Quell’estate avevo inventato un po’ di scuse per restare a Bologna, funzionarono tutte. Una mattina, a ridosso di ferragosto, in tv passava Brazil di Terry Gilliam, un piccolo capolavoro di stampo orwelliano su come sarebbe stata la nostra vita nel futuro. Tetra e in catene, ma tutti lavoravano. Vi ricorda qualcosa? La vita dei piccoli impiegati del film di Gilliam, sia al lavoro che una volta rincasati, sembrava al buio, senza cielo. In un bunker emotivo che, conscio della propria forza, non aveva bisogno di toglierti la vita per neutralizzarla.
Te la lasciava in mano, come una torcia senza batterie, tanto non si sarebbe mai accesa. L’altra mattina scorrendo le notizie col telefonino vengo raggiunto da una pubblicità che sembrava uscita proprio da Brazil di Gilliam, avendone peraltro affinate le conseguenze. Un curioso ragazzotto tesseva le lodi del futuro e il futuro era fatto di merendine che scadevano nel 2050 o giù di lì. Non capivo come mai il giovanotto si muovesse in spazi così angusti e, diversamente da tante altre pubblicità, non ci fosse nei paraggi una finestra con dietro prati e ruscelli.
Poi ho capito, stava vendendo un bunker.
Mi ha colpito quella locuzione lancinante “Mai come adesso è tempo di pensare a un bunker…”. Dato che probabilmente siamo ad un passo dalla guerra nucleare, che fai, un bel bunkerino non te lo compri? La naturalezza con la quale collegava le due ipotesi (schianto del pianeta e tu, sul letto, a mangiare merendine che scadono nel 2050) era, come dicono quelli bravi, un segno dei tempi. Fino a qualche anno fa, dopo un tale presagio, ci saremmo buttati da un ponte. Oggi chiediamo un preventivo.
Il primo istinto è domandarsi che senso abbia sopravvivere se non puoi uscire e stare nel mondo, insieme agli altri.
Il secondo istinto, un filino più levigato, è domandarsi se sfregarsi con gli sconosciuti sulla metro o diventare povero comprando biglietti del bus a Bologna sia davvero, in realtà, uno «stare con gli altri». Se correre al lavoro e tornare sfatti a casa sia, sostanzialmente, diverso dal film orwelliano di cui parlavo.
Cosa ne penso io? Dipende da chi c’è a casa.
Chi vi aspetta non “vale la pena”, fa di più. La vince, trasformando ciò che nelle nostre vite ci umilia in una sorta di vago ricordo, perderò in mordente competitivo ma devo confessare che a mio avviso, l’affetto e l’amore sono il grande antidoto non al dolore ma all’assenza di senso. Alla banalità del male certo, ma anche a quella del finto bene.
Bloccato nel traffico avevo dunque tempo per riflettere e comprendere cosa mi spaventasse realmente del bunker; l’aver perduto la possibilità di rincasare.
Non è uscire che ci rende felici ma tornare a casa, questo è ciò che una guerra nucleare ti toglie.
Prima degli influencer gli influencer stessi esistevano già, semplicemente non avevano bisogno di chiamare in inglese un mestiere per farlo sembrare meno cretino, e così capitava spesso che interviste con personaggi famosi terminassero con la domanda dell’isola deserta; ci dica dieci cose che porterebbe con sè sull’isola deserta.
E nel bunker, mi sono chiesto, se la mia vita finisse in un bunker, cosa mi porterei?
Niente oggetti, mi porterei milioni di cose che ho visto, momenti che stanno dall’altra parte degli occhi, fra le diottrie e il cervello. Il bene confuso e senza nome degli estranei.
Per esempio, mi porterei quella signora che, in montagna, pettinava i morti sui letti, complimentandosi con loro per il vigore dei capelli.
Mi porto una donna che, di notte al pronto soccorso, dava fiducia ad un signore anziano. “È suo padre?” le ho chiesto mentre io ero lì col mio “No – rispose lei – non conosco questo signore”.
Mi porterei quella ragazza infinita che al ristorante, poco prima di cenare, si abbassa per togliersi l’apparecchio senza sapere di essere, proprio in quel momento, la più bella di tutte.
Mi porterei quei due anziani che escono dal fast food senza aver capito cos’hanno mangiato e lui che insiste affinché lei tenga il cappotto «almeno sulle spalle».
Mi porterei tutti quelli ai quali è andato male qualcosa davanti ai loro figli o le ragazze che aspettano un bambino e, da come sorridono, si capisce che per loro il segreto della felicità non è più un segreto.
Mi porterei quelli che riparano gli oggetti, nella speranza che da lì le cose ricomincino a funzionare.
Mi porterei quel barbiere, in piena estate, e la sua solitudine seduto in poltrona davanti allo specchio.
Mi porterei quei quattro cretini adolescenti che mi tirarono un gavettone da un terrazzo in pieno ottobre.
Mi porterei chi ha paura e il finale de L’uomo senza passato di Kaurismaki, per mostrare l’uno all’altro.
Mi porterei quelli di cui ha cantato, senza mai stonare, Jannacci.
Mi porterei chi ha perso il lavoro ma soprattutto chi l’ha trovato e la sua vita non è cambiata.
Mi porterei quel portiere di notte che, in un albergo siciliano, giocava a scacchi da solo. E perdeva.
Mi porterei quel ragazzo cui avevano rubato la bici e si è portato la mano davanti alla bocca dicendo ai passanti «Era di mio nonno». E sulla fiducia, mi porterei anche suo nonno.
Mi porterei quell’odore di ascelle della palestra Furla in Via San Felice, dove il mio sudore e quello di mio figlio, a modo loro, saranno coinquilini per sempre.
Cristiano Governa
Illustrazione___Laura Angelucci 