La belva estate…

 

Fa troppo caldo, fuori i colpevoli! Questa in sintesi la denuncia a mezzo stampa dopo una settimana particolarmente rovente che avrebbe mietuto vittime come un’epidemia o una specie di guerra climatica. Si, perché oltre la guerra mondiale e la guerra civile c’è pure la guerra termica, cioè la guerra della natura contro l’umanità, causata però sempre dai manipolatori cinici dell’ambiente e magari dai governanti (se di destra).

Mentre leggevo le denunce accorate sull’eccezionale, anomala, terribile ondata di caldo che investe l’Italia, l’Europa, il Pianeta, sono piovuti sul mio smartphone spezzoni di cinegiornali e di telegiornali di sessanta, settant’anni fa. Raccontavano di giornate all’insegna dei quaranta gradi, città in preda al calore più terribile, ma il tono di quei reportage non era quello apocalittico, complottista e sospettoso dei nostri giorni; era leggero, ironico, divertito, per le stravaganze a cui induceva quel caldo terribile. Non si vedeva nella temperatura una specie di maledizione biblica, causata dall’insolenza umana, ma uno scherzo della natura, prevedibile, un po’ pericoloso ma in fondo godibile. L’estate era ancora considerata un periodo di beatitudine, in quegli anni; la stagione del gioco e delle vacanze, della luce e della vita all’aperto, del mare e del sole, dell’abbronzatura e della scottatura. L’aria condizionata era ancora un privilegio di nicchia, o una pratica americana; il rimedio tecnologico era ancora il ventilatore, il rimedio personale era il ventaglio, riservato però alle donne (un caso di disparità ai danni dei maschi, che in quanto machi dovevano sopportare anche il caldo feroce, e se borghesi, andavano al lavoro con la giacca e la cravatta). Tutto pareva divertente al cronista del tempo, e tutto si faceva come festoso, brioso, goliardico. Da bambino ricordo anch’io giornate e nottate di caldo feroce, al sud, nell’età del sudore: estati ascellari, ribollita di piedi, zoccoli ributtanti. Canottiere e camicie traforate, terribili. Gli oltraggi al sudore erano molto più diffusi degli oltraggi al pudore.

Al mio paese c’era pure un torneo calcistico chiamato la Canicola, che si faceva proprio in luglio, in cui l’avversario da battere era soprattutto il caldo, ed era uno spettacolo sadomaso che oggi sarebbe accusato di crimini contro l’umanità: assistere a quegli eroici gladiatori che si scioglievano davanti ai nostri occhi tra sforzo fisico e temperatura di fuoco. Però, dai, non moriva nessuno. Un caso su diecimila in quelle situazioni-limite o un caso su un milione nelle statistiche estive, rientra nella storia ordinaria dell’umanità…

I rimedi adottati dall’inizio dell’umanità fino agli anni sessanta erano i seguenti: acqua, tanta acqua, con le fontane gremite; vento, cerca il vento, trovare i punti più ventilati; ombra, tanta ombra, sotto un albero o dietro un palazzo, sulla proiezione di un campanile; e poi rifugi in case con porte spalancate e finestre “sbambanate” (spalancate), in attesa del miracolo della corrente, non quella elettrica, ma quella dell’aria. Più gelati e birra ghiacciata, granite, orzate o latti di mandorla, e tanta frutta. C’erano pure fasce orarie protette: la più famosa, da noi, era la controra, di cui ho scritto in C’era una volta il sud, ovvero le ore pomeridiane in cui batte più forte il sole, e pure la fiacca, col ritiro in casa nell’immobilità, nel sonno e alla ricerca di spifferi, più ventagli e cartoni agitati (non cartoni animati ma agitati manualmente per farsi vento). La controra era la contraerei da opporre al caldo; il coprifuoco per difendersi appunto dal fuoco che c’era fuori.

E la notte si faceva più tardi, all’aperto, sui balconi e all’aperto nella doppia speranza che il caldo calasse e la stanchezza pure, facendoci dormire nonostante la calura. Tanto volte in quel tempo ho dormito per terra, in cerca del mattone più fresco, perché i letti erano trappole di calore, a volte piastre in cui friggere. Non erano grandi rimedi, lo riconosco, ma si sopravviveva. Sarebbe da stupidi rimpiangere quel tempo, quel caldo senza rimedi, quel fatalismo termico che ci contraddistingueva. D’altronde l’estate offriva tanti doni speciali, dalla frutta al mare, dalle ferie alle infradito, dalle serate lunghe all’aperto ai grilli e alle cicale, che erano un po’ lo spotyfi del tempo, e ti pareva di vivere comunque nei giorni beati e azzurri della gioventù del cosmo. Il freddo faceva più paura del caldo, nelle società povere. E quelle immagini del cinegiornale o dei tg, benché in bianco e nero, sprigionavano un’allegria dell’estate e la società intera s’irragazziva, si faceva adolescente e giocosa, come succedeva al mare, tra schizzi, “onze”, cioè immersioni forzate, nuotate, torri, giochi di gruppo, bagni coatti e secchiate.

Lo ripeto per i soliti cretini intelligenti: non sto rimpiangendo quel tempo, ma il contrario – si può dire che sto ri-sorridendo di quel tempo? Ovvero ne sto parlando con divertimento, un pizzico di innocua nostalgia per come eravamo ragazzi e nessuna intenzione di tornare a quel tempo.

Ora invece succede che non esistono più fenomeni veramente naturali, ma dietro la natura c’è sempre lo zampino dell’uomo, la manipolazione del pianeta, del clima, magari lo sfruttamento commerciale e industriale. Certo che c’è un’incidenza sempre più forte dell’industrializzazione, delle energie consumate e dei loro scarti, dell’inquinamento e degli insediamenti umani, per non dire che otto miliardi di consumatori sul pianeta sono una forza distruttrice formidabile. Ma qui si crede di essere entrati in un’epoca in cui non ci sono più le calamità naturali, gli sbalzi del clima, e nemmeno le disgrazie, perché tutto deve avere per forza un colpevole umano. Come se morire fosse solo frutto di un incidente e di un assassinio, e non il destino inevitabile dell’umanità e di tutto ciò che è vivente. Ogni morte è un’imperizia, un’inefficienza, un errore del sistema o di qualcuno, un mancato soccorso, una diagnosi sbagliata; mai l’accettazione di una sorte ineluttabile che prima o poi tocca tutti.

Ed è divertente vedere come si diversificano gli atteggiamenti rispetto a questo eco-fanatismo. Il conservatore vorrebbe tornare al ventilatore, purché non diventi pala eolica. Il reazionario rimpiange invece l’età primitiva del sudore e in fondo alla stessa conclusione arriva l’ecologista radicale e fondamentalista; il modernista liberista vuole invece usare a palla e senza limiti l’aria condizionata perché la questione è solo individuale, chi se ne frega del mondo; il modernista progressista vuole usarla lo stesso, salvo lamentarsi e denunciare l’uso altrui; l’ultramodernista ogm vorrebbe mutare l’uomo al punto da renderlo insensibile al freddo e al caldo, artificialmente omeotermico o pecilotermico, autoregolato da un pace-maker termico, che lo assesta su una temperatura standard o lo adegua al clima esterno.

Tutto cominciò quando si prese a dire “sono finite le mezze stagioni”, ed io trovai una citazione di Plinio il Vecchio che diceva duemila anni fa la stessa cosa… E si va avanti così, sia per indicare fenomeni effettivamente strani che possono essere stati indotti da un’alterazione dell’ecosistema, sia per fenomeni che ci sono sempre stati o che tornano ciclicamente.

