Addio a Joseph Ratzinger, che ha raggiunto DIO.

 

E’ morto oggi il Papa emerito Joseph Ratzinger, uno ,tra tutti quelli che hanno accompagnato la mia vita, da Pio XI a papa Francesco, che ho amato di più. E’ stato l’unico Papa, fin’ora, a lasciare il pontificato dimettendosi dall’incarico, il primo dell’era moderna dopo il gran rifiuto di Celestino V nel 1294. Papa Ratzinger era un grande teologo, i suoi studi sono lucidi e chiari approfondimenti degli insegnamenti divini, sicuramente avrebbe voluto che il suo pontificato fosse il vero e unico percorso pastorale come era stato quello indicato da Gesù a Pietro, del quale i Papi sono successori, rappresentanti di Dio in terra. La Chiesa, che ereditò dal grande Giovanni Paolo II, si rivelò essere per Lui un fardello insopportabile da gestire, gli scandali della pedofilia nascosta, come piaga della Chiesa, si aggiunse al troppo veloce approccio della chiesa ai cambiamenti epocali,che incominciavano a mettere in discussione tanti ,forse troppi principi morali del Cristianesimo,una chiesa, che perdeva già allora,come oggi ancora ,fedeli,anno dopo anno, travolti da una scelta di vita non condivisa dalla religione,che si imponeva cambiamenti per non morire soffocata da nuove etiche politiche, accettate da moltissimi,discusse da altri. Se aggiungiamo i problemi della Curia Romana dove si gioca meglio la politica e la finanza che l’insegnamento di Cristo, tutto questo deve avergli procurato malesseri fisici e spirituali tali da indurlo a rinunciare al pontificato. Sicuramente si è sentito troppo solo nel voler sostenere una fede tradizionalista, che ha preferito lasciare ad un altro Papa, il suo esatto contrario, un papa che si gioca tutto per far credere al mondo che la Chiesa cattolica sia ancora il centro del mondo, quando oggi le vere religioni sono quelle, che, nei secoli non hanno cambiato una virgola dei loro scritti, e i veri fedeli sono quelli, che, anche a discapito di permessi e liberazioni da certi obblighi, vivono la fede tradizionale. Conosciamo tutti quale sia stata l’importanza delle religioni per gli uomini, la panacea a tutti i mali del mondo, la giustificazione per la morte e per tutte le ingiustizie che si vivono sulla terra. Tuttavia gli enormi progressi della scienza,l’acculturamento in sempre maggior aumento giocano a sfavore delle religioni, per le quali io vedo un futuro di estrema libertà di scelta e pratica per le persone che vorranno viverle nella massima libertà e sicuramente con maggiore consapevolezza e convinzione. Tutte queste idee sulla religione mi sono giunte proprio leggendo Yoseph Ratzinger, che conosceva Dio, le sue intenzioni e il suo volere ,molto bene. Da parte mia porterò di Lui un meraviglioso ricordo.

Ratzinger

 

Seneca riscrive la felicità…

 

 

Caro Lucilio, che farai a Natale e Capodanno? Non vorrei molestarti con le mie lettere edificanti e rovinarti le noiose festività. (Si, ho detto noia, non ho detto gioia, per citare Franco Califano). Ora che siamo entrando nella fase acuta dei festeggiamenti, vorrei aggiornare la mia lettera sulla felicità. Vi scambierete una montagna di auguri di felicità, un rito superstizioso di massa che denota quanto primitiva sia la vostra modernità. Auguri de visu e soprattutto tramite quelle lettere nane che chiamate whatsapp, sms o lasciando messaggi vocali, sempre con quell’infernale aggeggio che mi sta rendendo superato l’epistolario. Non dire, caro Lucilio, che sono il solito pedante con le mie petulanti pergamene; ringrazia il cielo che non ho il telefonino, altrimenti ti tempesterei e non ti resterebbe che bloccare il contatto…

Dopo la feste tornerete tutti a casa dalla felicità e dall’infelicità e riprenderete l’abito ordinario della mediocrità. Le vacanze hanno il privilegio di alterare la normalità e di far venire fuori impetuoso e imperativo il desiderio di felicità; ma portano alla luce anche le sommerse infelicità, rivelano i dolori e le malinconie, scoprono le carenze e le orfanità. Gli assenti pesano più dei presenti. Così nelle vacanze si scatenano la felicità e l’infelicità, vanno a braccetto, si scambiano i posti e si mettono a ballare. Anche tu festeggerai alla grande, Lucilio, perché tu mi leggi e mi ami, non ne dubito; ma poi nella vita pratica te ne strafotti dei miei consigli e vivi come ti capita e vai dove ti porta il cuore, la panza e persino il membro vile, la cosiddetta mentula. Io, da classico, trascorrerò il passaggio d’anno in disparte, a riflettere sulla felicità e i suoi spot. Le mie lettere sulla felicità vanno ancora a ruba in vista delle festività. A duemila anni dalla prima edizione fa piacere vedersi in classifica dei sempreverdi, anche se si sente un po’ fregati nei diritti d’autore, che non riscuoto da millenni. Va bene che per me vengono prima i doveri dei diritti; ma sono stoico, mica fesso.

