La poesia dei paesini perduti…

 

Nei giorni di Pasqua vi consiglio un fioretto civile e sentimentale: andate a ritrovare un paesino del vostro passato. Fate visita a quel piccolo, vecchio, parente delle vostre origini; tutti abbiamo un piccolo paese nel cuore, nativo o adottivo, o sfiorato solo in un giorno d’infanzia o di gioventù. Portatevi come compagno di viaggio un libro di Franco Arminio, poeta e paesologo, come lui si definisce. O paesofilo, direi. Un geopoeta, che non è un poeta geometra ma un poeta della terra, dei luoghi, dei piccoli comuni. “Vorrei essere ricordato con una sola frase, l’uomo che amava i paesi”, dice Arminio, nativo a Bisaccia, nell’Irpinia d’Oriente.
Vi parlerò dei paesi con le parole sue, tratte dai suoi libri. Tornate al vostro paese, esorta il poeta, non c’è luogo più vasto. Cominciate la migrazione al contrario, anche se non è conveniente. Avete una casa vuota che vi aspetta; lì se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto. Una volta, dice il poeta, i paesi erano fatti dei vivi e dei morti. Chi moriva veniva evocato in continuazione. Oggi seppelliamo assai presto anche la memoria. Eppure il paese è una fabbrica dove si producono sentimenti, attese tradite, indifferenze inusuali, presenze mute, sostegni di cui neppure ti accorgi. Avere un paese significa avere più mondo.
Per fare comunità ci vuole un luogo. Il luogo ha una poetica, oltre che un paesaggio. Ci vuole una tensione intellettuale e sentimentale insieme, avverte il poeta. La poesia ha il compito di legarci di più alla Terra, ci radica nella vita. Poesia per fare comunità, per dare coraggio al bene, per ingentilire il mondo più che biasimarloLa poesia è di chi sta al mondo per cantarlo. Amore per l’essere e la realtà, aggiungo io, realismo fisico e metafisico. Il consiglio del poeta è portare la poesia ovunque, in ogni contesto, scolastico, istituzionale, civile. Il nero dell’Italia di oggi, dice bene il poeta, non è il fascismo ma la depressione. C’è gente che finisce la giornata prima di cominciarla. La depressione non è avversata perché non dà fastidio, è remissiva, al più nuoce a se stessi. Ma la scontentezza fa danni, dice il poeta (lo scrissi anch’io in un saggio dedicato agli Scontenti). Si parla tanto di narrazione ma nessuno sa narrare niente; e ci si ammala anche per questo, c’è come un ristagno delle emozioni. Occorre riprendere la cura dello sguardo, la passione di vedere il mondo; e piantare la vostra inquietudine in mezzo al salotto, e ovunque.
Il poeta rivolge il messaggio ai ragazzi di paese e dice loro: prendetevi le albe, non solo il far tardi, contestate con durezza i ladri del vostro futuro, siete la prua del mondo, davanti a voi non c’è nessuno. Ma ricordatevi, aggiungerei io, di quanti c’erano e ci sono dietro di voi, fate pace con la storia, le eredità, le radici, la memoria.
Un paese, avverte il poeta, per sua natura fa resistenza al nuovo, è conservatore. Ma i paesani d’oggi sono inzuppati di sfiducia, sono rami senza radici…Bisogna arieggiare i paesi, agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello più che una comunità pozzanghera. Riabitare i paesi non è questione di soldi, dice il poeta. I soldi servono a farli più brutti, mentre per riabitare i paesi servono piccoli miracoli, una nuova religione dei luoghi; la questione non è economica ma teologica. Siate inattuali.

