Un interessante articolo sull’intelligenza artificiale…

Sostituzione dell’Umano

Ho assistito dal vivo a un esperimento sconvolgente, che rende superfluo tutto quel che pensa, fa, dice l’uomo, a cominciare da quel che sto facendo in questo momento, scrivere. Dunque, un amico mi confessa di usare la Chat Gpt, ovvero quell’applicazione dell’intelligenza artificiale di cui a giorni alterni si narra ogni gloria e ogni orrore; un giorno ammessa, un altro vietata, poi riammessa, come sempre accade quando c’è una censura.
Il mio amico ha un’idea che mi riguarda direttamente e vuole prospettarla al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Chiede il soccorso al suo smartphone per perorare la sua istanza (che disapprovo). Non fa in tempo a formulare la richiesta che compare sul video un miracolo: una lettera argomentata, informata, pertinente, scritta in buon italiano, che realizza la sua intenzione con una ricchezza di dati che un ghost writer, un assistente o segretario, non sarebbe mai riuscito a formulare, neanche dopo una ricerca. Certo, a un occhio critico più attento, puoi “sgamare” l’automa in alcune formule espressive un po’ generiche, che puoi adattare a tante situazioni, una volta immessa la direzione che vuoi dare alla tua lettera. Ma difficilmente qualcuno avrebbe saputo rendere meglio la sua idea. Come è possibile che un’applicazione matematica riesca non solo a darti risultati matematicamente esatti, ma si traduca anche in letteratura, comunicazione, selezione di argomenti e di notizie? Sconvolgente.
Fino a ieri eravamo rimasti ad Aristotele che intravedeva il futuro in cui gli schiavi sarebbero resi superflui, affrancati o disoccupati, secondo i punti di vista, dalle macchine, dai telai che sarebbero andati automaticamente o le gru che avrebbero sollevato pesi insostenibili per gli umani. I lavori manuali sarebbero stati sostituiti dalle macchine e l’uomo avrebbe potuto così dedicarsi alle attività teoriche, contemplative, artistiche, ludiche, rituali.
Sappiamo che non è andata così, il tempo liberato non è tempo prezioso ma tempo perso, dissipato; crescono le pigrizie, le brutte abitudini e altre schiavitù. L’ozio non si trasforma in otium classico, ma nel padre dei vizi. Comunque, la sfera intelligente dell’umano era preservata, non era travolta o replicata dai processi automatici, ingenerati con le macchine.
Ora siamo nella fase ulteriore. L’app riesce a sostituire la ricerca, la cultura, lo sforzo intellettuale. E sul piano sociale rende superfluo non il lavoro degli schiavi, come si pensava da Aristotele a Marx fino a ieri, ma il lavoro intellettuale. Si potranno mai giudicare tesi di laurea e ricerche se sai che possono essere frutto di una semplice domanda al tecno-cervello artificiale? A che serviranno col tempo i ricercatori, gli addetti stampa e comunicazione, i giornalisti e ogni altro genere, se tutto può essere ottenuto in tempo reale, in versione ampia, a un livello elevato? Potrei indicare alcuni territori ancora non raggiunti, dove occorre spirito critico, creatività, originalità, ma quell’ancora che ho onestamente premesso la dice lunga sul fatto che come era impensabile fino a ieri quel che oggi mi mostra il mio amico, così domani può accadere in altri ambiti. Una ritirata continua, un accrescersi esponenziale di poteri magico-tecnologici a cui corrisponde un decrescere rapidissimo di facoltà umane-intellettuali. La tecnica avanza, l’umano arretra.
La parola chiave di tutto questo è una: sostituzione. Non solo sostituzione etnica, non solo maternità surrogata, ma sostituzione dell’umano, a tutti i livelli. La prima minaccia globale alla nostra vita sulla terra non è il clima, l’inquinamento, la guerra, ma la Sostituzione. Quando toccheremo il punto di non ritorno, ovvero quando non saremo più noi a fare o non fare, a decidere, a guidare, quando non potremo più impedire, vietare, fermarci, tornare indietro? Non lo sappiamo, ma è molto vicino e quando succederà non ne saremo più consapevoli.
Bisogna fermare l’Intelligenza Artificiale in questi ambiti? Non lo avevo mai pensato prima, ora si. Sarà difficile, la storia umana dice che ciò che oggi è proibito domani sarà violato, se non da noi, da altri. Ciò che non vuoi vivere oggi, vivrai domani. Però si tratta di passare a un’altra comparazione: la tecnica diventa oltre che strumento prodigioso e salutare per mille cose, che benediciamo ogni giorno, anche un mezzo di distruzione. Come la bomba atomica, diventa un’arma letale, bisogna avere il coraggio di negoziare il suo disarmo. Non è bello, forse non è nemmeno umano, ma è necessario. Lo dicono anche eminenti maghi dell’intelligenza artificiale, operatori pentiti.
Ma prima di arrivare a quel punto di non ritorno, cosa resta ancora di umano? L’inizio, l’iniziativa, l’inizializzazione. Traduco: se non ci fosse stato il mio amico, se non avesse dato quell’input al suo smartphone, se non avesse avuto quell’idea e preso quell’iniziativa, servendosi di uno strumento pur sempre costituito, assemblato, inizializzato, venduto da umani, non ci sarebbe tutto questo. Dunque c’è un primo movente che è umano. Ciò che finora l’automa non riesce a generare è poi l’originalità, lo spirito critico e autocritico, il conato originario, l’ispirazione poetica, la facoltà visionaria e metafisica, la deviazione di pensiero non conforme, non convenzionale. La fede. La macchina non si autocrea, non si autodetermina, non ricerca e non agisce “di testa sua”. C’è un moto iniziale, una forza originaria e misteriosa. Lo sto studiando, preferisco restare nel mistero, non voglio darlo in pasto al plagio artificiale. Comunque, la differenza tra l’intelligenza umana e l’intelligenza artificiale è che la prima ha il principio del suo vivere, del suo agire, del suo dare scopi, dentro di lui; mentre l’artificiale no. Almeno finora. Se e quando sarà superato quel finora, l’umanità sarà bella e finita. Ma parafrasando Epicuro, finché noi ci siamo lei non c’è, quando lei ci sarà noi non ci saremo.