E poi ci si sente presi per le terga diventare un best seller in un’epoca che la pensa all’opposto di me. D’accordo, ho vissuto sotto Caligola e Nerone, però voi sotto Conte e Draghi…Mi sento tirato per la tunica un po’ dovunque. Ho visto in libreria una caterva di libri dedicati alla felicità e scritti quasi tutti da barbari, celti, galli o affini. Ho preso nota per deformazione professionale: c’è addirittura una storia della felicità, come se la felicità potesse avere una storia, quando al contrario ne è una fuoruscita. Si parla pure di economia della felicità ma la felicità è la cosa più anti-economica che esista, vive nello spreco. Un tempo a voi vicino, persino il civis romanus Antonello Venditti mi infilava nelle sue canzoni; vada a rompere las pelotas a Epicuro (ogni tanto mi sfugge un’espressione ispanica, perché sono di Cordoba) e lasci in pace me che non sono nemmeno della Roma, ma del Real Madrid. Tutti questi libri e cd costano molto più delle mie lettere sulla felicità, stampata in economica. Quel laccio inutile che pende dai vostri colli come un guinzaglio colorato, che chiamate cravatta, lo pagate venti volte più del mio libro solo perché firmato da un sarto. E un libro firmato da Seneca, antico di duemila anni, costa solo mezzo sesterzo…Vergogna, pidocchiosi.

In tema di felicità cito due posteri francesi; Louis Aragon che diceva: “Chi parla di felicità ha gli occhi tristi” e Proust “Gli anni felici sono sempre perduti”. Quanto infelice dev’essere un’epoca che esalta così fanaticamente la felicità, ne scrive, ne canta, ne parla, inonda di auguri…Dev’essere schiava di un edonismo sofferente, malato. Magari fossero epicurei, no, sono gaudenti ma infelici, famelici di gioia ma disperati, golosi e incontentabili…Perché la felicità sparisce appena è desiderata, arriva quando è inattesa, ospite volatile e latitante. Gioie e dolori dolgono entrambi, ma in tempi diversi; perché la felicità si sconta prima o poi, cari pueri. Gli inverni vengono per farci pagare le estati.

Un tempo pensavate che la felicità fosse un bene pubblico, politico, anche quella più intima e privata; ora siete caduti nell’errore opposto e credete che la felicità sia solo un fatto privato. Ma la felicità non è un proclama politico e nemmeno una mutanda rossa, roba intima…Invece ci sono infelicità che passano dalla vita pubblica e altre dalla vita privata.

La felicità, caro Lucilio, non è un progetto ma una carezza, è il convergere fugace di clima, sospensione e gesti, solitudine beata o combaciante compagnia. Non è un programma politico ma un fuori programma; figuriamoci se può essere un piano industriale o di consumi. La felicità fiorisce selvatica e leggera nel giardino della dimenticanza. Mente chi dice: sono felice. Perché la felicità è attesa o ricordo, sogno o amnesia. Quando sei cosciente la felicità non è presente, quando è presente non sei cosciente. La felicità avrà il cuore aperto, ma ha gli occhi chiusi. Cerca piuttosto la saggezza, non la felicità. E non solo perché è più importante e dona la beatitudine, è una felicità più vera e duratura; ma anche perché la felicità vive di furti e imboscate, ama improvvisare e viene sotto falso nome. Insomma, Lucilio, ha ragione un collega di Venditti, mio mezzo omonimo – Lucio Dalla – che cantava tenero e misterioso: “La felicità, su quale treno della notte viaggerà…”

(Panorama, n.52)

