta la notte. Ma almeno lì stava al caldo e veniva nutrito, mentre qui, mio Dio, magari avesse trovato qualcosa da mangiare! E lo strepito, il fracasso, la gente, le luci, e tutti quei cavalli e quelle carrozze, e che gelo, che gelo! Un vapore gelido fluiva dai
cavalli stremati, dal respiro rovente dei loro musi; nella neve soffice i loro ferri tintinnavano contro i sassi, e tutti si spintonavano, e, Signore, sarebbe stato così bello poter mangiare, e i ditini ad un tratto sembravano fare tanto male. Una guardia passò davanti al bimbo, ma voltò il capo dall’altra parte per non vederlo. Ma ecco un’altra via: com’era ampia! Lì l’avrebbero di certo schiacciato. E come vociavano tutti, come si affrettavano, come correvano sulle loro carrozze, e quante luci, quante luci! Ma questa che cos’è? Oh, che vetro grande, e dietro il vetro una stanza dove la legna arriva fino al soffitto; c’è un abete, e quante luci sull’abete, e stelle e decorazioni d’oro, e quante file di pupazzetti e di cavallini lo avvolgono tutt’intorno; nella stanza si rincorrono dei bimbi lindi e vestiti a festa, e ridono, giocano, mangiano, bevono. Ed ecco, una bambina si è messa a danzare con un bimbo, com’è carina! E ora si può sentire anche della musica attraverso il vetro. Il bimbo guarda pieno di meraviglia e già ride, ma ormai anche i ditini dei piedi gli dolgono, e quelli delle mani, sono tutti arrossati, non si piegano e muoverli fa tanto male. E tutt’ad un tratto, resosi conto del dolore, scoppia in lacrime e fugge via, ma poi scorge di nuovo attraverso un altro vetro un’altra stanza, con gli stessi alberi e una tavola con torte rosse e gialle e di mandorla, e vi siedono quattro ricche signore che te ne danno un po’ non appena ci si avvicina, ogni istante si spalanca la porta e
fumane di signori entrano e si dirigono verso di loro. Il bimbo si intrufola e di colpo la porta si è aperta e lui è entrato. Oh, come lo sgridano, come agitano le braccia! Una signora lo raggiunge in gran fretta e gli ficca in mano una copeca, poi gli apre lei stessa la porta e lo sospinge fuori. Come è spaventato il piccino! La copechina gli è subito scivolata di mano tintinnando sugli scalini: non è riuscito a piegare le sue dita arrossate per ottenerla.  (continua)

dal Diario di uno scrittore, gennaio 1876   

feste natalizie

Mi piace troppo…

 

Mi sono imbattuta in questo video stupendo. Adoro la tigre siberiana in particolar modo,di certo il mio animale preferito dopo il cane, compagno di vita, non potendo scegliere ovviamente questo stupendo esemplare di essere vivente ,al quale la natura ha dato tutto il meglio, bellezza, eleganza, austerità, forza e resistenza.
La Panthera tigris altaica è più conosciuta come tigre siberiana o tigre dell’Amur, due nomi che derivano proprio dal territorio abitato da questo grande felino, ovvero la Siberia orientale, dove nasce il fiume Amur, che è lungo quasi 3mila chilometri ed attraversa Russia e Cina.

La regione russa che fa da habitat a questo mammifero è molto particolare, dato che è praticamente divisa in 2 fasce climatiche: se il nord è caratterizzato da un clima continentale, con inverni lunghi e molto freddi, la parte sud vanta infatti la presenza dei monsoni. È in questa zona che si trovano gli habitat principali della tigre siberiana, ovvero la foresta boreale, detta anche taiga, e la foresta temperata, nelle quali da abile predatore quale è va a caccia di cinghiali, cervi nobili, ma anche caprioli, sika (o cervi del Giappone) e goral, oltre ad animali di taglia più piccola come lepri o salmoni.
Tra i suoi tratti fisici degni di nota, poi, ci sono le zampe enormi che consentono però all’animale di camminare senza sprofondare sulla neve. Per quanto riguarda il carattere la tigre siberiana è piuttosto solitaria, ad eccezione dei momenti in cui avviene la riproduzione, in seguito alla quale nascono i cuccioli, di solito dopo una gestazione di circa 100 giorni.Naturalmente, l’uomo è tra i principali responsabili del calo di popolazione della tigre dell’Amur, di cui si contano ormai poche centinaia di esemplari, circa 500. Prima veniva cacciata per la sua pelliccia, unica nel suo genere, ora che la caccia è vietata la causa della sua scomparsa è il taglio massiccio delle foreste, che costituiscono proprio il suo habitat, restringendo sempre più il territorio utile alla sua sopravvivenza. Spero che ci possa essere ancora tanta vita per questo felino, le cui caratteristiche non si trovano in altre specie. Osservarlo potrebbe essere una gioia grande per molti, come lo è per me, che mi sono innamorata di questo video, tanto da volerlo qui su questo mio blog.

