Camilleri e De Crescenzo scrittori pop, non giganti..

Nella stessa settimana di mezza estate, un luglio di cinque anni fa, il Sud, l’editoria italiana e la letteratura popolare persero due grandi pop-writer e due figure pubbliche con grande seguito: Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo. Entrambi hanno reso più accattivante il sud, i suoi linguaggi, il suo modo di vivere e di pensare, la Sicilia di Camilleri e la Napoli di De Crescenzo. La sorte ha dato a Camilleri il privilegio di vivere una lucida e riverita vecchiaia, ha recitato per vent’anni il ruolo di Grande Vecchio e di Oracolo Siculo della Tv e delle Lettere. Invece ha dato a De Crescenzo un ventennio di declino e di ritiro dalle scene pubbliche per ragioni di salute. Ricordo vent’anni fa a una cena De Crescenzo si presentò esibendo un biglietto preventivo di scuse perché non riconosceva i volti delle persone, anche a lui note o addirittura amiche. I primi tempi si pensò a una spiritosa trovata dello scrittore, che conoscendo molte persone non ricordava i loro nomi e dunque era un modo gentile e simpatico per scusarsi in partenza della distrazione e non passare per superbo e scostante. In realtà soffriva di prosoagnosia, una malattia seria.

Entrambi sono stati scrittori assai popolari, e l’uno deve molto alla traduzione televisiva dei suoi romanzi, l’altro al cinema e alla partecipazione attiva nella simpatica scuola meridionale di Renzo Arbore. De Crescenzo si tenne sempre lontano dalla politica e dalle ideologie, si definì monarchico, indole di destra ma votante a sinistra, un po’ ateo e un po’ cristiano, ma preferì non mischiarsi nelle vicende della politica. Camilleri invece da anni ormai aveva assunto il ruolo di testimonial della sinistra, si era schierato apertamente in modo radicale, con qualche nostalgia del comunismo e un’antipatia viscerale che tracimava nell’odio verso Berlusconi ieri e verso Salvini di recente, fino alla famosa dichiarazione del vomito. Ma per giudicare un autore si deve avere l’onestà intellettuale e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nella letteratura. A questo criterio ci sforziamo di attenerci, ma l’aperto schierarsi di Camilleri gli è valso da morto una glorificazione veramente esagerata. Mentre De Crescenzo ha avuto un trattamento sottotono.  Eppure De Crescenzo, oltre a riabilitare con arguzia il sud, aveva avuto il merito non secondario di aver reso simpatica e popolare la filosofia a tanti, e soprattutto la filosofia antica. Aveva reso famigliare la figura di Socrate, i presocratici, lo Zarathustra nietzschiano, stabilendo un ponte con la Magna Grecia. I professori di filosofia trattavano con sussiego De Crescenzo, come se fosse un abusivo del pensiero e un profanatore della filosofia: ma lui non ha trascinato in basso la filosofia, ha innalzato il lettore comune facendogli scoprire e amare la saggezza dei filosofi. Lui è stato un campione amabile di filosofia pop. Quanti accademici contemporanei hanno allontanato i lettori dalla filosofia, coi loro linguaggi involuti che nascondevano scarsa originalità e più scarso acume. Allontanavano la gente senza avvicinarsi alle vette del pensiero. Meglio De Crescenzo a questo punto…

Dal canto suo Camilleri è stato uno scrittore di talento, ha inventato un suo linguaggio gustoso e simil-siciliano, ha scalato le classifiche librarie quanto e più di De Crescenzo, anche perché la narrativa tira più della saggistica, le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo, aiutato dal successo televisivo di Montalbano che è una delle fiction più vendute nel mondo.  Ma i necrologi agiografici, gli infiniti servizi dedicati dai tg, i paragoni con Pirandello e Verga, e perfino con i classici, non gli hanno reso un buon servizio.   Quando muore un personaggio pubblico bisogna rispettare la memoria e difenderlo dai suoi detrattori come dai suoi esagerati incensatori. Camilleri intrigava con le sue trame, sapeva gigioneggiare in video e sul palco, col suo tono da cassandra sicula e l’aura istrionica del vegliardo, assumendo un ruolo ironico-profetico. Grande affabulatore. Sul piano civile, sbandierava l’antifascismo, seppure molto postumo, ieri antiberlusconiano, poi antisalviniano. Una polizza per farsi incensare, come era già avvenuto in vita, e come è avvenuto in morte. Era uno scrittore bravo, un giallista e un autore di polizieschi di successo, non un Gigante, non il Grande Scrittore che entra nella storia della grande letteratura. Non esagerate, Camilleri rimane nella bestselleria corrente e nella personaggeria di scena del nostro tempo. Non rendetelo ridicolo, paragonandolo a Pirandello e Verga e pure a Sciascia. E’ come se negli anni trenta avessero paragonato Guido da Verona e Pitigrilli, autori di successo e di talento, a D’Annunzio e Pirandello. Via, abbiate senso della misura e delle proporzioni. Non mettetegli pennacchi e aureole, abbiate rispetto di un morto; lo scrissi allora sui social e oltre a una marea di consensi ricevetti insulti isterici dai suoi fan, che sono spesso lettori di un solo autore, non hanno termini di confronto, e credono che leggere Omero o Camilleri, Proust o Saviano sia la stessa cosa. La mia polemica non era rivolta contro Camilleri ma contro chi lo usa per scopi politici e lo innalza a tal punto da rendergli un cattivo servizio. Sappiate distinguere il successo dalla gloria, il cantastorie dalla storia, il “colore” dal pensiero. Pirandello descrisse a teatro la condizione dell’uomo contemporaneo, la perdita delle verità, l’avvento del relativismo; Camilleri seppe intrattenere, piacevolmente, migliaia di lettori e milioni di spettatori. Sono due cose diverse. Camilleri non è Pirandello, e De Crescenzo non è Benedetto Croce. Lo dico per difendere la verità e la memoria di ambedue, De Crescenzo e Camilleri.