Grande Giorgia…

Grande Giorgia Meloni. Come mi aveva convinto nel suo discorso  ai parlamenti nel giorno del suo insediamento, altrettanto ha fatto oggi nella sua prima conferenza stampa d fine anno ,coincidente con l’approvazione della legge di bilancio. Ascoltarla è stato un vero piacere, semplice, spontanea, ineccepibile sotto ogni aspetto, un uso del nostro Italiano perfetto, cosa che di rado capita ascoltare dai nostri politici, esaustiva in ogni risposta, mai imbarazzata nelle sue spiegazioni, chiara come pochi sanno fare, sia riguardo la manovra, sia la sua politica interna che estera, dove, come era prevedibile è stata incalzata e mai ha avuto dubbi nel rispondere. Anzi ha sovente spiazzato i giornalisti anticipando le loro risposte. Dopo tutto anni e anni di opposizione le hanno insegnato come si muove la stampa, specialmente quando, come nel nostro paese è una forma mediatica di supporto alla sinistra e forte oppositrice di questo governo. Sono stata impegnata e ancora non ho letto i giornali e i siti online, mi immagino di leggere di tutto e di più, ma ormai so distinguere oltre al normale contradditorio la cattiveria, e soprattutto il livore di chi, dopo anni di potere rubato e malgoverno, è stato spazzato via da una maggioranza eletta da cittadini che sperano in questa donna, nelle sue capacità, e confidano di ritornare a vivere in un paese dove, soprattutto ,la gente possa ragionare con la propria testa, senza condizionamenti e discriminazioni come è successo da troppo tempo. Brava Signora Meloni, presidente del consiglio dei ministri.

meloni

Spiritualità, una dimensione interiore di cui prendersi cura…

Riporto questo articolo non solo perchè è interessante, ma perchè la mia esperienza personale sui benefici salutari, specialmente sull’umore, in momenti di difficoltà, dimostra la validità. Io ho affinato la mia attenzione alla spiritualità, alla conoscenza sempre più approfondita  dell’io interiore, da quando ho affiancato alla mia religione cristiana la filosofia Zen e l’uso della meditazione come ragionamenti approfonditi e ne godo i benefici, perchè non sto vivendo un momento felice.

Vasilij Kandinskij, Composizione IV del 1911

 La salute è una componente fondamentale della nostra vita. Il concetto di salute è stato definito per la prima volta nel 1948 dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o infermità». Successivamente, in una riunione dell’OMS del 1998, è stata proposta la modifica della definizione originaria nei seguenti termini: «La salute è uno stato dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale, non mera assenza di malattia». La salute dunque, viene considerata come risorsa di vita quotidiana, non come obiettivo di vita: un concetto positivo, che insiste sulle variabili sociali e personali, oltre che sulle capacità fisiche.

La spiritualità è forse la dimensione meno esplorata tra quelle che entrano a far parte del concetto di salute; eppure, è citata dall’OMS già nel 1990 come “tema che non può essere eluso”. «Senza spiritualità non c’è salute né emotiva, né fisica, né antropologica», sostiene Hanz Gutierrez, docente di Teologia all’Istituto Avventista di Firenze.

La spiritualità può declinarsi in molti modi, e rappresenta una “dimensione” interiore di cui prendersi cura, liberando energie psichiche che trascendono il mondo materiale. «La vita spirituale, di cui l’arte è una componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. È il movimento della conoscenza», affermava il pittore Vasilij Kandinskij (Lo spirituale nell’arte, 1910).

Della sfera della spiritualità fanno parte valori come la gentilezza, l’altruismo, il perdono, la compassione, la gratitudine, la disposizione all’ottimismo, alla gioia, i comportamenti prosociali, di cura e aiuto rivolto agli altri, la cura delle relazioni, l’amore disinteressato, il rispetto per se stessi, per gli altri e per il mondo che ci circonda – valori che, se coltivati con pratiche quotidiane, possono avere un alto impatto biologico, vitale, emotivo, mentale, sociale e spirituale sia sul singolo che sulla comunità di riferimento.

«In una società che rimane molto razionale, efficientistica e pragmatica, malgrado le ottime iniziative per correggerla e bilanciarla, il bisogno di spiritualità appare sempre più impellente. Questa situazione produce paradossalmente non uno ma tre problemi – spiega Gutierrez -. Il primo problema è la ricerca d’una spiritualità ad ogni costo e a basso costo, anche quelle che riproducono alcune anomalie come l’individualismo che invece dovremmo correggere. Il secondo problema è la confusione fra spiritualità e confessionalità. Il terzo problema risiede nella radicalizzazione dell’orientamento efficientistico e consumistico delle persone che, limitando le spiritualità a certi spazi e momenti ristretti della propria vita, di fatto le utilizzano e le manipolano lasciando indenne l’indirizzo efficientistico globale dei gruppi e delle persone».