tigre

 

Le ragazze dell’Iliade, quelle che combattono con le parole…

Le ragazze dell’Iliade

L’Iliade è il poema della forza, scriveva Simone Weil. Un’opera che canta la bellezza della guerra, ma anche la sottomissione alla sua necessità, all’inevitabile destino di uccidere e di essere uccisi, di finire vincitori o vinti. Del resto la Grecia di Omero, come sarà la Grecia di Pericle prima e di Alessandro Magno poi, è una società fondata sulla guerra, composta da un’umanità combattente che non teme di spiegare le vele e di sguainare la spada di fronte all’altro, al nemico, contrapposizione identitaria che garantisce la sua stessa esistenza.

Se da quasi tremila anni l’Iliade non è la storia di una guerra qualsiasi tra le migliaia che hanno insanguinato ogni epoca, bensì è la storia di tutte le guerre, un canto eterno di dolore e di gloria su come è stato e sempre sarà lo scontro armato tra uomini, è solamente grazie alle donne. Senza i suoi personaggi femminili, l’Iliade sarebbe una storia fra molte, dimenticabile e senz’altro già dimenticata: i suoi quindicimila e più versi costituiscono per l’Occidente l’immaginario di ogni guerra perché le protagoniste del poema, con la loro saggezza, profondità e dignità, trasformano un’accozzaglia di corpi schierati in due eserciti opposti in indimenticabile letteratura.

Achille, Ettore, Agamennone e gli altri sono personaggi che si muovono e passano; Elena, Ecuba, Andromaca sono epica destinata a permanere. Nel poema è sempre la donna a trasformare l’eroe in essere umano, il nemico in uomo, il cantore in poeta immortale: e proprio con un’invocazione a una donna, anzi a una Musa, che si apre l’Iliade, senza la quale Omero non avrebbe posseduto il materiale narrativo da cantare e mai il suo talento sarebbe sopravvissuto al buio dell’anonimato.

A partire dal suo stesso autore, gli uomini dell’Iliade incarnano sì la forza, ma una forza bruta, rozza, comunque insufficiente a risolvere il conflitto e a meritare la gloria: la loro mascolinità è certo possente ma lacunosa, intensa ma piccola se paragonata all’ambizione epica del poema. Se togliessimo al racconto gli episodi della trama di cui le donne sono le artefici dirette o indirette, non resterebbero che scene di battaglia secche, dure, certo poco gloriose, ripetitive e senza via d’uscita.

Gli uomini di Omero sono esseri umani in tutta la loro debolezza e la loro finitezza: Agamennone è un capo inadatto, Achille un guerriero capriccioso ed egoista, Paride un rampollo viziato, Ettore un eroe ipersensibile, Enea nemmeno lo si vede. Senza il potere drammatico femminile, l’Iliade sarebbe il pietoso canto della fragilità umana e non quest’irrimediabile poema della forza di cui parlavamo all’inizio.

Le donne di Omero non sono però supereroine grandiose né intrepide avventuriere secondo i moderni cliché dei videogiochi e dei film americani: nessuna delle protagoniste tocca un’arma e uccide il nemico, la donna è anzi del tutto assente dal settore della forza e dei giochi di potere. La variante del mito tramandatoci dal “cieco di Chio” non contempla nemmeno la presenza delle Amazzoni, il popolo femminile e guerriero che invece compare in altre versioni della storia, nelle quali la regina Pentesilea si scontra direttamente con Achille.