Ma in tutto questo, la cosa peggiore è che si vive l’estate come una malattia, una specie di patologia del clima, e non come il tempo favoloso in cui regna il sole, il cielo è azzurro e l’uomo può riprendere il contatto con la vita naturale. “L’invincibile estate dentro di me” di cui cantava Albert Camus diventa foriera di timori e tumori, la bella estate di Cesare Pavese diventa la belva estate, dal feroce clima. Ma l’estate era soprattutto il tempo dell’infanzia: come scrive Gaston Bachelard ne La poetica della rêverie, “Tutte le estati della nostra infanzia testimoniano “l’estate eterna”. Le stagioni del ricordo sono eterne perché sono fedeli ai colori della prima volta”. Dai, su, fa caldo, è estate, non fate processi, non fatene una malattia.

Marcello Veneziani

Benvenuti nell’Età della Fuffa…

 

 

Signori, stiamo vivendo nell’epoca della fuffa. È la fuffa il vero comun denominatore della politica, della comunicazione e della televisione, perfino della cultura allestita per i media. Siamo spettatori del Circo Fuffa. Si, mi rendo conto, è arduo generalizzare, ed è difficile dare una definizione valida per vari ambiti, largamente comprensiva anzi inclusiva, per dirla col lessico della fuffa. Siamo circondati da tanti furfanti, ma i fuffanti o fuffatori sono di più. Fuffa fa rima baciata con truffa. Non riuscendo a definire il presente, Roberto Calasso lo chiamava “l’innominabile attuale”, un tempo che non ha nome, privo di una connessione e un’identità che ne dia il senso e il destino. Ma a ben pensarci e a osservare la realtà con occhio sgombro, l’epoca che stiamo vivendo, in quest’Italia e in quest’Europa, è l’età della fuffa. La politica, la tv, la comunicazione, perfino culturale, trasformano in fuffa tutto ciò che toccano. Con le dovute eccezioni, s’intende. È una gigantesca sostituzione della realtà con la fuffa, e dell’intelligenza del reale con la fuffa.

Che significa precisamente fuffa? Tutto ciò che è vero, è autentico, è reale, è essenziale, è profondo, è intelligente viene cancellato, rimosso, emarginato. Resta solo la schiuma, il rigurgito, il fuoco fatuo, l’apparenza, la chiacchiera, la roba superflua e dozzinale, priva di valore e di significato, che non ha nulla di autentico. Per dirla in altro modo è la sostituzione del vero col kitsch che ha un significato analogo seppure in versione estetica perché riguarda il gusto. La politica è da tempo immersa dentro il regno della fuffa. Da una parte vedi fiorire supercazzole, palloni lanciati in tribuna per non misurarsi col terreno di gioco, fughe in avanti, di lato, indietro; monta il gergo della falsità. Dall’altra vedi l’attenzione prestata a cose del tutto irrilevanti o quando sono rilevanti vengono subito tradotte e banalizzate in sciocchezze e ninnoli. Non c’è profondità che non venga profanata e imbecillita, ridotta in crosta o glassa di superficie, con la scusa di rendersi più commestibile e accessibile ai più, giacché viviamo un’epoca mercantile e il cittadino è ridotto a cliente. La politica inscenata in tv è una sequenza di fuffe contrapposte: chi sta al governo o lo sostiene recita una serie di cose finte, esagerate sulla bontà assoluta della sua azione, esattamente come chi sta all’opposizione e denuncia la fine della libertà, della democrazia, dello stato sociale, di ogni bene. Col preciso sottinteso che a ruoli invertiti, direbbero e perfino farebbero le stesse cose che fa l’altro, anche perché sono ormai esecutori e sudditi di poteri sovrastanti. Fuffa, solo fuffa.

Poi vedi la realtà e ti rendi conto che non corrisponde a quel che dicono i venditori di fuffa. La realtà si riprende lo spazio con gli imprevisti, le tragedie, le sue dure repliche, i casi di cronaca e la residua umanità.

Lo specchio principale dell’invasione fuffesca, anzi il fuffometro più vistoso, resta la tv. Tutto ciò che non nasce in tv, dalla tv e per la tv, è tradotto in fuffa per essere più adatto e più malleabile al gergo, al format, al pubblico televisivo, ai tempi rapidi e ai modi superficiali. E si trasforma da fuffa in merce, il che è spesso la stessa cosa. E da merce, permettetemi la volgarità, si trasforma in merda. Tutto deve farsi attuale, cioè idiota e cieco, rientrare nei temi del giorno; tutto deve farsi bianco o nero, buono o cattivo. Tutto dev’essere smerciabile, masticabile, potabile. Tutto deve valere ad altezza d’uomo, pro o contro qualcuno. E tutto sembra provenire da quell’orifizio posteriore collocato a metà dell’uomo. Il clou del talk show è quando un ospite smerda un altro, anche se nei resoconti di questa spettacolare macelleria da latrina si usano termini più soft, come asfalta, mette a tacere, distrugge. Il palio della fuffa.

In quel contesto l’abilità è tutta nella capacità di interpretare con fervore e padronanza la fuffa recitata in pubblico. Se esprimi pensieri ti chiedono subito di trasformarli in figurine, non vogliamo idee ma faccine per album, o al più slogan. Se ti azzardi a esprimere un’idea ti tolgono la parola per riprendere il rassicurante chiacchiericcio sulle cose più a portata di tutti, le cose del giorno che fanno trend, sennò crollano gli ascolti. Se descrivi un potere culturale di decenni, la buttano sui casi personali del momento, per sollevare beghe e scazzi e poter poi scendere al livello delle portinaie e fare nomi su chi esce e chi entra nel palazzo. E non vi dico se esprimi un’idea in dissenso, non riconducibile allo schema binario imposto, soprattutto in quei programmi di tendenza, nel senso di tendenziosi. (Sostengo da anni che il meglio della tv è l’antologia, techetechete, per esempio).

La fuffa rimbalza pure nei social, col loro brutale gergo diretto, che è il contrario di eterodiretto, perché senza filtri, mediatori e conduttori. Ma il modello imperante anche nelle cloache dei social è la fuffa sparsa intorno. Sui social l’insulto è interattivo, non devi solo ascoltarlo da telespettatore ma puoi partecipare al massacro, in democrazia diretta, e sentirti giudice supremo e popolo sovrano, anche nelle cose che non sai. La materia del contendere il più delle volte non è la realtà ma la sua rappresentazione, cioè la paccottiglia kitsch che se ne è derivata.

La tv-live diventa così il modello a cui adeguare la comunicazione in generale, la vita e perfino la riflessione culturale, ormai sparita dalle pagine culturali in poi; tutto per sopravvivere, per vendere, per farsi best seller, per entrare nella chiacchiera dei siti gossip, deve ridursi a fuffa. Tutto è immerso in quella caricatura di dialogo, intervista e conversazione che è il talk-show; tutto diventa talk show, per essere efficace non devi esprimere un pensiero ma una didascalia, devi dire una frase ad effetto, anche falsa ma scenica; mai tentare un argomentato discorso, ci sono i tempi veloci, cade la soglia d’attenzione, casca l’audience e soprattutto casca l’asino, cioè l’ignoranza media universale; presto, con urgenza, interrompere, smerdare, alzare il tono, sopraffare, trasmutare in fuffa e poi cambiare subito scena, passo e chiudo. In tv funzionano lite, sesso e merce, variante moderna di un vecchio titolo di un film, Pugni, pupe e dinamite; che era poi una serie di film col terzo termine variabile (quanto sono vecchio, ricordo quei film anni sessanta di Eddie Constantine). Le preoccupazioni nell’ordine sono fare bella figura, schierarsi con una parte, trarre profitto dalla posizione assunta. Poi, chi se ne fotte della realtà.