Il tema della spiritualità è stato al centro del convegno “Spiritualità e Scienza: l’ultima frontiera della salute” che si è tenuto di recente a Firenze per celebrare i 70 anni del mensile Vita&Salute, organo di informazione della omonima Fondazione. In ambito clinico, le evidenze scientifiche, presentate al convegno, mostrano una correlazione positiva tra una sana dimensione spirituale e minori ospedalizzazioni, migliore gestione della malattia e aderenza al trattamento prescritto, diminuzione dell’uso e abuso di sostanze, diminuzione della depressione e dei tentativi di suicidio.

Di contro, l’epidemiologo Franco Berrino, Direttore Scientifico della rivista, avverte: «La maggior parte dei disturbi alimentari ha a che fare con la difficoltà di entrare in contatto o gestire le emozioni, con un disagio interiore. Il recupero del proprio mondo interiore, trascurato nella società della performance, è un approccio “ecologico” alla nostra esistenza”».

Un metodo per entrare in contatto con la propria interiorità è senza dubbio la meditazione, medicina naturale che, se praticata con costanza nel lungo periodo, è in grado di esercitare un significativo impatto sul nostro DNA. La pratica della meditazione modifica positivamente le dinamiche epigenetiche che determinano il funzionamento della telomerasi, l’enzima che ricostruisce e estende i telomeri (strutture che si trovano alle estremità dei cromosomi, che rappresentano una sorta “orologio” biologico), influenzandone la lunghezza e quindi la potenziale qualità e quantità dell’aspettativa di vita residua.

In accordo a questo nuovo paradigma scientifico, vive meglio e più a lungo non il più forte e determinato a raggiungere i propri obiettivi, ma il più gentile, il più compassionevole, il più incline a raggiungere un maggiore livello di consapevolezza nei confronti di se stesso, della vita e degli altri.

Rosalba Miceli

L’ingenuità e la rivoluzione…

 

Rinnovarsi, cambiare, fare cose nuove, questi sono da sempre i propositi delle nuove generazioni. Noi anziani spesso pecchiamo di presunzione sul fatto di aver conquistato, col tempo, con le esperienze vissute, una specie di verità. Ma questa veritas, alcuni pretendono di chiamarla saggezza, va bene per noi stessi , non per i nostri nipoti, che come lo fummo noi, non dobbiamo dimenticare mai, hanno innato il senso di contestare con l’illusione di fare meglio in futuro. Tuttavia le nuove generazioni hanno scoperto e per questo fatto una delle più grandi rivoluzioni. Hanno capito che l’essere umano, col cambiamento delle attitudini innate nella loro mente, possono cambiare gli aspetti esteriori delle loro vite. A me, questo, che mi viene da chiamare ricondizionamento, non piace, ma nei giovani suscita entusiasmo, rifiutano anche la modernissima parola reset, in nome di un mondo nuovo che già vedono bellissimo, anche se ancora lontano.

generazioni a confronto

Per chi, come me,si chiede perchè Santo Stefano sia festività a tutti gli effetti sia religiosi che civili.

Se è il giorno di Natale quello in cui, per eccellenza, si scartano i regali e ci si ritrova tra amici e parenti per festeggiare e mangiare insieme prelibatezze tipiche, la giornata successiva non è da meno: anche il 26 dicembre, Santo Stefano, è festivo e solitamente si torna a tavola tra conoscenti per continuare le celebrazioni natalizie. A volte si mangiano gli avanzi del giorno prima, a volte sono piatti più leggeri come i cappelletti in brodo, ma è comunque un’altra occasione per ritrovarsi insieme e proseguire i festeggiamenti oppure ‘collaudare’ i regali ricevuti il 25.

Perché il giorno di Santo Stefano è così importante
Ma perché anche Santo Stefano è considerato festivo? Chi era questo santo, e perché è ritenuto così importante?

Stefano – originario della Grecia e morto a Gerusalemme nel 36 d.C. – è stato il primo dei sette diaconi scelti dalla comunità cristiana perché aiutassero gli apostoli nel ministero della fede. Venerato come santo da tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi, Stefano fu il primo cristiano ad aver dato la vita per testimoniare la propria fede in Cristo e per la diffusione del Vangelo.E infatti Santo Stefano è proprio venerato come protodiacono e protomartire. Il primo epiteto è dovuto al fatto che fu il primo e probabilmente il più importante dei diaconi eletti in Gerusalemme. Il secondo significa che fu il primo martire, sebbene la sua triste sorte fosse stata cronologicamente preceduta da quello di Giovanni Battista, morto per decollazione.  Il suo martirio è descritto negli Atti degli Apostoli e avvenne per lapidazione, alla presenza di Paolo di Tarso che in seguito si convertì lungo la via di Damasco (un’altra espressione molto diffusa ma di cui forse non tutti conoscono le origini). Per il fatto di essere stato il primo dei martiri cristiani, la sua festa liturgica si celebra il 26 dicembre, cioè immediatamente dopo il Natale che celebra la nascita di Gesù. Il colore della veste indossata dal sacerdote durante la messa in questo giorno è il rosso, come in tutte le occasioni in cui si ricorda un martire.