Il lato femminile dell’Iliade è fatto di discorsi e di voci che pretendono di essere ascoltati: sul campo di battaglia gli uomini gemono come fanatici, ai margini del combattimento sono invece capaci di articolare pensieri ed esprimere emozioni grazie alle donne con cui si confrontano. In questo senso, gli uomini e le donne di Omero sembrano appartenere a due diverse fasi della civiltà: i primi si esprimono a gesti, le seconde a parole; i primi distruggono, le seconde riparano, curano, ricostruiscono. E tramandano. Se al poema di Omero dovessimo togliere l’audio e dunque zittire i dialoghi innescati dai vari personaggi femminili, non resterebbe che un calderone di armi e di soldati muti e privi di senso.La storia stessa non inizia nel pieno della guerra, ma con il rifiuto di essa da parte del protagonista, Achille, che racconta – a parole, senza armi – la sua volontà di lasciare la battaglia offeso per la perdita della sua schiava Briseide.Comincia allora tutta una serie di contrattazioni e di colloqui tra le parti in causa, mentre l’eroe non tornerà a combattere se non al canto XX (sui ventiquattro di cui l’Iliade è composta), quando ritroverà le armi solo per vendicare la morte di Patroclo.

Senza la Musa non ci sarebbe Omero, senza Briseide non ci sarebbe Achille, così come non ci sarebbero Menelao e Paride senza Elena né Ettore senza Andromaca. O forse ci sarebbero, ma sarebbero soltanto delle comparse su cui passare oltre, da dimenticare. Del resto senza una donna la guerra di Troia non sarebbe nemmeno mai iniziata. Ciò che le donne apportano al poema non sono soluzioni o colpi di scena, ma letteratura. Le donne sono il motore narrativo dell’Iliade, coloro che trasformano la cronaca di un inutile massacro in capolavoro letterario. Gli uomini combattono, uccidono, spesso piangono; le donne tessono, disfano e rammendano la storia fino a formare il più potente canto bellico del Mediterraneo.

Il ruolo femminile di tessitrici di storie non esiste soltanto nell’Iliade, che pure è considerata il primo poema della letteratura occidentale. Chiunque sia stato Omero, uno, nessuno o centomila (o una donna, come credeva fortemente Samuel Butler), la capacità delle donne di farsi sarte dell’epica e ricamatrici di storie è nota fin dall’antichità in molte società dall’Africa all’Asia passando per l’Europa: il talento femminile di raccontare storie attraverso drappi decorati e ricamati con scene tratte dalle grandi saghe del repertorio mitico è oggi riconosciuto come una forma di letteratura non scritta degna di essere ricordata e tramandata. Dopo millenni di assenza di nomi femminili nei manuali di filologia, sembra che sia proprio qui, in questa forma di saggezza domestica e intima, fatta di storie ricamate con ago e filo e di versi affidati al ritmo del telaio (il cui simbolo letterario è Penelope, la protagonista dell’Odissea, che insieme all’attesa del marito tesse tutta la storia del secondo poema omerico), che debba ricercarsi l’origine della letteratura femminile. Canti non scritti ma intessuti, poesie affidate alla stoffa e non al papiro, che per secoli hanno trasmesso nei ginecei e nelle stanze riservate alle donne i grandi capitoli della letteratura antica.

La prova è fornita dall’etimologia della parola “rapsodo”, ossia il ruolo stesso di Omero, il cantore che viaggiava di villaggio in villaggio per narrare le gesta dei grandi eroi di Troia: deriva dal greco rapsodós, composto da rápto, “cucire”, e odé, “canto”. È grazie al lavoro minuzioso e paziente di questi sarti, e soprattutto di queste sarte di poesia, se i poemi di Omero hanno assunto la loro forma definitiva, quella che leggiamo tutt’oggi, a partire da un patrimonio orale di miti sovrapposti e spesso confusi tra loro.

