Lo sapevate che siamo tutti ipernormalizzati?

È una parola vecchia che però sta tornando attuale per descrivere la straniante sensazione che tutti proviamo ormai da un pezzo: quella di dover continuare a funzionare come individui mentre il sistema attorno a noi crolla, tra guerre e crisi economiche. In quella bolla social crescente che sta tra l’attivismo e il content, tra la scuola di Francoforte e la mindfulness socio-performativa, la parola del momento è “ipernormalizzazione”.

Rilanciato da un articolo del Guardian a fine maggio (la Bbc in realtà fece un documentario sugli stessi concetti e con lo stesso titolo, HyperNormalisation, già nel 2016) il concetto viene fatto risalire a un testo del 2005 dello studioso Alexei Yurchak sulla vita quotidiana in Unione Sovietica, e sembrerebbe calzare a pennello ai tempi che corrono, in particolare degli Stati Uniti. Con “ipernormalizzazione”, in sintesi, si intende una scissione vissuta dall’individuo all’interno di regimi politici decadenti, dove la consapevolezza che il sistema è allo sfascio — inefficiente, corrotto, senza alternative all’orizzonte — non impedisce affatto di continuare la propria vita come se nulla fosse. Questo perlomeno in superficie, mentre sotto scorre un fiume carsico di rabbia, paura e angoscia che riemerge soltanto in contesti al limite: quando litighiamo a un semaforo, nelle chat dei genitori, su Rete4.

Cosa significa
L’ipernormalizzazione è «quella sensazione viscerale di essersi svegliati in una linea temporale alternativa, con la consapevolezza profonda, fisica, che qualcosa non va – ma senza avere la minima idea di come rimettere le cose a posto», ha spiegato al Guardian l’antropologa digitale Rahaf Harfoush, «è leggere un articolo sui bambini vittime di carestia o su un genocidio, e subito dopo scorrere giù verso una lista spensierata delle celebrità meglio vestite, o un quiz frivolo del tipo: “Che tipo di merendina sei?”».

Tutto molto vero, tutto risonante, tutto familiare. Non sorprende che il reel in cui Harfoush espone il concetto abbia accumulato milioni di views, circolando come spiega la studiosa, soddisfatta, in «gruppi di mamme, chat di amici, subreddit politici, comunità di cacciatori di sconti e perfino gruppi per le passeggiate con i cani». Chissà se tutte le persone rimaste ammirate dalle immagini del sassofonista libanese che continua il suo assolo mentre il cielo è attraversato dai missili iraniani diretti verso Israele si sono rese conto di stare ipernormalizzando.

A che serve
Non è però facile capire, esattamente, quale sia l’elemento di novità. Che internet sia un frullatore semantico dove le informazioni schizzano e si impastano senza gerarchie è un’intuizione vecchia come internet stesso, che i nostri cervelli tendano a processare la realtà in forma orizzontale è un fatto fondativo della società dei media, torniamo a Marshall McLuhan, il medium è il messaggio etc etc: la televisione vende lavatrici anche quando indaga sul Watergate, i social commerciano in dopamina anche quando commentano un genocidio, tutti gli occhi su Rafah significa in realtà quello che apparirebbe a un marziano appena sbarcato sul nostro pianeta: tutti gli occhi sullo schermo. Ma poi questa scissione tra il banale e il sublime non è forse, in un certo senso, il grande tema del Novecento, secolo che veneriamo e disprezziamo senza riuscire a liberarcene? I cristalli della belle epoque che tremano al suono dei cannoni della prima guerra mondiale, la banalità del male, Picasso e Guernica, l’avete fatto voi, Kafka, Musil, il rumore bianco di DeLillo? Non si può forse dire che su questa tensione, su questa membrana tremolante tra la placida quotidianità borghese e l’eccesso del reale del mondo sia costruita la scena più nota della letteratura americana di fine secolo, quella di Pastorale Americana in cui la piccola Merry, figlia dello “svedese” Levov, nell’idilliaco salotto borghese della casa di famiglia di Newark vede per caso, in televisione, le immagini dei monaci vietnamiti che si danno fuoco per protesta, e le fiamme dallo schermo iniziano a divorare il sogno suburbano della sua famiglia?

Così fan tutti
Ciò che è interessante, forse, è l’evoluzione speculare delle paure della borghesia che guarda nello schermo: in Philip Roth a destabilizzare era ciò che lo schermo mostrava, un moral panic come questa ipernormalizzazione riguarda la propria immagine riflessa. È inevitabile ravvisare nel trionfo di questo ennesimo neologismo composto – come se anche la semantica denunciasse la nostra incapacità di leggere davvero il mondo nuovo, che ci illudiamo di capire ricombinando pezzi di un vecchio armamentario – un retrogusto consolatorio, se non addirittura autoassolutorio. Se mentre scoppia la terza guerra mondiale io penso al weekendino, allo svezzamento emozionale o alla passeggiata di Nerone (non l’imperatore, il labrador) non è che sono indifferente. È che sto ipernormalizzando.

 Stefano Piri___Rivista STUDIO

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A proposito del celebre detto Panta Rei, tutto scorre, riferito alla vita e a quanto la circonda, forse non l’ha scritto Eraclito. Tanta curiosità sui detti.

 

Eraclito non ha mai detto panta rhei, tutto scorre; Eraclito non è il filosofo del divenire; e soprattutto si dice Eraclìto, non Eràclito. Ci sono insomma diversi punti da chiarire, per fare luce nelle idee di questo filosofo, famoso già nell’antichità per l’oscurità dei suoi aforismi. Di Eraclito si sono in effetti tramandate solo sentenze brevi e volutamente ambigue, che si prestano a diverse interpretazioni (ne vedremo presto alcuni esempi). Non è una scelta arbitraria: Eraclito è convinto che il linguaggio, se ben impiegato, sia in grado di rappresentare la realtà. Ma la realtà è molto più ambigua e contraddittoria di quello che pensiamo. L’adozione di questo linguaggio oscuro e polisemico dipende dunque dalla necessitò di dare conto di questa realtà mai lineare, ma ambigua e sfuggente.