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 Giorgio Vasari__Martirio di Santo Stefano

Le mie natività preferite…

 

 

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Caravaggio__Adorazione dei Pastori

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Albrecht  Durer__ Natività ,Pala d’altare.

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 Correggio___La Notte

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El Greco__Adorazione dei Pastori

natiità mistica di Sandro Botticelli

Sandro Botticelli__Natalità Mistica

Questi  Capolavori dell’arte Mondiale per  augurare a tutti un Natale pieno di serenità e gioia, un Nuovo Anno che  possa ispirare ognuno di noi  , indicandoci la strada  per una nuova  rinascita in un mondo nuovo, senza guerre, un mondo di concordia e  condivisione,  dove gli uomini, incontrandosi, incrociando gli sguardi, tornino a sorridersi e riconoscersi gli uni negli altri!

 AUGURI DI BUONE  FESTE!!

 

 

Van’ka ,un racconto di Natale di Anton Čechov(1886)-

 

Van’ka Žukov, un ragazzetto di nove anni che da tre mesi stava a bottega dal calzolaio Aljachin per imparare il mestiere, la notte di Natale non andò a dormire. Dopo aver atteso che i padroni e i lavoranti uscissero per andare in chiesa, tirò fuori dall’armadio del padrone la boccetta dell’inchiostro, una penna col pennino arrugginito e, sistematosi davanti un foglio tutto spiegazzato, incominciò a scrivere. Prima di tracciare la prima lettera, si voltò alcune volte timoroso verso la porta e la finestra, guardò di traverso l’icona scura, ai due lati della quale si allungavano i palchetti con le forme per le scarpe, e tirò un sospiro. La carta stava su un panchetto e lui s’era messo in ginocchio davanti al panchetto.
«Caro nonnino, Konstantin Makaryč!» scrisse. «Ti scrivo questa lettera. Ti faccio tanti auguri per Natale e ti auguro ogni bene dal Signore Iddio. Non ho più né il padre né la mammina, mi sei rimasto tu solo.»Van’ka volse gli occhi alla finestra buia, sulla quale baluginava il riflesso della sua candeletta, e si raffigurò vivamente il nonno Konstantin Makaryč, che faceva il guardiano notturno presso i signori Živarev. È un vecchietto sui sessantacinque anni, piccolo, magrolino, ma straordinariamente vivace e svelto, con un viso sempre sorridente e gli occhi da ubriaco. Di giorno dorme nella cucina della servitù, o passa il tempo a scherzare con le cuoche, di notte, poi, ravvolto in un ampia pelliccia di montone, fa il giro della proprietà picchiando sulla sua placca. Dietro di lui, a testa bassa, camminano la vecchia Kaštanka e un cagnolino, V’jun, così chiamato per il suo color nero e per il suo corpo lungo come quello di una donnola. Questo V’jun è straordinariamente rispettoso e cordiale, si comporta con la stessa dolcezza con quelli di casa e con gli estranei, ma non gode di grande fiducia. Sotto tanta ossequiosità e umiltà si nasconde la più gesuitica malizia. Nessuno sa scegliere meglio di lui il momento giusto per avvicinarsi furtivamente e azzannarti una gamba, o per infilarsi nella dispensa o per rubare una gallina a un contadino. Più di una volta gli hanno rotto le zampe posteriori a forza di botte, un paio di volte lo hanno appeso per la collottola, non passa settimana che non lo frustino a morte, ma lui risorge sempre.