Il poeta vede ovunque l’impronta del sacro, il sacro minore, che si annida tra gli uomini, la terra, gli animali, le cose, i gesti. E scrive un libro dove la prima parola di ogni poesia è Sacro. Sacra è la poesia, ma solo quando è ladra, quando ruba un poco di miseria al mondo. Sacro era mio padre, dice il poeta, che non amava andarsene a dormire, gli era caro il sonno sul tavolino. Prosegue il poeta, abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Ogni albero è un pensatore, uno storico locale. E invece da troppi anni non arriva un anno nuovo, il mondo è simbolicamente morto.
Poi torni dalla poesia alla realtà e vedi che vanno via tutti dai piccoli comuni; chi resta è vecchio, sordo, disabile, rassegnato o eroico, fedele ad oltranza all’abitudine di un’origine e di mondo ereditato. I provinciali al quadrato, anzi alla terza potenza, per quelli che abitano nei paesini del sud, vivono quest’assedio; ogni giorno si arrende qualcuno e si consegna alla città. Nessuno si cura di loro, non c’è un Corriere dei piccoli che li racconti e li rappresenti, se non un poeta disarmato. Tanti sono i disagi, gli abbandoni, le lunghe noie, di chi vive nei paesini. Eppure nei piccoli comuni conosci più persone che nelle grandi città: nel paesino ti fermi a parlare con cento persone e ne saluti mille, nella metropoli ti fermi a parlare con sei persone e ne saluti venti. Vedi meno folle ma incontri più persone. Il paesano ha più mondo, più vita, più natura. Il paesano non va in farmacia, in caserma, in salumeria, in chiesa ma va dal farmacista, dal brigadiere, dal salumiere, dal parroco. Figure al singolare, non intercambiabili; di tutti sai vita, morte e miracoli. Forse perché sono piccoli comuni fanno più comunella; perché, non so ancora per quanto, sono comunità. Il piccolo comune è come un giardino d’infanzia, anche se abitato da vecchi, lo dovremmo tutelare come un bambino, con premura e tenerezza. Dovremmo aiutarlo ad attraversare la strada della modernità ed estendere ai piccoli comuni la legge a tutela dei minori. Col poeta riconosciamo la letizia senza scampo di vivere sotto la luce del sole; specialmente in un paese piccolo, inerme, ricco della sua piccola immensità.

Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com’è.

 

Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com’è.

Mettersi vicino a coloro per i quali questo mondo è diventato intollerabile e ascoltarli.

L’unico sogno che vale la pena di vivere è vivere finché si è vivi e morire solo quando si è morti.

Cosa significa esattamente?

Amare. Essere amati.

Non dimenticare mai la propria insignificanza.

Non abituarsi mai alla violenza indicibile e alla volgare disparità della vita che ci circonda.

Cercare la gioia nei luoghi più tristi,  inseguire la bellezza là dove si nasconde.

Non semplificare mai quello che è complicato  e non complicare quello che è semplice.

Rispettare la forza, mai il potere.

Soprattutto osservare. Sforzarsi di capire.

Non distogliere mai lo sguardo.

E mai, mai dimenticare.

John Berger – da  Modi di vedere

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Gli schiavi del cobalto…

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«Lascia allibiti e turbati il fatto che nelle economie contemporanee, le cui attività produttive si avvalgono delle innovazioni tecnologiche, tanto che si parla di “quarta rivoluzione industriale”, persista in ogni parte del globo l’impiego dei bambini in attività lavorative». Queste erano le parole che Papa Francesco pronunciava durante l’udienza ai partecipanti a un convegno internazionale. Abbiamo connessioni sempre più veloci, smartphone sempre più potenti ma c’è un prezzo da pagare per la tecnologia. Quale? E soprattutto alle spese di chi?

