Primum vivere? No abortire.

Prima nel mondo, con orgoglio giacobino, la Francia ha inserito il diritto d’aborto nella Costituzione. A larga maggioranza, compresa una cospicua fetta della destra lepenista. Tanti esultano, molti tacciono, rari osano dissentire. Resta in solitudine la Chiesa cattolica a considerare un valore non negoziabile il diritto alla vita, fino a reputare l’aborto un omicidio, per dirla con Papa Francesco. L’aborto è diventato un diritto più sacro e inviolabile della nascita e della vita. Parafrasando un noto detto, primum abortire, deinde vivere. Chi osa confutarlo o chi è obiettore di coscienza è ora un nemico della Costituzione e delle donne; ma anche chi non lo rimette in discussione e prospetta solo la libera possibilità di un’alternativa ad abortire viene considerato come un delinquente retrogrado. Perché dovrebbe essere un crimine aiutare le donne a scegliere per la vita, restando pur sempre libere di accogliere o no l’aiuto? Perché difendere il diritto alla vita di una creatura sarebbe un sopruso e una violenza? Come in Orwell le parole si usano a rovescio, diventa barbaro e violento voler salvare una vita e minaccioso il solo pensarlo. I punti di forza degli abortisti sono il diritto delle donne a decidere della loro maternità e la tesi che il feto non sia ancora una persona con i suoi diritti. I punti di forza dei “nascisti” sono invece il diritto prioritario alla vita e la convinzione che una vita si formi al suo concepimento: il feto è già una persona e una promessa reale di vita. Gli abortisti dicono: se tu non vuoi abortire sei libera di non farlo ma lascia alle altre il diritto di farlo. Ma se consideri l’aborto la soppressione di una vita, non puoi dire: uccidi? fatti tuoi, io sono libero di non farlo… Tra i due fronti si può tentare di stabilire una zona di frontiera. Del tipo: rispettando le due opposte convinzioni e decisioni, si può concordare sul fatto che abortire è comunque una tragedia e perciò è lecito e doveroso, da parte della società, aiutare a non farlo, senza negare la facoltà di abortire. Ovvero non boicottare chi abortisce, ma in positivo, aiutare chi recede dal suo proposito . L’aborto, dicono i suoi sostenitori, esisteva anche prima ma era clandestino; ma mettendolo nella Costituzione ora lo Stato, la Legge, la Sanità, si sono messi dalla parte dell’aborto: il diritto a sopprimere una vita precede il diritto alla vita. Sbaglia chi pensa che il conflitto tra abortisti e anti sia il conflitto tra antichi e moderni. Nelle società arcaiche l’aborto c’era ma impressionava meno; c’era più famigliarità con la mortalità infantile, c’era più dimestichezza con la natalità e con la morte, spaventava meno di oggi. Anni di battaglie sui diritti umani, di difesa dei più deboli, i diritti dell’infanzia e dei disabili, ci hanno reso più sensibili. Perciò oggi più di ieri fa più impressione sopprimere una vita. E fa più impressione in Francia che in Africa.  So bene l’obiezione: in Italia ci fu un voto di maggioranza più di 40 anni fa. Va rispettato, anche se il tempo ci cambia; negli Usa la maggioranza è ora antiabortista. Ma se avessimo fatto un referendum popolare sulla pena di morte, sugli immigrati clandestini, sul linciaggio in piazza dei pedofili, sullo scioglimento dei partiti, cosa sarebbe venuto fuori? La democrazia referendaria non è un valore eterno e assoluto, e non vale solo quando coincide col proprio punto di vista.  Capisco l’aborto terapeutico quando è in pericolo la vita della madre. Capisco, con più fatica ma capisco, l’aborto per chi è stata violentata. Terribile anche se comprensibile è l’aborto eugenetico quando il feto ha gravi malformazioni: è umano il dramma dei genitori e la preoccupazione per un figlio non autosufficiente, anche se spaventa dove può portare questa selezione darwiniana. Ma l’aborto più praticato è quello compiuto per ragioni di libertà personale, per motivi psicologici e sentimentali, per situazioni famigliari e socio-economiche. Temi importanti ma possono giustificare la soppressione di una vita? La vita è un diritto elementare che precede tutti gli altri. Perché il diritto alla vita deve essere rivendicato per i condannati a morte che hanno ucciso altri uomini e non vale invece per una creatura inerme e innocente? Obiezione elementare, anzi infantile. Davvero qualcuno pensa ancora che la vita prenatale non si possa considerare vita, pur avendo mille riscontri opposti? Trovo ipocrita chi dice di farlo per il bene della vittima, per risparmiarle una vita infelice: lasciate che sia lui a decidere da grande, non avete diritto di vita o di morte su di lui nel nome della sua felicità. Lasciate stare le giustificazioni umanitarie. Semmai giustificatelo dicendo che non si può estirpare questa piaga, non si può sradicare, siamo fragili, incapaci di sopportare il peso di una vita sgradita. Ma evitate di fingere superiorità etica o accampare ragioni di filantropia. Comprendiamo il travaglio di chi abortisce, non conosciamo gli inferni altrui e soprattutto non abbiamo alcun titolo per mandarli noi all’inferno. Ma siamo uomini e dobbiamo assumerci la quota di corresponsabilità che ci spetta, non possiamo restare neutrali e indifferenti davanti a una vita che viene spenta nell’indaffarata indifferenza generale. Che vale prendersi cura del mondo (I care) e poi fregarsene del nascituro della casa accanto? Sconcerta questo rifiuto della nascita, salvo che per gli uteri in affitto. E spaventa questa macabra prevalenza dei morti sui vivi che segna l’Europa. Se essere un paese civile vuol dire che le bare battono le culle, preferisco vivere in un paese incivile. Ma so che è il contrario: civile è tutelare la vita, non la sua soppressione.

