Shu Lam, ricercatrice di 25 anni, scopre un modo per sconfiggere i super batteri senza ricorrere agli antibiotici

I superbugs, batteri che hanno sviluppato una resistenza agli antibiotici, sono da sempre un grattacapo per gli scienziati, oltre che una minaccia per la salute degli esseri umani .Ma Shu Lam, una giovane ricercatrice di 25 anni, dottoranda alla University of Melbourne in Australia, potrebbe aver trovato finalmente il modo di combatterli senza ricorrere agli antibiotici stessi. La sua ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Microbiology, a detta degli esperti, “potrebbe cambiare il volto della medicina moderna”.

Il nuovo approccio è stato testato soltanto sui topi, ma potrebbe avere effetti positivi anche sull’uomo. Shu Lam ha sviluppato un polimero in grado di uccidere sei diversi ceppi di batteri resistenti ai farmaci, senza ricorrere agli antibiotici, ma semplicemente facendo a pezzi la loro parete cellulare.

“Abbiamo scoperto che questo tipo di polimeri è in grado di individuare e prendere di mira i batteri e di ucciderli in diversi modi”, ha spiegato al Telegraph. “Un metodo consiste nello spazzare via la loro parete cellulare – ha aggiunto -. Ciò crea un forte stress nei batteri e può indurli anche a distruggersi da soli”.

I batteri resistenti agli antibiotici uccidono circa 700mila persone ogni anno. Entro il 2050, secondo uno studio recente, saranno almeno 10 milioni gli esseri umani uccisi da questi “superbugs”. La soluzione offerta da Shu Lam è interessante, ma non è di certo definitiva: la sperimentazione , portata avanti solo sui topi , dovrà capire come reagiranno le altre specie. Inoltre, i polimeri si sono dimostrati efficaci su sei ceppi di batteri resistenti ai farmaci e su un tipo di super batterio, quindi bisognerà continuare ad indagare. Al momento le macromolecole messe a punto dalla ricercatrice sono riuscite ad individuare e a distruggere i loro obiettivi e, generazione dopo generazione, i “superbugs” non hanno sviluppato resistenza ai polimeri. A Shu Lam, intanto, va il merito di aver percorso una nuova strada e di aver provato a combatterli non con un antibiotico innovativo ma con un metodo alternativo.

Bollingen (Svizzera) 27 settembre 1913 – Quando Carl Gustav Jung piangeva prima di diventare se stesso

Mi è piaciuto molto quest ‘articolo. Ci viene raccontato un momento della vita di Jung, dove questo medico scienziato, al quale si deve la nascita della psicanalisi, insieme a Freud, ci viene presentato con tutte le debolezze, le paure, le angoscie degli uomini. Evidentemente i suoi tormenti l’hanno aiutato in quegli studi, che oggi sono a disposizione di chiunque abbisogni di aiuto nel conoscere se stesso . L’autore è Cesare Catà, blogger di HP.

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Perché, nella modesta casa canonica a Kleinhüningen, dove suo marito è pastore, Emilie Preiswerk, sposata Jung, volga improvvisamente lo sguardo altrove dai suoi ricami e scoppi a piangere a dirotto, in un qualsiasi martedì pomeriggio del 1880, non è chiaro; anzi, al suo bimbo di cinque anni, Carl Gustav – che è l’unico in tutto il cosmo ad accorgersi dello zampillo assurdo di quelle lacrime – si scatena un terrore dentro al cuore quando la vede. Il bambino guarda la madre intensamente, senza dire niente, indagando con i piccoli occhi chiari la stanza, per capire cosa sia successo, chi le abbia fatto così male. Ma non c’è nulla: nessuno. Non ha radice, quel dolore. C’è solo un vasto silenzio nell’aria, che detona in un’eco di ansie mute. Quando Emilie riconosce la paura negli occhi del figlio, si asciuga le lacrime con il grande fazzoletto rosa che tiene sempre in tasca e gli sorride, come a dirgli: “non è niente, mamma sta bene”. Anche Carl Gustav sorride, d’istinto, di rimando, ma il terrore provato gli resta dentro. Quel terrore che non capiva il soffrire della creatura che più amava. Torna ai suoi giochi solitari con un’angoscia nuova.

Anche se è un medico, un filosofo, impegnato a Burghozli in uno dei maggiori centri di cura psichiatrica svizzera, lo sguardo di Carl Gustav Jung, alla fine dell’estate del 1904, non è molto diverso quando una diciannovenne strillante, di nome Sabine Spielrein, varca le porte del sanatorio. Geme, ride, urla come se fosse penetrata da lame, si lamenta e dice cose apparentemente senza senso. Il dottor Jung la prende in cura.