In tv meglio darsi ai film, ai documentari sui luoghi e sulle bestie, o se proprio devi restare tra i viventi contemporanei, le partite, Frassica e qualche concerto; cioè lo sport, la musica, la geozoologia, il comico grottesco. Neanche le previsioni meteo sono credibili, figuriamoci il resto. In fondo se la politica desta sempre meno fiducia e interesse, se la comunicazione non verte mai sull’essenziale e sul vero, la cultura deve farsi solo puttanata di contorno. E poi se mezza Italia, mezza Europa, non vota, probabilmente la ragione primaria è la percezione di vivere in una bolla surreale chiamata fuffa, dove non c’è la vita vera, né cambia nulla anche se cambiano le parti; si inscena solo quel teatrino, poi c’è la pubblicità. Cosa manca in questo teatrino? Manca la passione di verità. Il vero è sempre subordinato a qualcosa che rende di più. Manca o scarseggia chi parla, agisce e pensa per amor del vero.

Marcello Veneziani                 

La resistenza della Madonnina e il cedimento di un grattacielo babelico.

 

Fa caldo, ma la Madonnina resta immobile, lì dove è sempre stata. Crolla invece l’insegna di un grattacielo asiatico e arrogante – immagine che sembra un quadro distopico, una triade vitruviana al contrario

Fa caldo, certo che fa caldo a Milano. Ma la Madonnina non mostra segni di cedimento. Lei che dominava la città da secoli, lei che venne umiliata per la prima volta dal Pirellone (era il 1960, segno che a Milano il cattolicesimo stava sprofondando già prima del Vaticano II), e poi completamente sostituita nello skyline dalla raffica di grattacieli nuovi, uno anche ciellino (era il 2010, segno che CL non sarebbe sopravvissuta a Giussani), sta dove è sempre stata.

Il crollo dell’insegna sul grattacielo disegnato da un’architetta irachena, dunque un oggetto direttamente babelico, asiatico, arrogante, sembra un quadro distopico di Massimiliano Alioto, sembra una triade vitruviana al contrario (disarmonia, disutilità, instabilità…), sembra un versetto dei Salmi: “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori”. Immagine facilmente apocalittica che per contrasto mi fa sognare i villaggi di Léon Krier (tutti stabilissimi), la cripta fresca di una chiesa antica dove accendere una candela: grazie per consentirmi di vivere lontano da Milano.

 Camillo Langone

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Il riarmo ci svena e non ci protegge…

 

 

Diconsi sovranisti coloro che si piegano ai sovrani del momento. Diconsi progressisti coloro che marciano in corteo per sfuggire alla realtà. Diconsi liberali coloro che difendono il libero mercato con le armi, a partire dal mercato delle armi. Diconsi occidentalisti coloro che sono pronti a distruggere mezzo mondo per salvare il loro diritto a distruggere la propria civiltà. Aggiornate i vostri dizionari. Applicazione concreta al tema del giorno: i liberali occidentalisti vogliono il riarmo, i sovranisti lo subiscono, i progressisti marciano per il gay pride. Un quadro confortante. Trump, Zang, Tumb, per dirla con audace sintesi futurista.

In questo carnevale planetario permettetemi di dire che sto col Papa Leone XIV: “Che la guerra porti pace è falsa propaganda. I soldi vanno ai mercanti di morte”. Parole sante. Sto col papa non perché io abbia tradito o sia rincoglionito; ero già col Papa, Giovanni Paolo II in quel caso, anche al tempo della guerra in Iraq, quando avevo la metà degli anni; e col senno di poi sento di dire che avevamo ragione. A questo punto qualcuno tira fuori la solita menata: ma come sei diventato pacifista, stai con… (a vostra scelta associarmi per infamia a un nome sinistro o parasinistro), rinneghi la destra patriottica e bombastica che è sempre stata dalla parte del riarmo, della guerra, dei militari e degli eroi? Ragazzi, svegliatevi nel mondo reale, non potete giudicare la calligrafia di chi si scrive con lo smartphone…

Allora ragioniamo, anziché professare opinioni prestampate come i moduli per i versamenti. Non ho mai visto una guerra fermata da una marcia pacifista ma ho difficoltà a ricordarmi un riarmo che non sia sfociato in una guerra. Ma oggi più di ieri è avvenuto un cambiamento di fondo che lo rende molto più pericoloso: è finita l’idea della difesa, cioè della guerra in caso di attacco o invasione del nemico. Siamo ormai nell’era della guerra preventiva, non è più si vis pacem para bellum, qui siamo al se vuoi la pace scatena la guerra, meglio una guerra oggi che una domani, prevenire è meglio che curare, e distruggere è meglio di preservare. E se vuoi prevenire il nemico di domani, uccidilo oggi che è bambino.

Non solo: non sono stragi, massacri, genocidi, crimini di guerra quelli compiuti nel nome della libertà, della pace e dell’occidente. Ma operazioni di difesa, di polizia, di prevenzione liberale. Fossero pure contro inermi popolazioni affamate, bambini, donne, vecchi.

E ancora, si può essere considerati belligeranti in virtù della proprietà transitiva: se c’è nel tuo paese un’organizzazione terroristica che magari ti usa come scudo e ti tiene in ostaggio; o se tu mantieni, anche solo per paura o per salvarti la pelle, un vero o presunto rapporto con loro, sei per la proprietà transitiva ritenuto e trattato come un nemico, anzi un materiale ostile da eliminare.

Infine non dimenticate che la politica da tempo conta poco rispetto agli affari e al business globale: e se l’industria del riarmo ha bisogno di venderci nuove armi, saranno pochi e deboli gli argini politici per fermarla. Se comandano gli affari sul bene comune, il profitto non vede in faccia nessuno e non si ferma davanti a niente. Capovolgendo una canzone di Venditti: Roma o non Roma noi arriveremo a bomba.

Ora, scendiamo nello specifico: avrebbe forse avuto un senso se l’Europa avesse deciso, da tempo, di far nascere una forza armata europea, confluendo le singole forze nazionali in un solo organismo di difesa o quantomeno affiancando gli eserciti nazionali con una forza europea. Avremmo razionalizzato le spese militari, avremmo evitato la dispersione in ventisette riarmi nazionali, avremmo ottimizzato le risorse belliche, evitando inutili doppioni, armi superate o inadeguate. No, qui siamo alla confluenza di due diktat folli: il riarmo europeo proclamato pochi mesi fa contro Putin e un po’ contro Trump, e il riarmo obbligato, imposto dalla Nato e dallo stesso Trump, e a latere dai mercanti d’armi, per accollare sui singoli inquilini del condominio europeo le spese di vigilanza e protezione finora in carico alla Nato made in Usa. Il riarmo nasce da una folle prevenzione: la convinzione, già lanciata ai tempi di Biden, che la Russia di Putin voglia invadere l’Europa e attaccare i paesi limitrofi (come del resto si dice dell’Iran che teme la guerra perché capisce che sarebbe la sua fine). Dunque, approntiamoci a far la guerra per sventarla, anzi affrettiamoci a far precipitare gli eventi per farla abortire. I riarmi, così concepiti, probabilmente favoriscono le guerre, anziché dissuaderle. Ma certamente servono solo ai venditori di armi, per esempio americani. E noi dovremmo svenarci per questa follia preventiva che non serve affatto a migliorare le condizioni di pace e gli equilibri internazionali?