L’Iliade è diventata dunque la storia di tutte le guerre, sì, ma cucita e tramandata attraverso la parola femminile

 Andrea Marcolongo, LA STAMPA

La miserabile campagna contro la famiglia…

La lezione morale, civile e culturale che la fabbrica delle opinioni ha sfornato in questi ultimi giorni è: la famiglia è fallita, come dimostra casa Meloni. Veniamo da una settimana in cui osservatori, influencer, opinion maker della sinistra italiana e paraggi grillini hanno decretato in coro la fine della famiglia naturale e tradizionale in seguito alla fine della relazione con Andrea Giambruno decretata dalla premier Giorgia Meloni. Parlate tanto di famiglia, e poi vi separate. Anzi, dopo quanto è accaduto in casa vostra, smettetela di presentarvi come i difensori di Dio, patria e famiglia. Revocate quei principi assurdi e impraticabili, come avete dimostrato pure voi nella vostra vita.
Proviamo a ragionare su questa tesi che già in partenza mostra di non avere senso della misura: deduce da piccole vicende grandi svolte epocali. L’argomentazione usata è allo stesso livello di chi si professa non credente perché ci sono alcuni preti pedofili; o chi nega l’amor patrio perché ci sono certi mascalzoni e mariuoli che fanno affari sotto l’alibi altisonante della patria. O chi nega valore alla famiglia perché ci sono emeriti puttanieri in sua difesa. Ossia, dovremmo cancellare i principi su cui si fondano storicamente ogni civiltà e la vita reale dei popoli con la miserabile motivazione dei cattivi esempi in loro nome.
L’amor di Dio, l’amor patrio e l’amore per la famiglia sono stati, nel bene e nel male, e in tutte le contraddizioni, la bussola e il filo conduttore per tenere unita una società, per fondare comunità e legami non provvisori né utilitaristici e per stare al mondo non badando solo ai propri esclusivi interessi egoistici e ai propri desideri individuali. Negare quei fondamenti significa negare il fondo persistente, benché ferito e tante volte calpestato, su cui regge la vita della gente e il sentire comune.
Non è mai esistita una società fondata sulla negazione di quelle basi e del loro intreccio. Noi proveniamo da quel mondo, siamo figli ed eredi di quel modo di vivere e di vedere; i nostri legami più forti e duraturi derivano da quelle basi. Sarebbe assurdo ridurre quei fondamenti alti, vasti e profondi al programma politico, ideologico, elettorale di uno schieramento; sarebbe riduttivo, meschino, del tutto improprio. Ma ancora più assurdo è pensare di poter cancellare quei principi e la vita che ne discende solo perché ci sono esempi malriusciti o solo per contrastare la parte avversa.
Chi difende la famiglia non finge di credere che sia immacolata, senza fallimenti, divorzi e separazioni. La famiglia non è illesa, incontaminata, figuriamoci; ma vive il travaglio del nostro tempo, è dentro il suo trambusto.
Quel che è in gioco è la priorità assegnata ai legami derivati da quell’unione, non solo tra marito e moglie, ma tra padri e figli, tra nonni e nipoti, tra fratelli e congiunti. Famiglia non è solo ménage di coppia, è un insieme vivente transgenerazionale. Chi difende la famiglia non si oppone alle altre unioni e alle altre scelte che ciascuno compie in libertà: ma un conto è rispettare le scelte private di ciascuno, gli orientamenti sessuali e le preferenze, un altro è relativizzare la famiglia, considerarla unione tra le tante, e reputare del tutto irrilevanti la paternità, la maternità, il significato della procreazione e della natività, il legame speciale biologico e spirituale, tra madri e figli, tra genitori e figli, le responsabilità educative verso i minori.
Se una cosa può essere imputata a chi difende nei discorsi politici l’universo familiare è semmai l’incoerenza e l’inefficacia nella tutela: vorremmo da loro più cura, più leggi e strutture a protezione della famiglia. Qualche segnale positivo c’è nell’ultima finanziaria. Ma vorremmo che a livello pubblico e istituzionale la politica della famiglia avesse una reale, decisa priorità a tutela dei suoi legami e dei soggetti più deboli che ne sono parte (i bambini, i vecchi, i malati). Andrebbero tutelate e incentivate la maternità e la natalità, piuttosto che il traffico degli uteri in affitto o altre forzature artificiali che prescindono dalla famiglia e dal suo progetto di vita. Chi sceglie di vivere da solo ne ha tutto il diritto, chi sceglie di unirsi in coppie libere lo faccia pure; chi ha storie omosessuali è libero di averle. Ma la politica sociale e famigliare dovrebbe preoccuparsi di tutelare e promuovere la famiglia, lasciando ai singoli la facoltà di compiere altre scelte. Cosa c’è in questo di ostile, illibertario, repressivo? La famiglia è un bene da tutelare, le scelte individuali sono invece diritti da garantire. Due piani diversi. La tutela della famiglia è sancita anche dalla nostra Costituzione, che tante volte, anche a sproposito, reclamate come se fosse la Bibbia.
La dialettica politica e culturale dovrebbe riguardare il confronto tra i due modelli di società e non la pretesa di ridurti tutto ai soli diritti soggettivi. La famiglia comporta diritti, doveri e responsabilità. Non può essere sostituita da l’Io voglio o dai desideri soggettivi e momentanei. E’ un legame, genera comunità, comporta reciprocità.
Avete tutto il diritto di non condividere questo orizzonte che pure è il mondo reale nel quale siamo nati e cresciuti, ed è ancora – nonostante tutto – l’architrave più solida della nostra società, senza la quale si sfascia. Ma non potete avere la pretesa di dedurre dalla vostra premessa – ognuno decida la sua vita come vuole – la conseguenza di relativizzare, declassare e screditare la famiglia. O attaccarvi ai Giambruno di turno per abbattere le famiglie come fossero ciuffi da tagliare. Le famiglie si sfasciano, dunque è inutile anzi è dannoso difenderle. Ma dove porta questo cupio dissolvi, questa furia di cancellare, di sradicare, di espiantarsi? Le destre passano, con le loro Meloni & partner, ma i legami naturali e famigliari restano finché resta l’umanità. Poi quando l’umano verrà definitivamente rimpiazzato non sarà più affar nostro.