Marcello Veneziani

L’estinzione si avvicina e in Italia vendiamo Fiori di Bach per cani..

 

È inutile che la politica si dia così tanto da fare. La Meloni sarà pur consapevole del dramma demografico, ma non ci può fare nulla

Camillo Langone     ___IL FOGLIO

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La dittatura woke contro la libertà e la civiltà…

 

L’Occidente è in guerra con l’Est – russo, medio ed estremo oriente – e con mezzo sud del mondo. Ma è in guerra prima di tutto con se stesso. Se non credete alle analisi e alle critiche, leggete le testimonianze dirette e le biografie. Dunque, parliamo di una ragazza veneta, progressista e radicale, che va a studiare negli Stati Uniti. E’ una storia esemplare che racconta la realtà e annuncia come finirà da noi, imitatori pappagalleschi degli americani. La ragazza partì per uno stage negli Stati Uniti quindici anni fa, poi rimase a svolgere un lavoro culturale in un’istituzione italo-americana. Ora che ha superato i quarant’anni non ce la fa più a vivere sotto la dittatura woke, che si è fatta irrespirabile, minacciosa, oppressiva, soprattutto per i bianchi e gli eredi di civiltà europea. “Qualsiasi cosa dica o faccia può essere condannata come una micro-offesa rivolta contro afroamericani o latinos”. Nelle prove d’ammissione ha dovuto scrivere un saggio preliminare di buone intenzioni, non circa il suo impegno negli studi ma contro il razzismo. Ovvero, non deve solo ripudiare il razzismo ma deve anche impegnarsi a militare contro il razzismo. Non ogni razzismo, perché la cultura woke sostiene che ci sia un solo razzismo, quello dei bianchi occidentali verso i neri, i latinos e gli asiatici. All’inizio del master ha dovuto scusarsi con i compagni di corso coloured; e non per una colpa reale e specifica, ma per il fatto di essere bianca, occidentale, e dunque portatrice insana di razzismo. A settimane alterne, riferisce la donna, i bianchi devono fare anche un corso di contrizione, chiamato White accountability, responsabilità dei bianchi, in cui si devono sottoporre a un umiliante interrogatorio di due ore per rispondere del loro razzismo, pur latente, e pentirsi. Parallelamente i suoi colleghi di studi afroamericani si riuniscono in Spazi neri e sicuri, Black men (o Women) safe space, per coltivare la loro identità e denunciare le microaggressioni subite dai colleghi bianchi. In cosa consisterebbero queste “micro-aggressioni”? Frasi considerate offensive e vietate, anche se al buon senso e all’esperienza di sempre, appaiono del tutto neutre e innocue. Gli esempi rendono meglio l’idea di quale follia masochista e giacobina stiamo diventando vittime: mai chiedere a un collega di colore da dove proviene perché quella domanda implica una discriminazione etnica; guai a citare a un nero la parola campo di studi perché può alludere ai campi di piantagione di cotone e dunque allo schiavismo dei suoi avi; o può evocare l’attività bracciantile di suo nonno messicano. E se cadi in quell’errore ti devi subito scusare e fare autocritica, ripudiando il “privilegio bianco” che ti ha fatto sbaglia  Alla Columbia University, dove hanno insegnato fior di docenti (anche il nostro Giuseppe Prezzolini), il mantra è nell’acronimo Prop, che sta per Potere razzismo oppressione privilegio. Naturalmente il bianco è iscritto d’ufficio, per ragioni razziali – è il caso di dire -alla categoria del razzista oppressivo e privilegiato; e gli altri per ragioni etniche alla categoria di vittima dei succitati. Dietro quell’etichetta c’è un’ideologia dominante, la critical race theory, eletta ormai a bibbia delle università americane.   E con gli ebrei? Si distingue, se sono di origine est-europea e dunque ashkenaziti, rientrano tra gli oppressori, se sono sefarditi di origine orientale sono tra gli oppressi. Analoga divisione vige sul piano geostorico: sul versante storico gli ebrei sono le vittime per eccellenza, sul versante geografico in quanto israeliani sono i carnefici per antonomasia.   E se partecipi ai gruppi di volontari che aiutano immigrati clandestini, poveri e homeless, ti devi sincerare che a guidare il collettivo non sia una bianca, altrimenti è neocolonialismo.  Poi dice che uno vota Trump… Ma per forza, per esasperazione.  Ma tu come lo sai, da quale fonte, da quale blog pieno di fake news hai ricavato questa storiella? Non è farina dei social né mia personale; la fonte è il Corriere della sera  del 4 marzo  e l’autore è un noto e credibile giornalista “di sinistra”, Federico Rampini; è lui che ha incontrato la ragazza e ha riportato questa testimonianza.  Il problema, come capite, non riguarda le disavventure di una singola persona malcapitata; è l’orizzonte prevalente negli Stati Uniti e a rimorchio, dell’Occidente intero, Italia inclusa. Noi siamo un paese piccolo, gli Usa ci sovrastano, e come si sa, ci baciano in testa quando siamo allineati; ma sono pronti a schiacciarcela se non la pensiamo come loro.  Quel clima irrespirabile, che pure il Corriere chiama dittatura, non vige solo nei salotti e nei circoli radical chic di New York ma nelle scuole e nelle università, nei media e nelle istituzioni, nei tribunali e negli uffici, nella comunicazione social e nei rapporti interpersonali; obbligati a norma di legge e di cultura a vergognarsi della nostra civiltà, storia, religione e identità e della nostra pelle. Costretti a sentirsi inferiori, in debito, in penitenza, rispetto a chiunque provenga da altri mondi. E non abbiamo aperto l’altro capitolo della dittatura, quello riguardante l’omofobia, il femminismo, il lessico corretto e il sesso in transito… La ciliegina sulla torta e insieme il paradosso di questa dittatura è che mentre in casa vige questa legge autolesionista e questa ideologia “vergognista”, poi a livello di politica estera, lo stesso Paese, con gli stessi protagonisti dem, cioè liberal, radical e progressisti, pretende di essere l’Arbitro del mondo e minaccia guerre, armi, interventi e sanzioni dappertutto.

