Seduzione e innamoramento…

È vero che vi è anche chi riesce a indurre qualcuno a innamorarsi di lui o di lei, ma in questo caso non si tratta di amore ma di una contraffazione, abbastanza frequente peraltro: la seduzione. Il termine è formato dal pronome” sé” e dal fonema “duzione” che viene dal verbo latino ducere, “condurre”(da cui anche dux, duce), per cui la se-duzione è la conduzione dell’altro verso di sé, atto supremo di narcisismo che sfrutta come un parassita la sete di “amore dell’altro. L’amore vero è l’esatto opposto, è la co2nduzione di sé verso l’altro, la riconduzione all’altro di tutte le nostre energie, così da abbattere la statua de”ll’ego e dilatare l’anima per crearvi all’interno una radura accogliente. Perché si possa parlare propriamente di amore, l’ego deve venire inciso, ferito, lacerato, e poi aperto, tirato, disteso.., un po’ come la pasta quando si fanno le tagliatelle che viene tirata e stesa con il mattarello. Al sorgere dell’amore infatti l’ego viene attratto in modo irresistibile, e quindi necessariamente doloroso, da una forza molto più intensa, qualcosa di avvolgente e di primigenio che l’attira ma anche lo spaventa, una specie di magnetismo cosmico che giace al fondo dei viventi e che all’improvviso inizia a emettere una specie di radiazione incontenibile-

Vito Mancuso

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Da un libro datato (1977) ,ma sempre molto attuale…

 

Viviamo in un mondo piuttosto sgradevole, dove non soltanto la gente, ma anche i poteri stabiliti hanno interesse a comunicarci degli affetti tristi.

La tristezza, gli affetti tristi sono tutti quelli che diminuiscono la nostra potenza d’azione. I poteri stabiliti hanno bisogno delle nostre tristezze per fare di noi degli schiavi. Il tiranno, il prete, i compratori d’anime hanno bisogno di persuaderci che la vita è dura e pesante. I poteri hanno meno bisogno di reprimerci che di angosciarci, o, come dice Virgilio, di amministrare e organizzare i nostri piccoli intimi terrori. Il lungo pianto universale sulla vita: la mancanza-a-essere che è la vita… Si ha un bel dire “balliamo”, uno non è affatto contento. Si ha un bel dire “che disgrazia la morte”, si sarebbe dovuto vivere per avere qualcosa da perdere. I malati, sia nell’anima che nel corpo, non ci molleranno, come vampiri, finché non ci avranno comunicato la loro nevrosi e la loro angoscia, la loro prediletta castrazione, il risentimento contro la vita, l’immondo contagio. È tutta questione di sangue. Non è facile essere un uomo libero: fuggire la peste, organizzare gli incontri, aumentare la potenza d’azione, commuoversi di gioia, moltiplicare gli affetti che esprimono o sviluppano un massimo di affermazione. L’ Anima e il Corpo, l’anima non è né di sopra né di dietro, essa è “con”, e sulla strada, esposta a tutti i contatti, gli incontri, in compagnia di coloro che la seguono sullo stesso cammino, “sentire insieme a loro, cogliere la vibrazione della loro anima e della loro carne mentre passa”*, il contrario di una morale della salvezza, insegnare all’anima a vivere la propria vita e non a salvarla.

Gilles Deleuze e Claire Parnet __ Conversazioni

 

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Verità e libertà nascono e muoiono insieme…

 

Come se la passano la verità e la libertà nel nostro tempo? L’una è negata nel nome dell’altra ma entrambe sono tradite sul piano pratico. L’altro giorno mi è stato chiesto di affrontare il rapporto tra Libertà e Verità alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, dialogando col card. Angelo Bagnasco (incontro organizzato da Fare bene e concluso degnamente dal cardinale).
Viviamo nell’epoca della verità relativa e della libertà assoluta. Il sottinteso di ogni discorso pubblico, o l’enunciato di partenza, è in questo doppio preambolo: la verità non esiste, ma esistono tante verità, provvisorie e soggettive (relativismo); la libertà è il bene assoluto per eccellenza, sciolto da tutto, premessa di tutto; nulla precede, delimita, contiene la libertà che alla fine coincide con l’autorealizzazione: io sono ciò che voglio essere.
Non più l’evangelico “la verità vi renderà liberi” ma il suo rovescio, la libertà vi renderà veri, ossia come voi vi sentite e/o volete essere.
Ma la libertà in sé non ci conduce alla verità, perché la libertà ci apre al vero come al falso, al bene come al male, al giusto come all’ingiusto: ci dà la possibilità di conoscere e amare il vero ma anche di negarlo e calpestarlo.
Strada facendo, calandosi nella vita reale, la libertà assoluta come la verità relativa vengono tradite: da un verso l’assenza di verità e il proliferare di tante verità alla fine soccombono alla verità del più forte, ossia di chi dispone di mezzi più efficaci per imporre la sua verità. E dall’altro verso la libertà assoluta e illimitata si rovescia nel suo contrario, seguendo la china che già Platone aveva previsto, dall’anarchia al dispotismo: dove la libertà è assoluta, cioè senza limiti e senza freni, si rovescia nella tirannide o nei suoi parenti minori, l’intolleranza, la censura, l’egemonia del più forte o ancora di chi dispone di maggior forza. Al posto della verità e della libertà sorgono i surrogati che confluiscono nel conformismo, negazione della libertà come della verità: ossia l’adeguarsi alla tendenza generale e alle prescrizioni del potere. Il conformismo è la caricatura della verità: se la verità è, come diceva S. Tommaso, adaequatio rei et intellectus, ossia il combaciare della realtà con l’intelletto, il conformismo è l’adeguarsi dell’intelletto alla norma fittizia di un canone ideologico che corregge la realtà. Da cui deriva il nuovo bigottismo fondato sull’ipocrisia, cioè sulla falsificazione della realtà. Addio verità, addio libertà.