Marcello Veneziani   

Com’è triste vedere Francesco inerte davanti alla morte. Esultano gli ex Pci.

Una volta si segnavano tutti, ora non lo fa neppure Bergoglio a Palazzo Madama per non urtare una cerimonia laica. E per Veltroni e compagni il gesto suona ormai come un’offesa

Com'è triste vedere Francesco inerte davanti alla morte. Esultano gli ex Pci

Un fatto straordinario, ha detto Walter Veltroni commentando il Papa entrato e uscito dalla camera ardente di Napolitano senza nemmeno un segno della croce. Lo dico anch’io: è proprio un fatto straordinario. E però in senso opposto: a differenza del Veltroni gongolante su RaiTre lo giudico un fatto straordinariamente negativo. Un tempo il segno della croce lo facevano tutti e in tante occasioni. Mia nonna, la ricordo come se fosse ora, lo faceva anche quando sentiva la sirena di un’ambulanza. Io che pure non sono né nonno né Papa lo faccio ogni volta che entro in un cimitero. È un gesto per me naturale che significa almeno due cose: pietà verso i morti e preghiera verso chi ha promesso di farli risorgere. E figuriamoci se non lo faccio in una camera mortuaria, un posto dove non mi metto certo ad analizzare la fede o la non fede del defunto: lo faccio e basta. Del resto se i famigliari fossero infastiditi da simili visioni potrebbero sempre affiggere un cartello: «Ingresso vietato ai cristiani» In tal caso girerei i tacchi e me ne tornerei a casa, siccome non entro dove non posso essere me stesso. E per un cristiano il segno della croce è per l’appunto cruciale. Un tempo lo facevano tutti e adesso non lo fa nemmeno il Papa. Non mi piace fare la parte dell’apocalittico, è un ruolo ingrato, ma se quanto accaduto nella camera ardente del Senato non evidenzia lo stato agonico del cattolicesimo romano ditemi voi. Per Veltroni la fissità bergogliana testimonia il «grande rispetto del pontefice nei confronti delle istituzioni di questo Paese». L’ex capo del partito democratico sembra dunque confondere il segno della croce con la pernacchia. Ma se davvero i segni cristiani sono considerati ormai alla stregua di insulti, perché non andare oltre? Perché non avvicinarsi ancor più alla sensibilità del mondo incredulo? Nel corso della loro storia i gesuiti lo hanno fatto molte volte: andarono in Cina per evangelizzare e a forza di avvicinamenti finirono cinesizzati, andarono verso il comunismo per cristianizzarlo e a forza di avvicinamenti finirono comunistizzati… Il Papa gesuita che ha fatto trenta al prossimo funerale potrebbe fare trentuno: presentarsi in clergyman, senza quell’assurdo, anacronistico abito bianco e soprattutto senza quell’impressionante croce sul petto, indelicata verso atei, buddisti, maomettani, zoroastriani