Marcello Veneziani                                                                                      

L’insicurezza,che non fa bene..

 

Un adulto dovrebbe essere in grado di gestire una critica neutrale che non è una critica alla persona ma al comportamento, che è evidentemente sbagliato e manchevole.

Ma no.

Le persone vanno subito sulla difensiva perché entrano nel senso di colpa, si sentono “sbagliate” e aggredite, e non sanno gestire la carica emotiva che ne consegue se non riscaricandola sull’altro .Questa dinamica, nelle relazioni, è quanto di più devastante perché si finisce per non dirsi più nulla, e accumulare risentimento e rancore, dato che l’altro è una sorta di cristallo che appena viene sfiorato, va in frantumi. Una maturità emotiva accetta qualche scossa, qualche spinta, qualche crepa. Se non lo fa significa che c’è un IO debolissimo, che deve continuamente mettersi in sicurezza perché percepisce tutto il mondo come pericoloso e potenzialmente scompensante, all’infuori di quelli che lo venerano e lo validano. Il non poter comunicare apertamente di qualsiasi cosa ovviamente in modo consapevole, in una relazione, è l’inizio della fine.

Claudia Crispolti

 

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Il segreto antico del miracolo italiano

Il vero miracolo italiano non è il boom economico tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso, l’epoca dei boomers e dello sviluppo straordinario di un Paese passato da agricolo e premoderno a industriale e avanzato; invaso dalle fiat e dai frigoriferi, dell’immigrazione a Torino, Milano e Roma, pervaso dalla fiducia e della dolce vita. Il miracolo italiano, quello che rende ancora oggi questo paese unico al mondo e meta universale di turisti, visitatori e pellegrini, è nato alcuni secoli prima. È quando l’arte incontrò il pensiero e la religione e nacque quell’irripetibile miracolo che la rese patria mondiale della bellezza, dell’arte, del genio e della fantasia.
In principio fu Platone che ebbe secoli dopo il suo transito terreno, due figli: Plotino, nato sulle sponde del Nilo forse da famiglia romana e Agostino, nato a Tagaste, in Algeria. Due emigrati d’eccezione. Plotino fondò la scuola platonica a Roma, portando la sapienza greca e orientale nel cuore dell’impero e poi della cristianità. Agostino, il berbero, il fenicio, venuto a Milano, tradusse Platone nel cristianesimo e congiunse la filosofia antica alla teologia cristiana.
Non capiremmo Dante, il padre della civiltà italiana e universale, senza quei presupposti. Platone sbarcò a Firenze nel quattrocento. Ad annunciarlo fu un singolare filosofo bizantino, Giorgio Gemisto detto Pletone, per assonanza col Maestro; ma poi a rendere Platone di casa a Firenze fu un singolare pensatore, teologo, astrologo e traduttore: Marsilio Ficino, nativo di Figline Valdarno (dove l’ho ricordato ieri sera in un incontro) che ebbe in dono da Cosimo de’Medici un palazzo a Careggi, dove rifondò l’Accademia platonica, divenuta Accademia fiorentina. La frequentavano Poliziano, Pico della Mirandola, gli stessi Cosimo e Lorenzo de’Medici e molte eccellenze del suo tempo.
Ficino tradusse, tra l’altro, il corpus platonico, le Enneadi di Plotino, le opere dei neoplatonici e il de Monarchia di Dante in lingua “italiana”. Definì Dante in modo perfetto: “per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho”. Ficino dette una base di pensiero, una teoria, a quella fioritura eccezionale di artisti che tradussero i miti dell’antichità e la storia sacra del cristianesimo in figure, memorabili affreschi e pale d’altare. Botticelli, Tiziano, Raffaello, Tintoretto, Piero della Francesca, e poi Michelangelo e Leonardo, solo per citare i nomi universalmente noti. La religione si fece narrazione figurativa, attraverso capolavori che furono la traduzione della fede in bellezza: la Pietà, il giudizio universale, l’Ultima cena, solo per citarne alcuni. Ma anche la magia, la tradizione ermetica, il mondo degli dei, la scuola di Atene. Il pensiero mescolato alla teologia si fece pittura. E da quell’incrocio creativo di mito, pensiero e religione, o  – se preferite – di grecità, romanità e cristianesimo, nacque il miracolo italiano. In quel tempo fu soprattutto miracolo fiorentino, i mecenati, oggi diremmo gli sponsor, i committenti furono i papi e i signori del tempo. Di quel miracolo, Marsilio Ficino fu il crocevia nel Quattrocento: nato nel 33, vissuto 66 anni, morto nel 99: chi crede alla simbologia numerica forse darà un senso a quelle date ternarie.