La verità, secondo i greci, è Aletheia, che non vuol dire solo rivelazione, svelamento, non-nascondere; ma vuol dire anche non dimenticare (il lete era il fiume dell’oblio che fa dimenticare la vita precedente); conoscere è ricordare, diceva Platone. E ricordare culmina nel tornare all’origine.
Scrive Pavel Florenskij: “Io non so se la Verità esista o meno, ma con tutto il mio essere sento che non posso farne a meno, so che, se esiste per me è tutto: ragione, bene, forza, vita, felicità. Forse non esiste ma io l’amo più di tutto ciò che esiste, mi unisco a lei come a tutto ciò che già esiste, e anche se non esistesse, l’amo con tutta l’anima e con tutta la mente, per lei rinuncio a tutto, perfino ai miei quesiti e ai miei dubbi” (La colonna e il fondamento della verità). Dostoevskij dice che se dovesse scegliere tra Cristo e la Verità sceglierebbe Cristo; Padre Pavel sceglie la Verità, sapendo che Cristo coinciderà con lei. Non può essere altrimenti per un vero cristiano.
Perché la verità è impossibile a conoscersi ma necessaria; la verità risplende (Veritatis splendor, secondo l’enciclica di Giovanni Paolo II) ma il suo fulgore acceca, rende il mondo visibile ma in sé è invisibile. La verità rischiara il mondo ma non possiamo fissarla e conoscerla se non attraverso i suoi raggi.
Sul piano della realtà, la libertà e la verità devono misurarsi con le imperfezioni, i limiti, le contraddizioni della vita reale. E questo significa due cose. Da una parte la verità esiste, è il fondamento della realtà e la matrice dell’essere ma è inconoscibile per intero, nessuno ne detiene il pieno possesso e tantomeno il monopolio; è un mistero. Nessuno possiede la verità ma la verità possiede noi, avrebbe detto Ratzinger. Per gli uomini la verità è una ricerca, un anelito e una parziale conquista: se, come sosteneva Vincenzo Gioberti, la verità è un poligono dagli innumerevoli lati, agli uomini è consentito solo conoscere alcuni aspetti del vero; solo Dio può conoscere per intero la verità. L’uomo deve dunque accontentarsi del certo, direbbe Vico, ovvero dell’evidenza della realtà e delle verità derivate dall’esperienza, dal sentire comune delle genti, dalla tradizione e dalla storia. L’uomo può solo testimoniare l’amor del vero e la sua ricerca incessante. La verità non è figlia del tempo (veritas filia temporis), perché se lo fosse sarebbe deperibile, provvisoria, momentanea. Semmai, la verità è figlia delle nozze tra il tempo e l’eternità.
Dall’altra parte, la nostra libertà non è mai assoluta, perché non siamo dèi e non disponiamo del mondo: la libertà è sempre in relazione agli altri, ha bisogno di limiti, confini e misura, non può mai prescindere dalla realtà, dalle condizioni di vita, dalla relazione con gli altri, dal contesto. La libertà non nega il vero, non cancella o abolisce la realtà nel nome dei propri desideri; è una tensione tra diritti e doveri, limiti e opportunità; e la libertà di ciascuno è limitata dalla libertà degli altri, rispetto a cui non può prevaricare.
Non esiste solo la libertà da qualcuno e da qualcosa, ossia la libertà come emancipazione, liberazione, non impedimento; e non esiste solo la libertà di dire, di fare e di avere, ossia la libertà come facoltà di agire e pensare; ma esiste anche la libertà per qualcosa che dà sostanza, senso e qualità alla libertà: come usi la tua libertà, cosa intendi farne? Esiste anche una libertà distruttiva e autodistruttiva che non può essere consentita.
Anzi, la libertà in sé non è un valore, e tantomeno un valore assoluto, ma è la condizione necessaria per scegliere i valori. È come l’aria, l’ossigeno, che non può essere lo scopo della vita, ma è la condizione necessaria per vivere.
Insomma, la libertà è un mezzo, la verità è un fine; un mezzo necessario per un fine trascendente. La libertà senza la verità si rovescia nel suo contrario, è imposizione e impostura. Ma anche la verità senza la libertà si rovescia nel suo contrario, è imposizione e impostura. Se sparisce l’una, finisce l’altra.
Anzi per dirla nello spirito natalizio, la nascita dell’una è premessa alla nascita dell’altra.

