
Fa troppo caldo, fuori i colpevoli! Questa in sintesi la denuncia a mezzo stampa dopo una settimana particolarmente rovente che avrebbe mietuto vittime come un’epidemia o una specie di guerra climatica. Si, perché oltre la guerra mondiale e la guerra civile c’è pure la guerra termica, cioè la guerra della natura contro l’umanità, causata però sempre dai manipolatori cinici dell’ambiente e magari dai governanti (se di destra).
Mentre leggevo le denunce accorate sull’eccezionale, anomala, terribile ondata di caldo che investe l’Italia, l’Europa, il Pianeta, sono piovuti sul mio smartphone spezzoni di cinegiornali e di telegiornali di sessanta, settant’anni fa. Raccontavano di giornate all’insegna dei quaranta gradi, città in preda al calore più terribile, ma il tono di quei reportage non era quello apocalittico, complottista e sospettoso dei nostri giorni; era leggero, ironico, divertito, per le stravaganze a cui induceva quel caldo terribile. Non si vedeva nella temperatura una specie di maledizione biblica, causata dall’insolenza umana, ma uno scherzo della natura, prevedibile, un po’ pericoloso ma in fondo godibile. L’estate era ancora considerata un periodo di beatitudine, in quegli anni; la stagione del gioco e delle vacanze, della luce e della vita all’aperto, del mare e del sole, dell’abbronzatura e della scottatura. L’aria condizionata era ancora un privilegio di nicchia, o una pratica americana; il rimedio tecnologico era ancora il ventilatore, il rimedio personale era il ventaglio, riservato però alle donne (un caso di disparità ai danni dei maschi, che in quanto machi dovevano sopportare anche il caldo feroce, e se borghesi, andavano al lavoro con la giacca e la cravatta). Tutto pareva divertente al cronista del tempo, e tutto si faceva come festoso, brioso, goliardico. Da bambino ricordo anch’io giornate e nottate di caldo feroce, al sud, nell’età del sudore: estati ascellari, ribollita di piedi, zoccoli ributtanti. Canottiere e camicie traforate, terribili. Gli oltraggi al sudore erano molto più diffusi degli oltraggi al pudore.
Al mio paese c’era pure un torneo calcistico chiamato la Canicola, che si faceva proprio in luglio, in cui l’avversario da battere era soprattutto il caldo, ed era uno spettacolo sadomaso che oggi sarebbe accusato di crimini contro l’umanità: assistere a quegli eroici gladiatori che si scioglievano davanti ai nostri occhi tra sforzo fisico e temperatura di fuoco. Però, dai, non moriva nessuno. Un caso su diecimila in quelle situazioni-limite o un caso su un milione nelle statistiche estive, rientra nella storia ordinaria dell’umanità…
I rimedi adottati dall’inizio dell’umanità fino agli anni sessanta erano i seguenti: acqua, tanta acqua, con le fontane gremite; vento, cerca il vento, trovare i punti più ventilati; ombra, tanta ombra, sotto un albero o dietro un palazzo, sulla proiezione di un campanile; e poi rifugi in case con porte spalancate e finestre “sbambanate” (spalancate), in attesa del miracolo della corrente, non quella elettrica, ma quella dell’aria. Più gelati e birra ghiacciata, granite, orzate o latti di mandorla, e tanta frutta. C’erano pure fasce orarie protette: la più famosa, da noi, era la controra, di cui ho scritto in C’era una volta il sud, ovvero le ore pomeridiane in cui batte più forte il sole, e pure la fiacca, col ritiro in casa nell’immobilità, nel sonno e alla ricerca di spifferi, più ventagli e cartoni agitati (non cartoni animati ma agitati manualmente per farsi vento). La controra era la contraerei da opporre al caldo; il coprifuoco per difendersi appunto dal fuoco che c’era fuori.