Seduta nella stanza bianca, contorta da ondate di tic che le sfigurano il volto, il dottore la percepisce piena di un’energia che non comprende appieno. È come se le sue strilla provenissero da una camera di tortura chiusa dentro la sua mente, di cui si è perduta la chiave. Ora lui vuole ritrovare quella chiave.

Poche settimane prima, nel suo taccuino, Jung aveva scritto di un immaginario caso clinico denominato “Sabine S.”. Ed ora, eccola lì: Sabine Spielrein. Sembrerebbe una incredibile coincidenza. Ma il giovane dottore non crede nelle coincidenze. Crede che le cose accadano dispiegandosi dalla nostra anima, come segni di un libro che dobbiamo imparare a decifrare. Crede che tutto accada con significato. Se ora quella donna è lì, è perché il destino gli sta parlando: Carl Gustav Jung ne è certo. Lo dice anche a sua moglie Emma; e le confida che, stavolta, vuole abbandonare le cure inefficaci della psichiatria contemporanea, per sperimentare un nuovo metodo, creato da un suo collega viennese, un tipo che lui non ha mai visto, che alcuni considerano un genio, altri un ciarlatano. Un tipo di nome Sigmund Freud. Quello che Jung non racconta a sua moglie è il fremito alle gambe che sente quando Sabine lo guarda, nei suoi rari sprazzi di lucidità non assediata da incubi. La trova bellissima come una tempesta. In lei, intravede pianeti perduti della propria interiorità. Come se Sabine fosse venuta a lui, per indicargli chi potrebbe ancora essere. Come se lei, mentre lui la cura, lo stesse curando.

I risultati medici sono straordinari: nel 1911, Sabine Spielrein somiglia alla ginnasiale promettente che era stata. Sembra uscita dall’inferno in cui era piombata durante le sue crisi, sembra avere un’armatura nuova. Si laurea brillantemente in medicina, vuole diventare psicanalista. Jung l’ha curata. L’ha curata con il metodo di Freud.

E, proprio per raccontargli di questo straordinario successo clinico, Jung lo incontra. I due parlano incessantemente, dal pranzo al thé, alla cena, al whiskey, per quattordici ore. Sarà un dialogo che durerà anni, un corpo a corpo tra due menti straordinarie. Freud avrebbe riconosciuto nel giovane Jung il suo delfino, il suo erede; e lui, a sua volta, avrebbe trovato in Freud il proprio maestro. Prima della rottura insanabile tra i due, che avrebbe diviso in due anche la psicanalisi. Perché Jung era convinto che dovessero esserci altri cardini nell’universo, oltre la libido; che la sessualità non potesse spiegare tutta la mente umana, perché la psiche è piena di miti che le preesistono, che noi siamo chiamati a riconoscere; che la cura psicanalitica non consiste soltanto nel mostrare al paziente i traumi del suo passato, ma le sue potenzialità future. Ogni sintomo ha a che fare con un destino irrisolto. Si guarisce davvero solo quando comprendiamo chi siamo. L’inconscio è un fattore collettivo, in cui l’essere umano si trova ad abitare. Ma Freud era quanto mai distante dalla direzione che Jung, a pochi anni dal loro incontro folgorante, voleva imprimere alla psicanalisi.

La spaccatura tra loro è fortissima; lascia poche tracce dell’entusiasmo con il quale Jung aveva raccontato a Freud di quel caso clinico “zero”, di quella giovane ebrea russa dalla straordinaria intelligenza, nei progressi della quale il metodo freudiano poteva riconoscere la sua efficacia. Ciò che Jung, allora, non disse a Freud, fu come quella ragazza l’avesse rapito nel profondo; come lui, medico, avesse ceduto a una passione brutale e irrefrenabile. Lei fu ammaliata selvaggiamente da Jung, che le appariva divino come un eroe wagneriano, moderno Sigfrido che si univa a lei, bruna semitica, suo opposto alchemico, per la realizzazione di un’assoluta crasi mistica. Anche Jung rispose alle voci di quel richiamo erotico, karmico, atavico, esplorando i più reconditi confini della mente, quelli che si possono sfiorare solo quando si è completamente posseduti dall’amore.