A chi invece, dopo aver per una vita deprecato il militarismo nazionalista e fascista, invoca ora la passione eroica e guerriera della destra al servizio del riarmo, vorrei ricordare una cesura storica di cui fu testimone il più grande scrittore di guerra che fu anche eroe di guerra insignito della più alta onorificenza militare. Ernst Jünger aveva elogiato la guerra, era profondamente pervaso di etica eroica, guerriera e sovrumanista. Ma dopo aver partecipato con ardore, impeto e assalto, alla prima guerra mondiale, se ne ritirò disgustato, perché vide nella guerra quello che la tecnologia avrebbe prodotto poi nella vita: la sostituzione dell’umano e dunque delle virtù militari, con la macchina, con i materiali bellici, con le disponibilità economiche e gli arsenali di distruzione. Da un verso la leva universale, la coscrizione obbligatoria, dall’altro la prevalenza dei mezzi sugli uomini, avevano tolto per il guerriero Jünger ogni nobiltà alla guerra. E il Guerriero mutò in lui nel Milite del Lavoro, l’Operaio in fabbrica, o nel Ribelle, che passa al bosco. Junger arrivò a sognare perfino uno Stato planetario e una Pace universale. Lui, che era stato il più grande scrittore di guerra nel primo conflitto mondiale, con le sue tempeste d’acciaio… Già, don Chisciotte era considerato pazzo quando combatteva i mulini a vento prendendoli per mostri, ma oggi non potrebbe dar corso nemmeno alla sua romantica follia, perché sarebbe circondato da pale eoliche e il suo cavallo, Ronzinante, non potrebbe avanzare tra pannelli solari al posto degli ulivi…

Marcello Veneziani       

La sconfitta (culturale) degli ayatollah…

 

Decenni di legge islamica, di repressione, di galere, di veli e di turbanti, ma dell’Iran odierno resteranno esclusivamente le opere delle donne, soprattutto delle donne avverse al regime

Gli ayatollah hanno perso. Non mi riferisco alla situazione militare, per la quale rimando volentieri agli esperti della materia, mi riferisco alla situazione culturale. Essendo rimasto più o meno fermo a Omar Khayyam (XII secolo), nei giorni scorsi ho deciso di aggiornarmi, di informarmi sulla cultura iraniana contemporanea. Ho cercato scrittori e pittori. Ho trovato scrittrici e pittrici, e fotografe, e una fumettista. Dove sono finiti i maschi? Tutti a farsi crescere la barba, a denunciare adultere, a schiaffeggiar scostumate? Strano, davvero strano.

Per quei mediorientali maomettani è un risultato fallimentare, perfino peggio dei bombardamenti di Fordow: decenni di legge islamica, di repressione, di veli e di turbanti, di galere, frustate e bastonate e dell’Iran odierno resteranno esclusivamente le opere delle donne, e delle donne avverse al regime. Perché molte di queste scrittrici e artiste figurative sono atee dichiarate (al momento la mia preferita è Chahdortt Djavann) e le altre sono atee implicite. Una è addirittura cristiana (convertitasi, incarcerata come apostata e infine espulsa). Una è mezza ebrea mezza zoroastriana. Insomma, sostenitrici dei barbuti zero carbonella: invece dell’attesa egemonia similgramsciana, l’inesistenza musulmana.

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

 

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La rassicurante irrilevanza dell’Italia.

 

 

L’Italia, grazie a Dio, conta poco o nulla. Non siamo in guerra, non siamo mediatori, non siamo partner di particolare peso e rilievo. Nessuno si aspetta le nostre decisioni, i nostri pronunciamenti, siamo parte di un mondo a sua volta poco rilevante, comunque marginale, che si chiama Unione Europea. Non abbiamo bombe atomiche né sontuosi apparati militari, non abbiamo strumenti di dissuasione, se non logorroici politicanti e imbonitori, anche se c’è sempre il rischio che vengano coinvolti i nostri militari nella regione, per esempio in Irak, o che venga fatto un ponte di rifornimento delle armi made in Italy o che si usino le basi italiane della Nato per incursioni di guerra. Ma per una volta, godiamo il nostro statuto di nazione minore e minorenne, periferica, non superpotenza né potenza; un paese piccolo, esile, appeso e pendulo come un corno portafortuna nel laghetto Mediterraneo. Molte volte la nostra salvezza è stata quella di confondersi nel gruppo, di non stare né in testa né in coda, tra i più decisi o tra i più riluttanti; ed è stata quella la nostra salvezza a lungo, oltre la strategia dei due forni, o del doppio gioco, che a volte ci ha salvato non l’onore né la dignità ma quantomeno le chiappe e la pellaccia. Mi sembra che siamo tornati lì o forse non ci siamo mai mossi da lì.

I cartoni animati della sinistra gridano ogni giorno contro Giorgia Meloni attribuendole un’importanza strategica internazionale che obiettivamente non ha e non per colpa sua. Scoppia una guerra e che fa la Meloni? Massacrano a Gaza e che fa la Meloni? Ma che volete che possa fare, la poverina, quale moral suasion può esercitare se non sbattere gli occhioni… In realtà quasi tutto di quel che incolpano la Meloni, è semmai latitanza dell’Europa intera, sia dell’Unione che dei principali stati membri. L’Italia che non si decide, non prende posizione, barcolla e fa il pesce in barile è da un verso lo specchio esatto dell’Unione europea e dall’altro è la fotografia precisa del centro-destra come del centro-sinistra (in questo perfino i grillini sono più lineari e addirittura più coerenti; i 5stelle, è tutto dire): sospesi tra riarmo e disarmo, tifo e distanza neutrale, condivisione senza partecipazione.

E la Meloni che fa? continuano a domandare gli inquisitori che ormai attribuiscono per parentela politica ogni nefandezza di Netanyahu e di Trump a lei (lasciatemi un sospiro tra parentesi: dalla destra internazionale ci guardi Iddio). Ma cosa volete che faccia, che margini di azione ha, quali sono i poteri e le forze di cui dispone? Meloni fa esattamente quel che fa Mattarella e che avrebbe fatto al governo un Letta, un Gentiloni, un Prodi, un Draghi e i loro avanzi. Cambiano le sfumature, i modi di comunicare, l’indole e magari il ceto, borgata o ztl. Accucciati, allineati, tra mezze parole e mezzi sostegni, fingono di sbrigarsela dicendo che l’Iran non dovrebbe avere l’atomica o altre banalità del genere, salvo il fervorino finale, però mi raccomando, ragazzi, non fatevi male, parlatevi almeno…

A proposito di Mario Draghi, è sorprendente il suo attivismo in questi giorni, le sue visite ripetute al Quirinale, il suo pendolarismo internazionale; grand commis non si sa bene per conto di chi e per che cosa…

Ormai da tempo la parola d’ordine in Europa è riarmo. Forza, riarmiamoci. Dopo fiumi stucchevoli di pacifismo, eccoli lì tutti a parlare di armi, guerra e bombardieri. Non ci sta attaccando nessuno ma noi crediamo di essere, o perlomeno diciamo di essere, l’obbiettivo finale degli attacchi russi, iraniani, e d’ogni altro tipo. Ci sentiamo al centro della scena anche se poi ci comportiamo come se stessimo sul loggione, penultima fila. E se l’Europa parla solo di riarmo, la parola d’ordine di Trump, che pure era partito con buone intenzioni, con la missione di imporre la pace nel mondo, è ora guerra, vediamo un po’ se bombardare oppure no, intanto complimenti a Israele, e voi nemici state attenti, o vi arrendete senza condizioni o vi distruggiamo, per il momento non ammazziamo Khamanei ma sappiamo dove si nasconde…non hai scampo, vecchio barbagianni. Poi magari al posto suo arrivano i Pasdaran e la situazione certo non migliora.