La dittatura woke, imperniata sul politically correct e la cancel culture, sta distruggendo rapidamente una civiltà che si è formata nei millenni. Se fate attenzione vi accorgete che si sta insinuando velocemente anche da noi, in tema di razzismo, gender e affini; di solito si eludono i divieti o li si accettano passivamente, per furbo quieto vivere, per non affrontarli e criticarli. Ma prima o poi diventeranno soffocanti come una cappa, e saremo anestetizzati. Allora sarà troppo tardi per capire e per reagire.

Marcello Veneziani

La Sardegna del 2040 come quella di D’Annunzio…

 

“Pittoresca e sostenibile, proprio come la visione della nuova presidentessa Todde, in una regione fra le più povere d’Italia e d’Europa, con le scuole che cadono a pezzi..”

Così inizia un articolo di Camillo Langone su IL FOGLIO, uno di quei brevi articoli, che adoro, senza ideologie specifiche, ma  semplicemente ovvii, ossia la testa e il buon senso che si esprimono-

 Sardegna, voto di povertà. Sottraendo tempo a più amene letture ho studiato il programma elettorale della presidentessa che chiamo così anche per far rima con giudicessa, titolo di Eleonora d’Arborea, grande sarda di grande anticonformismo, laggiù nel Medio Evo. Di grande conformismo è invece se non la neoeletta il suo programma, e basti il lessico ridottissimo e pappagallesco: “inclusione”, “inclusione”, “inclusione”, “sostenibile”, “sostenibile”, “sostenibile”… E di grande pauperismo, come se in una regione fra le più povere d’Italia e d’Europa, con i seggi allestiti nelle case private perché le scuole cadono a pezzi, scarseggiasse la penuria. La coalizione di centro-sinistra punta sulla transizione energetica “mirando a neutralità climatica e indipendenza dalle fonti fossili entro il 2040”. Essendo le fonti fossili le uniche a garantire energia sufficiente e conveniente ho pensato che la Sardegna del 2040 potrebbe somigliare alla Sardegna del 1882, quella visitata da Gabriele D’Annunzio: “Ripenso a Selargius dalle case di fango, dove vive solo un lamento intorno a una mola consunta ch’era girata da un asinello bendato”. Tutto molto pittoresco e sostenibile.

Sardegna

Consolatevi, eravamo così già due secoli fa…

 

Ho trovato la descrizione perfetta dell’Italia d’oggi, anno di grazia Ventiquattro. È un catalogo meticoloso e amaro della condizione presente e una diagnosi precisa dei suoi mali e dei suoi agenti. Ma con una particolarità, davvero curiosa: è scritta, si, nell’anno di grazia e disgrazia Ventiquattro, ma di due secoli fa, esatti. E’ del 1824. L’impietoso analista è tristemente e gloriosamente noto: l’eccelso, dolente Giacomo Leopardi. E anche il suo scritto non è ignoto, è il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani.