Il cobalto è un minerale prezioso, utilizzato per la produzione di numerosi dispositivi elettronici, tra cui smartphone, tablet e computer, ma anche per la produzione di batterie agli ioni di litio che alimentano automobili e biciclette elettriche. Il metallo del futuro. Ecco come viene definito, insieme al litio, nell’ultimo studio sulle materie prime condotto dall’economista di Intesa Sanpaolo Daniela Corsini. Un componente essenziale per la transizione energetica quindi, utilizzato da tutti i principali produttori di apparecchiature elettroniche. Ma è dalla Repubblica Democratica del Congo che proviene più della metà della fornitura mondiale di cobalto, il 50 o 70% si concentra nelle miniere del sud-est del Paese. E sono perlopiù i bambini a lavorare in queste miniere e a pagare le terribili condizioni dello sfruttamento. Secondo i dati Unicef del 2014, infatti, sono circa 40.000 i minori sfruttati nelle miniere di cobalto del sud della Repubblica Democratica del Congo e non ci sono dati attendibili più recenti. Secondo le stime del governo, il 20% del cobalto esportato dal Paese proviene da minatori artigianali. Chiamati creuseurs, questi piccoli minatori estraggono a mani nude, utilizzando strumenti di fortuna per scavare le rocce e creare profonde gallerie sotterranee. Molti bambini lavorano 12 ore al giorno se non di più, senza protezioni, in condizioni estreme, tra suolo tossico e acqua acida e con un salario misero, di circa 1.000-2.000 franchi congolesi al giorno, cioè solamente per 1 o 2 euro. Spaccano pietre per poi venderle alle società minerarie. Hanno tra i 7 e i 16 anni, senza contare i neonati fasciati sulla schiena delle madri. Lavorano dopo aver frequentato la scuola e nel fine settimana o, più spesso, dopo averla abbandonata se i loro genitori non possono permettersi le tasse scolastiche. Infatti, nonostante il codice di protezione dei minori della Repubblica Democratica del Congo preveda l’obbligo e la gratuità dell’educazione primaria, i genitori, per la mancanza di finanziamenti statali, devono pagare tasse piuttosto alte. A causa dei carichi troppo pesanti, sacchi che arrivano a pesare anche 20 o 40 kg, addirittura più del peso del bambino stesso, i bambini che lavorano si ammalano più frequentemente dei loro coetanei e subiscono lesioni muscolari o della colonna vertebrale, deformazioni ossee e articolari o ancora sono esposti a tubercolosi, febbre tifoidea e infezioni cutanee. Oltre ad essere picchiati e maltrattati i minori sono spesso vittime di incidenti mortali sul lavoro, a causa dei frequenti crolli che si verificano nei tunnel sotterranei. Amnesty International dichiara che non ci sono dati attendibili disponibili sul numero di minori vittime di incidenti poiché non vengono registrati e i corpi vengono sepolti sottoterra.Gli smartphone e le batterie delle automobili di tutto il mondo sono sulle spalle di questi bambini e negar e il diritto alla salute dei minori, il loro benessere fisico e psicologico, i loro bisogni educativi ed economici per estrarre un metallo centrale per la transizione energetica non è più possibile. La sfida per il futuro dovrà essere quella di migliorare gli strumenti e le regole per riciclarlo e arrivare alla produzione di batterie senza cobalto. Sono numerose le petizioni che chiedono al Governo della Repubblica Democratica del Congo di fermare questo sfruttamento, ma, nonostante
tutto questo, i bambini continuano a lavorare per le nostre comodità; questo è una vergogna per tutto il mondo civile e democratico.

Fonte , Il Cortile dei Gentili

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I ragazzi non leggono e nessuno studia più il greco e il latino. Gli unici orizzonti sono quelli del no alcol o dei superalcolici…

 

Non mi sorprende la crisi italiana e mondiale del vino, in particolare del rosso. Mi sorprenderebbe molto il contrario, un boom di vendite. Perché sarebbe incoerente con le tendenze dell’epoca. Amici produttori mi chiedono: cosa succede? Succede quello che doveva succedere. Il vino è cultura. E a chi interessa più la cultura? Vedete forse moltiplicarsi le librerie? Vedete molti giovani leggere libri sui mezzi pubblici, sulle panchine dei parchi? Il vino è il mondo classico, è Grecia, è Antica Roma. E dove sono gli amanti del greco e del latino? Quanti citano Alceo? Quanti declamano Orazio? Il vino ovviamente è cristianesimo, fatto sacramento nel corso dell’Ultima Cena, il Giovedì Santo, oggi. Ma il cristianesimo, vedi Pioltello, non vale più la pena nemmeno per i preti. Invece i fenomeni moderni, il no alcol e il superalcol (distillati da cocktail), non richiedono conoscenza né impegno, non richiedono nemmeno un’anima. Entrambi riguardano solo il corpo, unico orizzonte del presente. Il no alcol soddisfa il salutismo, lo stolto culto del muscolo mortale, mentre i superalcolici, droga legale, concedono estasi fisica senza le complicazioni delle buone bottiglie. “Il vino sintonizza l’anima su frequenze millenarie” scrive Pietro Castellitto. Ma se l’anima non ce l’hai, e se giudichi i millenni vecchiume, del vino che te ne fai?