L’unità che si nasconde dietro il divenire.
Eraclito non ha mai detto che «tutto scorre» – è un’affermazione in fondo banale, così come banale è la tesi del «divenire», che viene sempre associata al suo nome (opponendolo magari a Parmenide, il filosofo dell’essere). La posizione di Eraclito è più sottile. Per capire cosa intendesse veramente pensiamo a uno dei tanti aforismi dedicati ai fiumi (l’immagine del fiume ci può in effetti aiutare a comprendere cosa sia davvero la realtà). «Acque sempre diverse scorrono intorno a quanti si immergono negli stessi fiumi» (22B12 DK). Per quelli che entrano negli stessi fiumi scorrono acque differenti. Gli stessi fiumi, acque differenti. Le acque scorrono, insomma, ma il fiume rimane lo stesso. O meglio: proprio perché le acque scorrono il fiume rimane lo stesso, vale a dire continua a essere quello che è. Infatti, se non ci fossero acque non ci sarebbe un fiume ma un greto; e se ci fossero acque che non scorrono non ci sarebbe un fiume ma un lago.

Acque sempre diverse scorrono intorno a quanti si immergono negli stessi fiumi.
Questo esempio del fiume permette a Eraclito di sollevare un punto decisivo: dietro il divenire c’è la stabilità e dietro la molteplicità c’è l’unità. E questo in virtù di un legame necessario: per quanto possa sembrare paradossale, è proprio perché le acque scorrono e si modificano che il fiume rimane un fiume, e permane nella sua identità di fiume. Non ci sono le acque da una parte e il fiume dall’altra. Il fiume è l’acqua che scorre. Identità e cambiamento, molteplicità e unità coesistono. Che tutto si trasforma e diviene è evidente. L’intuizione, la scoperta di Eraclito è che il divenire avviene secondo un ordine intrinseco. Si chiarisce allora l’equivoco: il punto che Eraclito intende sottolineare non è che tutto diviene. Quello che Eraclito vuole sottolineare è che c’è una unità sottesa al cambiamento: che la realtà (l’universo, la natura: in greco la physis) è questo tutto dinamico e ordinato. C’è una stabilità anche nelle trasformazioni, e le cose mantengono una loro identità proprio nelle trasformazioni, proprio perché si trasformano (se le acque non cambiassero non ci sarebbe un fiume). Ecco «l’armonia nascosta» («la natura ama nascondersi», recita un altro famoso aforisma), la verità profonda di cui Eraclito era in cerca.

L’esempio dell’arco e della lira.
L’esempio più celebre e la descrizione più chiara di questa armonia segreta, è nel frammento dell’arco e della lira: «Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde, armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira» (DK 22B51). Che cos’è un arco, in effetti? Apparentemente è un oggetto stabile, statico e privo di tensioni interne. In realtà, l’arco esiste soltanto nella misura in cui si dà opposizione, conflitto, tensione tra la corda e il legno. L’arco è questo conflitto, perché la sua esistenza dipende dalla tensione: se la corda riuscisse a incurvare il legno fino a spezzarlo non ci sarebbe più un arco, e neppure si potrebbe parlare di arco quando legno e corda non fossero più in tensione. L’arco è la tensione degli opposti, e questa è un’altra descrizione brillante della realtà, della natura, perché anche la realtà esiste nella tensione tra i contrari, e i contrari devono la propria esistenza all’esistenza del loro opposto: non ci sarebbe la luce senza il buio, il caldo senza il freddo e così via. La natura, l’universo che ci circonda, con i suoi cicli e le sue fasi, insomma è questa identità nella trasformazione (l’esempio del fiume), e questa identità è data dalla tensione continua tra gli opposti che la costituiscono (l’esempio dell’arco), che non esisterebbe senza questo conflitto (il caldo e il freddo, la luce e il buio etc). «Polemos (la guerra, il conflitto) è padre di tutte le cose, di tutte è re», recita l’aforisma forse più provocatorio (di solito la guerra porta distruzione non nascita).

Possono sembrare banalità, per alcuni saranno forse follie; a pensarci bene, però, è un’immagine rivoluzionaria della realtà. Ed è un’immagine molto attuale: riconoscendo nel divenire un segno d’imperfezione, filosofi e teologi si sono sempre affannati a cercare altrove le cause d’ordine del nostro mondo: se non sono le idee di Platone, è il Dio di Aristotele e delle religioni. L’intuizione di Eraclito è che non c’è che questo nostro universo, che risulta dal conflitto dei suoi elementi costituenti e che funziona secondo regole precise, che non possono essere violate. «Questo cosmo, che per tutte le cose è il medesimo, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era ed è e sarà, fuoco sempre vivente, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne». Come può esserci un ordine senza ordinatore? Eppure è così: come il fiume o l’arco, così anche l’universo, la sua esistenza e la sua unità, dipende dalle interrelazioni ordinate («secondo misura») dei suoi costituenti. Oggi non vediamo l’universo diversamente. Non c’è caos, ma complessità e la complessità può essere spiegata se si ragiona correttamente.

L’immagine del fiume.
A rendere ancora più interessanti le intuizioni di Eraclito è la capacità di sfruttare queste tesi cosmologiche per una meditazione originale sulla nostra condizione di esseri umani. Torniamo all’immagine del fiume: «acque sempre diverse scorrono per chi si immerge negli stessi fiumi». Nel testo greco «gli stessi» si può riferire anche agli uomini: «acque diverse scorrono intorno alle stesse persone che s’immergono nei fiumi». L’affermazione secondo cui per le stesse persone che entrano nei fiumi scorrono acque diverse potrebbe sembrare banale. Ma così non è, se solo si identificano il fiume e l’uomo (come la struttura della frase invita a fare): come l’identità del fiume è garantita dallo scorrere delle acque, così l’identità di un essere umano è garantita dal flusso delle sue esperienze. Tutto scorre, tutto diviene, ogni cosa è in relazione con le altre e si determina a partire dal rapporto con esse; niente è di per sé. Vale per le altre cose, e vale per noi, perché anche noi facciamo anche noi parte della realtà. Non c’è pregiudizio più radicato della «metafisica dell’io», di questa convinzione che noi, e solo noi, esistiamo indipendentemente da quello che ci succede, come se fossimo impermeabili rispetto a ciò che ci circonda. Eraclito sta probabilmente polemizzando contro Pitagora, e la sua tesi di un’anima immortale che rimane identica nonostante i cambiamenti e che bisogna preservare nella sua purezza. Tutto al contrario, noi siamo le esperienze che facciamo, nel senso che noi siamo ciò che diveniamo. Anche se a noi può sembrare diversamente, non esiste un io autonomo che ci distingue e separa dagli altri. Noi siamo le nostre relazioni e le nostre esperienze; non possiamo prescindere da ciò che ci capita e da come reagiamo di fronte a ciò che ci capita, bello o brutto che sia. Senza conoscere il dolore possiamo sapere cosa è la gioia? E senza metterci alla prova potremo mai conoscerci veramente, capire chi siamo?