Di tutto questo, Jung, a Freud, non avrebbe detto mai nulla. Ma quando la moglie di Jung si accorse di quanto stava accadendo, spedì una lettera anonima alla madre di Sabine denunciando il fatto. Lo scandalo fu pubblico, e raggiunse Freud. Che dapprima difese il suo allievo, per poi deprecarne gli atti, dopo il loro distacco.

Lei, guarita e innamorata, ora sognava una vita con il suo Sigfrido. Ma le ore delle giornate scarnificano la sostanza dei miti, e Jung tornò dalla moglie. Tornò dalla moglie come un uomo che avesse affrontato una catabasi; era un eroe sconfitto che, attraverso gli occhi di lei, aveva compreso quali abissi di terribilità si portava dentro. Tornava dalla moglie come un uomo distrutto. Cadde in una depressione profonda, per riprendersi dalla quale sarebbero occorsi anni. Ma da cui sarebbe riemerso come il più carismatico e geniale psicanalista del suo tempo.

Sabine, novella Arianna sedotta e abbandonata, intessé per il suo Jung-Teseo le nere vele del castigo. Seguì Freud e il suo metodo, rifiutando quello di Jung, e divenendo una delle più brillanti psicanaliste del Novecento, rivoluzionaria pedagogista, pioniera del metodo freudiano in Russia. Quegli orrori che aveva conosciuto da ragazza e da cui era evasa attraverso il supplizio dell’amore paradisiaco per il Dottor Jung, ora erano vinti. Ma il suo non era un destino di quiete. Dopo essersi legata in un matrimonio turbolento con il medico russo Pavel Šeftel’, da cui avrebbe avuto due figlie, dovette vedere i suoi tre fratelli ammazzati dalle purghe staliniane. Per poi morire lei stessa, insieme alle sue bambine, nel massacro di prigionieri ebrei perpetrato dai Nazisti nell’agosto del ’41.

Anni prima, il ventisettesimo giorno di settembre del 1913, mentre l’Europa stava per essere squartata dalla più grande delle guerre, e una terribile guerra interiore fustigava l’anima di Jung, perso e deragliato nella sua devastazione psichica – lei tornò a trovarlo. In uno strano pomeriggio di sole. Ora lei era un’amata donna incinta, un medico, una libera pensatrice. Sabine sembrava divenuta se stessa, mentre il dottor Jung pareva perduto nella lunga notte dei propri incubi. Ora, è come se i ruoli si fossero invertiti. Il dottore è paziente. Ma lei non può curarlo. Sono stati troppo vicini, perché ora possano essere altro che abissalmente distanti. Lei lo guarda intensamente. Lui scoppia in un pianto irrefrenabile, invincibile. Apparentemente, non ha radice quel dolore. Ma Sabine sa che non è così. Lei comprende esattamente la natura di quel pianto. Ne sa la scaturigine. Perché ha amato, ha sofferto come lui. Insieme a lui. Jung si toglie gli occhiali. Si mette il volto tra le mani. Sabine gli carezza dolcemente la nuca. Lui si tira su, con gli occhi chiari gonfi di lacrime. Lei lo bacia lungamente sulle labbra, e lo lascia solo di fronte al grande, silente lago della sua casa. In compagnia dei suoi incubi peggiori, nel suo inferno. È tremendo diventare se stesso.

Le mie albe, un calendario sulle colline della Langa…

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  Le mie albe. Amo questo momento della giornata, perchè è meraviglioso aprire gli occhi su un arcobaleno di colori, che , di minuto, in minuto,intinge il pennello su una tavolozza diversa. Finalmente ,con l’arrivo dell’autunno, stanno ritornando questi spettacoli, che, nuvole permettendo,si possono vedere senza alzarsi alle  quattro di notte. La finestra della mia casa, dalla quale mi affaccio ogni mattina, volge a levante, spazia dall’alto del poggio sulle colline della Langa, che di questo spettacolo sono il palcoscenico, dove il sole inizia ad esibirsi ogni giorno in un punto diverso, secondo la stagione, secondo il percorso più o meno lungo che deve percorrere nel cielo prima di tramontare dietro le Alpi.  Il mio calendario sono le albe che scorrono su queste colline da NE fino a SO.Ed è stupendo vedere la notte spegnere le stelle ad una ad una, inghiottite  da questo  momento dell’Aurora,  che lentamente tinge il cielo e le nuvole di mille colori, l’aria fresca diventa gelida, ti sferza  il viso incantato,la natura si sveglia col canto delle  allodole, gli alberi sbadigliano scuotendo le prime foglie ingiallite, l’erba incomincia ad illuminarsi,prima di vestire la tiara di brillanti,

Il conforto…la sicurezza in aiuto.