Camillo Langone__Il FOGLIO

no vino

Nel silenzio…

 

_Non voglio imparare a non aver paura, voglio imparare a tremare.

Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce.

Non voglio imparare a non arrabbiarmi, voglio sentire il fuoco, circondarlo di trasparenza che illumini quello che gli altri mi stanno facendo e quello che posso fare io.

Non voglio accettare, voglio accogliere e rispondere.

Non voglio essere buona, voglio essere sveglia.

Non voglio fare male, voglio dire: mi stai facendo male, smettila.

Non voglio diventare migliore, voglio sorridere al mio peggio.

Non voglio essere un’altra, voglio adottarmi tutta intera.

Non voglio pacificare tutto, voglio esplorare la realtà anche quando fa male, voglio la verità di me.

Non voglio insegnare, voglio accompagnare.

Non è che voglio così, è che non posso fare  altro.

 

Laura Chandra Candiani

 

Il-silenzio

Se la canzone riflette il male di vivere…

 

Spesso il male di vivere ho incontrato, poetava Eugenio Montale. Quel male di vivere s’insinua anche nella musica leggera, che pure esprime la voglia di leggerezza e di spensieratezza.

La canzone e il nulla. Tema vago e vagamente minaccioso. Ne abbiamo parlato l’altra sera al Festival di popsophia ad Ancona, tra una canzone e l’altra. Il tema era nientemeno “nichilismo e canzonette”. L’accostamento così stridente tra pensiero del nulla e canzonette a prima vista spiazza, induce a un effetto di straniamento. Troppo pesante il fardello del nichilismo sulle fragili spalle della musica leggera. Ma se è vero che il nichilismo è sceso dalle altezze dei filosofi solitari a fenomeno di massa e permea la vita di ogni giorno, i consumi, i linguaggi, la canzone non ne è immune. Il nichilismo intuito due secoli fa da Turgenev e Dostoevskij, Stirner e Nietzsche, poi germogliato tra gruppi, intellettuali e alta società nel secolo scorso, è diventato clima epocale di massa, e se ne fa interprete la musica leggera. Qualche anno fa il filosofo nichilista Manlio Sgalambro, amico e paroliere di Franco Battiato, scrisse una Teoria della Canzone; sostenne che la canzone non è la pappa del cuore, tutta romanticherie e fatuità, ma riflette il tema della nostra epoca, “la morte dello spirito”. La canzone dura quanto la vita di un insetto ma si replica tante volte, sostituisce l’attimo con l’eterno; e la discoteca, arriva a dire, è una palestra di nirvana in versione attuale-occidentale. Eppure è rassicurante la banalità delle canzonette, con le vecchie rime di cuore e amore, il recinto privato dei languori, la storia ridotta a vita intima. Ma per Sgalambro i corpi sputano l’anima sotto le note, si scoprono nel nulla.  Se ascoltate con attenzione alcune canzoni, per esempio Un giorno dopo l’altro di Luigi Tenco, Dio è morto, di Francesco Guccini, Voglio una vita spericolata di Vasco Rossi, o Avec le temps di Leo Ferrè, anche nella versione italiana di Patty Pravo (Col tempo sai) o Ne me quitte pas di Jacques Brel, cogliete il male di vivere, la disperazione affidata alla canzone. E Domenico Modugno de L’uomo in frac, Sergio Endrigo, Gino Paoli, Mia Martini e altri ancora, fino alla più recente “voglia di niente”della musica leggerissima di Colapesce e Dimartino “per non cadere dentro al buco nero che sta a un passo da noi”; cresce il lato d’ombra della musica leggera.  Sotto l’epidermico mondo delle canzonette, in pieno boom economico, poi in pieno impegno ideologico, ora in piena solitudine globale, scorre quel fiume carsico, il sottofondo disperato della società opulenta, oltre la frenesia di vivere e divertirsi. Tragico fu il destino di Luigi Tenco, col suo epilogo suicida; nelle sue canzoni la malinconia della vita oscilla tra la noia e il dolore, il perdersi nel tempo e il vuotarsi dei motivi per vivere che trascina nel nulla. L’epica nichilista è esaltata in Vasco Rossi, con la sua vita spericolata, piena di guai; il caos in cui annega l’esistenza tra fumi e alcol, il vivere per niente, l’istigazione a