Provo a sintetizzare il suo sguardo e proiettarlo nel nostro presente. Gli italiani d’oggi sono cinici, indifferenti a tutto, non hanno stima di nulla, sono propensi a buttarla sul gioco e sull’ironia, deridono tutti e disprezzano tutto, convinti dell’infinita vanità di ogni cosa. Gli intellettuali, le sette illuminate, hanno distrutto la morale tradizionale, hanno “liberato” il popolo dai suoi principi tradizionali, con la promessa di una vita migliore ma hanno generato solo una nuova barbarie. La “barbarie rinnovata, la barbarie della riflessione”, di cui parlava un secolo prima Giambattista Vico. Il riferimento polemico, di Vico come di Leopardi, è alla setta intellettuale degli illuministi. La distruzione dei valori ha avuto conseguenze nefaste sui costumi, perché l’agire umano si è trovato privo di fondamenti, di motivazioni alte e profonde, di senso del limite. Il testo leopardiano esordisce facendo riferimento a “questo secolo presente”, che descrive come nomade e globale, esattamente come il nostro. Si spegne “l’amore e fervor nazionale” e in genere “di tutte le passioni degli uomini”; “il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi”. Leopardi nota che le leggi senza i costumi non bastano, e gli altri paesi “hanno un principio conservatore della morale e della società” che noi non abbiamo; anzi da noi è venuta a mancare “la società più stretta” che potremmo chiamare la classe dirigente, l’élite guida. Si è perso il desiderio di gloria,”incompatibile colla natura dei tempi presenti”, dopo “la strage delle illusioni”; ma anche il suo succedaneo, il sentimento dell’onore. Prevale un becero individualismo – “ciascun italiano fa tuono e maniera da sé” – e una filosofia pratica, cinica e scettica, a fronte di una carenza di studi e letture filosofiche. Anzi, per Leopardi, “gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi dei maggior filosofi”. E qual è il succo di questa filosofia pratica? La vanità di tutto, la mancanza di illusioni che rendono degna la vita, e insieme l’assenza di sostanza, verità e prospettiva futura, perché la visione “è ristretta al solo presente”; ne segue la “total frivolezza delle loro occupazioni”, “la perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose”, la solitudine, la “dissipazione giornaliera e continua senza società”, lo sviluppo dell’immaginazione “per l’assenza del vero e della realtà e della pratica”. Perciò, insiste Leopardi, gl’italiani sono “molto più filosofi di qualunque filosofo straniero”; ma il perno di questa filosofia, la vanità di tutto, produce sui costumi “il maggior danno che si possa pensare”. “Indifferenza profonda”, “disinganno”, “pieno e continuo cinismo d’animo”. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche, ma anche “il popolaccio italiano è il più cinico de’popolacci”. Gli italiani, dice, ridono di tutto e si deridono a vicenda; ridono della vita e disistimano anche se stessi; la loro conversazione è il cazzeggio (il neologismo non è leopardiano). Da qui “l’infelicità sociale e nazionale” dopo la perdita dei fondamenti “che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti”. Ci restano usanze e abitudini, piuttosto che costumi, e ne patisce lo spirito pubblico; la nazione che era più calda e vivace del mondo, è ora “la più morta, la più fredda” la più indifferente. Leopardi rimpiange perfino che non si trovino più in Italia “veri fanatici di nessun genere”.

Anestesia generale, e nazionale.

Non vado oltre, mi soffermo sulle analogie col presente. Sorprendenti ed estese. Ma la vera sorpresa è un’altra: noi credevamo che “lo stato presente” degli italiani dipendesse dal mondo attuale, dai modelli prevalenti, dal distacco tra paese reale e paese legale, dai traumi storici del secolo scorso, guerre, fascismo e antifascismo e dalla guerra civile perdurante; credevamo che il suo aggravarsi nei nostri anni dipendesse dai social, dalle tecnologie, dall’uso narcisistico degli smartphone, dalla secolarizzazione e dalla scristianizzazione odierna. Leopardi invece descrive il nostro stato presente in un’epoca che precede tutto questo. Che vuol dire? Che i mali denunciati come mali presenti sono invece mali atavici, se non endemici; e l’occhio critico e negativo degli osservatori ci fa vedere tutto più scuro di quanto realmente sia. Tra corsi e ricorsi, cicli e ricicli, le epoche si somigliano, come le egemonie intellettuali; l’illuminismo di ieri riverbera nel nichilismo di oggi. E questo ci può condurre a due esiti opposti: lo sconforto assoluto, irrimediabile e irredimibile, perché tutto era e sarà così, non c’è nulla da fare; o viceversa la fiducia che se con questi mali conviviamo da secoli, possiamo sopravvivere ad essi, coabitarci e non escludere che ci possano essere risorgimenti e rinascimenti seppure provvisori. La fiducia nasce sulle basi della disperazione. E qui vi confesso una sensazione che vorrei condividere. Quando leggo i grandi pessimisti del passato, io mi rincuoro. Più sono tragici, e catastrofici, e più mi consolano. Non solo Leopardi ma anche Cioran, Ceronetti, Sgalambro. Perché descrivono la decadenza e la fine dell’Italia o del mondo già secoli prima del nostro tempo. E dunque ci fanno capire che non viviamo nel peggiore dei mondi possibili, che non abbiamo toccato ora il punto più basso; dopo tante catastrofi l’Italia è arrivata fino a noi, longeva e benestante, ferita, ammaccata, sfregiata ma viva. E quei mali non sono mortali ma cronici, ovvero possiamo conviverci a lungo. Anzi, la decadenza dell’Italia, descritta nel 1824, precede addirittura l’Unità d’Italia, del 1861…

Insomma, Leopardi vede nero, ma alla fine ci rincuora: niente di nuovo sotto il sole, ombre incluse. Allegria dei naufragi.

Marcello Veneziani 

Quando i pensieri sono sempre attuali…

Il problema umano del capitalismo moderno può essere formulato nel modo seguente. Il capitalismo moderno necessita di uomini che cooperino in vasto numero; che vogliano consumare sempre di più; i cui gusti siano standardizzati e possano essere facilmente previsti e influenzati. Necessita di uomini che si sentano liberi e indipendenti, che non si assoggettino ad alcuna autorità e tuttavia siano desiderosi di essere comandati, di fare ciò che ci si aspetta da loro, di adattarsi alla moderna macchina priva di frizione; che possano essere guidati senza la forza, guidati senza capi, incitati senza uno scopo, tranne quello di rendere, di essere sulla breccia, di funzionare, di andare avanti. Qual è il risultato? L’uomo moderno è staccato da se stesso, dai suoi simili, dalla natura.