Ma oltre lo scenario mediatico, ossia sotto la rappresentazione ad uso spettacolo globale di guerre vere e imminenti, si può notare uno strano attivismo. È la sorprendente riconversione militare del regno degli affari, la trasmutazione della speculazione finanziaria in armi, bombe e droni, come ieri in farmaci e vaccini, o in sistemi di sorveglianza multimediale e multinazionale. Quest’occidente in preda al delirio di armi & bombe riesce pure nel miracolo di far passare per un mite, equilibrato, signore quel XiJinPing, che guarda il mondo come un Gatto Mammone e Sornione, impassibile e paziente, senza mai una posizione sopra le righe, mai un cenno di rabbia o di insofferenza. Aspetta il cadavere sulla sponda, come un antico cinese. Sarebbe bello capire se questa corsa alle armi e ai conflitti, alle decapitazioni di stati e vertici militari, eliminazione di scienziati e progettisti, rientri in una nuova fase dell’establishment mondiale che starebbe in questo modo tenendo per il ciuffo, per non dire di peggio, lo stesso Trump, rendendolo alla fine un ariete di sfondamento, un gallo cedrone al servizio della Causa loro. Non vedo la difesa dell’Occidente in tutto questo, ma un disegno di potere, di volontà di potenza, una filiera che transita dalla finanza alla geoeconomia, e dalla strategia militare ad altre strategie tecno-industriali, più vari coinvolgimenti. L’informazione è vistosamente in balia delle controinformazioni pilotate dai servizi segreti, servizi di intelligence cioè di spionaggio. Girano certi patacconi, foto montaggi, servizi strappalacrime, incubi tra la realtà e la fiction…

In tutto questo inferno rateale, che si snoda tra la Russia, l’Ucraina, l’Iran, l’Israele e la Palestina, via Usa, l’unica nota positiva che riusciamo a trarre, con un atto di piccolo egoismo, proviene da una condizione negativa: per una volta, è una fortuna che l’Italia conti poco nel mondo, o se preferite una versione meno brutale, che l’Italia conti molto solo per gli italiani e che il nostro unico, debole ombrello atomico si chiama Papa. In questo momento è l’unico americano che ci protegge davvero, almeno in cielo.

Marcello Veneziani                                         

È vero, fare figli non è un dovere sociale. Ma consigliare di averne non è paternalismo: ecco perché.

 

Il calo delle nascite: chi ha la fortuna di diventare genitore e comunica la sua gioia compie il più grande gesto di altruismo.

Le storie e gli articoli migliori sono quelli di cui, leggendoli, a un certo punto ti viene da dire: «de te fabula narratur», la storia parla di te. Ieri sul Corriere Maurizio Ferrera ha scritto un bellissimo editoriale sulla crisi demografica, in cui a un certo punto si legge questa frase: «In una società laica e liberale, le persone hanno il diritto di scegliere il proprio progetto di vita senza subire prediche paternalistiche». Ovviamente è una frase giusta. Eppure da tre anni a questa parte infliggo prediche paternalistiche un po’ a tutti i giovani con cui lavoro.

Fare una trasmissione tv significa dividere un pezzo importante di vita con diverse categorie di lavoratori: registi, producer, operatori, fonici, truccatori, autori, ovviamente di entrambi i sessi. Tra questi, il più anziano ha diciassette anni meno di me; gli altri sono tutti più giovani. A tutti loro ho consigliato e consiglio di fare figli. Nella nostra piccola comunità ne sono già nati due, Gabriele ed Edoardo, e altri sono in arrivo (naturalmente sarebbe accaduto comunque).
Ha ragione Ferrera: le prediche paternalistiche sono insopportabili. Però talora possono rivelarsi utili.
Premessa: qui non stiamo parlando di politica. Non ci sarebbe molto da dire. Lo Stato non può fare prediche, imporre o anche solo caldeggiare stili e scelte di vita. La maternità e la paternità non sono un dovere sociale, a differenza di quello che si è sostenuto per secoli: si possono lasciare tracce di sé ed essere felici anche senza diventare madri e padri, e ci mancherebbe. Il compito dello Stato è rimuovere gli ostacoli e le discriminazioni, fornire aiuti e servizi, e mettere così tutti e ciascuno nelle condizioni di decidere liberamente se diventare genitore o no.
Qui però stiamo parlando della nostra sfera personale.

Personalmente, appunto, penso che la cosa di gran lunga più importante della mia vita sia stata diventare e fare il padre. Ho due figli. Mio fratello ne ha tre. Se anche vendessi un miliardo di copie del prossimo libro (e temo non accadrà), mio fratello resterebbe una persona più ricca di me. Nello stesso tempo, la paternità e la maternità non sono mai un fatto di numeri: ogni figlio è unico, irriproducibile, irripetibile, preziosissimo. Poi il prodigio delle famiglie e delle comunità – un condominio, un paese, un quartiere, un luogo di lavoro, una parrocchia – è che i figli degli altri diventano persone care e arricchiscono le nostre vite. Per questo il reato e il peccato che percepiamo come il più grave è fare del male a un bambino. A coloro che fanno del male a un bambino, Gesù non dice: sarete perdonati. Dice: fareste meglio a legarvi una macina da mulino al collo e a gettarvi in mare.

I figli sono le uniche persone che amiamo più di noi stessi; non a caso, i figli non possono capire l’amore dei genitori, fino a quando non lo diventano a loro volta. Se penso alle volte in cui sono stato più felice nella mia vita, penso a quando ho visto i miei figli fare cose che io non so e non saprò mai fare.

Conosco l’obiezione: questo è egoismo. È possibile. L’egoismo non è il più nobile tra i sentimenti umani. Ma è il motore della vita e della storia. L’uomo non è un angelo. E’ grazie all’egoismo se siamo vivi e non ci siamo estinti. L’egoismo è riprovevole; ma è fecondo. Le nostre nonne e i nostri nonni che hanno ricostruito l’Italia dalle macerie della guerra non erano mossi dalla solidarietà, dalla bontà, dall’altruismo (certo più diffusi allora di adesso); erano mossi dalla feroce volontà di non soffrire più la fame. Per questo le nostre nonne avevano l’ossessione del cibo e cucinavano tutto il giorno: non volevano che i nipoti patissero quel che loro avevano patito. Per questo i nostri genitori avevano l’ossessione dello studio e ci ripetevano di studiare: perché credevano nella cultura e nella tecnica come strumento di elevazione sociale. Forse anche per questo oggi noi facciamo sempre meno figli: perché temiamo di mettere al mondo degli infelici, e temiamo diventando genitori di perdere quote di libertà, quindi di felicità.

Se l’egoismo è fecondo, il narcisismo è sterile per definizione. Narciso si innamora della propria stessa immagine, non può possedersi, e quindi muore di inedia. Lo specchio di Narciso oggi è il telefonino. Passiamo la giornata a far sapere al mondo quello che pensiamo, vediamo, mangiamo; e siccome al mondo di noi non importa molto più di nulla, viviamo nella frustrazione di dover alzare la voce, a costo talora di calunniare e insultare.
Il narcisismo basta a se stesso. I grandi narcisi che ho conosciuto erano persone – spesso affascinanti – che non volevano figli. Questo non significa ovviamente che chi non desidera figli sia narciso. E neppure che chi desidera figli sia migliore di chi non li vuole. Ripeto: non stiamo parlando di demografia. Ci sarebbe poco da discutere. È evidente che non è sostenibile una società che fa un terzo dei figli che si facevano all’apice del boom economico, e la metà di quelli che si facevano in guerra, nel 1917, l’anno di Caporetto, e nel 1943, l’anno dell’8 settembre. È evidente pure che non basterà far arrivare tutti gli immigrati di cui pure abbiamo bisogno, e che sono nella stragrande maggioranza mossi dal legittimo desiderio di un futuro migliore, per costruire una società attorno a quei valori di libertà, democrazia, giustizia sociale, rispetto delle donne per cui le nostre madri e i nostri padri si sono battuti. L’unica soluzione, oltre ad accogliere e integrare gli immigrati, è aiutare in ogni modo, dagli sgravi fiscali ai servizi per l’infanzia, coloro che desiderano diventare genitori. E magari bastassero assegni e asili nido. Occorre anche ricostruire la fiducia nel nostro Paese, nell’avvenire, in noi stessi. Però qui stiamo parlando di felicità personale. E quindi stiamo lasciando il porto inquietante ma sicuro dell’analisi politica ed economica per entrare in quello indefinibile e mutevole dell’animo umano.