perdersi nel fiume della trasgressione. Il nichilismo assume tratti apparentemente nietzscheani e dionisiaci, che sembrano evocare il vivi pericolosamente e l’al di là del bene e del male. Quando scrissi di questo fondo nichilistico in Vasco, i suoi fan insorsero con veemenza e lui mi rispose risentito, da un verso negando il nichilismo, che aveva forse confuso con una sostanza stupefacente, e dall’altro spacciando un autoritratto di uomo dedito alla famiglia, con un quadro fiscale, sanitario e giudiziario irreprensibile (ma nessuno si era riferito a queste cose). Ma poco dopo uscì una sua canzone che era un vero manifesto del nichilismo musicale: in Dannate nuvole canta versi come “Niente dura niente”, “Quando cammino in questa valle di lacrime vedo che tutto si deve abbandonare”, “non esiste niente, solo del fumo, niente di vero”. Il vitalismo assoluto si rovescia in un nichilismo cupo, proiettato nel male di vivere senza senso. Siamo oltre Nietzsche, oltre Dioniso, oltre Sartre e gli esistenzialisti, oltre perfino la trasgressione. Altri brevi trattati di nichilismo e di male di vivere si affacciano in molte star e gruppi rock; il più famoso è Jim Morrison, ma è solo la punta di un iceberg. Facile ritrovare scampoli di nichilismo nella musica rock americana e nelle sue varianti hard o heavy e trovare riscontro in certe vite e certe morti precoci o suicide, tra droga, sesso, velocità e rock and roll. Il nichilismo rock, tra allucinazioni e perdita della realtà, insegue déi e demoni estemporanei, vite capovolte, cupio dissolvi, oscuri abissi. La canzone del male di vivere e la scoperta amara che niente ci aspetta, il nulla come destinazione, una volta reso niente il destino.  Sbiadisce il nichilismo nella musica leggera più recente, tra canzoni banali, narcisismo generazionale chiuso al mondo, fantasmi virtuali e autistici. Vivere a orecchio, sostituire il pensiero con l’emozione, la riflessione con la vibrazione, percorrendo il cammino inverso dell’illuminismo kantiano: non elevare l’uomo da mezzo a fine, ma il contrario e vivere di energie emotive, impulsi, ebbrezze aleatorie. L’uomo si fa chitarra, batteria, suono e percussione, veicolo musicale. Dietro l’amoreggiare della musica leggera, serpeggia quella perdita di senso e di scopo nel rifugio nelle pulsioni. Così le canzonette, magari senza volerlo, diventano la scuola elementare del nichilismo, di cui fornisce i primi assaggi o forse gli ultimi cascami. In realtà sono lo specchio di una società snaturata e deculturata, priva di principi, valori, eredità, legami. La musica rispecchia il suo tempo e propaga le sue ossessioni. I pensieri alti come cieli plumbei si specchiano in basso, nelle pozzanghere della quotidianità e si riflettono nella musica leggera. A dimostrazione che esiste un clima d’epoca che i filosofi chiamano Zeitgeist, che colpisce “in alto e in basso”, per dirla con Zarathustra. Nulla da obiettare a chi canta e a chi ascolta, ma i demoni dell’epoca serpeggiano pure nelle canzoni…

Marcello Veneziani       

Ode alla Pace di Pablo Neruda, versi per riflettere in questa settimana Santa.

 

 

 

L’Ucraina prima e la Palestina adesso ci fanno avvertire l’orrore della guerra , che colpisce soprattutto gli inermi, coloro che con questi obbrobri non hanno niente a che spartire, ma pagano per coloro che li governano malamente , senza scrupoli.
La follia umana ha preso il sopravvento su ogni valore umanamente condivisibile,il dominio del mondo è ormai l’unico obiettivo delle grandi potenze, attente a mantenere le loro supremazie su un pianeta allo sfascio ecologico, morale e intellettuale, obiettivo ridurre l’uomo ai minimi termini per garantire massimi profitti a chi sopravviverà
Ecco perché  condivido una poesia che è un viaggio. L’epica di un poeta che ha conosciuto l’esilio, e ogni specie di tragedie umane. Quello di Pablo Neruda è un canto di auspicio, una preghiera che fermi la barbarie e riesca a trionfare la Pace nel mondo intero.