 

Oh il conforto, l’inesprimibile conforto di sentirsi sicuro con una persona: di non avere né da pensare i pensieri, né da misurare le parole, ma solo da elargirli.
Proprio come sono pula e grano insieme, sapendo che una mano fedele li prenderà e setaccerà, terrà quello che vale la pena di tenere e poi, con il fiato della gentilezza, soffierà via il resto.

 

 

Una pennellata di Danza nella Parigi bohémien…

2 A Parigi ,Le moulin de la Galette ,nel XIX secolo , (su di una collina, con ristorante, bar, sala e spazio all’aperto per il ballo) era assai più ampio dell’attuale e comprendeva al suo interno due vecchi mulini a vento: il Moulin Radet ed il più grande Moulin Blute-fin. Il luogo divenne famoso perché era assiduamente frequentato dai pittori che lavoravano a Parigi in quel periodo ,che va dalla seconda metà del XIX secolo ai 1primi decenni del XX secolo. Mi riferisco a Renoir, Toulouse -Lautrec, Van Gogh, Picasso, Utrillo ed anche Giovanni Boldrini per trovare il soggetto di un suo dipinto. Ho messo insieme alcuni dipinti nei quali si possono vedere le varie interpretazioni, che le pennellate di questi artisti hanno immortalato; feste più o meno popolari, stili, colori, pennellate diverse in quella ricerca continua dinuovo dall’ Impressionismo in poi.

 

 

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Le labbre conoscono il senso delle parole, si cercano per dire “ti amo”..

Tra le sue braccia io vivevo emozioni , che non conoscevo, le sue mani morbide, come seta, mi accarezzavano i capelli, il volto.   I suoi occhi continuavano a sorridere, percepivo una quiete grande, una dolcezza infinita in quegli occhi, che illuminavano il buio ,il mio cuore  martellava , non riuscivo a parlare, ascoltavo la sua voce che mi diceva cose senza senso per un uomo grande, che abbracciava una  ragazza e le proponeva una storia incredibile.Incredibile per me, che non capivo perchè volesse che io lo aspettassi, che  diventassi grande perchè potesse amarmi, insegnarmi ad amare. Cercava di rassicurarmi che non era un pazzo, ma che la sua era una scelta che aveva fatto,qualche giorno prima, incrociando il mio sguardo e mi proponeva di provarci. Quell’uomo non era uno sconosciuto, frequantava  i nostri stessi luoghi, era bellissimo, corteggiatissimo, poteva avere le donne che desiderava e  mi chiedeva di mettere alla prova il mio cuore, i miei sentimenti.   Incominciò a disegnarmi le labbra, sfiorandone i contorni, sorrideva ,quel gioco divertiva entrambi.
“Le labbra.. mi piacciono non solo perchè ci regalano i baci, ma perchè distinguono il senso delle parole. Dimmi “ti odio”, provai a ripetere quelle parole ,” vedi , nel pronunciarle, non si toccano, prova ora a dire il suo contrario” . Il gioco era iniziato,”ti amo” pronunciai e su quella “o” mi appoggiò un tenero bacio.
Non avevo ancora diciassette anni, da quella sera  non ci fu nessun altro..Tra le sue braccia io vivevo emozioni , che non conoscevo, le sue mani morbide, come seta, mi accarezzavano i capelli, il volto.   I suoi occhi continuavano a sorridere, percepivo una quiete grande, una dolcezza infinita in quegli occhi, che illuminavano il buio ,il mio cuore  martellava , non riuscivo a parlare, ascoltavo la sua voce che mi diceva cose senza senso per un uomo grande, che abbracciava una  ragazza e le proponeva una storia incredibile.Incredibile per me, che non capivo perchè volesse che io lo aspettassi, che  diventassi grande perchè potesse amarmi, insegnarmi ad amare. Cercava di rassicurarmi che non era un pazzo, ma che la sua era una scelta che aveva fatto,qualche giorno prima, incrociando il mio sguardo e mi proponeva di provarci. Quell’uomo non era uno sconosciuto, frequantava  i nostri stessi luoghi, era bellissimo, corteggiatissimo, poteva avere le donne che desiderava e  mi chiedeva di mettere alla prova il mio cuore, i miei sentimenti.   Incominciò a disegnarmi le labbra, sfiorandone i contorni, sorrideva ,quel gioco divertiva entrambi.
“Le labbra.. mi piacciono non solo perchè ci regalano i baci, ma perchè distinguono il senso delle parole. Dimmi “ti odio”, provai a ripetere quelle parole ,” vedi , nel pronunciarle, non si toccano, prova ora a dire il suo contrario” . Il gioco era iniziato,”ti amo” pronunciai e su quella “o” mi appoggiò un tenero bacio.
Non avevo ancora diciassette anni, da quella sera  non ci fu nessun altro..