Ecco la lezione di Eraclito, che dagli spazi immensi dell’universo ha concentrato il suo sguardo verso le nostre profondità interiori (l’aforisma forse più bello è: «Per quanto tu proceda non riuscirai a trovare i limiti dell’anima, percorrendo ogni via: tanto profondo è il ragionamento che la riguarda»). Anche noi siamo parte di questo tutto che si trasforma eternamente secondo il suo ritmo: dobbiamo imparare a conformarci a questo ritmo, trovando il nostro equilibrio. Perché ciò che diventiamo, come ci confrontiamo con le persone e le situazioni, determinerà ciò che siamo e la vita che condurremo.

Per quanto tu proceda non riuscirai a trovare i limiti dell’anima, percorrendo ogni via: tanto profondo è il ragionamento che la riguarda
Rimane da sciogliere così l’ultimo dubbio: Eraclíto o Eráclito? La risposta è una sola: Eraclìto. Per un motivo molto semplice. Il nome greco è Herákleitos, ma i nomi greci, in italiano, sono pronunciati secondo la resa latina, in cui quello che conta è la penultima sillaba: se la penultima sillaba è breve l’accento si ritrae, se è lunga l’accento cade sulla penultima stessa. E visto che nel latino Heraclitus la «i» è lunga (perché in greco c’era il dittongo ‘ei’), la risposta è una sola: Eraclíto. Chi volesse contestare questa tradizione e pronunciare Eráclito alla greca può certamente farlo. Ma dovrà anche dire Plátone e Aristotéle e Cristò. Non so se ne vale la pena.

Mauro Bonazzi__dal Corriere della sera

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Gli elefanti. Curiosità…

 

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Quando un elefante deve essere trasportato in aereo da un Paese all’altro — ad esempio, dall’India agli Stati Uniti — nella sua gabbia viene posato… un gruppo di pulcini.

Sì, hai letto bene: dei minuscoli, fragili pulcini.

Perché?

Perché, nonostante la sua imponente mole, l’elefante ha un profondo timore di far loro del male.
E così, per tutto il viaggio, rimane perfettamente immobile, attento a non muoversi, a non spostarsi, a non rischiare di schiacciarne nemmeno uno.
In questo modo si mantiene anche l’equilibrio dell’aereo. Ma è molto più di una semplice strategia di volo.
È la prima, straordinaria dimostrazione della nobile natura dell’elefante.
Affascinati da questo comportamento, gli scienziati hanno studiato il suo cervello.
Hanno scoperto la presenza di cellule fusiformi: neuroni rarissimi, presenti anche nell’essere umano, associati a empatia, coscienza di sé, percezione sociale.
In altre parole: l’elefante non è solo grande nel corpo.
È grande nell’anima.Sente. Comprende. Ama. Agisce con una saggezza silenziosa.
Non a caso, anche Leonardo da Vinci, incantato dalla natura, scrisse:
“L’elefante incarna la rettitudine, la ragione e la temperanza.”
E descrisse così i suoi gesti:

Entra nel fiume con solennità, quasi volesse purificarsi da ogni male.
Se incontra un uomo smarrito, lo guida dolcemente verso la strada giusta.
Non cammina mai da solo: sempre in gruppo, sempre guidato da un capo.
È pudico: si accoppia solo di notte, lontano dagli altri, e poi si lava prima di rientrare nel branco.
Se incontra un’altra mandria, sposta gli animali con delicatezza, con la proboscide, per non ferire nessuno.
Ma c’è un gesto che, più di ogni altro, commuove:
Quando l’elefante sente che la fine è vicina, si allontana dal branco e va a morire da solo, in un luogo appartato.
Perché lo fa?
Per risparmiare ai più giovani il dolore di vederlo morire.
Per pudore.
Per compassione.
Per dignità.
Tre virtù rare.
Anche tra gli uomini.

Dal Web

 

Il Palazzo della Civiltà Italiana è magnifico, che sia fascista conta poco.

È Aristotele a stabilire le supreme forme del bello: l’ordine, la simmetria, il definito. Non c’è antifascista che possa definire il Colosseo Quadrato disordinato, asimmetrico e sfumato. Checché ne dica Gianni Biondillo

Gianni Biondillo prima dice che non esiste l’architettura fascista poi se la prende con l’Eur perché è fascista. Il quartiere razionalista romano sarebbe “un enorme coito interrotto del virilismo fallocratico fascista”, frase stentorea contenuta in “La costruzione del potere. Perché l’architettura fascista non esiste” (Marsilio). Eppure poco prima, con superiore saggezza, Biondillo aveva scritto: “E’ nella forma che l’artista esprime il suo talento. E’ nella forma che va giudicato”.

Ecco, io giudico il Palazzo della Civiltà Italiana del caro Ernesto Lapadula (mi commuovo sempre quando a Potenza passo davanti alle sue Poste) per la forma, non per le intenzioni del committente. Non è Mussolini a dire che il Colosseo Quadrato è magnifico, è Aristotele. E’ il filosofo a stabilire “le supreme forme del bello: l’ordine, la simmetria e il definito”, e non c’è antifascista che possa spingersi a definire il celeberrimo edificio disordinato, asimmetrico e sfumato. Ha ispirato eccellenti pittori (Mauro Reggio), architetti ammirevoli (Aldo Rossi), grandi registi (Fellini, Antonioni, Greenaway), è un fondale che può liberare qualsiasi fantasia e infatti a me non fa pensare al potere, a me fa sognare, più che razionalista mi sembra onirista, il ritmo degli archi mi ipnotizza. Fallocratici e violenti saranno i nuovi grattacieli di Milano.

Camillo Langone

Ma il tesoro dei Savoia a chi appartiene?