        Ode alla pace

Sia pace per le aurore che verranno,
pace per il ponte, pace per il vino,
pace per le parole che mi frugano
più dentro e che dal mio sangue risalgono
legando terra e amori con l’antico
canto;
e sia pace per le città all’alba
quando si sveglia il pane,
pace al libro come sigillo d’aria,
e pace per le ceneri di questi
morti e di questi altri ancora;
e sia pace sopra l’oscuro ferro di Brooklyn, al portalettere
che entra di casa in casa come il giorno,
pace per il regista che grida al megafono rivolto ai convolvoli,
pace per la mia mano destra che brama soltanto scrivere il nome
Rosario, pace per il boliviano segreto come pietra
nel fondo di uno stagno, pace perché tu possa sposarti;
e sia pace per tutte le segherie del Bio-Bio,
per il cuore lacerato della Spagna,
sia pace per il piccolo Museo
di Wyoming, dove la più dolce cosa
è un cuscino con un cuore ricamato,
pace per il fornaio ed i suoi amori,
pace per la farina, pace per tutto il grano
che deve nascere, pace per ogni
amore che cerca schermi di foglie,
pace per tutti i vivi,
per tutte le terre e le acque.
Ed ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno alla Patagonia, dove
il vento fa vibrare le stalle
e spruzza ghiaccio
l’oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere,
vicino all’araucaria selvaggia,
al forte vento che soffia dal Sud.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo a tutta la terra, battendo
dolcemente le nocche sulla tavola.
Io non voglio che il sangue
torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica:
ed io voglio che vengano con me
la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole
e che escano a bere con me il vino più rosso.
Io qui non vengo a risolvere nulla.
Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.

Pablo Neruda

 

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I momenti che non sappiamo vivere e poi…nostalgia!!

 

Quando mi viene la nostalgia è perchè ho voglia di cancellare le malinconie, di tornare col pensiero a tutti quei momenti, in cui avrei fermato il tempo, perchè troppo belli da credere veri ,in cui i miei occhi brillavano di stelle. Scorrono nelle mente come un film leggermente sbiadito e poi, quasi sempre all’improvviso ,spunta lei, la mia nostalgia più grande.Di quando il mondo era un continuo spunto per la mia curiosità. Di quando non avevo paura di prendere la mano di chi mi porgeva la sua. Di quando ero felice di essere stata buona.

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Il colore della primavera..

 

“Una Luce esiste in Primavera” di Emily Dickinson è una poesia che narra la Primavera e il mese di marzo,l’unico periodo dell’anno, secondo lei, capace di regalarci emozioni uniche e speciali, se siamo capaci a lasciar parlare il cuore, mettendo il ragionamento in seconda fila . Non sempre le emozioni,infatti , hanno bisogno di essere spiegate, basta viverle, lasciarle fluire in noi per avere la massima gioia e capire che tutto ciò che esula dalla ragione,ha la meraviglia della innocua pazzia.
La luce di Emily ha in se una magia speciale, capace di illuminare orizzonti lontani, anche immaginari, piccola metafora della giovinezza, che vede sempre futuri luminosi in quel sogno, che ognuno di noi vive, quando gli anni sono piccoli e la percezione umana, il conflitto tra spiegazione scientifica e intuizione hanno un limite. Rivela due modi di percezione, quella spirituale e la monotonia del quotidiano. Pubblicata postuma .

“Una luce esiste in primavera”

Emily Dickinson

Una Luce esiste in Primavera
Non presente nel resto dell’Anno
In nessun altro periodo –
Quando Marzo è appena arrivato

Un Colore sta là fuori
Su Campi Solitari
Che la Scienza non può cogliere
Ma la Natura Umana sente.

Aspetta sul Prato,
Mostra l’Albero più lontano
Sul più remoto Pendio che conosci
Quasi ti parla.