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Non ci si abitua mai…

 

Può essere lontano da me
ma niente più me lo porterà via.
Nessuno potrà prendersi i miei ricordi,
la sua risata che mi risuona nelle orecchie,
il suo sorriso dolce e intrigante ,
l’immagine  che appare velocemente nella mia mente
e il calore della sua mano che prende la mia,
le sue braccia che mi  stringono fino a togliermi il respiro
.Niente e nessuno più come lui.
Non ci si abitua all’assenza delle persone che si amano.
Si impara a sopravvivere, ma è un’altra cosa.

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Una passeggiata nel mio tempo…

 Il Monviso, colla cima che sfoggia la prima spruzzata di neve è là a fare da sfondo alla mia vita  da sempre. La luce di oggi è meravigliosa,gli alberi del  viale, che la riflettono nei mille colori delle foglie, che si stanno vestendo d’autunno, fiancheggiano ancora il viale, che  correva un tempo lungo le mura dell’antico convento benedettino, dove ho frequentato per otto anni le scuole complete delle suore .Questo era un ciclo scolastico, che integrava i normali corsi ministeriali con materie come cucito, rammendo, cucina, menage della casa, galateo, musica e pittura, al fine di educarci  come ragazze, signorine e poi giovani spose. Da tanto non venivo da queste parti,ed ora, che ci sono capitata , ho voglia di rifare quel viale, passo dopo passo, cercando le orme di un passato lontanissimo.  So che ora quel viale è stato accorciato, per far posto al recupero delle antiche mura, risalenti al 1100, che circondavano la mia città, quel borgo vecchio che ora è il centro antico sulla collina e si affaccia sugli spalti. Infatti,poco dopo un centinaio di metri ,il viale va restringendosi fino a perdersi sulla balconata in vetro a cavallo degli scavi di quel labirinto di mura diroccate, annerite e ricoperte di muschio sulle quali cammino come sospesa nel vuoto, con un senso di vertigine improvvisa, come se la terra che conoscevo, sulla quale avevo passeggiato, giocato da bambina fosse scomparsa ,all’improvviso,in un niente…mi appoggio per sentirmi sicura ad una vecchia porta del monastero. E’ ancora la stessa, solo la serratura è stata cementata.So cosa c’è dietro quella porta,il giardino della clausura,dove era proibito andare,ma che la monella che c’era in me, attraversava veloce ,di tanto in tanto,per fuggire a correre in libertà su questo viale.Per un attimo  torno in quel giardino, sento la mano di quella giovane novizia che mi afferra, mentre rientro di soppiatto,un pomeriggio qualunque , durante la pausa.
. Non esistono più suorine come quella, giovane, bella  come un fiore, occhi come il cielo azzurro, ieri come  oggi, che lei  con un dito mi indica al passaggio di aereo.  Ricordo le sue parole :” Starò zitta per questo, ma devi dirmi che uccelli sono  quei volatili, che ronzano giorno e notte sulle nostre teste. Dicono le sorelle che sono automobili del cielo e che le guidano uomini veri ,come sulla terra.  Ricordo che sentii il cuore sorridere  a quella richiesta ,mi alzai sulle punte per sussurrarle all’orecchio” aeroplani”, sorridendo felice per essere stata graziata e per aver restituito il sonno alla suorina .Oggi mentre cammino coll’impressione di cadere nel vuoto  sento forte il desiderio di poter aprire quella porta, entrare e non uscire più dalla clausura  ,per non vedere come il moderno  abbia stravolto quel mio mondo incantato ,che non sarà mai più com’era, nemmeno nei ricordi…

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You need

 

 

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You’ll need coffee shops and sunsets and road trips. Airplanes and passports and new songs and old songs, but people more than anything else. You will need other people and you will need to be that other person to someone else, a living breathing screaming invitation to believe better things.

Who looks outside, dreams; who looks inside, awakes
— Carl Jung