E la notte si faceva più tardi, all’aperto, sui balconi e all’aperto nella doppia speranza che il caldo calasse e la stanchezza pure, facendoci dormire nonostante la calura. Tanto volte in quel tempo ho dormito per terra, in cerca del mattone più fresco, perché i letti erano trappole di calore, a volte piastre in cui friggere. Non erano grandi rimedi, lo riconosco, ma si sopravviveva. Sarebbe da stupidi rimpiangere quel tempo, quel caldo senza rimedi, quel fatalismo termico che ci contraddistingueva. D’altronde l’estate offriva tanti doni speciali, dalla frutta al mare, dalle ferie alle infradito, dalle serate lunghe all’aperto ai grilli e alle cicale, che erano un po’ lo spotyfi del tempo, e ti pareva di vivere comunque nei giorni beati e azzurri della gioventù del cosmo. Il freddo faceva più paura del caldo, nelle società povere. E quelle immagini del cinegiornale o dei tg, benché in bianco e nero, sprigionavano un’allegria dell’estate e la società intera s’irragazziva, si faceva adolescente e giocosa, come succedeva al mare, tra schizzi, “onze”, cioè immersioni forzate, nuotate, torri, giochi di gruppo, bagni coatti e secchiate.
Lo ripeto per i soliti cretini intelligenti: non sto rimpiangendo quel tempo, ma il contrario – si può dire che sto ri-sorridendo di quel tempo? Ovvero ne sto parlando con divertimento, un pizzico di innocua nostalgia per come eravamo ragazzi e nessuna intenzione di tornare a quel tempo.
Ora invece succede che non esistono più fenomeni veramente naturali, ma dietro la natura c’è sempre lo zampino dell’uomo, la manipolazione del pianeta, del clima, magari lo sfruttamento commerciale e industriale. Certo che c’è un’incidenza sempre più forte dell’industrializzazione, delle energie consumate e dei loro scarti, dell’inquinamento e degli insediamenti umani, per non dire che otto miliardi di consumatori sul pianeta sono una forza distruttrice formidabile. Ma qui si crede di essere entrati in un’epoca in cui non ci sono più le calamità naturali, gli sbalzi del clima, e nemmeno le disgrazie, perché tutto deve avere per forza un colpevole umano. Come se morire fosse solo frutto di un incidente e di un assassinio, e non il destino inevitabile dell’umanità e di tutto ciò che è vivente. Ogni morte è un’imperizia, un’inefficienza, un errore del sistema o di qualcuno, un mancato soccorso, una diagnosi sbagliata; mai l’accettazione di una sorte ineluttabile che prima o poi tocca tutti.
Ed è divertente vedere come si diversificano gli atteggiamenti rispetto a questo eco-fanatismo. Il conservatore vorrebbe tornare al ventilatore, purché non diventi pala eolica. Il reazionario rimpiange invece l’età primitiva del sudore e in fondo alla stessa conclusione arriva l’ecologista radicale e fondamentalista; il modernista liberista vuole invece usare a palla e senza limiti l’aria condizionata perché la questione è solo individuale, chi se ne frega del mondo; il modernista progressista vuole usarla lo stesso, salvo lamentarsi e denunciare l’uso altrui; l’ultramodernista ogm vorrebbe mutare l’uomo al punto da renderlo insensibile al freddo e al caldo, artificialmente omeotermico o pecilotermico, autoregolato da un pace-maker termico, che lo assesta su una temperatura standard o lo adegua al clima esterno.
Tutto cominciò quando si prese a dire “sono finite le mezze stagioni”, ed io trovai una citazione di Plinio il Vecchio che diceva duemila anni fa la stessa cosa… E si va avanti così, sia per indicare fenomeni effettivamente strani che possono essere stati indotti da un’alterazione dell’ecosistema, sia per fenomeni che ci sono sempre stati o che tornano ciclicamente.
Ma in tutto questo, la cosa peggiore è che si vive l’estate come una malattia, una specie di patologia del clima, e non come il tempo favoloso in cui regna il sole, il cielo è azzurro e l’uomo può riprendere il contatto con la vita naturale. “L’invincibile estate dentro di me” di cui cantava Albert Camus diventa foriera di timori e tumori, la bella estate di Cesare Pavese diventa la belva estate, dal feroce clima. Ma l’estate era soprattutto il tempo dell’infanzia: come scrive Gaston Bachelard ne La poetica della rêverie, “Tutte le estati della nostra infanzia testimoniano “l’estate eterna”. Le stagioni del ricordo sono eterne perché sono fedeli ai colori della prima volta”. Dai, su, fa caldo, è estate, non fate processi, non fatene una malattia.
Marcello Veneziani