 

Tre giorni dopo il referendum controverso che sancì la vittoria della repubblica sulla monarchia, il 2 giugno del 1946, Umberto II di Savoia, re uscente e mai più rientrato, fece depositare dal ministro della Real Casa Falcone Lucifero i gioielli della Famiglia Reale a Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia. Era un cofanetto in pelle nere, a tre strati, foderato di velluto blu, come il sangue dei nobili, che tuttora custodisce oltre sei mila brillanti e duemila perle, varie gemme, diademi, bracciali, collane, spille, orecchini. Alcuni risalgono all’epoca del Regno d’Italia, altri sono precedenti, cimeli di Casa Savoia nei secoli.
Sono passati quasi ottant’anni ma i gioielli dei Savoia restano ancora nel limbo, inaccessibili agli eredi ma nemmeno confiscati dallo Stato italiano. L’ultimo tentativo di riaverli risale a tre anni fa, non c’era ancora la Meloni al governo e c’era ancora in vita Vittorio Emanuele IV, affiancato dalle tre sorelle, le Tre Marie- le principesse Maria Pia, Maria Gabriella e Maria Beatrice: intentarono una causa alla Banca d’Italia, alla presidenza del consiglio e al ministero dell’Economia per riavere i gioielli di Casa ma senza riuscirvi.
Nella famosa tredicesima disposizione in appendice alla Costituzione, fu indicato che i beni della Casa Savoia fossero avocati allo Stato repubblicano. Ma i gioielli si possono considerare alla stessa stregua dei Palazzi, delle tenute, delle collezioni confiscate alla casa regnante o rientrano in beni che hanno più una valenza personale, familiare, comunque più attinente alla sfera di pertinenza della dinastia? Un’attenta ricostruzione della vicenda l’ha fatta Fabio Andriola sulla sua rivista Storia in rete, appena rilanciata in edicola. Quando Umberto II consegnò, pare su sollecitazione di Alcide De Gasperi, i tesori della Corona li accompagnò con una lettera volutamente sibillina: “In conseguenza degli ultimi avvenimenti desidero che le Gioie della Corona non vadano immediatamente in mano ad un commissario che potrebbe prendere dei provvedimenti affrettati e magari fare una distribuzione e un’assegnazione non conforme al valore storico. Sono gioie portate dalle regine e dalle principesse di Casa Savoia. Desidero siano depositate presso la Banca d’Italia per essere consegnate poi a chi di diritto» . Già, chi ha veramente diritto? Il paradosso, nota Andriola, è che a difendere la causa dei Savoia e il loro diritto a riavere i gioielli di casa, fu il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, monarchico come il suo predecessore, Enrico de Nicola (uno dei paradossi della nostra repubblica: ebbe i primi due presidenti monarchici…). Einaudi usò una formula prudenziale “potrebbe ritenersi che le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale”. Ai Savoia risposero invece con un secco no due governatori della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, divenuto poi anch’egli Capo dello Stato, e Mario Draghi. Fu perfino negata la richiesta di fotografare i gioielli di Casa Savoia, da parte di Maria Gabriella per farne un libro. Peraltro, il tesoro fu fatto valutare da due gioiellieri famosi, Gianni Bulgari e Roberto Vespasiani, e il loro responso tecnico svalutò i gioielli per la loro foggia antiquata; ma il valore storico, antiquario e simbolico resta intatto. L’arco su cui sembrano attestarsi le valutazioni è molto largo: dai 30 ai 300milioni di euro.
Il tempo è galantuomo, e dopo 56 anni di esilio, fu ammesso il rientro dei Savoia maschi in Italia, interdetto in quelle norme non a caso definite transitorie. L’amara sorpresa per chi aveva per decenni perorato la causa del rientro dei Savoia in Italia, fu che quando fu concessa la possibilità, Vittorio Emanuele IV e la sua famiglia restarono residenti in Svizzera, a Ginevra, e d’estate in Corsica, a Cavallo; ebbero il diritto di rientrare ma vi rientrarono solo da turisti occasionali, per eventi o in barca. Ora l’erede Emanuele Filiberto ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell’Uomo ed estenderà la richiesta di riavere anche alcuni immobili. Non abbiamo competenza giuridica per entrare nel merito della controversia; ma è evidente che si tratta ormai di un contenzioso che investe una mera questione privata e patrimoniale, se non venale: l’erede vorrebbe usufruire dei beni della sua Casata sostenendo che appunto appartengano alla Famiglia e non al Regno poi tramutato in Repubblica. Forse, l’unica soluzione di buon senso, prima ancora che giuridica, sarebbe salomonica: distinguere tra beni che restano allo Stato e beni che tornano alla famiglia Savoia. O con un’ulteriore mediazione, disponendo che siano esposti e custoditi in qualche luogo a perenne memoria di una storia e di una dinastia che in fondo regnò sull’Italia in un arco di tempo piuttosto breve, pari alla vita di un uomo: ottantasei anni. Una volta notai che mio nonno, classe 1859, era nato sotto i Borbone, prima che nascesse lo Stato Unitario sotto la Corona dei Savoia. Se fosse morto a ottantasette anni, dopo il fatidico 2 giugno del 1946, avremmo potuto dire che non era nato né morto sotto i Savoia. E questo rende bene l’idea che transitorie non furono solo le norme applicate ai Savoia (e al regime fascista) ma transitorio fu quel regno, soprattutto se paragonato a quello più longevo degli Asburgo a Nord, dei Borboni al Sud, e di altre dinastie in altre città d’Italia. Una Monarchia passeggera anche se in quell’arco così breve, avemmo il Risorgimento e l’Unità d’Italia, le guerre coloniali, il regime fascista, l’Impero, due guerre mondiali. Regno breve ma intenso.

  Marcello Veneziani

Abbiamo bisogno di veri conservatori.