Marcello Veneziani

Resilienza o forza d’animo. Chiamala come vuoi…

 

Oggi la si chiama “resilienza”, una volta la si chiamava “forza d´animo”, Platone la nominava “tymoidés” e indicava la sua sede nel cuore.

Il cuore è l´espressione metaforica del “sentimento”, una parola dove ancora risuona la platonica “tymoidés”.Il sentimento non è languore, non è malcelata malinconia, non è struggimento dell´anima, non è sconsolato abbandono. Il sentimento è forza. Quella forza che riconosciamo al fondo di ogni decisione quando, dopo aver analizzato tutti i pro e i contro che le argomentazioni razionali dispiegano, si decide, perché in una scelta piuttosto che in un´altra ci si sente a casa. E guai a imboccare, per convenienza o per debolezza, una scelta che non è la nostra, guai a essere stranieri nella propria vita. La forza d´animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi. Qui è la salute. Una sorta di coincidenza di noi con noi stessi, che ci evita tutti quegli “altrove” della vita che non ci appartengono e che spesso imbocchiamo perché altri, da cui pensiamo dipenda la nostra vita, semplicemente ce lo chiedono, e noi non sappiamo dire di no. Il bisogno di essere accettati e il desiderio di essere amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire come non nostre, e così l´animo si indebolisce e si ripiega su se stesso nell´inutile fatica di compiacere agli altri. Alla fine l´anima si ammala, perché la malattia, lo sappiamo tutti, è una metafora, la metafora della devianza dal sentiero della nostra vita. Bisogna essere se stessi, assolutamente se stessi.

Questa è la forza d´animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la nostra ombra. Che è poi ciò che di noi stessi rifiutiamo. Quella parte oscura che, quando qualcuno ce la sfiora, ci sentiamo “punti nel vivo”. Perché l´ombra è viva e vuole essere accolta. Anche un quadro senza ombra non ci dà le sue figure. Accolta, l´ombra cede la sua forza.  Cessa la guerra tra noi e noi stessi. Siamo in grado di dire a noi stessi:  “Ebbene sì, sono anche questo”. Ed è la pace così raggiunta a darci la forza d´animo e la capacità di guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga.”Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte”, scrive Nietzsche. Ma allora bisogna attraversare e non evitare le terre seminate di dolore.  Quello proprio, quello altrui. Perché il dolore appartiene alla vita allo stesso titolo della felicità. Non il dolore come caparra della vita eterna, ma il dolore come inevitabile contrappunto della vita, come fatica del quotidiano, come oscurità dello sguardo che non vede via d´uscita. Eppure la cerca, perché sa che il buio della notte non è l´unico colore del cielo.

Di forza d´animo abbiamo bisogno soprattutto oggi perché non siamo più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell´esistenza e incerta s´è fatta la sua direzione. La storia non racconta più la vita dei nostri padri, e la parola che rivolgiamo ai figli è insicura e incerta. Gli sguardi si incontrano solo per evitarsi. Siamo persino riconoscenti al ritmo del lavoro settimanale che giustifica l´abituale lontananza dalla nostra vita. E a quel lavoro ci attacchiamo come naufraghi che attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il mare è minaccioso, anche quando il suo aspetto è trasognato.  Passiamo così il tempo della nostra vita, senza sentimento, senza nobiltà, confusi tra i piccoli uomini a cui basta, secondo Nietzsche: “Una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute”. Perché ormai della vita abbiamo solo una concezione quantitativa. Vivere a lungo è diventato il nostro ideale. Il “come” non ci riguarda più, perché il contatto con noi stessi s´è perso nel rumore del mondo. Passioncelle generiche sfiorano le nostre anime assopite. Ma non le risvegliano. Non hanno forza. Sono state acquietate da quell´ideale di vita che viene spacciato per equilibrio, buona educazione. E invece è sonno, dimenticanza di sé. Nulla del coraggio del navigante che, lasciata la terra che era solo terra di protezione, non si lascia prendere dalla nostalgia, ma incoraggia il suo cuore. Il cuore non come languido contraltare della ragione, ma come sua forza, sua animazione, affinché le idee divengano attive e facciano storia. Una storia più soddisfacente.

 Umberto Galimberti    

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Alla ricerca dei maestri e degli eredi perduti.

 

 

Senza eredi è il titolo del mio nuovo libro, edito da Marsilio, e viaggia tra maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella.