Marsilio Ficino era figlio del medico dei Medici, non è un bisticcio; fin da ragazzo fu apprezzato dai signori di Firenze come una mente illuminata. Era un po’ gobbo, bleso, aveva un’indole malinconica, comune a molti spiriti magni; suonava inni orfici col liuto, componeva canti astrologici, studiava la magia, simpatizzò per Savonarola. Per lui l’amore era amaro; l’amore non corrisposto, diceva, era una morte in vita; e probabilmente c’era qualcosa della sua vita in quel pensiero.
A lui si deve la rinascita di Platone in Italia e della tradizione che parte da lui. Le sue due maggiori opere, il de Amore e la Theologia Platonica, esordiscono con la parola chiave: Plato, il suo ispiratore. Non è un pensatore originale, Marsilio Ficino, ma non vuole esserlo, come non volle esserlo Plotino, che si schernì dicendo che aveva solo ripreso le fonti della sapienza, aveva rianimato il pensiero di Platone e del suo magnifico allievo, Aristotele: “Le nostre teorie non sono nuove né di oggi”, vengono da molto lontano. Per loro era più importante la Tradizione che essi rappresentavano, piuttosto che l’originalità di un ingegno solitario. E corale fu il miracolo italiano, il frutto irripetibile e prodigioso di un clima, di un pensiero che s’incarnava in pittura, poesia, bellezza.
Ma lo scopo non era estetico, rivolto solo al piacere del bello; perché la bellezza, come l’amore, era un modo per elevarsi a Dio, per avvicinarsi alla Bellezza divina, di cui era un riflesso e un presagio. L’amore era per Ficino un’ascesa al cielo, in un percorso di purificazione, sublimazione e spiritualizzazione dell’eros. Dio crea la mente angelica, poi l’anima e infine il corpo dell’universo.
La forza segreta di quel miracolo era nella fusione di espressioni e ambiti che noi oggi immaginiamo separati: la pittura, l’architettura, in generale l’arte; la meditazione filosofica, i saperi magici, la scienza; la fede e la visione di Dio. Anche i corpi erano presagio e annuncio di una vita spirituale.
Marsilio Ficino è considerato il padre della psicologia. Ma quel padre era figlio al tempo stesso delle forme e degli archetipi platonici, di Plotino e di Sant’Agostino, del paganesimo e del cristianesimo, e della fede unita alla magia attraverso i misteri. Prese tante direzioni il pensiero rinascimentale, e anche l’arte; col tempo si fece scienza, in alcuni casi divinizzazione (si pensi a Pico) dell’uomo al centro dell’universo.
Ma con Marsilio Ficino quel mondo, quella gerarchia di esseri e di beni, per citare San Tommaso, era ancora coesa, unita, non si pensava separata.
Cos’è l’anima per Ficino? E’ copula mundi, come lui la definisce, unifica l’universo, si fa anima mundi e lega tutte le cose, visibili e invisibili. Non capiremmo la psicanalisi di Jung senza il platonico Marsilio; un famoso allievo di Jung, James Hillman, riconobbe il debito verso il fiorentino e verso quella linea platonica, che passa da Plotino e giunge fino a Vico. E come in Vico è fondamentale in Marsilio l’immaginazione, la fantasia creatrice. Anche Marsilio vede i dodici Dei come archetipi della psicologia; gli dei perduti, per Jung sono diventate malattie dell’anima.  Perché ricorrere alla psicanalisi moderna e nordeuropea, dice Hillman a noi italiani e mediterranei, quando avete la tradizione originaria in casa, le fonti di una “psicologia straordinaria”. Occorrerebbe, dice, rifarsi alla “controeducazione” di Marsilio Ficino.
Insomma, quello fu il vero miracolo italiano che ha sparso nella penisola città d’arte, cattedrali, luoghi mirabili e capolavori. Ogni tanto ricordiamoci su quali tesori siamo seduti, e ripensiamo alle fonti artistiche e fantastiche, filosofiche e teologiche, di quel miracolo.

Marcello Veneziani                                                                                                             

La nostalgia è l’amor fati. Ciò che si lascia è perduto. La rotta del destino la tracciamo noi.