 

 

Ma c’è ancora da qualche parte un pensatore veramente conservatore o dobbiamo ormai ricordare solo i grandi del passato che non ci sono più? Dopo la morte di Roger Scruton e quella più recente di Alasdair McIntyre, considerati come gli ultimi dei mohicani, sembra che i conservatori, coerentemente con la loro indole, siano ormai solo un ricordo del passato. Si, sul piano politico c’è ancora un partito conservatore in Inghilterra e c’è un raggruppamento conservatore nel Parlamento europeo, ma se cerchi autori di riferimento, una linea di pensiero a cui si ispirano, brancoli nel buio, tra effimeri placebo e vaghi slogan. Dalla vicina Francia sono arrivati in questi ultimi mesi tre pamphlet di stampo conservatore, di tre autori ormai oltre i settant’anni e lontani dall’impegno politico. La prima è Chantal Delsol, scrittrice e filosofa parigina d’ispirazione cristiana, accademica, editorialista del Figaro, che ha recentemente pubblicato da Cantagalli Il crepuscolo dell’universale; un saggio che critica la deviazione del cristianesimo in religione umanitaria, della persona in individualismo sradicato e dell’universalità in globalitarismo. In opposizione a questa tendenza Delsol vede profilarsi nel mondo il ritorno a una visione olistica, comunitaria, organica, in cui il valore del tutto è superiore a quello dei singoli individui. Intanto, nota, la modernità invecchia male, l’Europa diventa come previde Dostoevskij “una necropoli”, l’Occidente vive l’ebbrezza per la cancellazione del passato e delle identità; al posto delle nazioni tra non molto ci saranno solo i marchi di alcune aziende, la Coca Cola, Microsoft e gli altri giganti del web, Nike e Jonny Walker.
Pascal Bruckner, saggista e polemista, da anni polemizza con lo spirito di autodenigrazione dell’Occidente nichilista e progressista, che si vergogna della sua civiltà e delle sue tradizioni e si autocondanna nel nome del razzismo, dell’islamofobia e di tutte le altre ben note fobie di cui si auto-accusa. L’ultimo suo pamphlet, Povero me. Quando le vittime sono i nuovi eroi (tradotto da Guanda) è una critica serrata del vittimismo, la nuova ideologia che ha preso il posto dell’edonismo e dell’ottimismo progressista e che veicola risentimento e spirito di vendetta. Mali antichi, un tempo giustificati dall’odio di classe e oggi invece da questo vittimismo piangente, questuante e risarcitorio.
Il nome di Bruckner in Francia è spesso associato a quello di un filosofo conservatore, Alain Fienkelkraut, ebreo di origine polacca e autore di molti saggi divergenti rispetto al mainstream e al progressismo dominante. Ora è uscito Pescatore di perle, edito da Feltrinelli, un pamphlet schiettamente conservatore, polemico contro la barbarie dello sradicamento, nemica di ogni eccellenza e di ogni legame identitario. Fienkelkraut difende coraggiosamente un outsider cancellato dalla cultura dominante, Renaud Camus, fino a ieri riconosciuto come uno dei più importanti scrittori di lingua francese; ma da quando ha denunciato il pericolo della Grande Sostituzione, a causa dei flussi migratori e della deculturazione di massa, è considerato quasi un eversivo, comunque un autore da silenzare. Anche Fienkelkraut come Bruckner, sottolinea sulla scia di Hannah Arendt la malattia dell’uomo contemporaneo: il risentimento verso la vita, la realtà, la natura, verso tutto ciò che ci è dato. Il contrario di un conservatore, che invece difende l’essere in quanto tale e accoglie il proprio destino (amor fati). A suo parere il trans è la figura emblematica del nostro tempo, colui che sostituisce l’essere con l’io voglio, che rifiuta “gli arresti domiciliari” in un’identità, e vuole abolire il fato, la natura, la realtà. Conclude il suo libro con un prontuario di riflessioni di un conservatore che non teme l’accusa di retrotopia (Bauman) e non si vergogna di ritenere migliori molte cose del passato rispetto a quelle presenti. Per esempio, cogliendo fior da fiore: “il mondo reale era meglio dello schermo totale”, “L’uniforme era meglio dell’uniformità”, “Le mucche, le galline e i maiali vivevano meglio che negli allevamenti intensivi”, “i paesaggi erano migliori prima delle pale eoliche”, “Il passato era migliore quando veniva studiato e non incriminato”, “Il presente era migliore quando non parlava da solo”, “Il progresso era migliore quando non era un processo automatico”, “L’università era migliore prima del fanatismo woke”, “La nostalgia era migliore prima della sua criminalizzazione”, “Essere in lutto era meglio che elaborare il lutto”, “L’intimità era migliore prima che si riversasse su Facebook o su Instagram”, “Città, teatri, musei, luoghi di culto erano migliori prima della McDonaldizzazione universale”, “Gli occhi vedevano meglio quando c’erano i poeti”. E la citazione finale di Holderlin: “Molto però è da conservare. È necessaria la fedeltà”. Che fa il paio con una citazione iniziale da Milan Kundera: “Europeo: colui che ha nostalgia dell’Europa”. Come dire che l’UE non è Europa, ma la sua caricatura svuotata di senso. Infine la confessione di uomo all’antica: “abitando il mondo di un tempo, ho scritto a penna”. E all’ecologista che si chiede: “Che mondo lasceremo ai nostri figli?”, egli replica con un’altra domanda: “A quali figli lasceremo il mondo?”.
Voi direte che si tratta di pur pregevoli lamenti di un vecchio che rimpiange il passato e vive ormai di ricordi e di rancori: è questa l‘essenza del conservatore? No, semmai quella è l’indole, l’intima tendenza del suo carattere, soprattutto quando la sua vita è nella fase conclusiva; ma quando pensa, il conservatore pratica l’arte preziosa della comparazione e della compensazione e lo fa con lucido realismo prima che con rimpianto: paragona le epoche, nota le differenze e dopo aver sottratto il passato all’obbligo di attenersi al presente, sottrae il futuro all’obbligo di adeguarsi al presente. Per difendere il passato dagli artigli dell’attualità, finisce col difendere il futuro dalla maledizione di proseguire automaticamente le tendenze presenti.
Certo, una società equilibrata ha bisogno sia di sani principi conservatori che di sani precetti innovatori. Se il verbo nobile del conservatore è salvare, il verbo nobile del progressista è migliorare. Abbiamo bisogno di ambedue. Invece la malattia del primo è la paura del futuro e dell’ignoto, mentre la malattia dell’altro è l’odio del passato e di ciò che preesiste. Oggi le due malattie si sono coalizzate e fuse, sicché l’atteggiamento prevalente è la paura del futuro congiunta all’odio del passato. Abbiamo smesso di gioire sia per ciò che nasce che per ciò che perdura. Eppure in una società armoniosa la tensione verso il passato e verso il futuro sono come sistole e diastole del cuore, una trae forza dall’altra. Chi ben conserva può progredire bene e viceversa. Se l’idea del progresso è precipitata nel nostro tempo che teme il futuro con angoscia, l’idea conservatrice viene condannata come un’imperdonabile ottusità di chi vive col retrovisore. E invece in un’epoca malata di rapidità, cancellazione e sradicamento abbiamo bisogno di una sensibilità conservatrice. Uno scrittore che non era un conservatore, Albert Camus, diceva che ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo; ma a noi tocca un compito più grande: “impedire che il mondo si distrugga”. Mettere in salvo, la missione del conservatore.