È un’impresa temeraria parlare di maestri in un’epoca che non conosce eredi e non si riconosce erede di niente e di nessuno. Non siamo eredi, non lasciamo eredi. Non ereditiamo niente, non lasceremo alcuna eredità. È questa, per dirla in modo diretto e brutale, la condizione odierna. Riguarda, in varia misura e a diversi livelli di coscienza, ciascuno di noi, nella vita personale e in quella pubblica e sociale. Ma non risparmia nessun ambito. Viviamo in un’epoca di contemporanei senza antenati né posteri, uniti solo dal vago domicilio nello stesso tempo; non consorti, al più coinquilini. Nella storia dell’umanità questa è la prima epoca senza eredi, o quantomeno è la prima a non riconoscere eredità da custodire e da trasmettere. È la prima ad avvertire, come Luigi xv, che dopo di noi verrà il diluvio, che finirà con noi il mondo in cui viviamo. Nessuno continuerà la nostra opera, nessuno salverà quel che poteva, doveva essere salvato di ogni eredità. Non lasceremo tracce, tutto sarà portato via dall’acqua e dal vento: l’acqua dell’oblio che cancella ogni orma e il vento della rimozione che spazza via ogni cosa. Il tempo non renderà giustizia, e nemmeno i posteri: il tempo non è galantuomo ma smemorato, scorre e scorda. E i posteri, di questo passo, saranno privi di memoria storica e letteraria, e di coscienza critica. È l’epilogo coerente di una società senza padre, poi diventata società senza figli, società parricida e infanticida, all’insegna delle orfanità elettive. La società dei mutanti e dei no-nati, nel senso della denatalità e dell’aborto. Il nichilismo alla fine mantiene la promessa: di tutto resterà niente, dopo di noi il nulla. A chi lasci i tuoi beni, il tuo patrimonio di vita, spirituale e reale, la tua biblioteca, la tua opera, il tuo archivio di ricordi, oggetti e pensieri? Ai topi e agli inceneritori. Da quel patrimonio verrà estratto al più il valore venale e mercantile, sarà quantificato e svenduto. Se privo di valore commerciale, vorranno disfarsene nel modo più rapido e indolore, roba da svuotacantine o da wc chimico. Dovrà svanire senza lasciare traccia di sé.

Anche in politica, leader e movimenti si presentano come il nuovo che avanza, effettuano radicali restyling che sono un periodico disfarsi delle eredità per apparire più adeguati al presente e meno gravati da ingombranti macerie. Altre app ci attendono, non è tempo di mantenere le vecchie. La storia in sé è un peso insopportabile. Figuriamoci la tradizione, che non è solo memoria, ma è pure connessione. Sono disconosciuti i maestri, la loro opera e la loro lezione. Non hanno nulla da insegnare, perché provengono da un tempo arretrato rispetto al nostro, con tecnologie e modi di pensare e di vedere superati, per il tribunale supremo del presente. Nessun abitatore del passato può guidarci nel futuro, le sue chiavi di lettura non aprono le serrature del tempo che verrà. L’erede universale dei saperi è l’Intelligenza Artificiale; ma è erede anaffettiva del patrimonio accumulato: né anima né sangue, solo magazzino di dati. Per reagire a questa amnesia, cancellazione ed emorragia, e salvare il salvabile, nasce questa raccolta di ritratti di maestri, che segue ai cento profili raccolti nel volume Imperdonabili. In gran parte si tratta di altri autori, ma ritornano alcuni imperdonabili esplorati sotto aspetti diversi. Sono miniature di saggi, succinte biografie, in cui c’è in nuce l’autore, l’opera e un pensiero su di loro. Sono una settantina di ritratti non convenzionali, in vari casi sconvenienti. Da Pascal a Kant, da Burke a de Maistre, da Manzoni a Baudelaire, da Verga a Proust, da Kafka a Buzzati, alcuni grandi autori e altri contemporanei, anzi viventi. Non mancano i pensatori contrari al mainstream. L’assenza di eredi riguarda anche loro, ma non solo loro: senza eredi sono prima di tutto i classici, i grandi del passato, gli imperdonabili di cui scrissi in un precedente saggio.

Gli autori affrontati non appartengono a uno stesso orizzonte. Sono diversi nei generi, tra letterati, pensatori, scrittori del giornalismo; differenti sono le loro sensibilità, le loro stature e i loro esiti. Il filo che li unisce è l’intelligenza della scrittura, la forza della loro testimonianza, pur disuguale. Non tutti ammirevoli, non tutti amabili. Ma in modi diversi rappresentano il variegato poliedro della cultura e della civiltà letteraria. Sono ritratti in gruppo eterogeneo, nei campi e nei tempi, come nella Scuola di Atene dipinta da Raffaello. Ma di loro, come di ogni autore, grande e piccino, si può dire una sola cosa che davvero li unisce in un comune, avverso destino: non hanno più eredi. Speciale oblio dei maestri investe l’Italia che più di tutti poteva nutrirsi di prestigiose eredità nell’arte, nella lingua, nella letteratura, nel pensiero. Piccola nazione, grande civiltà; grande cultura, piccolo Stato; magnifica nelle arti, nella storia e nella civiltà, malfamata nella politica, nei servizi e nella vita pubblica. Non ci sono maestri, nemmeno cattivi. Tutt’al più maestrini e funzionari intolleranti al servizio del pensiero vuoto e della visione cieca. Non maestri in grado d’insegnare qualcosa e orientare il pensiero verso una prospettiva realmente divergente rispetto allo status quo. Se c’è qualcuno, si colloca ai margini, inavvertito, nascosto, non pervenuto, disconosciuto, borderline, anzi oltre la linea. Mancando un pensiero, dispersi gli intellettuali, sparito ogni orizzonte di attesa, finiscono pure i cattivi maestri.

Al loro posto ci sono gli influencer, i manipolatori dei desideri, sull’onda delle tendenze, col loro potere di suggestione e di emulazione, tra mode e consumi; gli agenti pubblicitari, che veicolano e indirizzano la brama di merci usando modelli e tabù prescritti; i top model dello star system, gli impresari della comunicazione che non insegnano ma seducono e conformano, agendo sul linguaggio, sull’immaginario globale e sul narcisismo individuale di massa.