Ora certamente il nonno sta vicino al portone, strizza gli occhi alle finestre rosso vivo della chiesa del villaggio e, scalpicciando per terra con gli stivali di feltro, scherza con le donne di servizio. Alla cintola tiene appesa la placca; batte le mani per scaldarsi, si rattrappisce tutto dal freddo e, con la sua stridula risata da vecchietto va pizzicando ora la cameriera, ora la cuoca.
«Non volete annusare un po’ di tabacco?» dice, porgendo alle donne la sua tabacchiera.
Le donne annusano il tabacco e starnutiscono. Il nonno è preso da un entusiasmo indescrivibile, scroscia in una allegra risata e grida:
«Staccalo, col gelo s’è attaccato!»
Danno da fiutare il tabacco anche ai cani; Kaštanka starnutisce, scuote il muso e, offesa, si trae in disparte. V’jun, invece, per rispetto, non starnutisce e dimena la coda. E il tempo, intanto, è meraviglioso. L’aria è quieta, diafana e fresca. La notte è buia, ma si vede tutto il villaggio con i suoi tetti bianchi, le spirali di fumo che escono dai camini, gli alberi inargentati di brina, i monticelli di neve. Tutto il cielo è cosparso di stelle che ammiccano allegre e la via lattea si disegna con tanta nettezza che pare l’abbiano lavata e strofinata con la neve, per la festa… Van’ka sospirò, intinse la penna e continuò a scrivere:
«Ieri ho avuto una tirata di capelli. Il padrone mi ha trascinato per i capelli fino a fuori e mi ha strigliato col tiraforme, perché mentre cullavo il loro bambino inavvertitamente avevo preso sonno. Domenica, poi, la padrona mi ordinò di pulire un’aringa, ma io cominciai dalla coda, e lei prese l’aringa e cominciò a sbattermela in faccia. I lavoranti si burlano di me, mi mandano alla bettola a comperare la vodka, mi comandano di rubare i cetrioli dei padroni, e il padrone mi picchia con tutto quello che gli capita sotto mano. E anche da mangiare non c’è proprio niente. La mattina mi danno del pane; a pranzo polenta, e la sera di nuovo pane, e, quanto al tè e alla zuppa di cavoli, quella roba lì se la pappano i padroni. E mi fanno dormire nell’ingresso, e quando il bambino loro piange io non dormo più per niente, e dondolo la culla. Caro nonnino, fammi questa carità, toglimi di qui e portami a casa, nel villaggio, io non ne posso proprio più.. Te lo chiedo in ginocchio e pregherò eternamente Iddio per te, ma portami via di qui, altrimenti ne morirò…»
Van’ka storse la bocca, si passò il suo pugno tutto nero sugli occhi e ruppe in un singhiozzo.
«Ti triterò sempre il tabacco,» continuò, «pregherò Iddio per te, e se non mi comportassi bene, tu dammele di santa ragione. E se credi che non potrei fare nessun lavoro, chiederò all’intendente che per amor di Cristo mi lasci pulire gli stivali, oppure andrò al posto di Fed’ja come aiuto-pastore. Nonnino caro, non ne posso più, non mi resta che morire. Volevo scappare al villaggio a piedi, ma non ho scarpe e ho paura del gelo. Ma quando sarò grande, io per ricompensarti ti manterrò e non permetterò che nessuno ti maltratti, e quando morirai, pregherò per la pace dell’anima tua, come prego per mamma Pelageja.
«Mosca, sai, è una città grande. Sono tutte case di signori, e ci sono molti cavalli, ma pecore nessuna, e i cani non sono cattivi. Qui i ragazzi non vanno in giro con la stella, e nel coro non ci prendono nessuno a cantare; una volta ho visto nella vetrina di una bottega che gli ami li vendono direttamente con la lenza, e per ogni sorta di pesci, e sono molto cari, c’era perfino un amo che poteva sostenere un pesce siluro di un quindici chili. Ho visto anche delle botteghe dove c’erano fucili di ogni tipo, come quelli dei padroni, tanto che costavano almeno cento rubli l’uno… Nelle macellerie si trovano galli cedroni, le starne e le lepri, ma i venditori non dicono dov’è che li prendono.