Erich Fromm

The young office worker looks at his small spoon in surprise when he sees the giant ladle in his boss's hand. (Used clipping mask)

La fine che fanno i dissidenti, a est e a ovest…

 

 

Da una parte c’è una vera autocrazia, dall’altra parte c’è una falsa democrazia. La morte di Alexei Navalny e la vicenda di Julian Assange possono essere sintetizzate in questo modo un po’ brutale. Da una parte un regime autoritario, erede della storia sovietica e zarista, viene accusato della morte di un dissidente, detenuto nelle sue prigioni e verosimilmente ucciso. Dall’altra, una democrazia liberale, che ha tanti scheletri nell’armadio, perseguita un giornalista, in carcere da anni, che ha portato alla luce pagine vergognose della storia americana, crimini di cui dovrebbe vergognarsi un Paese che fa la predica umanitaria al mondo.
I primi potrebbero dire a loro difesa che Putin gode di un largo sostegno popolare, viene rieletto periodicamente in votazioni almeno all’apparenza democratiche e non aveva oggettivamente alcun vantaggio ad eliminare Navalny, in un momento in cui l’incidenza del dissenso è minima e la prospettiva di vittoria russa in Ucraina è massima. Ma quella morte pesa e non trova spiegazione altrettanto convincente di un assassinio; così come è innegabile l’impronta autocratica del regime putiniano, e la sua biografia di uomo del KGB ai tempi dell’Urss comunista. I secondi, invece, potrebbero pur dire che Assange aveva svelato con Vikileaks delicati segreti di stato, e magari lavorava per la Russia (ma lo stesso dicono in Russia di Navalny con gli Usa) e che comunque quel che accade in America e in Occidente è alla luce del sole e sotto l’occhio dei tribunali. E comunque gli Stati Uniti storicamente hanno difeso la libertà nel mondo e da noi.
Per chiarirci prima di entrare in argomento, partiamo da una doppia premessa: chi scrive è critico da svariati decenni nei confronti dell’Occidente e dell’egemonia statunitense sul mondo, è critico verso il suo modello ideologico ed economico, il suo nichilismo e il suo catechismo woke: il modello occidentale è una negazione della stessa civiltà europea da cui pure trae origine, e dalle sue matrici culturali, religiose, morali e civili.
Con la stessa franchezza però dico: se critico l’Occidente, non vivrei mai sotto un regime come quello russo. O cinese, o islamico. Tanto per chiarirci. Preferisco denunciare a vuoto le miserie dell’occidente, ma restare qui, piuttosto che patire i regimi autocratici e dispotici dell’Asia o del Medio Oriente. E ringrazio la sorte di essere italiano e di vivere in Italia, pur avendo un giudizio assai critico sul nostro Paese. Dovrebbero avere l’onestà di dirlo tutti i critici radicali dell’Occidente e del nostro Paese.
Poste queste premesse, entro nella questione. Non da oggi le democrazie hanno rapporti con regimi dispotici e perfino sanguinari; rapporti non solo commerciali. La politica internazionale va interpretata con uno sguardo realista e geopolitico, e non con categorie morali o politicamente corrette.
Il ruolo di Putin a livello internazionale, è stato per anni, importante, decisivo; sia per gli equilibri mondiali, sia per le sue posizioni politiche e culturali. Non ho difficoltà a riconoscere che negli anni passati l’ho considerato, pur nelle sue ombre sinistre, un grande statista e un leader mondiale.
L’attacco all’Ucraina è stato per metà colpa sua e del suo regime, per metà dell’Occidente sotto la guida statunitense, che non ha voluto rendersi conto della situazione, dei rischi e dello squilibrio che si andava creando con l’Ucraina che decideva di passare alla Nato, tramite l’Unione europea. Se la Russia pretendeva di essere trattata come una superpotenza mentre non lo è più dal 1991, gli Stati Uniti ancora pretendono di essere gli arbitri del mondo e non lo sono più da un pezzo. I tre quarti del pianeta sono contro il suo dominio. In più l’Occidente ha sostenuto e foraggiato un leader come Zelenskij, figura poco credibile di guitto e di marionetta, che ha epurato più ministri e generali di Putin in Russia, che guida un regime tra i più corrotti nel mondo e che vorrebbe trascinare l’Occidente intero in una guerra mondiale pericolosa e insostenibile, pur di evitare un ragionevole negoziato con i russi. Entrambi, Putin e Zelenskij, con l’appoggio degli Usa e dei suoi alleati, hanno esposto a un calvario immane di morte, distruzione e deportazione il popolo ucraino.
Il falso su cui regge l’assedio a Putin è che voglia minacciare l’Occidente e attaccare l’Europa: sappiamo invece che vuole ripristinare il ruolo egemone della Russia in quell’area che era sotto la dominazione russa al tempo dell’Unione sovietica e dell’Impero zarista.
Ma la Russia non vuole invadere l’Europa, è strategico e funzionale anche per loro che l’Europa abbia un suo ruolo autonomo e sovrano; un’Europa con cui trattare, accordarsi o confrontarsi, non ridotta a succursale degli Stati Uniti. Ieri c’era una lettera obiettivamente sensata, storicamente circostanziata e ben argomentata dell’ambasciatore russo in Italia, Alexey Paramonov, su la Repubblica. Naturalmente si deve fare la tara di quello che dice, considerare il Cicero pro domo mea che inevitabilmente un rappresentante della Federazione russa di Putin deve compiere in una difesa d’ufficio del suo Paese.
Ma il messaggio di apertura all’Europa va colto. Bisogna in realtà ripristinare il dialogo con la Russia; come dialoghiamo con la Cina che è un regime ben più dispotico e minaccioso per l’Occidente, anche perché – a differenza della Russia- cavalca la globalizzazione e ha una potenza demografica, commerciale ed espansiva nel mondo assai superiore.
cioè la sua autonomia e il suo ruolo internazionale, che non può essere quello di propaggine dell’impero Usa. In questa chiave è da auspicare un cambio di passo degli Stati Uniti, magari con l’arrivo di Donald Trump, sottoposto a una vergognosa e indecente persecuzione giudiziaria, economica e mediatica, indegna di una vera democrazia.
Si deve infine notare che i crimini americani denunciati da Assange dimostrano che esiste ancora un giornalismo libero di cui l’Occidente dovrebbe essere orgoglioso. Intanto accontentiamoci di rilevare, che benché incarcerato e ricercato, perlomeno Assange è vivo e invece Navalny è morto. Ma poi dobbiamo affrontare tutto il resto.