Veltroni su RaiTre ha parlato ovviamente anche di politica. Argomento su cui sembrava più ferrato. Sembrava. Secondo lui Napolitano ha sempre «fatto ciò che andava fatto, agendo nell’interesse nazionale». Secondo me nell’elogio veltroniano mancava un «sovra»: in almeno due occasioni (guerra di Libia e cacciata di Berlusconi) il cosiddetto Re Giorgio agì nell’interesse sovranazionale. Ma non è questo il momento e non è questo l’articolo, non vorrei andare fuori tema e torno al nocciolo della questione che è squisitamente religiosa.

Un Papa così inerte è sconfortante per tutti i fedeli. Starsene impalato davanti a una bara è un venir meno alla propria missione, assegnata da Gesù a Pietro (e dunque ai suoi successori) durante l’Ultima Cena: «Conferma i tuoi fratelli». Un Papa che davanti alla morte si mostra senza parole né gesti non conferma: smentisce. Forse è stato ultra rispettoso verso l’ateo morto, di sicuro è stato poco riguardoso verso i cristiani vivi, in primis quelli che nei paesi islamici hanno pagato e pagano la manifestazione esteriore del proprio cristianesimo con persecuzioni e carcere, a volte col patibolo. In ogni tempo i grandi pensatori cristiani hanno assegnato grande valore al segno della croce. Per Tertulliano bisognerebbe farselo «ad ogni passo, quando si entra e quando si esce, nell’indossare i vestiti, a tavola, nell’andare a letto…». Per Ratzinger è nientemeno che «la sintesi della nostra fede». Invece il video del Papa immoto e silenzioso al Senato mi è sembrato una sintesi dell’agnosticismo costituzionale. E mi ha fatto venire in mente una poesia poco allegra di Cesare Pavese, quella che finisce così: «Scenderemo nel gorgo muti». Vade retro! Gesù nel Vangelo di Matteo ci esorta a fare l’esatto contrario: «Gridatelo sui tetti!». Lui che da quindici secoli fa il segno della croce nel mosaico di Sant’Apollinare in Classe.