Per la mia generazione, cresciuta senza guerre, gli eroi sono i campioni dello sport. Chiedete a Rafael Nadal di scegliere tra le sue 14 vittorie su 14 finali al Roland Garros, e il primogenito che si chiama come lui (il secondo è in arrivo); non avrà esitazioni. Gustavo Thoeni non mi parlava dell’oro olimpico o della leggendaria rimonta ai Mondiali di Sankt-Moritz; mi parlava della sua massima felicità, fare sci alpinismo con le sue tre figlie. Sandro Mazzola considera la sua più grande soddisfazione professionale non la Coppa dei Campioni vinta nel 1964 con l’Inter contro il Real Madrid, ma il fatto che Ferenc Puskás alla fine della partita gli abbia detto: «Ragazzo, io ho giocato contro tuo padre Valentino. Sei davvero degno di lui».
Lo ripeto: chi desidera figli non è migliore di chi non li desidera. E fare figli può anche essere considerata una forma di egoismo. Ma chi ha la fortuna di diventare genitore, e comunica agli altri la propria gioia, la propria felicità, il proprio entusiasmo, non è un egoista; compie il più grande gesto di altruismo possibile.

Aldo Cazzullo__da __Il Corriere della Sera

La guerra in video ci rende peggiori…

 

Immaginate se da noi mentre, che so, Laura Chimenti o Giorgia Cardinaletti sta conducendo il tg1, arrivasse un missile in studio che sconquassa tutto, lei sparisce, una nebbia copre il video e l’aria si fa irrespirabile anche a chi sta vedendo la tv… Cosa pensereste? Che la realtà brutale si sostituisce all’informazione e parla direttamente, senza più bisogno di mediazioni. Via i media, la forza bruta va direttamente in video. La guerra non è più dentro la notizia, ma le notizie sono dentro la guerra; lo studio non è più un luogo asettico, a tenuta stagna, un olimpo da cui osservare il mondo a distanza di sicurezza, ma fa parte anch’esso della scena che racconta…

E immaginate ancora, se voi mentre siete in casa davanti alla tv o al vostro social preferito a vedere immagini di guerra e a leggere e scrivere commenti sulla medesima, vi arrivasse un bel missile dalla finestra a interrompere la vostra, la nostra simulazione di vita…

Davanti a questa guerra, vi confesso, ho due impulsi opposti e credo entrambi comprensibili: non riesco a scrivere d’altro, non posso farne a meno; ma dall’altra parte vorrei scrivere di tutt’altro, allontanarmi dalla guerra, non potendo fare nulla di concreto per fermarla, vorrei cambiare sguardo, cambiare piano, cambiare mondo. Da una parte, infatti, scrivere d’altro mentre piovono le bombe mi sembra un vile cazzeggiare, come quello dell’Unione europea che discute di cani e gatti mentre un popolo è sotto assedio e sta sul punto di capitolare, e un altro patisce incursioni ritorsive. O mi sembra di fare come mezza classe politica nostrana che sulla soglia di una guerra che potrebbe farsi mondiale, davanti a imminenti esplosioni, uccisioni e stragi, va a sfilare al Gay pride pure in Ungheria, perché il nemico prioritario da battere, come è noto, è Orban e i suoi corrispettivi nostrani.

Da tre anni, almeno, vediamo nei tg più bambini che muoiono che bambini che giocano, più palazzi distrutti che integri, gente che corre, che soccorre, che muore, che spara, più che gente alle prese con la vita quotidiana.

Ma poi mi accorgo che l’impulso a non sottrarsi a parlare di questa guerra nasce dalla stessa molla che mi spinge a cercare la vita altrove, a occuparmi di ciò che fa il mondo oltre e fuori dalla guerra, come vive, cosa pensa: cercare in ambo i casi la vita vera. E allora il punto d’incontro tra i due opposti impulsi è osservare come reagisce la gente a questo frangente, cosa fa per partecipare o per sottrarsi a questa guerra.

Beati coloro che hanno pensieri semplici, che poi non sono pensieri, e risolvono tutto con un giudizio netto, tranciante, pieno di disprezzo per chi non è dalla parte loro. Ma io preferisco quelli che si pongono domande, hanno reazioni articolate, cercano di ragionare, capiscono che la verità è contorta, non è così semplice e netta. Magari poi scelgono, ma a ragion veduta e senza considerare le scelte altrui come infami. Al male non sempre si contrappone il bene, a volte al male si contrappone altro male, e la scelta semmai è tra il male minore o il male più breve. E non sempre il bene e il male stanno come ce li raccontano i nostri media e i poteri dominanti. E di ogni bene, di ogni male, bisogna fare la storia, capire da dove nasce, come e perché, e quali strade ha preso, e qual erano le alternative.

Diciamo allora che la prima cosa terribile di questi giorni è la guerra civile parallela sui media e nei social tra le due opposte schiere. Perché è una guerra in larga parte combattuta senza rispetto delle ragioni altrui, e della vita che sta dietro. A volte i più stupidi, con la bava alla bocca, azzannano persino quelli con cui andavano d’accordo il giorno prima; non riescono mai a riportare un’opinione dentro un contesto, a situarla dentro una vita, a capire che chi dice queste cose che in questo momento a te non piacciono, ha fatto, ha detto, ha vissuto altre cose che tu apprezzavi e che comunque meritano rispetto. No, conta quel che dice al momento, e loro azzannano, insultano, condannano, annunciano cancellazioni, che è poi l’equivalente figurato di eliminare, uccidere, chi dissente da noi. Vedo qui tutta la parte miserabile della sovranità popolare: dai lo scettro a un coglione qualsiasi e vedi cosa ti combina, con quale ignoranza presuntuosa sale in cattedra, manda all’inferno, uccide, stronca a suo giudizio insindacabile chi ha appena conosciuto per un’opinione. È uno spettacolo avvilente, che vale anche a contrario, quando ti danno ragione ma con la stessa sicumera arrogante dei primi, e azzannano, offendono, uccidono virtualmente chi la pensa in modo opposto; e ti vien voglia di difendere colui che magari avevi poco prima criticato. E per fortuna che è tutto figurato, non ci scappa il morto, finisce tutto nel telecomando, nel mouse, nella tastiera: ma quel che sul piano pratico è un sollievo e un’attenuante, invece sul piano morale, civile e intellettuale è un’aggravante e un atto di viltà. Nell’uccidere per finta il nemico, e nemmeno il nemico in guerra ma il nemico che scrive dall’altra parte della tastiera, non rischi niente, non metti in gioco niente, soprattutto se hai dietro una canea, e allora ti senti più forte, più arrogante, credi di interpretare il vento della Storia, e ululi nella marmaglia col sangue alla bocca…Per non parlare di chi orchestra i linciaggi mediatici.