«Caro nonnino, quando dai padroni faranno l’albero di Natale coi regalini, prendimi una noce dorata e riponila nel bauletto verde. Chiedila alla signorina Ol’ga Ignat’evna, dille che è per Van’ka.»
Van’ka tirò un sospiro convulso e tornò a fissare la finestra. Ricordò che nel bosco, a cercare l’albero di Natale per i padroni, ci andava sempre il nonno e portava con sé il nipotino. Che ore felici erano quelle! Il nonno gemeva, il ghiaccio gemeva, e, a guardare loro, gemeva anche Van’ka. Prima di tagliare l’albero, di solito il nonno fumava la pipa, fiutava a lungo tabacco, e si burlava di Vanjuska, tutto infreddolito… I giovani abeti, coperti di brina, stavano immobili, aspettando di vedere a chi di loro toccava morire. D’un tratto, sbucata da chissà dove, una lepre vola come una freccia sui cumuli di neve… Il nonno non può fare a meno di gridare:
«Prendila… prendila! Ah, diavolo senza coda!»
Tagliato l’albero, il nonno lo trascinava fino alla casa dei padroni, e là si mettevano a decorarlo… Più di tutti si affaccendava la signorina Ol’ga Ignat’evna, la beniamina di Van’ka. Quando era ancora viva Pelageja, la madre di Van’ka, e stava dai padroni come cameriera, Ol’ga Ignat’evna rimpinzava Van’ka di dolci e, per passatempo, gli aveva insegnato a leggere, a scrivere, a contare fino a cento e perfino a ballare la quadriglia. Quando poi Pelageja morì, mandarono l’orfanello Van’ka nella cucina della servitù, col nonno, e di lì a Mosca, dal calzolaio Aljachin…
«Vieni, caro nonnino,» continuò Van’ka. «Te ne prego in nome di Cristo Nostro Signore, portami via di qui. Abbi pietà di me, orfano infelice, qui mi massacrano di botte e ho una gran fame, la noia poi è indescrivibile e piango sempre. L’altro giorno il padrone mi ha picchiato sulla testa con una forma da scarpa così forte che sono cascato in terra e a stento mi sono riavuto. La mia vita è rovinata, è peggio di quella di un cane… Salutami ancora Alëna, Egor il guercio, e il cocchiere, e non dare a nessuno il mio organetto. Sono il tuo nipote Ivan Žukov, caro nonnino, prendi il treno e vieni.»
Van’ka piegò in quattro il foglio scritto e lo mise in una busta comprata il giorno prima per una copeca… Dopo averci pensato un attimo, intinse la penna e scrisse l’indirizzo:
«Al nonno, al villaggio».
Poi si grattò la testa, ci pensò su e aggiunse: «A Konstantin Makaryč». Contento che nessuno gli avesse impedito di scrivere, infilò il berretto e, senza neanche gettarsi sulle spalle la giacchetta di pelo, in maniche di camicia com’era, corse in strada…
Certi commessi della macelleria che aveva interpellato il giorno prima gli avevano detto che le lettere si infilano nelle cassette postali, e dalle cassette vengono poi portate per tutto il mondo sulle trojke della posta, guidate da postiglioni ubriachi e tutte squillanti di campanelli. Van’ka corse fino alla prima cassetta postale e infilò la preziosa lettera nella fessura…
Cullato da dolci speranze, un’ora dopo egli dormiva profondamente… Sognava una stufa. Su di essa stava seduto il nonno, con i piedi scalzi a penzoloni, e leggeva la lettera alle cuoche… Accanto alla stufa girava V’jun, dimenando la coda..
vanka