Camillo Langone   

L’agosto di Cesare Pavese e non solo…

Agosto, il mese adolescente

Agosto non è un mese ma uno stato d’animo; è l’adolescenza dell’anno, in cui si esce dal mondo e dal tempo e si entra nella natura e nel mito. Il tempo è sospeso anche se corrono i giorni, e ciascuno vive in agosto l’esperienza primitiva del ritorno all’origine. La festa patronale, le stelle di San Lorenzo e l’apoteosi del ferragosto, le cicale e le notti bianche, il caldo e il mare, i corpi liberi e vogliosi di vita; e poi la luna e i falò, la spiaggia, la bella estate, feria d’agosto. Cesare Pavese cantò, sin nei suoi memorabili titoli appena citati, la bellezza e il mito d’agosto e dell’estate.  Da meridionale associo agosto al sud, è il mese del ritorno a sud, della discesa a sud di tanti settentrionali. Eppure se l’agosto naturale e sensuale, marino e salmastro, solare e notturno, è situato al sud, l’agosto in parole e poesie è associato a uno scrittore del nord più profondo che raccontò le Langhe e le sue colline. Lui, Pavese. Agosto, dicevo, è il mese adolescente. In agosto di solito debutta l’adolescenza, i primi amori, le prime scoperte, la libertà e la trasgressione già nel tirar tardi la sera e allontanarsi da casa. Ma in agosto è il mondo adulto che torna adolescente, perché cerca il gioco, il trastullo, la vita senza diaframmi che si mostra nuda, come i corpi e i pensieri. Agosto è poi maledetto perché è mese di folle e di file; tutto si fa meno bello per spalmarsi come una crema abbronzante su più persone. Ma l’età di agosto è l’adolescenza, dimentica gli affanni passati e quelli venturi, è una tregua, un oblio, una fuoruscita dai giorni consueti. Nell’adolescenza, spiega Pavese in Feria d’agosto, c’era un tesoro che noi non sapevamo; c’è fascino e stupore, come dentro una favola. Tutto è visto con altri occhi, sotto altra luce: è l’essenza del mito. Verrà poi la nostalgia a ricordare quel tempo mitico, gremito di simboli, però ci mancherà “la purezza iniziale di vivere nell’essere genuino”. Gli unici paradisi a noi concessi, si sa, sono i paradisi perduti; lo disse Proust, lo disse Borges, lo dice in altri modi Pavese. Quando sei in paradiso non ci fai caso; quando ci ripensi e ne avverti la mancanza il paradiso è già perduto. Prima si vive, poi si conosce, non si vive e si conosce nello stesso tempo; questo è il mistero di vivere secondo Pavese. L’infanzia per lui è il vivaio dei simboli; l’adolescenza sprigiona la voglia di viverli con tutti i sensi, anche quelli nascosti. La vita adulta, avverte Pavese, aggiungerà ben poco al tesoro infantile di scoperte. L’essenza dello stupore, lo stato di grazia, per lui, non è restare dentro se stessi ma spargersi nei luoghi fino a sparire dentro di essi: farsi quel campo, quel cielo, quel bosco; aggiungo, quel mare. Io non esisto, esiste il cielo. Io non esisto, esiste agosto. Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico, dice Pavese. Nessun bambino sa cosa sia il paradiso dell’infanzia; anzi, l’infanzia è poetica solo per gli adulti. C’è nel bambino “un immediato e originario contatto alle cose”. Che si perde quando si diventa adulti, e finisce agosto. Tornando nei panni dello scrittore, Pavese annota: “quando si prende in mano la penna per narrare sul serio, tutto è già accaduto, si chiudono gli occhi e si ascolta una voce che è fuori dal tempo”. Il poeta cerca di “rinverginarsi” dice Pavese, cioè tenta a ritroso di ritrovare la purezza perduta. La narrazione, l’arte, è il ritorno cosciente all’adolescenza, ossia a quella stagione della vita che è ponte tra il mito e la realtà, tra l’infanzia e la vita adulta, tra lo stupore e la conoscenza. Cosa rende mitico e sacro un paesaggio? È avvertire quello spazio nella sua unicità. Così sono nati i santuari, nota Pavese; isolando un luogo dal mondo, come è d’altronde il significato etimologico di templum. “Feste, fiori, sacrifici sull’orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombre silvestri. Lì sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare un dio”. Prima che cogliere il significato delle parole, sentite la musica, il ritmo, l’atmosfera propizia, il suono delle parole che cantano quei luoghi. Il mito è lì. La festa ricelebra il mito e insieme lo instaura ogni volta, come se fosse la prima volta. Pavese scriveva queste cose all’indomani della Grande Storia, subito dopo la tragedia della guerra mondiale, in quel Novecento dove tutto era schiacciato sotto il peso della storia. La letteratura come il cinema, si rifugiava nel realismo per applicare la narrazione storica alla vita minuta dei giorni e della gente comune. Pavese invece presta l’ascolto al mito, nello stormire delle foglie, riconosce il battito della natura, volge lo sguardo al piano simbolico, avverte da lontano la danza del dio. La storia nel suo tempo è un divenire incessante, imperativo; una retta che corre verso l’infinito, il progresso è la sua legge inesorabile ed euforica: invece Pavese si rifugia in agosto, nell’adolescenza, nel mito, nella natura, sente il ciclo della vita e delle stagioni, scorge la circolarità dei destini e il loro perentorio accadere. Negli anni trenta si era rifugiato nella letteratura americana, di cui sentiva l’afrore giovanile e selvaggio delle passioni contro il retaggio senile della storia europea. La mitopeia infantile, scrive, ha questo di particolare: le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. È una conoscenza di seconda mano, non si vedono le cose la prima volta, “quello che conta è sempre la seconda”. Ciascuno di noi, avverte, possiede una mitologia personale: e qui la mente di ciascuno si popola di ricordi mitizzati della propria infanzia d’agosto. “A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, e tutto era bello, specialmente di notte”.

Fu proprio in agosto che Pavese si tolse la vita. D’estate era nato, d’estate chiuse il suo cerchio. La bella estate.