Manca la pietà, o funziona solo per alcuni; manca il rispetto, o si è servili solo con alcuni; manca l’intelligenza, c’è solo furore, livore…Basta, apro un bel libro, ascolto una bella musica.

Osservando quelle reazioni ti accorgi che la gente puoi farla commuovere con un cagnolino o una foca ferita, ma la stessa gente puoi abituarla a considerare normale che donne, vecchi, bambini possano essere uccisi in casa loro, senza colpa, senza motivo; normale che si distruggano città, si semini terrore tra la popolazione, che si uccidano scienziati, che si riducano alla fame e alla miseria interi popoli; e poi di nuovo ti spingono a commuoverti per la storia singola che ti raccontano in video. E la gente s’indigna per un fiore reciso, ma reputa normale una strage di bambini, un costo inevitabile. Uccidono per non far uccidere, bombardano per non far bombardare. Non giudico nel merito, le opinioni divergono; quel che mi spaventa è la naturalezza, l’automatismo, con cui si accettano cose orrende, mentre fino a un minuto prima avevano tutti uno stomaco così delicato. Ma se muore un nostro, o uno di cui racconta con pathos la tv, allora provi commozione; se muoiono quegli altri non ci riguardano, se lo meritano, comunque la colpa è dei loro capi… La guerra è brutta non solo per chi uccide e per cosa distrugge, ma anche per cosa uccide e distrugge dentro di noi che ne siamo fuori, lontani. Ci rende peggiori. Oltre i crimini contro l’umanità dovremmo contemplare anche il caso inverso, il tifo dell’umanità per i crimini, sempre con la scusa di prevenire o combattere i crimini altrui. E poi la morte vista in tv è come un film, una fiction, in fondo per te non fa differenza. A meno che un missile entri dentro casa tua…

Marcello Veneziani                         

Lettera a un popolo di bambini mai nati…

 

 

Cinquant’anni fa, nel 1975, Oriana Fallaci pubblicava la sua Lettera a un bambino mai nato, che ebbe sin dal titolo un successo straordinario. Il libro epistolare affrontava in modo appassionato i temi dell’aborto, della condizione femminile, la paternità sfuggente e l’incertezza di mettere al mondo un bambino in un tempo difficile; non sai, scriveva la Fallaci, se a farlo nascere o abortire gli fai un torto o un regalo. Ora è passato mezzo secolo e l’Italia è passata da uno dei paesi più prolifici d’Europa a quello che fa meno figli: da anni i morti superano i nati, e come attesta l’Istat, gli ultraottantenni superano ormai i bambini sotto i dieci anni. Sicché a cinquant’anni da quella Lettera, i bambini mai nati sono diventati un popolo, e sono la maggioranza invisibile rispetto ai bambini già nati.

A lasciarli nel limbo degli increati ci ha pensato la contraccezione di massa, l’uso dei profilattici, e poi gli aborti, la diffusione di coppie sterili, alternative, omosessuali, o costituite da anziani, da donne non più fertili. Ma più di tutto ci ha pensato il rifiuto di volere dei figli, il rigetto della paternità e della maternità, e la diffusa motivazione che oggi è sempre più difficile mettere al mondo, in questo mondo, un bambino. Motivazione psicologicamente comprensibile se consideriamo la diffusione di fragilità soggettive, la precarietà dei rapporti, l’impegno lavorativo di entrambi i genitori; ma oggettivamente poco fondata se facciamo un paragone tra la fiorente natalità di altre epoche, in condizioni decisamente più difficili di quelle odierne. Si figliava in società povere, si figliava in tempo di guerra, a volte con i padri al fronte, si figliava in famiglie numerose, monoreddito e in case piccole, inadeguate, sovraffollate, a volte in monolocali. Le società povere, capita anche ora, figliavano e figliano di più di quelle benestanti, dove le pretese di vita sono maggiori. Smettiamola di sentirci sull’orlo di una catastrofe, convinti di vivere nel peggiore dei mondi possibili; ogni epoca ha le sue croci e le sue delizie, sono semplicemente mutati i problemi, sono di tipo diverso rispetto a quelli dei nostri genitori e dei nostri predecessori. In realtà sono cambiate le nostre condizioni mentali, siamo decisamente più fragili e più esigenti. Non siamo più abituati alle rinunce, ai sacrifici, vogliamo vivere la nostra vita, prolungare la giovinezza, ci sentiamo figli permanenti. Poi, per carità, è sicuramente vero che non c’è mai stata in Italia una lungimirante politica di sostegno alla famiglia e alla procreazione, salvo sparuti, insufficienti incentivi, nell’assenza di strutture solide e di agevolazioni sociali. Ma questi temi li conosciamo ormai un po’ tutti. Lasciamo da parte allora la sociologia dei malesseri ed entriamo invece su un terreno assai più delicato, che riguarda il nostro rapporto con la vita, col mondo, con gli altri.

Partiamo da un’osservazione di ordine generale: quanto pesa quel popolo di bambini mai nati sull’avvenire del nostro paese? Lo destina all’estinzione? Si può ritenere sufficiente, confortante, se non addirittura soddisfacente, la “sostituzione” di quel popolo di bambini mai nati con l’arrivo di flussi migratori, con le adozioni, il traffico di gravidanze artificiali e di uteri in affitto, o più brutalmente con la supplenza di umanoidi, automi e robot, guidati dall’intelligenza artificiale? Ci soddisfa o ci consola questa prospettiva? O per dirla meglio, a contrario, non abbiamo nulla da obbiettare a questa situazione, non abbiamo nessuna voglia di reagire a questo scenario che si profila, non vogliamo tentare soluzioni diverse, provare a cambiare rotta, invertire la tendenza demografica e famigliare, favorire la natalità e proteggere la fertilità? Dobbiamo per forza adottare un nuovo fatalismo e accettare tutto come irreparabile e irreversibile, una rassegnazione che somiglia maledettamente al vecchio fatalismo che condannavamo nelle società arcaiche e religiose? È fatale che non nascano più figli, è fatale che i figli vadano a vivere lontano dai loro luoghi natii e dalle loro famiglie d’origini, è fatale che il limbo dei bambini mai nati sia più popolato delle culle nei reparti di ostetricia?

Ma il discorso si fa ancora più toccante quando riguarda la nostra sfera intima, personale di vita. Vediamo intorno a noi famiglie un tempo numerose che si stanno via via assottigliando e che nel giro di una generazione o due sono destinate a estinguersi. I pochi figli nati negli ultimi decenni, non mettono a loro volta al mondo altri figli e spesso vanno via, lontano. Viviamo davvero, sotto il profilo demografico, una società senza eredi, come avevo denunciato lo scorso anno in un saggio letterario. In questa luce, è sempre più frequente la presenza di nonni senza nipoti: hanno, abbiamo, ormai l’età per avere figli dai nostri figli ma per una serie di fattori prima accennati e facilmente comprensibili, non abbiamo nipoti su cui proiettare la nostra aspettativa di vita, a cui dedicare le nostre attenzioni, in cui sublimare il nostro declino e vivere il cammino verso la conclusione senza nemmeno l’unica forma di immortalità terrena che era da sempre in atto, quella che potremmo definire transmortalità, ovvero il ricambio, il passaggio di testimone, la sostituzione dei nonni coi nipoti. E a molti di noi che pure ebbero figli, viene così voglia di aggiornare la lettera della Fallaci, indirizzandola al nipote mai nato. Abbiamo ricordi d’affetti perduti, non abbiamo speranze d’affetti nascenti. Nonni di nessuno.