MV     

Saggio sulla sincerità…

 C’è una virtù che oggi sarebbe trionfante. Dico la sincerità. Da quando furono abbattute le barriere architettoniche che la ostacolavano – vale a dire il timore reverenziale, il rispetto, l’autorità, il decoro, il galateo, la paura della punizione – la sincerità si presenta nuda, sfacciata, a briglia sciolta, nei mille rivoli dei media. Via i tabù, vai con l’outing. Viviamo dunque nell’età della sincerità?

Per cominciare, la sincerità è una virtù socialmente pericolosa e difficilmente compatibile con l’amicizia, l’affetto e la simpatia, anche se poco sinceramente si sostiene il contrario. La sincerità è una signorina stimata ma poco amata. Nubile, non sopporta mariti e conviventi. A volte è irritabile, più spesso è irritante. Nell’immaginario sociale, la sincerità è una virtù puerile come lo è la bugia, il cui metro vistoso è il naso di Pinocchio che s’allunga. La sincerità più della bugìa ha le gambe corte, perché non va lontano, tronca molte relazioni. Alla sincerità come “virtù crudele” dedica da anni i suoi studi Andrea Tagliapietra (l’ultimo suo saggio è Sincerità, ed. Cortina). La sincerità è un modo di dire ma non implica un conseguente modo di agire. Il sincero può persistere in tutti i suoi errori, vizi, bassezze; si limita a dichiararli. Chi è sincero può non essere onesto, e chi è onesto può non essere sincero. Se confesso di aver rubato sono sincero ma non smetto di essere ladro. Viceversa posso dire una bugia a fin di bene, dunque onesta. Ma soprattutto non c’è nessun automatismo tra la sincerità e la verità. Il sincero non dice la verità ma dice quel che pensa o, peggio, quel che sente. Il sincero dice tutto ma non sempre pensa quel che dice. La sincerità è soggettiva mentre la verità implica lo sforzo a uscire dalla propria soggettività per avvicinarsi alla realtà obiettiva. La sincerità può autoingannarsi: costruisce castelli d’illusioni e va ad abitarci. “Il mio cuore messo a nudo” di Baudelaire indica un sincero aprirsi, esponendo le passioni, i tormenti, le speranze; ma la verità è un’altra cosa. Senza dire del sofisma cretese: se dico “sto mentendo” sono sincero o no? Quesito insolubile perché si autosmentisce in ambo i casi. La sincerità è spesso confusa con la spontaneità: niente freni, niente veli, dico tutto quel che mi passa per la testa. La spontaneità è im-mediata, non tollera la mediazione riflessiva; è diretta, selvatica, primitiva. La spontaneità non è una virtù, è solo la liberazione di un impulso, è uno sfogo, quasi un’incontinenza. La brutale franchezza spesso produce nel nome di un piccolo bene, la sincerità, gravi danni al prossimo e ai rapporti umani. Ferisce l’altrui sensibilità, non si cura dei suoi effetti, danneggia i legami sociali. Dal ’68 in poi si è identificata la sincerità con la spontaneità. Come la verità è rivoluzionaria sul piano politico, così sul piano interpersonale la sincerità è stata considerata libertaria, liberatrice e dissacrante. In fondo, franco sta sia per sincero che per libero. Da questa pseudo-sincerità sono nati due frutti, uno per affinità, l’altro per contrasto. Da una parte è sorto il coming out, detto in breve outing. Tutto ciò che era coperto dall’inibizione diventa oggetto di esibizione. Il pudore per l’intimità cede al narcisismo, con sfacciata sincerità. Dall’altra parte, il risultato paradossale della guerra all’ipocrisia “borghese” è la nascita d’un nuovo codice dell’ipocrisia, il politically correct: l’uomo di colore, il rom, il non vedente, il diversamente abile, il personale ausiliario, l’operatore ecologico; il frasario dell’ipocrisia. La sincerità delle origini si è capovolta in uno stucchevole rococò della falsità. Torna in altre vesti la massima: la parola è data all’uomo per nascondere il pensiero (e la realtà). Una parodia delle ipocrisie rivoluzionarie la fece già Niccolò Tommaseo nel Vocabolario filosofico-democratico del 1799.