Tuttavia non ci rassegniamo e ripetiamo con il drammaturgo austriaco Franz Grillparzer: «Se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io sono venuto da altri tempi e in altri tempi spero di andare». Nonostante tutto, continueremo a sentirci eredi di autori e tradizioni e a onorare i maestri, i padri, i fratelli maggiori. E, se saremo soli, vuol dire che saremo in compagnia degli dei, degli assenti, degli invisibili.

Marcello Veneziani    

Siamo figli del latino almeno quanto siamo figli delle stelle…

Siamo figli del latino almeno quanto siamo figli delle stelle: con questa frase, che può strappare un sorriso o far canticchiare il motivetto del celeberrimo brano, Vittorio Feltri nel suo saggio “Il latino lingua immortale. Perché è più vivo che mai” (Mondadori) conduce il lettore, sin dalle prime pagine, attraverso il sentiero percorso non solo da Cicerone, Cesare o Virgilio, ma anche dai loro contemporanei, con modi di dire che erano attuali all’epoca e lo sono tutt’oggi, dimostrando quanta modernità ci sia nell’idioma che parlavano i nostri avi. Nella singolare veste di cultore di una lingua dal suono ammaliante che, come lui stesso racconta, ha fatto parte della sua esistenza sin da giovanissimo, Feltri prende posizione sin dall’inizio: con il latino non abbiamo mai smesso di fare i conti e il suo sconfinato legame nasce dalla capacità della lingua di racchiudere in un numero ridottissimo di parole anche concetti profondi e articolati. La gratitudine verso questa lingua – che, come una linfa, ha fatto fiorire arte, letteratura, innovazione, filosofia – non riguarda solo la plasmazione di una forma mentis, di una struttura logica rigida, l’interrogarsi sul senso di ogni parola o all’attenzione ai dettagli, ma soprattutto il suo fungere da lievito madre che fa accrescere competenze trasversali, predispone al problem solving e dona capacità nel gestire le informazioni complesse.

Perché, come diceva Antonio Gramsci: «Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita». Facendo comprendere al lettore in che maniera l’evoluzione abbia strutturato il lessico fino ad arrivare alla farmacologia, all’informatica e alla pubblicità, Feltri illustra la genesi e il significato, sia di vocaboli sia di frasi spesso travisate nel corso del tempo, come il celeberrimo carpe diem (cogli il giorno), alea iacta est (il dado è tratto), de gustibus non est disputandum (sui gusti non si deve discutere), do ut des (dò affinché tu dia), homo homini lupus (ogni uomo è un lupo per un altro uomo), per aspera ad astra (attraversare le difficoltà per arrivare alle stelle).

Al di là dell’indole provocatoria ed opinabile, che sempre contraddistingue Vittorio Feltri, il lettore ha la possibilità di scavare attraverso fatti di cronaca come l’assassinio del giornalista Walter Tobagi, gli omicidi del mostro di Leffe, l’allunaggio dell’Apollo 11, e di confrontarsi con il tema politico contemporaneo e non, che ciclicamente ritorna, come l’inchiesta su Mani Pulite, l’ascesa imprenditoriale e politica di Silvio Berlusconi, il Governo Meloni, la sindacatura di Virginia Raggi e il premierato di Matteo Renzi.

Una lingua precisa, il latino, un terreno mimetizzato che grazie a Virgilio, Orazio, Svetonio, Cicerone e Seneca continua ad indicarci il senso delle nostre esistenze, nonostante l’enorme distanza temporale che ci separa dalle loro opere. Una lingua con un’energia sufficiente per accendere ancora dibattiti, in grado di smuovere coscienze servendosi di parole ben scelte, per trovare l’utile che si nasconde in un linguaggio, nonostante la ricerca della bellezza venga meno, ogni giorno di più, nonostante la Storia che ci accompagna da secoli e il patrimonio culturale che avremmo sotto gli occhi. Possiamo affermare che questo testo è un’opera dall’aria nostalgica e rassicurante con un punto di vista che a molti suonerà familiare, ben confezionato nel suo insieme, un sentito attestato di stima verso una lingua che è tutt’altro che deceduta. Un’opera che tutti potrebbero aver la curiosità di leggere, giovani e meno giovani, amanti o meno della cultura classica.