 Marcello Veneziani

Crepet: “Io penso che le persone gentili siano persone migliori”.

Crepet: “Io penso che le persone gentili siano persone migliori“, per questo educare alla gentilezza è la sfida più importante di oggi. In un tempo in cui si premiano cinismo e arroganza, la gentilezza rischia di sembrare debolezza. Eppure è il primo vero atto educativo, dentro la scuola e dentro le famiglie…

“Sei sempre gentilissimo”, mi è stato detto. Una frase semplice, forse detta per cortesia, ma che mi ha fatto riflettere. Perché oggi la gentilezza, che dovrebbe essere normale, viene spesso percepita come qualcosa di raro. Viviamo in un tempo in cui chi urla viene scambiato per deciso, chi è freddo per efficiente, chi è cinico per intelligente. E invece, tra tutte le qualità umane, la gentilezza è forse la più importante, e la più rivoluzionaria. La gentilezza non è debolezza. Non è buonismo. È ascolto, è rispetto, è cura. È il modo in cui ci rivolgiamo agli altri, è il tono che scegliamo, è la capacità di non ferire quando potremmo. È saper dire “grazie”, “scusa”, “come stai?” con sincerità. È presenza, è attenzione, è umanità.  Eppure, oggi, ci siamo abituati all’opposto. In molte famiglie si è smesso di insegnare la gentilezza. Nella scuola, si parla tanto di competenze e valutazioni, ma troppo poco di relazioni. E allora accade che si tolleri l’insulto, si accetti l’arroganza, si premi la prepotenza, perché “nella vita bisogna farsi valere”. Come se la gentilezza fosse un ostacolo, invece che una forza educativa. Ma educare alla gentilezza non è una debolezza: è un atto di cura profonda, soprattutto verso chi, crescendo, non ha ancora imparato a gestire le proprie emozioni. Un bambino che non è educato alla gentilezza non imparerà mai davvero a stare con gli altri. Ecco perché essere gentili è, prima di tutto, una responsabilità degli adulti.  La famiglia è il primo luogo in cui si impara (o non si impara) la gentilezza. Non servono grandi discorsi. Bastano i piccoli gesti: uno sguardo, un tono pacato, una parola detta con delicatezza anche quando si è stanchi o arrabbiati. Perché il genitore che grida sempre, che comanda senza dialogare, non sta formando un bambino forte, ma un bambino spaventato. E un bambino spaventato sarà un adulto insicuro.

Lo stesso vale per la scuola. Una scuola che ignora la gentilezza è una scuola che rischia di diventare fredda, tecnica, disumanizzante. E invece, educare è molto più che insegnare nozioni. È aiutare un ragazzo a diventare consapevole degli altri, a cooperare, a non ridere del dolore altrui, a saper chiedere scusa, a saper accogliere. Il vero successo educativo non è un ragazzo perfetto nei voti, ma un ragazzo che sa prendersi cura . A ricordarcelo, con forza, è anche Paolo Crepet, che in un’intervista ha detto: “Io penso che le persone gentili siano persone migliori. Uno che sbraita, che urla, non dà il meglio di sé. Io ho conosciuto persone di grandissima intelligenza, a volte anche capaci di grandi discussioni, ma non era gente che avrebbe preso un fucile e ti avrebbe ammazzato. Quindi, la genialità in qualche modo ha a che fare con la costruzione, non con la distruzione.”

Ecco il punto: la vera intelligenza non ha bisogno di ferire. La vera forza non si impone, ma si offre. Le persone più capaci non sono quelle che distruggono, ma quelle che costruiscono, ogni giorno, nelle parole, nei gesti, nelle relazioni.Abbiamo bisogno di gentilezza. Non quella di facciata, ma quella radicata nella consapevolezza che ogni essere umano merita rispetto, ascolto, attenzione. La gentilezza non è solo una virtù: è ciò che ci tiene umani. Per questo, educare alla gentilezza è oggi il compito più urgente. Perché un bambino non educato alla gentilezza sarà un adulto ferito, confuso, in lotta col mondo. Invece, un bambino cresciuto nella gentilezza sarà un adulto capace di fare la differenza. Per sé, per gli altri, per il mondo. In queste ore, mentre questo articolo viene letto e condiviso da migliaia di persone, torna una domanda fondamentale: stiamo davvero educando i nostri figli alla gentilezza, o ci stiamo arrendendo a un modello urlato, freddo, competitivo? Ripartire dalla gentilezza è forse l’unico modo per restare umani.
di  La Redazione di__A Scuola  oggi

 

elefante

Diserbo o biodiversità sana?

 

 

Giorni soleggiati, e la vita è facile… se sei un giovane Mourning Dove con il tuo genitore oppure un coniglietto  bambino che ha voglia di  erba fresca gustosa e profumata, fuori  dal diserbo  che  gli esseri umani praticano sistematicamente per avere un giardino perfetto, ma solo per i loro occhi,  che non  vedranno mai questi meravigliosi spettacoli della natura vera.