Marcello Veneziani                 

Ricordi il sud di una volta? Devi parlare dei migranti di oggi.

 

 

La parola d’ordine del giorno è una sola, categorica, impegnativa per tutti: largo ai migranti. Corre come una velina in tutti gli ambiti, viene infilata in ogni contesto, è il tormentone del giorno somministrato dai maestrini del Mainstream. Gli scontri di Los Angeles e la bocciatura al referendum del quesito sulla cittadinanza dei migranti hanno attivato una specie di ola mediatica e tutti quelli che sono di sinistra si alzano e si inalberano sul tema, anche perché permette di attaccare Trump e Meloni in un colpo solo.

Per dirvi a che punto arrivano i loro riflessi condizionati e la loro l’ossessione monomaniacale sul tema del giorno, devo partire da una cosa che almeno in partenza non c’entra affatto. Dunque io pubblico un libro, C’era una volta il sud, di cui vi ho già parlato, dedicato al meridione di un tempo, un libro di ricordi e sentimenti e lo presento in tv, radio e in giro per l’Italia. E sentite che succede, grazie al traduttore simultaneo e ideologico di cui vi dicevo prima. In primo luogo mi dicono: hai pubblicato questo libro sul nostro sud, ma possiamo in realtà parlare di ogni sud del mondo. Io replico: no, scusate, io parlo proprio del meridione d’Italia e se non credete alle mie parole, che pure sono l’autore, credete alle immagini; le foto sono tutte del nostro sud di una volta.

In secondo luogo, qualcuno crede di prendermi in castagna e dice: ma lei a un certo punto racconta un episodio che la riguarda direttamente: una volta, al sud, ai tempi del colera le capitò di partire dalla Puglia quando imperversava il vibrione e toccava premunirsi di un permesso sanitario per uscire dalla regione. Viaggiando tra il Piemonte e la Valle d’Aosta, lei esibii al controllore il lasciapassare e gli altri viaggiatori, scrive, la guardarono spaventati, come un appestato. E lei cambiò carrozza. Allora l’intervistatrice mi incalza: ma non è quello che facciamo noi ora con gli immigrati? Traduco la domanda: quei settentrionali non erano dunque razzisti verso di lei come oggi quelli di “destra” sono razzisti verso i migranti? Non perdo la pazienza e replico: gentile signora, è comprensibile, è umano che avessero paura del contagio; a parti invertite, se fossero arrivati a sud dei presunti appestati dal nord, sarebbe stata la stessa cosa. E quello che a lei ricorda l’odio per i migranti a me ricorda invece la paura di contaminarsi ai tempi del covid. Se lo ricorda? è recente. Che c’entra il razzismo?

A questo punto, si rompono gli argini e i suddetti inquisitori vanno all’attacco: ma insomma il suo è un libro nostalgico, che vuol tornare indietro, che rimpiange il sud dei padroni e dei signori, dello sfruttamento contadino, proprio come succede oggi con i migranti, della miseria e della sottomissione, del patriarcato e dell’arretratezza. Fingendo di mantenere la pazienza replico: ma no, se aveste letto il libro anziché giudicarlo, avreste capito lo spirito del testo e delle immagini, che è dichiarato chiaramente in queste pagine. Ovvero, non rimpiango il sud di una volta, non voglio tornare indietro, impresa impossibile e improponibile; ho solo fatto un viaggio nel sud di una volta, per il gusto, la curiosità, la tenerezza di ricordare. È un viaggio sentimentale, non è un saggio storico-ideologico sulla questione meridionale. La nostalgia anima quei testi, è vero, ma è di tipo sentimentale, affettivo, spirituale e letterario. Nella loro testa la parola nostalgico risuona ancora come un tempo, per definire uno che rimpiange l’ancien regime, i Borbone o peggio il duce. Ma no, signori, toglietevi l’elmetto, la nostalgia è un delicato sentimento d’amore per il tempo perduto, è inerme, non è aggressivo verso alcuno, ha qualcosa d’intimo e di universale, non è un risentimento di rivalsa e di vendetta, non ha carattere politico o revanscistico. La letteratura, la poesia, l’arte si nutrono di nostalgia, ma anche i nostri affetti, i nostri legami, le nostre memorie d’infanzia e di gioventù si cibano di nostalgia. Perché dovremmo cancellarla o vergognarcene?

La verità è che non sono più capaci di ricordare e chi si ostina a farlo, va considerato un vizioso. Non sono i progressisti ma anche i loro dirimpettai destrorsi. Il mio è un libro dedicato ai ricordi e all’arte di ricordare, che non si vergogna di intitolarsi, come nelle fiabe, C’era una volta il sud. Invece oggi vige da un verso una specie di amnesia generale sul passato e dall’altra una specie di reazione allergica ai ricordi. Ma girando tra programmi e incontri mi accorgo che per tanti è impossibile riproporre oggi i ricordi, le immagini e i pensieri, li riconducono subito al paragone con l’oggi o peggio vogliono politicizzarli. E dal verbo ricordare asportano d’urgenza il tumore della nostalgia.

La bellezza di ricordare un tempo che fu non è nello sforzo di attualizzarlo o viceversa di denunciare la sua arretratezza, i suoi mali; ma il piacere di navigare in un mondo diverso dal nostro; il suo fascino è nella lontananza dal presente, incolmabile. È quella la ricchezza e la bellezza dei ricordi, la curiosità che suscitano sta proprio nella loro distanza da ciò che siamo e viviamo oggi. Tu parli della civiltà contadina e loro pensano alle lotte sindacali e riducono tutto all’oggi. Tu parli del vecchio sud di una volta e loro ti dicono che si dobbiamo occuparci dei sud del mondo. Tu parli degli emigrati dal sud d’Italia al nord e loro ti piazzano subito il paragone coi flussi migratori; da un album di ricordi vogliono trarre l’alibi per parlare d’accoglienza, cortei, inclusione e cittadinanza.

Non riescono ad abbandonarsi alla dolcezza di ascoltare il flauto leggero dei ricordi, e tu autore devi subito compilare il modulo: non sono reazionario, non sono razzista, non rimpiango il passato, sono conforme all’oggi.

Così alla fine cancelliamo i ricordi e desertifichiamo le nostre anima. Non è un progresso, credetemi. È un impoverimento. Poi, certo, amare i ricordi non vuol dire restarne prigionieri. C’era una volta un russo, un giornalista, Solomon Shershevsky che ricordava tutto, ma la sua prodigiosa memoria era una malattia, la chiamavano ipertimesia e sinestesia; ricordava tutto e i cinque sensi interagivano di continuo tra loro. I neuroscienziati che se ne occuparono, affrontarono parallelamente il caso di un americano di nome Henry, che invece non ricordava niente, resettava tutto. Il russo tutta memoria e l’americano tutto oblio, sembra quasi una metafora di due mondi. Noi umani abbiamo bisogno di ricordare e anche di dimenticare, altrimenti la nostra vita è un inferno. In fondo la fotografia serve un po’ al doppio scopo: ricordare eventi e persone del passato e collocare i ricordi in un album, per contenerli ed evitare che infestino la nostra mente e occupino il nostro oggi. «Si fotografano delle cose per allontanarle dalla propria mente» scrive Kafka. L’album di foto come teca e deposito, in cui svuotare memorie troppo piene, trasferendole in una raccolta di immagini, come in un cloud, sgombrando la mente troppo affollata. O viceversa per restituire memoria a giorni, persone e situazioni che avevamo dimenticato e che non c’entrano con temi e figure d’oggi. La vita umana è un fragile equilibrio tra memoria e oblio. Non dimentichiamocene.

Marcello Veneziani