Valeria Di Brisco _Gazzetta del Sud

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“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

 

Crepet, genitori ed insegnanti devono rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità: “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna avere coraggio…
“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

In un mondo in cui tutto sembra avere un prezzo e dove occorre sempre ostentare per poter vivere serenamente, in un mondo in cui è più importante l’apparire che l’essere, diventa sempre più difficile soffermarsi e riflettere su delle tematiche rilevanti, pertinenti alla nostra persona, al nostro animo, ma soprattutto alla nostra felicità.A tal fine Paolo Crepet, nel suo libro “Mordere il cielo”, pone l’accento proprio su tale aspetto. Lo psichiatra coglie l’occasione per rammentarci quando negli anni Settanta sul mercato farmaceutico fu inserito il Prozac, la cd “pillola della felicità”.Il principio farmacologico su cui si basava il Prozac era la fluoxetina: una molecola utile per combattere la depressione, l’ansia, attacchi di panico ma anche bulimia o condotte suicidarie. Si arrivò così ad una “commercializzazione del benessere”: l’idea di non aver più bisogno di un percorso con uno psicoterapeuta, lungo e costoso, e di poter vivere serenamente, raggiungere un proprio equilibrio psicofisico senza alcuno sforzo e senza alcuna perdita di tempo, cominciò a diventare predominante. Ciò che lascia basiti è come in poco tempo si diffuse la convinzione che bastasse una pillola per risolvere qualsiasi tipo di problema, era sufficiente solo un piccolo sforzo per preservare la salute e combattere le patologie che attanagliavano l’animo. Con il passare del tempo però questa “illusione” cominciò a svanire: gli effetti collaterali verificatisi ed un uso sconsiderato da parte dei giovanissimi creò un grande disorientamento.  L’aspetto più drammatico che iniziò a delinearsi fu proprio quello dell’utilizzo del farmaco, un antidepressivo, per poter curare disturbi alimentari, come la bulimia, nella convinzione, sviluppatasi fra migliaia di adolescenti, che ci si potesse “curare” solo con una pillola, senza sforzo, fatica e soprattutto senza alcuna responsabilità.

“L’aspetto è identità”, come sottolinea Crepet e ben presto ebbe ancora più successo e venne maggiormente utilizzato un farmaco nato originariamente per curare il diabete di tipo 2, l’Ozempic. Tale farmaco veniva utilizzato non solo per contrastare l’obesità ma anche un leggero sovrappeso, così da poter dimagrire velocemente. Si diffuse, infatti, la necessità di curare il proprio corpo, l’aspetto esteriore di una persona, si giunse ad una sorta di “terapia cosmetica”: la cura di se stessi non doveva determinare alcun aggravio, pena o preoccupazione. Attraverso la “pillola della felicità” ci si poteva deresponsabilizzare e pensare che una mera cura farmacologica potesse risolvere qualsiasi problema dell’animo: occorre essere perfetti esteticamente, il nostro corpo deve essere perfetto a tutti i costi, mentre si trascura l’aspetto interiore, quello psicologico. “La ricerca della felicità riposa nello stereotipo di un corpo che esige perfezione”, così sottolinea lo psichiatra Crepet.

Le nuove generazioni sembrano non fidarsi più del futuro, sembrano aver perso qualsiasi tipo di ambizione, aspirazione, desiderio ed allora ecco il ruolo fondamentale dei genitori e degli insegnanti: occorre rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità, occorre qualcuno che ci insegni a guardare il mondo dalla giusta prospettiva, con occhi disincantati, stupendoci, giorno dopo giorno, delle cose più semplici che però ci riempiono di felicità e di amore. La vita è davvero bellissima ed ognuno di noi ha diritto di viverla a colori, con le sue sfumature, godendosi quell’arcobaleno che contraddistingue la propria esistenza: ci saranno sicuramente giornate in cui potremmo anche intravedere alcune sfumature di grigio ma ce ne saranno altrettante in cui la felicità riuscirà a colorare la nostra vita e a renderla unica e speciale. “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna rovesciare l’evidenza, sciogliere gli spasmi delle visioni più egoistiche, preparare le valigie per il viaggio verso le idee più impronunciabili. Non c’è differenza e non c’è giudizio”, queste le parole significative e pieno di pathos di Crepet. Ciò che occorre comprendere è che “il bello è riuscire a essere imprevedibili anche nella prevedibilità”.

Bisogna avere il coraggio di scombinare le cose del mondo.“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a declinare, e a difendere”, così evidenzia il sociologo Paolo Crepet. Le nuove generazioni devono ricominciare a sognare, devono appassionarsi alla vita, vivendo ogni attimo intensamente, senza pause, interruzioni, soste: bisogna custodire gelosamente le proprie ambizioni ed i propri sogni perché solo vivendo appassionatamente, senza mai fermarsi, si potranno perseguire le proprie mete e raggiungere i risultati sperati. Non c’è tempo per omologarsi, per vivere anestetizzando le proprie emozioni, non c’è tempo per la noia e per l’ovvietà: bisogna vivere intensamente, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, portando avanti le proprie idee e convinzioni, senza ricercare mai il consenso di qualcun altro.

da__ A Scuola Oggi

 

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Adolescenti, meno rischi di abusi e depressione con padri più presenti…

 

La cosa peggiore che può capitare al padre di uno o più adolescenti è leggere un vademecum, tra le migliaia che si trovano in rete, su come essere un buon genitore rafforzando la propria relazione con la prole. In genere sono strutturati come una lista di buoni consigli, in genere servono solo a ricordare i difetti sche si hanno e gli errori che si sono commessi. Però è vero che si basano, prevalentemente, su una letteratura scientifica corposa, a sua volta fondata su dati raccolti tra decine di famiglie ed è da da queste ricerche, da questi dati che bisogna partire.