Salviamo i ricordi di un sud sparito…

 

 

“C’era una volta il sud” racconta, come nelle fiabe, un’epoca che non è più la nostra: il sud della civiltà contadina e delle famiglie numerose, il sud devoto e superstizioso, arcaico e “fatigatore”, il sud delle processioni, dei matrimoni infiniti, dei funerali accorati, del lutto prolungato, della vita di campagna, della vita ai bordi del mare, dei circoli, delle sale da barba o dello struscio di paese. Il sud comunitario, animato e taciturno, dei lunghi silenzi e delle larghe conversazioni. Mondi spariti, o in via di scomparsa, di cui cerchiamo di mettere in salvo la memoria e le sue ultime tracce, prima che cali il silenzio, la notte o l’oblio. Il movente di quest’opera è duplice: capire quanta vita c’è dentro una fotografia, in quella gente, in quel tempo, in quelle facce che non ci sono più e capire cosa avviene dentro di noi quando vediamo, rivediamo e salviamo una foto del passato; quali effetti e affetti suscita un’immagine. Una foto è anche un segno di riconoscimento e di riconoscenza verso il passato. Il sud è il mondo di ieri per eccellenza, l’infanzia del mondo, la provincia dell’universo; è la nostra antichità, che a volte purtroppo è solo arretratezza se non età primitiva, breve è il passaggio dall’antico all’antiquato; l’album fotografico è la terra dei sentimenti, il luogo d’ombre e di luce della nostalgia, la casa dei miti stavolta nella loro riduzione domestica e familiare. Nella fotografia ritroviamo la geografia poetica del meridione. Il viaggio fotografico che abbiamo compiuto è in bianco e nero, e questo magari stride col solare e colorito meridione, che esprime luce e vivace policromia. In compenso il bianco e nero ritrae volti che sembrano anime, caratteri, biografie, forme interiori temprate dalla vita. Il bianco e nero sembra quasi una radiografia profonda, anche delle sue superfici. E dona distanza magica al tempo perduto. Il bianco e nero ha una potenza evocativa della luce e della notte di cui la foto a colori è solo una pallida, banale rappresentazione.

Il “c’era una volta” vale anche per la fotografia a cui dedico alcune riflessioni in conclusione del libro: che ne è della foto nell’epoca del digitale, del selfie, della moltiplicazione all’infinito di immagini? Tutti fotografi, nessun fotografo. Troppe immagini nessun ricordo.

In questo viaggio non ci sono facce famose ed eventi storici. È la storia impersonale e corale di un’epoca attraverso i suoi anonimi abitanti, la vita della gente comune, la quotidianità di un mondo. L’intento è mettere in salvo i volti di persone care o ignote, preservare il ricordo di come erano.

“Quando saremo lontani da questo piccolo paese in cui siamo nati e viviamo, quando finalmente ci sentiremo nascere dentro amore e nostalgia per le cose che oggi ci circondano e mortalmente ci annoiano (…) quello sarà veramente il nostro paese: perché la lontananza darà dolci cadenze alla noia di oggi e all’angustia; e diventerà un po’ amore quel che ora è insofferenza e reazione” Così scrive Leonardo Sciascia in Fuoco nel mare. È l’amore retroattivo, nostalgico, postumo, di chi ama ormai solo a distanza e riconosce da lontano quel che non riconosceva da dentro e da vicino. Riflessione che combacia alla perfezione seppure in direzione inversa con quella più nota di Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. (La luna e i falò). Hai bisogno di un luogo di partenza, per abbandonarlo e poi ricordarlo come la tua origine, il punto fermo da cui ti sei allontanato. Sciascia e Pavese, uno scrittore del sud, uno scrittore del nord, ma legati da un doppio filo: la provincia, col suo mondo piccolo, e la campagna, il legame carnale con la terra, quasi una parte del proprio corpo. In entrambi la lontananza mitizza, la distanza accresce la magia di un legame, altrimenti vissuto sul posto con una certa insofferenza e tanta voglia di partire.

Il bambino che cresceva nel paese, almeno fino al boom economico, che al sud arrivò in ritardo, anzi in differita, abitava in realtà tre mondi reali: conosceva il paese – la piazza, il corso, le case, i negozi, i paesani – ma conosceva pure la campagna, gli animali, la civiltà contadina, fino a pochi decenni fa prevalente e contigua al paese e interattiva con il borgo; e infine, nei paesi rivieraschi, conosceva il mare a due passi da casa, l’universo marino, i pesci, i ricci, le cozze, i polpi, le nasse, le reti, i bagni nel mare, le nuotate. E la stessa cosa vale per chi aveva le montagne a due passi da casa.

Ma non solo. Il paesano conosceva più mondi per la semplice ragione che le numerose famiglie – allargate, allungate, aperte ad amici, compari e conoscenti – ti mettevano in confronto permanente con mondi diversi dal tuo: i vecchi, gli adulti, i bambini. C’era una connessione verticale tra generazioni che oggi è molto più difficile, stentata. Poi l’esperienza del paese era multisensoriale. Non c’era solo la parola e la vista, c’era anche l’olfatto, tra odori e puzze, il gusto forte dei sapori veraci; il tatto, ovvero il contatto di prossimità, il toccarsi oltre al parlarsi, molto in uso tra le genti del sud, il fiatarsi addosso. Le case in paese erano centri fiorenti di vita; la gente entrava e usciva di continuo, si chiamavano dai balconi, dalle finestre e dalle strade, bussavano all’improvviso, venivano a trovarti senza preannunciarsi e senza appuntamenti, non programmavi né prenotavi le visite. Famiglie numerose comportavano sciami generazionali in transito continuo nelle proprie case. Società aperte, altro che chiuse.

Insomma il mondo del paese era più ricco, vario e movimentato di quello telematico e internettaro di oggi. C’era più umanità e calore di vita. Anzi la vita nella sua semplicità sembrava nascere, crescere e finire spontanea; e c’era la vita gratis, che vuol dire per grazia, dove i beni primari sono accessibili a portata di mano, senza comprare, vendere, andare in negozio. Nessuna voglia di tornare indietro, in quel mondo c’era pure miseria, durezza, asprezza, disagi e vera povertà; comunque non sarebbe possibile e noi non saremmo più capaci di viverci. Però lasciateci il gusto dolceamaro di ricordarcene, con un velo innocuo di nostalgia.

Marcello Veneziani

L’abitudine giapponese che semplifica la vita e aiuta a ridurre lo stress quotidiano…

Si chiama Metodo Lean ed è una strategia per “snellire” e rendere più facili le attività di ogni giorno. Evitando sprechi di tempo e di energia. A tutto vantaggio del benessere ,riducendo il carico di stress. Ecco come funziona.