Il mondiale l’ha vinto il Denaro…

Oltre che all’Argentina e al dio Messi, la Coppa del Mondo nel Qatar è stata assegnata all’economia e al dio Denaro. Anche un paese refrattario al calcio, estraneo allo sport, può diventare il Tempio mondiale del football perché dispone della ricchezza. E’ stata una consacrazione plateale, spettacolare della dominazione del denaro, non affidata solo ai vistosi premi: la coppa aurea, un premio complessivo per i vincitori, record assoluto, pari a 440 milioni di dollari, un’ostentazione di ricchezza in ogni evento e in ogni immagine del Qatar; ricchezza sugli spalti, negli spogliatoi e soprattutto nel retrobottega del mondiale. Anche lo scandalo dell’Europarlamento, le mazzette del Qatar, sono ancora la cresta di un fenomeno globale in espansione da tanto tempo ma divenuto ora assoluto, totale, inesorabile. Dietro la patologia della corruzione c’è ormai la fisiologia di un dominio globale. Con un risvolto kitsch da far impallidire magnati russi e pacchianerie americane. Ma lo sport è al guinzaglio del denaro come la politica e perfino i diritti umani; gli stati appesi alle banche centrali e sovranazionali, le risorse del pianeta appese alla mercé della finanza, l’umanità appesa al business, la salute appesa ai profitti. Il mondo è mosso dai soldi; sono il motore principale, gli altri sono motori secondari. Ci raccontavano il contrario, o meglio lo raccontavano a rovescio, che il mondo è mosso dalla povertà; per i vecchi schemi marxisti il mondo è mosso dalla lotta di classe dei poveri contro i ricchi; i popoli poveri fanno le rivoluzioni, o secondo la visuale liberale, i singoli poveri cambiano la società nella loro ricerca di migliorare; così come i migranti poveri partono in cerca di fortuna e generano circolazione dell’umanità. Ma la povertà è solo il risvolto secondario della Ricchezza che è il vero Re del Mondo, non solo nel Qatar. Ha sempre avuto peso la ricchezza, dai tempi di Creso e di re Mida; ma una tendenza antica, potenziata nell’ultima modernità, diventa oggi l’orizzonte globale del nostro presente e ancor più del nostro avvenire. L’idea stessa di globalizzazione è la traduzione universale del mercato globale, applicata a uomini, flussi e merci. Se nel mondo tramontano la religione e la politica, il pensiero e l’arte, le civiltà e le tradizioni, potete non attribuirlo al potere alienante e distruttivo della finanza e del commercio; ma dovrete convenire che a sostituire tutti quei mondi è sempre l’economia, nella forma della finanza, dei consumi e della tecnica. L’unica universalità riconosciuta da tutti, l’unico fattore mondiale di scambio, l’unica certezza d’intermediazione, è nel potere del Denaro, nella divinità della ricchezza e nel suo linguaggio che si fa capire da tutti. Poi restano gli epifenomeni, ossia i fenomeni di superficie, apparenti o vistosi, come può essere una partita di calcio, una sfida appassionata tra calciatori, il talento naturale dei fuoriclasse e degli atleti, l’effetto degli allenamenti e l’intelligenza della tattica. Ma sotto il soffice manto erboso c’è un campo d’energie che muove il mondo e determina le cose. Gli uomini fingono di non vederlo, non capiscono o non vogliono capire e si illudono come bambini che vogliono farsi raccontare le favole anche quando hanno smesso di credere a Babbo Natale. E si affidano ai piedi de dios, alla bravura del “genio”, alla dea fortuna. Noi italiani, popolo giocoso per eccellenza, ci siamo appassionati pur essendo fuori da questo mondiale: ma non abbiamo tifato per la vicina Francia, la sorella latina ed europea, non abbiamo seguito le direttive europee; ci siamo lasciati trasportare dal Corazon, dall’affinità sanguigna e naturale con gli argentini, che per metà hanno il nostro stesso sangue, e per indole somigliano al nostro sud, avendo per giunta un santo in comune, come Diego Armando Maradona. Ma quello è il mondo come rappresentazione; la volontà sottostante è tutta altrove e coincide col potere dei soldi. E’ sempre il meccanismo dell’economia a determinare luoghi, flussi e domini. E’ così potente l’economia da aver seguito ormai la parabola delle religioni: dapprima naturali, con gli dei identificati nelle forze della natura, visibili e perfino con fattezze umane o animali; poi le religioni evolvono, si fanno da un verso monoteiste e dall’altro si fanno invisibili, a partire dal loro Dio. Così è l’economia: il denaro si smaterializza, si fa elettronico, la ricchezza si fa finanziaria più che reale, diventa teologica, mentre le banche sono le nuove cattedrali e il Debito Sovrano viene elevato a Peccato originale dei popoli ma anche dei singoli, perché ormai nasciamo con quel male e non basterà il battesimo in banca per estinguerlo ma ce lo porteremo per tutta la vita. Lo stadio teologico dell’economia è giunto a tal punto che nessuno parla più del Capitalismo nel momento in cui governa il mondo: non nominare il nome di dio invano, non osare chiamare per nome il Signore, meglio termini più neutri e rifratti come globalizzazione, mercato mondiale e interdipendenza. L’interrogativo che alla fine ci resta è però cruciale e non possiamo evitarlo: quanto potrà durare l’umanità sotto la dominazione assoluta dell’economia? Come credete che possano vivere gli uomini e i popoli disfacendo ogni loro legame, salvo lo scambio economico tramite il denaro e la tecnologia? Per quanto tempo ancora la società potrà reggere senza orizzonti comuni di fede e di pensiero, di civiltà e di identità, di tradizione e di storia, connessa solo dallo scambio commerciale, dal transito delle merci e dal valore stabilito dai mercati finanziari? La società sopravvive perché mantiene ancora, benché logorati e deperiti, i legami comunitari ereditati dalla vita e dalla storia, di tipo famigliare, territoriale e civico, religioso e culturale. Cosa accadrà quando saranno definitivamente vanificati, grazie anche alle ideologie di supporto del mondialismo economico che puntano a sradicare l’umanità e renderla fluttuante, mutante, nomade? Sarà economico l’ultimo stadio dell’umanità. E finirà ai rigori.

MV