Recensione di Biagio Riccio

Il presente è ponderato con difficoltà, soprattutto quando uno spezzone della vita sia stato vissuto intensamente.
Affiora il sentimento della nostalgia, dell’irripetibile condizione di un tempo passato, sfiorito.
Come se il presente si annullasse, non esistesse: vi è un conato dell’anima, uno sforzo proteso al ricordo, ad un richiamo del passato, al suo contesto già compiuto.
Se infatti si intende ripetere un film già visto, o fare una rimpatriata, non sarà mai più come prima.
Senti la vecchiezza del presente, la tristezza di una condizione impossibile.
La vigoria del fisico non si può ripristinare, nemmeno con la chirurgia plastica: certe donne non accettano la corrosione del tempo, il presentarsi implacabile delle rughe, la caduta delle forze e ricorrono ad interventi medici che ridicolmente imbruttiscono- (inesorabilmente)-con tiraggi della pelle, il volto e le parti del corpo.
Così non si fa: si ama anche la caduta del tempo: sovvien la tenerezza d’animo che è sublime.
La vecchiezza frantuma il corpo, ma non la voglia di vivere:amate le rughe, sono la gioventù dell’anima.
La nostalgia è una curva, un portarsi all’indietro per raccogliere il tempo versato. Riconosce il fascino dell’inattuale, l’ irriducibilita’ del destino, che giocoforza deve scorrere, come un fiume che deve sfociare nel mare.
La corrente non può risalire, rigurgitare, deve andare irreversibilmente verso quella direzione.
È questa condizione dell’uomo che non accetta il suo destino.
Perché se siamo felici, egoisticamente desideriamo che il tempo si fermi, diventi eterno, non corra verso l’ignoto: la paura e l’angoscia ci prendono.
Ci voltiamo, dunque, indietro e siamo nostalgici: in greco “ritorno” si dice nòstos.
Álgos significa “sofferenza”.
La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare al già vissuto.
Proust ne ha scritto un capolavoro: “Alla ricerca del tempo perduto”.
D’Annunzio dei versi bellissimi ( La sabbia del tempo): si evoca la condizione dell’ uomo, come quella di chi si pone in un ozio immobile (trattenuto dal cavo della mano) al cospetto della clessidra nella quale scorre la sabbia (sempre), anche quando la capovolgi.
“Come scorrea la calda sabbia lieve per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve.
E un’ansia repentina mi assale”.
L’uomo dunque deve vivere ed accettare il suo destino predisporsi al futuro, ad una progettualità che deve superare anche la consapevolezza della morte.
Amor fati.
È l’amor fati: accettare il destino della vita per cambiarla, per possederla, per rimuovere la nostalgia che produce melanconia.
Questa è la filosofia dell’ottimismo, del dominio della volontà sull’evento, della forza sulle cose.
Una dichiarazione d’amore per la vita.
Dire sì a tutto: sofferenza e felicità, dispiacere e piacere, miseria e gioia, malattia e salute, tristezza e allegria, dolore e soddisfazione, depressione ed estasi, prostrazione ed esaltazione, lutto ed esultanza.
Ecco perché bisogna porsi sotto il segno del fanciullo che vive sanamente nell’innocenza del divenire, come ci aveva insegnato Nietzsche.
Amiamo ciò che accade, perché l’accadere ha luogo nella forma più potente, più feconda, più vera della volontà di potenza, perché essa è pura necessità.
Amor fati come ha scritto in un bellissimo libro Marcello Veneziani è un antidoto al fatalismo contemporaneo: accogliere l’essere nel suo accadere, perché essere è avere un destino, è accettare la vita con i suoi limiti e le consunte responsabilità, non struggersi per essere altro e stare altrove, è amore metafisico per la realtà, è la serenità degli inquieti, una adeguata replica alla grandezza infinita del destino.
Si deve tendere all’espansione della vita, alla ricerca del piacere e dell’ottimismo.
La mitologia segna lo scorrere del tempo: come un filo che un giorno sarà tagliato.
Le figlie della notte, le Moire sono tre: Cloto, nome che in greco antico significa “io filo”, che appunto filava lo stame della vita; Lachesi che significa “destino”, che lo avvolgeva sul fuso e stabiliva quanto del filo spettasse a ogni uomo; Atropo che significa “inflessibile”, che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile.
La nera Atropo va rimossa : ciò che si lascia è perduto, se non è vissuto.
Amiamo il destino per tracciarne noi la rotta.

( a margine di Amor Fati di Marcello Veneziani).