Uno studio effettuato dalla Penn University, ad esempio, ha provato a stimare l’impatto della maggiore o minore intimità tra genitori e figli adolescenti: basata su 388 ragazzi da 202 famiglie, ha misurato la loro condizione psicologica in tre momenti diversi tra i 12 e i 20 anni, differenziando i soggetti sulla base del rapporto costruito col padre e con la madre, ricostruito dai ricercatori con una serie di domande su quanto andassero da loro a chiedere consiglio, quanto si confidassero, quanto li mettessero a parte delle loro questioni personali.
Risultato: una maggiore intimità col padre produce un minor rischio di sintomi depressivi attraverso tutta l’adolescenza, una maggiore con la madre lo produce verso la metà di questo periodo delicato, intorno ai 15 anni; una maggiore intimità col padre crea meno preoccupazioni in merito al peso corporeo sia nei ragazzi sia nelle ragazze per gran parte dell’adolescenza, mentre l’intimità con la madre svolge questo ruolo prevalentemente nei primi anni e quasi solo nei ragazzi
In generale la letteratura scientifica tende a coincidere: nelle famiglie con due genitori un maggior coinvolgimento del padre – non solo nella modalità tipica di una volta, quella normativa – migliora i risultati accademici dei figli, ne aumenta l’autostima e, più in generale, li fa stare meglio.
Ma è vero anche che a pesare sulla salute mentale dei ragazzi e sulle loro capacità di raggiungere gli obiettivi che si prefiggono, pesano tanti di quegli elementi da rendere difficile legare i miglioramenti esclusivamente alla solidità emotiva della figura paterna: lo status socioeconomico di partenza, per esempio, ha un ruolo centrale.
Il rapporto più corposo sul benessere dei ragazzi in età scolare viene realizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e si basa su dati raccolti in 44 Paesi, dai quali emerge che il 20% più povero del campione ha maggiori difficoltà a risolvere i problemi, a raggiungere i risultati che desidera, denuncia una situazione di salute fisica e mentale peggiore e si sente più solo. I ragazzini che provengono da famiglie meno danarose, peraltro, tendono più degli altri ad un utilizzo “problematico” dei social network.
Avere un padre e averlo presente può essere utile (ovviamente), ma non è detto che sia l’elemento fondante nello sviluppo di quei bambini che saranno gli adolescenti e poi gli adulti di domani. Più in generale, si nota in una ricerca realizzata dall’università di Halle-Wittenberg, in Germania, quello che conta di più è il clima familiare.
Ancora una volta si ricade nell’impalpabilità delle relazioni, laddove il tentativo di misurare cosa è bene e cosa è male si scontra col vissuto di ciascun nucleo famigliare, comunque sia composto e di qualsiasi genere siano i suoi protagonisti, che vi sia un padre o no, che vi sia solo il padre, che il padre sia lontano, che siano due o che ci siano due madri.
E qua si torna ai decaloghi, che spiegheranno per filo e per segno come essere un padre (o una madre) ideale; proveranno a tracciare un confine tra nuova genitorialità ed eccesso di confidenza; indicheranno – banalmente, correttamente – la via dell’ascolto e della pazienza. Ma ogni famiglia ha il suo calderone di limiti, parole ed errori. Così come ogni adolescente è una persona a sé. E come lo è, naturalmente, ogni padre.

Simone Spetia   

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Camilleri e De Crescenzo scrittori pop, non giganti..

Nella stessa settimana di mezza estate, un luglio di cinque anni fa, il Sud, l’editoria italiana e la letteratura popolare persero due grandi pop-writer e due figure pubbliche con grande seguito: Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo. Entrambi hanno reso più accattivante il sud, i suoi linguaggi, il suo modo di vivere e di pensare, la Sicilia di Camilleri e la Napoli di De Crescenzo. La sorte ha dato a Camilleri il privilegio di vivere una lucida e riverita vecchiaia, ha recitato per vent’anni il ruolo di Grande Vecchio e di Oracolo Siculo della Tv e delle Lettere. Invece ha dato a De Crescenzo un ventennio di declino e di ritiro dalle scene pubbliche per ragioni di salute. Ricordo vent’anni fa a una cena De Crescenzo si presentò esibendo un biglietto preventivo di scuse perché non riconosceva i volti delle persone, anche a lui note o addirittura amiche. I primi tempi si pensò a una spiritosa trovata dello scrittore, che conoscendo molte persone non ricordava i loro nomi e dunque era un modo gentile e simpatico per scusarsi in partenza della distrazione e non passare per superbo e scostante. In realtà soffriva di prosoagnosia, una malattia seria.