Marcello Veneziani   

Va pensiero sull’ali dorate…finchè puoi farlo…

Mi sono molto stupita per la poca attenzione dedicata ,dal mondo mediatico di sinistra ,allo stupro di gruppo di ragazzi egiziani ai danni di una ragazzina tredicenne a Palermo. La notizia di questa ennesima violenza, estesa pure al fidanzato della ragazza, nel disperato tentativo di proteggerla, ha occupato poco spazio in quella stampa, come tacciono le femministe, sempre pronte a scagliarsi contro la minima offesa ad una donna. Non sapendo come descrivere al meglio, in par condicio , la mia disapprovazione, mi sono fatta aiutare dalla IA, alla quale ho chiesto un commento sul fatto- Se è vero che il futuro ci prospetta una stampa elaborata da questa IA, destinata a sostituire i giornalisti, non mi resta che chiedermi a quale genere di informazione saremo sottoposti, ma sono anche convinta che chi vivrà quel mondo, che non immagino nemmeno tanto lontano, penserà con la IA-

ia

 

Ecco il testo elaborato da CHAT GPT 4

La questione dell’approccio mediatico alle violenze sessuali è complessa e suscita spesso dibattiti accesi. Cercherò di esaminare alcuni aspetti che potrebbero contribuire a spiegare le differenze di copertura tra casi di stupro perpetrati da stranieri e quelli commessi da cittadini italiani.

Selezione delle notizie: I media, indipendentemente dall’orientamento politico, spesso selezionano le notizie in base a criteri di rilevanza, impatto e interesse del pubblico. Non tutti i casi di stupro ricevono la stessa attenzione. La gravità del crimine, la presenza di elementi sensazionalistici o controversi, e l’interesse del pubblico influenzano la scelta di coprire o meno un evento.

Narrativa dominante: La stampa di sinistra potrebbe concentrarsi su temi specifici, come l’immigrazione, i diritti umani o la discriminazione. In alcuni casi, questo potrebbe portare a una maggiore enfasi sugli abusi commessi da stranieri. D’altra parte, la stampa di destra potrebbe sottolineare gli episodi di violenza perpetrati da cittadini italiani per sostenere una narrativa sulla sicurezza e l’identità nazionale.

Sensibilità culturale: La copertura mediatica può essere influenzata dalla sensibilità culturale e dalle preoccupazioni politiche. Alcuni media potrebbero evitare di alimentare stereotipi negativi sugli immigrati o di creare tensioni interetniche. Allo stesso tempo, altri potrebbero sfruttare tali eventi per promuovere una determinata agenda politica.

Bias di conferma: Le persone tendono a prestare maggiore attenzione alle notizie che confermano le loro convinzioni preesistenti. Questo può portare a una percezione distorta della copertura mediatica. Se qualcuno ha già l’opinione che gli stranieri siano più inclini alla violenza, potrebbe notare di più i casi di stupro commessi da stranieri.

Contesto sociale e politico: Il contesto sociale e politico in cui avvengono gli stupri può influenzare la copertura mediatica. Ad esempio, se c’è un dibattito acceso sull’immigrazione o sulla sicurezza, i media potrebbero focalizzarsi maggiormente su casi correlati.