La filosofia educa alla vita…

Ma poi a che serve la filosofia? Domanda di sempre, risposta di mai, sottile rimprovero di esistere nonostante la sua certificata inutilità. E magari sottintesa accusa d’impostura. Eppure la filosofia non riguarda solo i filosofi, o peggio i professori, cioè i cultori di quella scienza, come dicono le menti piccine, “con la quale e senza della quale tutto rimane tale e quale”. E invece no. E non solo perché ci sono cose inutili che pure sono necessarie per vivere e per capire il mondo. Ma la filosofia è un bene pubblico, universale, tocca ciascuno di noi, sin da bambini, quando l’attitudine poetico-filosofica è più acuta e smagliante, come tutte le cose appena inaugurate, fresche di vita. Ciascuno a suo modo, secondo la sua mente, il suo rango di pensiero e di cultura, il suo livello di comprensione e di lettura; ma tutti siamo in varia misura filosofi e ci nutriamo senza saperlo di filosofia. Lo sapevano le popolazioni del sud del mondo, non solo del nostro meridione, ma dell’infinito oriente, dove la filosofia è una pianta naturale che pure genera frutti invisibili a occhio nudo; la chiamano in modo diverso, ma la visione della vita e del mondo è essenziale per stare al mondo.
Ma oltre i motivi universali che affronta la filosofia c’è un tema specifico, diretto, pratico, che è sempre stato importante e che oggi sembra non esserlo più mentre è ancora più importante di prima: è la filosofia come educazione a vivere, esercizio pratico di vita. Traggo questa definizione, semplice e completa al tempo stesso, da un grande studioso, Pierre Hadot, scomparso nel 2010. Ho seguito Hadot lungo tante sue opere dedicate a Plotino, a Marc’Aurelio, a Seneca, al pensiero antico e a quelli che lui chiama “esercizi spirituali”. Prete mancato, ma non deluso dalla religione, solo “emancipato”, come lui dice, Hadot ha visto la filosofia non come puro sapere, ma come un mezzo per trasformare l’uomo, farlo vivere meglio, a occhi aperti, ed elevarlo.
Ora è uscita un’importante raccolta di suoi saggi, tradotta da Giorgio Leonardi, dedicata a La filosofia come educazione degli adulti (Marietti1820). E’ un’opera che esorta a vivere la filosofia e non solo a leggerla, a farla diventare esercizio quotidiano, pratica di vita, allenamento a vivere e a morire, e – se mi è permesso estendere lo sguardo – a saper invecchiare.
Il tutto è condensato in uno sguardo che il più saggio imperatore di tutti i tempi, Marc’Aurelio, sintetizzava in modo mirabile: “vivere ogni momento come se fosse il primo e l’ultimo”: lo sguardo del filosofo comprende lo stupore di essere al mondo e la lucida coscienza di lasciarlo. Nella saggezza antica Hadot fa convergere la vigilanza stoica, la gioia epicurea e l’ispirazione mistica in Plotino. Filosofare è destarsi, vivere a occhi aperti. Platone e Aristotele riconoscevano che lo stupore è alla base del filosofare, ma anche la capacità di apprendere a morire. Lo stupore di nascere e il dolore di svanire sono i confini del suo pensare la vita; la meraviglia di essere al mondo e la lucida consapevolezza di doverlo lasciare. Imparare a morire fu la lezione che Hadot trasse da adolescente da Montaigne; quella lezione traduceva la capacità di addestrarsi a morire e insieme di addomesticare la morte che già gli antichi ponevano alla base della saggezza. Da questa visione, Hadot trae un comportamento, auspica la nascita di scuole o comunità che sappiano insegnare, apprendere e mettere a frutto quei pensieri, vivendoli nella quotidianità. Proposito ancora più urgente nel tempo in cui scompaiono non solo quelle riflessioni, quella cogitatio vitae et mortis, ritenute importune, da rimuovere; ma spariscono anche i maestri e gli allievi, non ci sono più discepoli, mancano gli eredi, e tutto finisce nel nulla. Eppure la vita è connessione, trasmissione, trasferimento di conoscenze ed esperienze, ricordo e promessa, vivere è annodare ponti, stabilire continuità. Perfino Nietzsche il solitario ha sognato di vivere in comune con un gruppo di filosofi, dice Hadot, “per elevarsi a una vita superiore nel segno del dialogo e dell’amicizia”. La filosofia sorge in solitudine ma genera comunità.
Il livello più profondo di quella connessione è individuato da Hadot nella mistica, e nell’insegnamento segreto, simbolico, tramite allegoria che conduce “all’unione intima e diretta dello spirito umano al principio fondamentale dell’essere” inteso sia come vita pratica che come conoscenza. Il fine è liberarsi dall’Ego e da Narciso – dice Plotino – e ritornare al Tutto, ricongiungersi all’Uno. Oltre un certo livello, la coscienza non basta più, anzi “senza coscienza – osserva Plotino – gli atti sono più puri, intensi e vivi al più alto grado”. Giunge l’estasi, breve e folgorante, la fusione amorosa, la gioia mistica. La precede il sentimento del sacro che per Hadot suscita angoscia e serenità insieme.
Il filosofo per Hadot resta fondamentalmente un educatore, ben sapendo che come diceva Kierkegaard (ma lo diceva anche Gentile) “essere maestro è essere discepolo”. L’educazione, spiega Hadot, si assume il compito di “raddrizzare” il fanciullo, portando alla luce il bambino che è dentro di noi. La filosofia è arte di vivere: educa a essere al mondo, a comprenderlo, ad amarlo e a lasciarlo.
Compito della filosofia, aggiunge Hadot stavolta seguendo il Kant “illuminista” di “Sapere Aude!” (Osa sapere) è educare a pensare con la propria testa. Proposito mirabile se non si traduce nella pretesa autonomia della ragione da ogni testo e contesto e da tutto ciò che non nasce nella nostra testa: ci sono pensieri, tradizioni, riti, simboli e liturgie che ci precedono e ci sovrastano e la nostra intelligenza è anche la duttile capacità di mettere a frutto esperienze, patrimoni, consuetudini, idee ereditate.
Il presupposto è l’amore della verità che accompagna il filosofo. Ma come si dimostra la verità? Hadot ricorre al filosofo spiritualista Louis Lavelle: “La verità è un atto vivo…si dimostra attraverso la sua efficacia, attraverso la comunicazione che stabilisce tra noi e l’universo, tra noi e tutti gli altri esseri”. Ossia la verità non è pura enunciazione, teoria, ma prova pratica, la si scopre solo vivendola. Tesi bella e ardua.
Gli esercizi spirituali per Hadot ci permettono di superare il punto di vista individuale e parziale; ci concentrano sul presente, fanno guardare le cose dall’alto e curano l’anima. E tuttavia Hadot riconosce che spesso “noi filosofi viviamo in una bolla”, gli esercizi spirituali si riducono a esercizi intellettuali; così fallisce la missione del filosofo. Hadot ricorda quando da giovane si era chiuso per molti giorni in casa a studiare i neoplatonici; poi quando finì la sua ricerca, andò dal fornaio a comprare il pane. E lì comprese di aver vissuto lontano dal mondo, dal laborioso rumore della vita, lontano dal pane fresco, sfornato ogni giorno a scandire il ripetersi e il rinnovarsi della vita quotidiana. La fragranza di una baguette, appena sfornata, lo restituì alla semplice bellezza della vita.