Entrambi sono stati scrittori assai popolari, e l’uno deve molto alla traduzione televisiva dei suoi romanzi, l’altro al cinema e alla partecipazione attiva nella simpatica scuola meridionale di Renzo Arbore. De Crescenzo si tenne sempre lontano dalla politica e dalle ideologie, si definì monarchico, indole di destra ma votante a sinistra, un po’ ateo e un po’ cristiano, ma preferì non mischiarsi nelle vicende della politica. Camilleri invece da anni ormai aveva assunto il ruolo di testimonial della sinistra, si era schierato apertamente in modo radicale, con qualche nostalgia del comunismo e un’antipatia viscerale che tracimava nell’odio verso Berlusconi ieri e verso Salvini di recente, fino alla famosa dichiarazione del vomito. Ma per giudicare un autore si deve avere l’onestà intellettuale e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nella letteratura. A questo criterio ci sforziamo di attenerci, ma l’aperto schierarsi di Camilleri gli è valso da morto una glorificazione veramente esagerata. Mentre De Crescenzo ha avuto un trattamento sottotono.  Eppure De Crescenzo, oltre a riabilitare con arguzia il sud, aveva avuto il merito non secondario di aver reso simpatica e popolare la filosofia a tanti, e soprattutto la filosofia antica. Aveva reso famigliare la figura di Socrate, i presocratici, lo Zarathustra nietzschiano, stabilendo un ponte con la Magna Grecia. I professori di filosofia trattavano con sussiego De Crescenzo, come se fosse un abusivo del pensiero e un profanatore della filosofia: ma lui non ha trascinato in basso la filosofia, ha innalzato il lettore comune facendogli scoprire e amare la saggezza dei filosofi. Lui è stato un campione amabile di filosofia pop. Quanti accademici contemporanei hanno allontanato i lettori dalla filosofia, coi loro linguaggi involuti che nascondevano scarsa originalità e più scarso acume. Allontanavano la gente senza avvicinarsi alle vette del pensiero. Meglio De Crescenzo a questo punto…

Dal canto suo Camilleri è stato uno scrittore di talento, ha inventato un suo linguaggio gustoso e simil-siciliano, ha scalato le classifiche librarie quanto e più di De Crescenzo, anche perché la narrativa tira più della saggistica, le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo, aiutato dal successo televisivo di Montalbano che è una delle fiction più vendute nel mondo.  Ma i necrologi agiografici, gli infiniti servizi dedicati dai tg, i paragoni con Pirandello e Verga, e perfino con i classici, non gli hanno reso un buon servizio.   Quando muore un personaggio pubblico bisogna rispettare la memoria e difenderlo dai suoi detrattori come dai suoi esagerati incensatori. Camilleri intrigava con le sue trame, sapeva gigioneggiare in video e sul palco, col suo tono da cassandra sicula e l’aura istrionica del vegliardo, assumendo un ruolo ironico-profetico. Grande affabulatore. Sul piano civile, sbandierava l’antifascismo, seppure molto postumo, ieri antiberlusconiano, poi antisalviniano. Una polizza per farsi incensare, come era già avvenuto in vita, e come è avvenuto in morte. Era uno scrittore bravo, un giallista e un autore di polizieschi di successo, non un Gigante, non il Grande Scrittore che entra nella storia della grande letteratura. Non esagerate, Camilleri rimane nella bestselleria corrente e nella personaggeria di scena del nostro tempo. Non rendetelo ridicolo, paragonandolo a Pirandello e Verga e pure a Sciascia. E’ come se negli anni trenta avessero paragonato Guido da Verona e Pitigrilli, autori di successo e di talento, a D’Annunzio e Pirandello. Via, abbiate senso della misura e delle proporzioni. Non mettetegli pennacchi e aureole, abbiate rispetto di un morto; lo scrissi allora sui social e oltre a una marea di consensi ricevetti insulti isterici dai suoi fan, che sono spesso lettori di un solo autore, non hanno termini di confronto, e credono che leggere Omero o Camilleri, Proust o Saviano sia la stessa cosa. La mia polemica non era rivolta contro Camilleri ma contro chi lo usa per scopi politici e lo innalza a tal punto da rendergli un cattivo servizio. Sappiate distinguere il successo dalla gloria, il cantastorie dalla storia, il “colore” dal pensiero. Pirandello descrisse a teatro la condizione dell’uomo contemporaneo, la perdita delle verità, l’avvento del relativismo; Camilleri seppe intrattenere, piacevolmente, migliaia di lettori e milioni di spettatori. Sono due cose diverse. Camilleri non è Pirandello, e De Crescenzo non è Benedetto Croce. Lo dico per difendere la verità e la memoria di ambedue, De Crescenzo e Camilleri.

Marcello Veneziani                                                                                      

L’insicurezza,che non fa bene..

 

Un adulto dovrebbe essere in grado di gestire una critica neutrale che non è una critica alla persona ma al comportamento, che è evidentemente sbagliato e manchevole.

Ma no.

Le persone vanno subito sulla difensiva perché entrano nel senso di colpa, si sentono “sbagliate” e aggredite, e non sanno gestire la carica emotiva che ne consegue se non riscaricandola sull’altro .Questa dinamica, nelle relazioni, è quanto di più devastante perché si finisce per non dirsi più nulla, e accumulare risentimento e rancore, dato che l’altro è una sorta di cristallo che appena viene sfiorato, va in frantumi. Una maturità emotiva accetta qualche scossa, qualche spinta, qualche crepa. Se non lo fa significa che c’è un IO debolissimo, che deve continuamente mettersi in sicurezza perché percepisce tutto il mondo come pericoloso e potenzialmente scompensante, all’infuori di quelli che lo venerano e lo validano. Il non poter comunicare apertamente di qualsiasi cosa ovviamente in modo consapevole, in una relazione, è l’inizio della fine.

Claudia Crispolti

 

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