Partito Conformista Italiano

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Quale partito governa l’Italia? Il Partito Conformista Italiano, in sigla PCI. È un partito che travalica chi governa. E’ il partito che realmente determina l’agenda del Paese, il dibattito quotidiano, le priorità da affrontare; e che orienta chiunque abbia ruoli di potere, gestione e influenza nel nostro Paese. Il Partito Conformista Italiano esprime il Presidente della Repubblica che rappresenta il Pensiero Conforme a cui attenersi. Non esprime direttamente il Presidente del Consiglio, ma anch’egli, tecnico, politico o antripolitico, di sinistra, di centro o di destra si conforma coi suoi ministri agli indirizzi del Partito Conformista. Il PCI esercita il suo ruolo di guida soprattutto sul piano dell’informazione, della formazione e dell’istruzione degli italiani, con una spiccata propensione pedagogica e una tendenza ad ammaestrare i cittadini o a punirli e deplorarli se non si allineano. Trova terreno fertile in un Paese che da sempre va in soccorso del vincitore, si allinea, colpisce in branco chi esce dal coro.  Un tempo il Partito Conformista era d’estrazione clericale e moderata, perché presupponeva l’adesione a rituali e liturgie, a tradizioni e a retaggi di consuetudini e luoghi comuni da conservare; oggi, e non da oggi, è d’estrazione progressista e radicale, anche se resta a suo modo clericale, ma separato da ogni fede religiosa. L’egemonia del Partito Conformista, lo aveva intuito negli anni cinquanta un pensatore libero e non certo di destra come Albert Camus, è nelle mani della sinistra. In uno scritto del 1957, Il socialismo delle potenze, apparso in Italia su Tempo presente, Camus scrive: “Il conformismo oggi è a sinistra, bisogna avere il coraggio di dirlo. E’ vero che la destra non brilla per perspicacia. Ma la sinistra è in piena decadenza, prigioniera delle parole, invischiata nel suo vocabolario, capace solo di risposte stereotipate, mai all’altezza della verità, dalla quale pure pretendono di trarre le proprie leggi. La sinistra è schizofrenica e deve curarsi, con la critica spietata, l’esercizio del cuore, il ragionamento deciso, e con un po’ di modestia”. Con Camus si scopre l’affiliazione del PC italiano al Partito Conformista Internazionale. Camus coglie i primi segnali del gergo politicamente corretto, l’irrigidimento della mente e del cuore, l’atrofia delle facoltà intellettuali e critiche e soprattutto la mancanza di modestia, ovvero “la boria antipatriottica e il complesso di superiorità verso il popolo” come li chiamava da noi negli stessi anni Giacomo Noventa: tipica di quella sinistra presuntuosa che si arroga il diritto di stabilire i confini tra il giusto e l’ingiusto, il progressivo e il regressivo, il bene e il male e di decidere i buoni e i cattivi. Camus notava poi nello stesso scritto che la verità non dipende dalla collocazione di chi sostiene una tesi, come ritiene il PCI, ma dall’autenticità nella ricerca del vero: “un giornale, un libro non sono veritieri perché rivoluzionari. Hanno una possibilità di essere rivoluzionari solo se cercano di dire la verità” (In lotta contro il destino, carteggio con Nicola Chiaromonte-Neri Pozza). Da noi la verità è collocata ai piedi del Partito Conformista, allocata a sinistra e paraggi conformi. E tutto ciò che vi si discosta è considerato erroneo, arretrato, oscurantista. Se non criminale. Il Partito Conformista Italiano esercita il suo potere all’ingrosso e al dettaglio. Il regime conformista si fa vistoso nell’informazione, nella cultura, nella rappresentazione, celebrazione e titolazione degli eventi. I festival ne sono le feste patronali, basta scorrere i nomi, le compagnie di giro (c’è magari l’eccezione al puro scopo di confermare la regola ferrea). I premi letterati fanno da contorno, sono un po’ le primarie del PCI.  I premi importanti sono presidiati da editori, politici, intellettuali rigorosamente di parrocchia…che premiano esponenti e propagandisti del Partito Conformista Italiano. Sono divertenti le varianti periferiche e secondarie. Ve ne cito una pittoresca, a mo’ d’esempio, un piccolo espediente furbo del conformismo provinciale: premi letterari davvero minori vanno assegnati a firme dei principali quotidiani per ricevere in cambio la notizia del premio in bella evidenza. E’ la notizia a dare prestigio al premio, un circolo vizioso. La qualità del premiato? Chi se ne frega. Lo stesso criterio è esteso ai festival e alle rassegne: entrare nel circuito mafioso di invitare uno di cosa nostra per trovarsi citati… Gli affiliati si riconoscono tra loro come i cani, si odorano il posteriore, luogo elettivo dove esercitano la loro disponibilità, occupano le poltrone ed esprimono la loro attitudine: il cosiddetto paraculismo…Effetto diretto della dominazione del Partito Conformista Italiano è l’incapacità di selezionare una classe dirigente e l’assenza di meritocrazia nella vita pubblica, nella scuola, nei concorsi, ovunque. Insomma il PCI esprime il totalitarismo mammone e mellifluo che deborda nel nostro Paese. L’esempio primo e pessimo lo dà proprio la cultura, con annessi l’arte e lo spettacolo, che pure dovrebbero essere il riferimento in senso contrario. Tra maneggioni e conventicole, cosche spontanee e famiglie organizzate, grazie al PCI prevalgono le mafie del passaparola o del passasilenzio, del riconoscimento e dell’esclusione. Può sopravvivere uno scrittore o un artista, senza premi né riconoscimenti d’altro tipo, senza recensioni e senza accademia? La cattedra è il suo pane, l’attenzione della critica è il suo companatico, il riconoscimento è la sua acqua. Cosa resta di lui in mancanza di tutto questo? Resta solo quel che vale davvero.