Marcello Veneziani

Il sud è un geo-pensiero fruttuoso..Dalla Gazzetta del mezzogiorno.

Alla festa della Taranta mi hanno chiesto di parlare del sud stasera a Sternatia. Il tema è riassunto in un’espressione che coltivo da anni: cogito ergo sud. Al meridione non tocca adeguarsi all’unione europea o inseguire i modelli del nord, diventando solo una caricatura a rimorchio e a comando; ma far riemergere l’anima pensante del meridione e renderla fruttuosa nel presente.
Parto da una celebre espressione usata con disprezzo da Gianni Agnelli verso un politico meridionale: intellettuale della Magna Grecia. Ad avercene di intellettuali della Magna Grecia, ma veri. Se le sognano in altre parti d’Europa le fervide menti meridionali, se le sognano le dinastie industriali come gli Agnelli (basterebbe dire che oggi il miglior erede degli Agnelli è Lapo Elkann; ho detto tutto, diceva Peppino a Totò).
Si tratta di compiere una piccola rivoluzione: quel che conta non è sempre e solo essere al passo coi tempi ma a volte è prezioso essere al passo coi luoghi, sentirsi non contemporanei ma conterranei. Ossia mettere a frutto il legame geografico comune col sud, la nostra matria. Questo significa geofilosofia, un pensiero all’altezza dei luoghi, figlio di un paesaggio, di una storia in una terra, di una cultura derivata da coltura, e fluente come il lungo mare nostrano. C’è un legame creativo e fecondo tra il genius loci e il pensiero, tra i caratteri, i miti, le musiche e le danze, come la taranta, e il pensiero mediterraneo, amato da Paul Valéry, Albert Camus e Jean Grenet, indagato a Bari alla luce del pensiero meridiano da Franco Cassano. C’è un legame fortissimo tra pensiero e natura, tra l’ideario e il cibario, che potrebbe affascinare anche oltre il sud e trasformare le onde anomale e provvisorie del turismo in una scoperta antropologica, uno stile di vita, una modalità di pensiero da frequentare con più fruttuosa assiduità. Dalla frenesia dell’ora all’ozio creativo della controra.
Da anni disperdo al vento del sud il seme di un progetto per la raccolta del pensiero mediterraneo, di una Fondazione che se ne prenda cura, di un Ateneo che lo tenga a battesimo, di un giornale o più giornali che se ne facciano veicoli… Un campo di ricerche in cui promuovere studi e arti, iniziative ed eventi, rinascita di luoghi, senso del bello e amor del luogo, mitologia del sud e letteratura identitaria. Qualcosa che riprenda in modo originale le intuizioni del meridionalissimo Giambattista Vico (a cui ho dedicato una biografia in uscita tra una settimana da Rizzoli), gli studi antropologici di Ernesto de Martino e tutto il filone sommerso del pensiero meridionale, non meridionalista; mediterraneo, meridiano, non lagnoso o solo retrospettivo.
Quanto ai ritardi del sud, li vedo anch’io, ma proviamo a fare un discorso diverso: siamo gli ultimi in fila alla vecchia cassa, ma se stiamo attenti, saremo i primi appena se ne apre una nuova. Non sto parlando di cassa per il mezzogiorno, dico fuor di metafora che i nostri ritardi in materia di industrializzazione e di modernizzazione potrebbero diventare un’opportunità ora che il modello verso cui ci muoviamo è postmoderno e postindustriale. Il terziario, i servizi, la tecnologia, il lavoro a casa, la creatività, l’accoglienza delle popolazioni anziane e benestanti del nord Europa, la ricerca di campi inesplorati, la cultura, la natura, il culto di bio.
Parliamo sempre di chi se ne val sud, ma se ci occupassimo pure di chi resta? Se oltre i migranti ci interessassimo ai restanti o restii? E poi l’originalità di un approccio non tecno-scientista, ma mito-umanista. Immaginate cosa può fare un Parmenide, un Pitagora, un Platone con uno smartphone in mano, un pc, un cervello artificiale al suo servizio… Provate a pensare inauditi incroci anziché ripetere vecchie formule tardomoderne e cascami di ideologie andate a male. Il sud non è solo un modo di dire ma anche di fare e di pensare. Il mondo visto dalla controra.

Marcello Veneziani