Qualche tempo fa, una mia amica mi svelato il suo modo di ridurre il tempo trascorso sui social media, in particolare Instagram. Ogni giorno, installa l’applicazione, la utilizza per un determinato lasso di tempo, quindi la disinstalla. «I social network generano in me una certa dipendenza, e in questo modo riesco a controllarla», mi ha spiegato a fronte della mia perplessità. «Il tempo che impiego a installare e disinstallare l’applicazione è comunque minore di quello che dedicherei a fare scrolling se tenessi Instagram sempre accessibile sul mio smartphone». Sono rimasta colpita da questa sua tecnica per contrastare una dipendenza che le sottraeva tempo e aumentava il carico di stress, dove con “stress” intendo quello che si prova quando si ha la sensazione di aver passato il proprio tempo libero a guardare una sequenza di vite irreali.
Il segreto della produttività giapponese

La cosa mi ha riportato alla mente una delle “abitudine” che l’ideatore di questo concetto, James Clear, spiega nel suo libro bestseller dall’eloquente titolo di Atomic habits. Piccole abitudini per grandi cambiamenti [edito in Italia da DeAgostini]. Clear insiste sul fatto che la chiave per realizzare i propri propositi senza stress è quella di renderli, tra le altre cose, facili e, nei limiti del possibile, piacevoli. E fa riferimento a una pratica nota come “metodo lean” (o “produttività snella”), nata in Giappone alla fine degli anni 40, quando le aziende nipponiche riorganizzarono completamente le loro catene di montaggio in modo da individuare gli errori prima che si verificassero (e non dopo), seguendo un modello produttivo privo di qualsiasi genere di spreco che potesse rendere il processo meno fluido e compromettere il risultato finale. Questo includeva anche la riprogettazione dello spazio lavorativo, che doveva essere tale da evitare “sprechi di movimento”.  Grazie a questa strategia volta alla rimozione di ogni genere di barriera – non solo quelle fisiche, ma anche quelle che Clear chiama “punti di tensione” o “di resistenza” –, le aziende giapponesi sono riuscite a diventare molto più produttive, risparmiando tempo e denaro e innalzando persino la qualità del risultato finale. Applicato alla vita quotidiana, questo metodo può essere utilizzato per eliminare le distrazioni, come ha fatto l’amica di cui ho parlato all’inizio.

Come applicare la “produttività snella” all’ambito quotidiano

Questa tecnica di ottimizzazione ha applicazioni non solo commerciali, ma anche domestiche, in grado di semplificarci la vita. Basta cercare su Google alla voce “tecniche di produttività snella” per imbattersi in vari esperti che spiegano come mettere in pratica queste strategie per ridurre lo stress. Ad esempio, Brion Hurley, guru dell’ottimizzazione a livello di business, conferma che l’eliminazione delle barriere o dei punti di tensione può risultare utile per evitare di procrastinare, per risparmiare tempo e ridurre la frustrazione. Si tratta di accorgimenti estremamente banali, al limite dell’ovvio, come rimuovere dal pavimento gli oggetti che sono di ostacolo quando si passa l’aspirapolvere o riporre secondo un ordine logico gli strumenti e i prodotti che si utilizzano per la pulizia della casa, ad esempio suddividendoli per categorie, in modo che non si debba perdere tempo a cercarli.
Parola d’ordine: facilitare.  Da parte sua, Clear sottolinea l’importanza di non imporsi titanici sforzi di volontà per svolgere con costanza una certa attività, ma piuttosto di rendere quest’ultima più accessibile. «Per esempio, quando si decide dove praticare una nuova attività, è opportuno scegliere un luogo situato lungo la strada che si percorre quotidianamente», dice. «È più facile costruire un’abitudine quando questa si inserisce nel flusso della vita di ogni giorno. Così, allenarsi risulta meno gravoso se la palestra si trova lungo il percorso che seguite ogni giorno per andare al lavoro: eviterete di dover fare deviazioni, risparmiando tempo e stress».  La stessa logica può essere applicata all’ordine e alla pulizia della casa: si tratta di riorganizzare l’ambiente domestico in modo da rendere questi compiti più facili, eliminando le “resistenze” di cui parla Clear. «Azzerando quei punti di tensione che causano uno spreco di tempo ed energia, possiamo ottenere di più con un minore sforzo, il che comporta anche un alleggerimento del carico cognitivo». In breve, l’abitudine giapponese è quella che consente di rendere più facile il percorso per raggiungere un obiettivo, riducendo in tal modo lo stress quotidiano.

Eliminare i punti di tensione ogni giorno: qualche consiglio

Tenete in bella vista in frigorifero gli alimenti più sani da consumare quando avete fame. Secondo la Harvard Health Publishing, uno studio condotto dalla Cornell University ha evidenziato che chi conserva dolci e bevande gassate a portata di mano sul bancone della cucina ingrassa di 9-11 chili in più rispetto a chi li tiene lontani dalla vista.
Spegnete il telefono o mettetelo in “modalità aereo” quando dovete concentrarvi al lavoro. L’esperta di neuroscienze Ana Ibáñez usa l’espressione “bolle di concentrazione” per riferirsi alle fasi di lavoro senza interruzioni in un ambiente privo di distrazioni.
Fate sport quando vi alzate, per eliminare qualsiasi ostacolo o resistenza durante il giorno, ma la sera prima preparate gli indumenti da indossare.
Se volete bere più acqua durante la giornata lavorativa, riempite una bottiglia o una borraccia e tenetela sulla scrivania. In questo modo eviterete sprechi di movimento e l’insorgere di eventuali fattori di resistenza.
Quando fate il bucato, riservate una corda dello stendibiancheria a ciascun tipo di indumento e lavate i calzini appaiandoli con una molletta, in modo da non dover perdere tempo ad accoppiarli in seguito.
Prima di praticare la vostra routine di cura del viso, collocate su un piano di appoggio i prodotti che applicherete, disponendoli già nell’ordine corretto. In questo modo eviterete di dover rovistare negli armadietti e vi risparmierete lo stress di non riuscire a trovare qualcosa, per non parlare del rischio di saltare qualche passaggio della routine. Si tratta di facilitare e snellire l’esecuzione di questo rituale, aumentando la sensazione di piacere che dovrebbe derivarne.

 Ana Morales

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