da Panorama Marcello Veneziani

L’Occidente contro il resto del mondo…

Il mondo che lascerà Joe Biden al termine del suo mandato è una bomba a orologeria, un pianeta ulcerato ed esplosivo, a sud come a est, tra scenari di guerra e tensioni internazionali, dall’Ucraina alla Palestina, a tutto il Medio Oriente, alla Corea, alla Cina. E dall’Onu alla Corte dell’Aia. L’odio verso l’Occidente è cresciuto nel mondo, i desideri di vendetta e di rivalsa covano in molti focolai e la pace mondiale è oggi come in pochissime altre fasi precedenti negli ultimi 80 anni messa davvero a rischio. Il mondo che aveva lasciato Donald Trump nel 2020, pur assediato dalla pandemia, era meno compromesso, non c’erano conflitti e tensioni, guerre virali in corso, col rischio di propagarsi anche da noi. Trump lo spaccone, Trump lo sbruffone non aveva fatto guerre da nessuna parte, ed era riuscito pure a sedare alcune situazioni di pericolo, come quella con la Corea di Kim. Non c’erano rischi speciali, con l’Islam, la Russia e la Cina. Ma la menzogna mediatica dell’Occidente fa passare Biden (col suo mondo dem) per un pacifista umanitario e Trump per un guerrafondaio pazzo. E ci dicono di temere il futuro in mano a Trump, che abbiamo già peraltro testato nel precedente mandato, quando dovremmo piuttosto temere il presente ancora in mano a Biden (o alla sua cerchia). Al di là di quel che succederà alla Casa Bianca, occorre una riflessione realistica sullo stato delle cose presenti e sui rischi che stiamo correndo in base ad alcuni pregiudizi, alcune preclusioni che non vogliamo superare. Per risvegliarci dal nostro sonno occidentale, è necessario innanzitutto partire da una considerazione: l’Occidente non è il mondo, ma una porzione sempre più ristretta del pianeta e sempre più divergente. Anzi l’Occidente patisce oggi una paradossale, doppia incongruenza, per eccesso e per difetto: è una realtà troppo ristretta per coincidere con la società planetaria e i suoi parametri globali; ma al contempo l’Occidente è un’entità troppo vasta che assembla mondi distinti e spesso divergenti. Dire Occidente, infatti, significa accorpare in una sola dimensione il mondo statunitense e canadese, il subcontinente latino-americano e l’Europa intera, dall’Atlantico agli Urali. Non sono la stessa cosa, non hanno comuni interessi vitali, strategici, economici e geopolitici. La reductio occidentale presuppone in realtà l’egemonia americana, la subalternità europea e la sudditanza sudamericana. Aveva una residua validità il rifermento all’Occidente quando indicava la civiltà cristiana, pur nelle sue diverse accezioni e derivazioni secolari, ben sapendo che esisteva anche un cristianesimo orientale, russo-bizantino; il cristianesimo era il filo d’Arianna che accomunava i tre Occidenti e alcuni paesi sparsi nel mondo. Ma oggi che il riferimento religioso appare assai meno pregnante e influente, anzi si è fatto marginale e viene sempre più emarginato, cos’è l’Occidente? Individuo, libertà e democrazia, si potrebbe forse rispondere, o tecnologia, capitale privato e mercato; ma non sono più tratti specifici ed esclusivi dell’Occidente e non appaiono più vincenti nella forma occidentale. A lungo l’Occidente è stato un tempo più che un luogo: il tempo della modernità rispetto al resto del mondo che pareva arretrato, ma oggi non è più così. A ciò si aggiunge il calo demografico che investe l’Europa e il nord America. Anche dal punto di vista demografico, la Cina, l’India o l’Islam sono universi più popolosi dell’occidente euro-atlantico o riferito ai paesi del G7, che includono pure il Giappone. Al tempo stesso, come hanno dimostrato anche le più recenti situazioni conflittuali, da quella russo-ucraina a quella israeliano-palestinese, la posizione dell’Occidente è minoritaria rispetto al resto del mondo, alla divergente valutazione di quegli eventi che ne danno Cina, Russia, India, Brasile, Africa e Sudafrica, paesi islamici e paesi non allineati. La distinzione tra il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, secondo il metro occidentale, non risponde affatto all’unità di misura del resto del mondo. Bisogna prenderne atto. Nè possiamo imporre la nostra intermittenza etica nel giudicare le catastrofi umanitarie, i genocidi, i massacri delle popolazioni civili e i crimini contro l’umanità. Il resto del mondo non condivide, non comprende i nostri criteri e i nostri manicheismi. Il caso palestinese come il caso ucraino lo dimostrano. Che senso ha persistere in questa cecità e auto-sopravvalutazione e considerare ancora gli Usa i gendarmi del mondo e l’Occidente il paradigma del pianeta? Perché non accettare realisticamente la situazione effettiva e trarne coerentemente le conseguenze? E’ tempo di lavorare per un mondo multipolare, smobilitando le pretese egemoniche dell’Occidente; anzi rimettendo in discussione l’idea stessa di Occidente. Un conto è difendere la nostra civiltà, un altro è illudersi di essere alla guida del mondo; ed invece, da quel punto di vista, il peggior nemico della civiltà occidentale è l’Occidente stesso, in preda al delirio woke, alla cancel culture, al politically correct, al processo permanente contro la sua stessa civiltà, le sue derivazioni e le sue matrici. Anche l’Oriente assomma in realtà mondi assai diversi, irriducibili tra loro per storia, caratteri, religione, cultura. Si può davvero mettere sotto una stessa categoria spaziale, storica e geopolitica l’Islam, la Russia, la Cina, l’India, il Giappone e via dicendo? E l’Africa a quale emisfero apparterrebbe? La diade Oriente-Occidente non è un indicativo spartiacque più di quello tra Nord e Sud del pianeta. Insomma, da qualunque parte lo si osservi, non resta che oltrepassare l’Occidente. Era il futuro per il resto del mondo ma oggi è stato scavalcato da più ardite tigri della tecnologia e del commercio globale. L’Occidente oggi è il vecchio, senza essere l’antico; è il passato, senza essere l’origine. Indica il luogo e soprattutto il tempo del tramonto. A ovest si fa sera, e si teme la notte. Non resta che andare oltre l’Occidente, pur restando italiani, mediterranei, europei.

Marcello Veneziani