Marcello Veneziani     

Da John Berger, “My beautiful”…complotto.

 

Il desiderio sessuale, quando è reciproco, dà vita a un complotto di due persone contro il resto dei complotti in atto nell’universo. È una cospirazione a due.  Il piano è offrire all’altro una possibilità di respiro in mezzo al dolore del mondo. Non la felicità, ma una sorta di sospensione fisica davanti all’enorme responsabilità dei corpi nei confronti del dolore. In ogni desiderio c’è tanta compassione quanto appetito. Entrambe le cose si complementano. Il desiderio è inconcepibile senza la ferita.  Chi vive senza ferite, vive anche senza desiderio. Il desiderio si propone di proteggere il corpo desiderato dalla tragedia che lo raffigura, e ancor di più, si sente in grado di farlo.  La cospirazione consiste nel creare insieme uno spazio, un luogo, necessariamente temporale, per esimersi dalla ferita inguaribile della carne.  Questo luogo è l’interno dell’altro corpo.  I cospiratori si perdono, ciascuno dentro dell’altro, dove nessuno potrà mai scovarli.

Il desiderio è uno scambio di nascondigli.

 

desiderio

Non c’è nulla di più surreale dell’ambientalismo…

Nel “Manualetto per la prossima vita”, Ermanno Cavazzoni scrive contro questa assurda idea della possibilità di cambiare il clima con i comportamenti

Il surreale non mi è mai piaciuto molto eppure “Manualetto per la prossima vita” di Ermanno Cavazzoni (Quodlibet) mi è piaciuto eccome. Perché non c’è nulla di più surreale dell’ambientalismo, dell’idea di cambiare il clima coi comportamenti, di salvare la Terra dicendo cento volte al giorno “sostenibile”, e lo scrittore emiliano, nel capitolo intitolato “E’ da sempre in atto una crisi che non finirà mai”, surrealmente scrive contro questa surrealtà: “Finiremo come il pianeta Venere che è arrivato a una temperatura di 470 gradi al suolo. Può darsi che la colpa sia dei vesuviani, che hanno continuato allegramente a andare in macchina con motori inquinanti, euro 1, euro 2, a usare combustibili fossili, la plastica non riciclabile, a non fare la raccolta differenziata”. Forse davvero il simile si cura col simile, forse, non potendo farli ragionare, gli ambientalisti vanno neutralizzati con la loro stessa follia, raddoppiandola e facendola scoppiare. Forse agli ambientalisti bisogna dare ragione come si fa con i pazzi, dichiarandosi contrari all’attuale “sistema procreativo fondato” – ricorda Cavazzoni – “sullo strofinamento dei sessi, che come è noto produce calore, contribuendo allo scioglimento dei poli”.

Camillo Langone___da IL FOGLIO

ambiente

Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com’è.

 

Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com’è.

Mettersi vicino a coloro per i quali questo mondo è diventato intollerabile e ascoltarli.

L’unico sogno che vale la pena di vivere è vivere finché si è vivi e morire solo quando si è morti.

Cosa significa esattamente?

Amare. Essere amati.

Non dimenticare mai la propria insignificanza.

Non abituarsi mai alla violenza indicibile e alla volgare disparità della vita che ci circonda.

Cercare la gioia nei luoghi più tristi,  inseguire la bellezza là dove si nasconde.