La civiltà è il contrario della sincerità intesa come spontaneità. Ciò vale sia nell’ambito del costume e dei comportamenti che sul piano del pensiero e della fede. Nel primo caso, l’etica si accorda all’estetica e la sincerità non deve ferire lo stile e il buon gusto; nasce il galateo, la civiltà delle buone maniere, che velano la sincerità; le tende di pizzo del pudore. Ma anche in ambito teologico e filosofico la verità si è servita della menzogna quanto e più della sincerità. La pia fraus cristiana e le sante omissioni, le salutari menzogne di Platone, la doppia verità di Averroè, il bello mentire di Campanella, la dissimulazione onesta di Torquato Accetto, praticata anche da rigorosi moralisti come Seneca, le menzogne necessarie di Nietzsche (il velo d’Apollo che veste di bello l’orrore della verità e copre la tragedia del divenire). E in letteratura la menzogna troneggia. Gli uomini, diceva Tristan Bernard, sono sempre sinceri ma cambiano spesso sincerità. La realtà ha molte facce e noi possiamo essere sinceri rispetto a una e insinceri rispetto a un’altra. Possiamo dire la verità, ma non tutta la verità. Qui si tocca una questione cruciale che va oltre la sincerità e investe la verità, che ama nascondersi, si confonde col mistero e può essere colta per allusioni, bagliori e frammenti. È la poligonia del vero, di cui parlava Gioberti nella Teoria del sovrannaturale; la verità ha vari lati, non uno solo. Nessuno ha la verità in tasca, semmai noi siamo dentro la verità, ne cogliamo uno spicchio; ma ciò non impedisce che ci siano altri spicchi di verità che non vediamo, non vogliamo o non sappiamo vedere. Non è relativismo, che sottende la riduzione della verità ai punti di vista, alle interpretazioni soggettive; ma la verità ha più lati, ossia la verità è più grande di noi, ci trascende, noi possiamo aspirare a essere nella verità, ma non ad avere la verità in pugno. Questo salva la verità dal monopolio dispotico e dalla negazione nichilista.
Insomma la sincerità è una virtù interiore ma non sempre è una virtù pubblica. Spesso ferisce, nuoce, spezza i legami; non implica coerenza tra il dire e il fare. Non s’identifica con la spontaneità ma assume valore se è consapevole e riflessiva. La sincerità è poi soggettiva e dunque non coincide con la verità. È solo un lato del vero. Resta un pregio, una virtù vera, se indica l’aprirsi agli altri senza secondi fini subdoli. E se sa fermarsi davanti alla soglia del rispetto altrui, della carità, della prudenza e della pazienza. Come ogni virtù, la sincerità si fa tiranna se è unica e assoluta, sciolta da ogni vincolo e da ogni altra virtù. La sincerità non è la virtù regina, ha valore se non violenta altre virtù. Al poligono della verità corrisponde il politeismo delle virtù: le virtù si temperano a vicenda. Senza freni la sincerità è una virtù che sconfina nella malvagità.

MV 

Elon Musk, come un dio laico, ha in mente la creazione di un mondo nuovo, in cui un’unica intelligenza collettiva rappresenterà l’umanità.

 

Il Brano in lettura è tratto dal libro di Fabio Chiusi “L’uomo che vuole risolvere il futuro. Critica ideologica di Elon Musk”, edito da Bollati Boringhieri (134 pagine, 12 euro)

A Elon Musk chiediamo quello che chiediamo a un dio. Salvaci, diciamo all’uomo che è stato capace di diventare il più ricco del mondo. Mostraci la Via, liberaci dal male. Perché è una notte fonda, là fuori, buia e piena di terrori. Pandemie, guerre, catastrofi climatiche, crisi sociali ed economiche: c’è un senso greve di fine, di apocalisse, di disperazione, nel mondo. E allora illuminaci, salvatore! Illumina la notte, gli diciamo, devoti e insieme attoniti, nel mistero; rischiarala con la luce della verità.