Poi quando oltre gli Orizzonti
i meriggi si replicano lontani
Senza Formula di suono
Passa e noi restiamo –

Un senso di perdita
Intacca la nostra soddisfazione
Come se gli affari s’insinuassero d’un tratto
In un Sacramento –

 

A Light exists in Spring

A Light exists in Spring
Not present on the Year
At any other period —
When March is scarcely here

A Color stands abroad
On Solitary Fields
That Science cannot overtake
But Human Nature feels.

It waits upon the Lawn,
It shows the furthest Tree
Upon the furthest Slope you know
It almost speaks to you.

Then as Horizons step
Or Noons report away
Without the Formula of sound
It passes and we stay —

A quality of loss
Affecting our Content
As Trade had suddenly encroached
Upon a Sacrament.

Un colore illumina i campi solitari. Questo colore non può essere spiegato dalla scienza; piuttosto, è qualcosa che gli esseri umani percepiscono in modo innato, ma troppo spesso presi da altro di più razionale, ci lasciamo sfuggire questi momenti di incanto, quasi paradisiaci, la collina, l’albero di oggi, che già domani sarà diverso, anche marzo passerà e si porterà via tutto questo, che pochissimi avranno capito e saranno stati capaci di vivere- Si evidenzia l’incapacità di noi umani di vivere il qui e ora, di apprezzare le gioie, la felicità nel momento in cui ci vengono regalati i colori dell’esistenza , che non hanno nè ragione nè comprensione.
C’è la sensazione di vedere oltre i propri limiti normali, si vola in alto riuscendo a respirare la magia del tutto con un semplice sguardo. La luce non ha parole, parla al cuore, non alla ragione; è come un Sacramento incontaminabile, che va oltre tutto ciò che può avere ua spiegazione, che va vissuto quindi allo stesso modo, soltanto in beatitudine.

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Il figlio…

 

Il figlio porta con sé il suo segreto inaccessibile al padre. Il figlio non è forse un mistero che resiste a ogni sforzo di interpretazione? E’ un fatto: ogni figlio porta con sé – già nel suo respiro – un segreto inaccessibile. I nostri figli sono nel mondo – esposti alla bellezza e all’atrocità del mondo – senza riparo. Sono – come tutti noi – ai quattro venti della vita nonostante o grazie all’amore che nutriamo per loro. La condizione del figlio coincide con quella dell’uomo: in una vita possiamo non diventare padri o madri, mariti o mogli, possiamo anche non avere sorelle o fratelli, ma nessun essere che abita il linguaggio, nessun essere umano, può non essere figlio. La vita viene alla vita sempre da un’altra vita, è da sempre, in questo senso stretto, in debito con l’Altro. Il processo di filiazione contiene questo paradosso: la vita umana è attraversata dalla vita dell’Altro, porta dentro di sé non solo un patrimonio genetico come marca biologica della sua provenienza, ma anche le parole, le leggende, i fantasmi, le colpe e le gioie delle generazioni che l’hanno preceduta. E’ fatta, costituita interamente, dalle tracce dell’Altro. Per un altro verso, la condizione del figlio è quella di realizzarsi come erede. Essere figli significa, infatti, avere il compito di ereditare, di fare nostro ciò che l’Altro – nel bene e nel male – ci ha dato. Ogni figlio porta sulla sua nuca rasata le tracce – illeggibili – dell’Altro. Siamo sempre scritti, parlati, marchiati dall’Altro. Portiamo sulle nostre nuche le sentenze, le maledizioni, gli auspici, le speranze, i desideri e le gioie delle nostre madri e dei nostri padri. Portiamo su di noi la scrittura dell’Altro senza mai poterla leggere chiaramente, né decifrare compiutamente. E’ questo il paradosso della filiazione: le colpe dei padri ricadono sempre sui figli. Ma i figli non sono mai solo il frutto di quelle colpe. Esiste una discontinuità, uno scarto, un resto inassimilabile tra la colpa dei padri e l’ombra della sua ripetizione nei figli.

Massimo Recalcati,  Il segreto del figlio.

Da Edipo al figlio ritrovato

 

imagepadre e figlio