Non semplificare mai quello che è complicato  e non complicare quello che è semplice.

Rispettare la forza, mai il potere.

Soprattutto osservare. Sforzarsi di capire.

Non distogliere mai lo sguardo.

E mai, mai dimenticare.

John Berger – da  Modi di vedere

berger

Il figlio…

 

Il figlio porta con sé il suo segreto inaccessibile al padre. Il figlio non è forse un mistero che resiste a ogni sforzo di interpretazione? E’ un fatto: ogni figlio porta con sé – già nel suo respiro – un segreto inaccessibile. I nostri figli sono nel mondo – esposti alla bellezza e all’atrocità del mondo – senza riparo. Sono – come tutti noi – ai quattro venti della vita nonostante o grazie all’amore che nutriamo per loro. La condizione del figlio coincide con quella dell’uomo: in una vita possiamo non diventare padri o madri, mariti o mogli, possiamo anche non avere sorelle o fratelli, ma nessun essere che abita il linguaggio, nessun essere umano, può non essere figlio. La vita viene alla vita sempre da un’altra vita, è da sempre, in questo senso stretto, in debito con l’Altro. Il processo di filiazione contiene questo paradosso: la vita umana è attraversata dalla vita dell’Altro, porta dentro di sé non solo un patrimonio genetico come marca biologica della sua provenienza, ma anche le parole, le leggende, i fantasmi, le colpe e le gioie delle generazioni che l’hanno preceduta. E’ fatta, costituita interamente, dalle tracce dell’Altro. Per un altro verso, la condizione del figlio è quella di realizzarsi come erede. Essere figli significa, infatti, avere il compito di ereditare, di fare nostro ciò che l’Altro – nel bene e nel male – ci ha dato. Ogni figlio porta sulla sua nuca rasata le tracce – illeggibili – dell’Altro. Siamo sempre scritti, parlati, marchiati dall’Altro. Portiamo sulle nostre nuche le sentenze, le maledizioni, gli auspici, le speranze, i desideri e le gioie delle nostre madri e dei nostri padri. Portiamo su di noi la scrittura dell’Altro senza mai poterla leggere chiaramente, né decifrare compiutamente. E’ questo il paradosso della filiazione: le colpe dei padri ricadono sempre sui figli. Ma i figli non sono mai solo il frutto di quelle colpe. Esiste una discontinuità, uno scarto, un resto inassimilabile tra la colpa dei padri e l’ombra della sua ripetizione nei figli.

Massimo Recalcati,  Il segreto del figlio.

Da Edipo al figlio ritrovato

 