È una religione laica, quella nell’imprenditore di Tesla e SpaceX, NeuraLink e ora anche Twitter, che al sacro ha sostituito la ragione, e ai comandamenti le leggi di natura. Ma che sempre come religione si configura. Le sue verità non sono rivelate dal Verbo, ma dal metodo scientifico; le sue profezie sono probabilistiche, ma ugualmente imperscrutabili; e il suo paradiso è terrestre, ma non meno paradisiaco. Musk non moltiplica pani e pesci, e tuttavia annuncia comunque un futuro di benessere e felicità infiniti, dove miseria, malattia, scarsità, perfino il lavoro non saranno altro che ricordi di un’epoca passata di barbarie e irrazionalità; errori di un’umanità nella sua adolescenza, destinata a redimersi con la tecnologia e l’ingegno, per poi godere una lunghissima, beata maturità. A patto che si rispettino i dogmi del “muskismo”. A patto che l’umanità tutta ragioni e si comporti come una unica, enorme intelligenza collettiva intenta esclusivamente a massimizzare il bene aggregato del massimo numero di esseri umani, presenti e futuri.

Anche la fede, infatti, è richiesta. Una fede militante, che si traduce nell’obbedienza di precisi precetti morali e rivoluzionarie scelte politiche, nell’adesione a una propria teoria della storia e della conoscenza. Perché chi trasgredisce i suoi comandamenti, ammonisce l’imprenditore-dio, non mette a repentaglio soltanto il suo futuro, ma quello dell’umanità intera. Perché è ora che bisogna credere: domani potrebbe essere tardi. Una Intelligenza Artificiale superintelligente potrebbe – quasi certamente potrà, dice Musk – superare l’umano e, per errore o diletto, annientarci ora e per sempre. O forse potrebbe essere la stupidità umana a mettere fine alla storia, questa volta per davvero. Una qualche sua perversione ideologica, una qualche conseguenza del suo agire senza considerare le conseguenze di lunghissimo termine delle proprie azioni. Qualunque sia la causa, la diagnosi è certa: è ora, che c’è bisogno di salvarci. Ora che i “rischi esistenziali” minacciano la fine della civiltà umana si impone la necessità di un salvatore.

Anche la religione del muskismo ha le sue apocalissi, dunque. Solo che non recano ad alcun giudizio universale: l’universo, direbbe Musk con il suo idolo e guida Douglas Adams, ha già da sempre giudicato; è già la risposta. Tutto ciò che possiamo fare è cercare le domande giuste, porle, e tentare di meglio avvicinarci alla sua comprensione – oppure estinguerci, sparire nel silenzio di un cosmo che potrebbe essere vuoto, senza di noi, privo della “luce della coscienza” che Musk vorrebbe, con la sua vita e le sue opere, estendere il più possibile, sulla Terra e nello spazio. Siamo noi, insomma, l’apocalisse. E solo a noi spetta il compito di evitarla.

Si potrebbe obiettare che il paragone tra un dio e un uomo, per quanto ricco e potente, sia fuorviante e ideologico. Che certo, Musk con un tweet può indirizzare i mercati e stravolgere le regole del dicibile, ma i miracoli ancora non gli competono. O ancora, che la sua religione prevede una nutrita schiera di miscredenti, che tendono a dipingerlo come un Satana, più che come un Cristo dell’era dell’Intelligenza Artificiale. E che dunque se di fede si tratta è quella di una setta, al più. A parte gli iniziati, non tocca nessuno. […] Ma il culto di Musk è tutt’altro che una setta. È, al contrario, espressione di una fede più ampia e strisciante nella nostra società iper-informatizzata, di cui Musk è solo la manifestazione più nitida: quella nel soluzionismo tecnologico. Intuita come tratto caratteristico della contemporaneità dallo scienziato politico Evgeny Morozov già un decennio fa, consiste in una incrollabile fede nel potere salvifico della tecnologia, e più di preciso nella capacità della scienza e della tecnica di risolvere da sé problemi sociali, politici, economici complessi.

Non importa quanto le sfide poste dalla realtà siano imbevute di storia, discriminazione, violenza. Importa la loro riduzione a risposta computabile, quantificabile, algoritmica. Quello che importa, insomma, è la loro riduzione scientifico-matematica, il loro essere sostanzialmente problemi di calcolo, di efficienza. Musk è elevato a rango di divinità perché incarna meglio di ogni altro questo mito soluzionista, che sta al fondamento dell’innovazione secondo Silicon Valley e insieme della nostra stessa idea di progresso. Perché gli ha dato un volto irriverente e affascinante. E perché, contrariamente alla maggioranza dei soluzionisti, qualche soluzione l’ha prodotta davvero.

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