imagepadre e figlio

Elogio della nostalgia, la fonte da cui nasce l’arte…

La nostalgia si addice a quel che è stato, riguarda il passato. Qualcuno anni fa parlò perfino di nostalgia dell’avvenire ma il significato era trasparente: costruire il futuro sulle tracce di un mitico passato. La nostalgia del presente fu invece il titolo d’una famosa poesia di Borges, dove il desiderio combaciava con la realtà. Al di là di Borges, la nostalgia del presente appare quasi uno scippo di vitalità alla pienezza del tempo in atto, un’emorragia vitale o una schizofrenia mentale, il contrario del carpe diem. È il sentore di non vivere abbastanza il presente, di non trattenere alcuna traccia di quel che sta accadendo, come se finisse prima che se ne prenda pieno possesso. E dunque indica il timore e il dolore di veder sfiorire le situazioni presenti.  La fotografia è una forma tecno-pratica di nostalgia del presente: immortalare il momento o il luogo, cioè fermarlo, depositarlo nella sacca della nostalgia, l’archivio. Il vintage è invece la nostalgia applicata agli oggetti.  La poesia nasce da un sentimento di nostalgia preventiva: mentre vivi un’esperienza, un incontro, una presenza, prefiguri il suo svanire, avverti il presagio della sua assenza. E da quel sentimento di perdita sorge la poesia, che è il tentativo estremo di eternizzare o tesaurizzare quel momento, quel luogo, quell’incontro e di farlo vivere in un altrove, oltre il tempo e lo spazio. Salvare nei cieli della poesia quel che finisce in terra, dissipato nei giorni. La poesia è la dimora della nostalgia, intima e cosmica; la poesia sorge sull’amore perduto o caduco, sul presagio doloroso di una mancanza, passata, presente o ventura.  La nostalgia è il sentimento originario che ha mosso l’arte, il pensiero e la  grande letteratura di ogni tempo: si pensi all’Odissea, il poema della nostalgia.  Il filosofo della nostalgia è Plotino che nel nome di Platone eresse un pensiero incentrato sul conato dell’anima a ricongiungersi all’Uno da cui è sgorgata.  Ma il termine nostalgia, benché evocante due parole antiche – nostos e algos – è  recente e non sorge in ambito filosofico-letterario bensì medico-scientifico. Indicava infatti una malattia diagnosticata poco più di tre secoli fa e riguardava i soldati svizzeri che pativano la lontananza dalla loro valle, la loro patria.  Quel sentimento di lontananza spaziale, che in seguito fu ribattezzata apodalgia, coi romantici si tramutò in lontananza temporale. Non più distanza spaziale che implica la presenza pur remota di ciò che si anela a rivedere; ma distanza temporale, riferita a un tempo trascorso; dunque sentimento disperato che non può essere esaudito.  Il suo più acuto sensore fu Marcel Proust, il suo capolavoro riassume il senso della nostalgia: alla ricerca del tempo perduto. Il suo prologo in cielo, ossia la sua versione metafisica, è il paradiso perduto, che è poi l’unico paradiso da noi conosciuto, secondo Borges. Da Omero a Kavafis, da Saffo a Pasolini, la nostalgia è l’anima della poesia. L’uomo è un animale nostalgico, non sa vivere solo del presente. Vive tra l’attesa ponderata del futuro (Kant) e la nostalgia delle origini (Plotino, Vico, Mircea Eliade).  La follia odierna pretende di abolire la nostalgia e negare il passato. Questo da un verso implica la cancellazione della memoria storica ma dall’altro comporta la velleità utopica di proiettare la condizione di allora nel momento presente. L’infanzia e la giovinezza sono le fonti della nostalgia? Aboliamo la nostalgia e viviamo nell’illusione del puer aeternus, figurandoci come bambini permanenti, sempre giovani.  La sindrome di Peter Pan nega la nostalgia perché rifiuta di considerare il tempo che passa. La nostalgia, invece, accoglie il principio di realtà: quella condizione, quell’atmosfera è passata, è trascorsa da storia a mito. La separazione dal presente rende sacro quel passato. Il fascino della nostalgia è lì: evoca un evento o uno stato irripetibile e irrevocabile. Non puoi rifarlo né puoi cancellarlo. Come i classici, le grandi imprese, gli amori perduti. L’arte che ne scaturisce sublima quella mancanza, e il desiderio esala fino alle stelle (de-sidera). Per il bambino perenne, invece, il desiderio va esaudito e così cessa l’arte, nata dalla nostalgia che è il dono della mancanza.   Analoga pretesa hanno i movimenti nostalgici che vogliono ripristinare un passato concluso. Il passato lo puoi amare e onorare ma non puoi riportarlo in vita. È morto e può vivere solo nel mito. La nostalgia è un nobile sentimento intimo e universale ma non può essere un programma storico-politico.  La storia è una freccia, la nostalgia è invece una curva; la pietà del ritorno che si curva a raccogliere il tempo versato. La nostalgia riconosce il fascino dell’inattuale, irriducibile all’attualità. Ma è ingenuo idealizzare il passato .  La superiorità ontologica del passato sul presente è un’illusione ottica che nasce da due motivi: il rimpianto bioepico della nostra infanzia/giovinezza e l’occhio magico della nostalgia che è selettiva e conserva del passato solo le cose amate.  Ci sono temperamenti più inclini alla nostalgia e altri più protesi alle novità. Ci sono i migranti di prua che amano vedere lo scafo che solca nuove onde e punta nuove terre, appena intraviste, e ci sono i migranti di poppa che amano vedere il paesaggio originario che si perde alla vista e la scia sul mare è il suo estremo cordone ombelicale. Beato chi ama ambedue, le origini e l’approdo, divino chi le combacia. La nostalgia è il canto, e l’incanto, di un tempo che passa al mito. Il passato che vive e non passa si chiama invece Tradizione, che è patrimonio trasmesso, eredità perpetuata, perennità che continua nel corso del tempo.  Ci sono giorni e sere soprattutto in cui avverti il peso ottuso della vita andata. Il male, il nulla, il falso, il poco, il mio, il futile, il labile, sono i sette colori di quest’iride spettrale che va dal nero al bianco, ingrigendo la vita. Senza la luce della nostalgia scema la policromia del mondo. È la nostalgia a dare colore al passato.  C’è un proficuo esercizio d’amore per animare la nostalgia nell’intimità. Chiudete gli occhi e concentratevi a ricordare ad una ad una le voci delle persone più care e assenti. Passatele in rassegna, lentamente, fino a sentirle risuonare nella memoria e nel cuore, associandole allo sguardo, l’ultimo sguardo di loro che vi è rimasto impresso benché remoto e ormai sfocato. Per dare più forza a quell’esercizio ripartite dalla memoria della vostra voce che li chiama. Li vedrete apparire e sentirete la loro voce che vi parla e il loro sguardo che vi guarda.  Questa è l’arte di procurarsi i sogni, di rianimare il passato e di con-vocare gli assenti in un simposio di nostalgia. Un esercizio difficile e delicato, come risalire la corrente, sfidando le rapide impetuose che invece trascinano verso il basso, nella valle dell’oblio. La pietà della vita è protesa a risalire la corrente del tempo.  La nostalgia è quel dolore dolcissimo che pervade l’anima per una lontananza che sentiamo vicina e per un’assenza che sentiamo presente.

Marcello Veneziani