Una favola indiana molto antica…

 

C’è una storia indiana antica che riguarda tre fratelli che mi piace raccontarvi:
Si narra, infatti, che alla morte di un vecchio pastore i suoi figli stavano discutendo su come dividersi l’eredità.
Un vecchio saggio, che passava di lì per caso,
udì i ragazzi litigare in maniera piuttosto animata e chiese se potesse essere loro di aiuto in qualche modo.
Fu il primo dei fratelli a rivolgersi al vecchio in modo pacato e rispettoso: “Nostro padre, prima di morire, ci ha lasciato le sue ultime volontà, ma noi non siamo in grado di adempierle. Poco prima di esalare l’ultimo respiro, infatti, lui espresse il
desiderio che la metà del suo bestiame venisse
data a me, che sono il primogenito; un terzo del gregge, invece, doveva passare a mio fratello Hasan, mentre al più piccolo dei figli, Hasin, doveva toccare la nona parte degli animali.
Ora, il problema è questo: nostro padre ci ha
lasciato in eredità diciassette cammelli. Come
facciamo a dividerli a metà? A mio giudizio,
sarebbe meglio vendere uno degli animali e poi
ripartire il ricavato della vendita, prima di
dividerci il resto del gregge, ma i miei fratelli non sono d’accordo”.
A questo punto, il secondo dei due fratelli
esordì: “Mio fratello Husain parla bene, perché è stato maggiormente beneficiato dall’eredità.
Secondo me, egli dovrebbe rinunciare ad una parte della sua quota per favorire i fratelli minori. Inoltre, questo non è certo il momento
migliore per vendere i cammelli al mercato: non
ne ricaveremmo certo un buon prezzo”.
A questo punto prese la parola Hasin, il più
giovane: “E’ per questo motivo che avevo suggerito di macellare uno dei cammelli e di offrire un solenne banchetto in onore di nostro padre, ma i miei fratelli non sono d’accordo, perché non intendono mantenere gli scansafatiche del paese”.
Husain sguainò un coltello da macellaio e
prese nuovamente la parola: “Io non vedo
alternative; dobbiamo tagliare a metà almeno una delle bestie e dividerci i resti”.
Il vecchio saggio sorrise e commentò con
tono bonario e paterno: “Voglio aiutarvi; anche io possiedo un cammello e, per agevolarvi a fare la divisione, intendo farvene omaggio. In questo modo, non dovreste avere problemi a fare le parti, rispettando la volontà di vostro padre che avrebbe certamente desiderato che voi andaste sempre d’amore e d’accordo”. I tre fratelli, lusingati da quella proposta così
generosa, accettarono ed iniziarono a dividere il gregge. Al maggiore dei figli, Husain, toccò la metà del gregge, vale a dire nove cammelli; ad Hasan spettarono invece sei animali, pari ad un terzo dei beni dell’eredità; Hasin ebbe invece la nona parte del bestiame e portò con sé due cammelli.
Al termine della divisione avanzava però un
cammello; ragion per cui, il vecchio saggio esibì il sorriso più solare di cui era capace, risalì sulla sua cavalcatura e salutò amabilmente i tre fratelli,
felici di aver adempiuto alle ultime volontà del padre.

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La polvere del passato…

 

Ogni tanto colgo
attimi di gioia,
soavi come musica senza tempo,
leggeri,
come tenui fiori,
profumano ancora
d’amore e luce.
Dalle pieghe polverose del vissuto
emergono
un attimo appena,
riscaldando ancora
il mio cuore strappato,
prima di scomparire
soffocati dal dolore,
che lentamente sfuma,
anch’esso avviato
nello scorrere del tempo
che crea il passato.

 

Lucia Tiziana Mignosa

 

Dalle pieghe

 

Oggi, ennesimo compleanno di Leonardo Da Vinci, ” Giornata del made in Italy”…

 

Oggi, 15 Aprile, ricorre uno dei tanti genetliaci post mortem di Leonardo Da Vinci, essendo nato, infatti, proprio oggi nel 1452. Come grande Italiano, genio poliedrico della nostra cultura, da oggi in avanti , questo giorno sarà la “Giornata del Made in Italy”, Leonardo il suo emblema e ci sarà pure un francobollo commemorativo. Il nostro premier, la signora Meloni, ha voluto commemorare questa prima giornata del Made in Italy alla celebre fiera Vinitaly di Verona. A me piace ricordare Leonardo come l’emblema della genialità italiana, della curiosità tipica nostrana, del bello che sappiamo rendere meraviglioso con abilità manuali uniche, se è vero, che i nostri prodotti, la nostra arte, la nostra cultura tutta, per non parlare di letteratura, del nostro stesso paese, e di quella infinita fantasia che ci contraddistingue ovunque. Leonardo operò in ogni campo, pare fosse un bell’uomo secondo i canoni dell’epoca, eccentrico nel vestire , capace di farsi notare per estrosità della sua persona. Sapeva scrivere, conversare abilmente, maneggiare attrezzi di ogni genere e non ci fu arte manuale che non abbia sperimentato, parlo di idraulica, ingegneria, chimica e fisica, cercando di vincere persino la forza di gravità con le scarse nozioni di fisica del tempo. Anche se la Chiesa lo condannò si dedicò pure allo studio dell’anatomia facendo autopsie in un ‘epoca in cui era impossibile conservare i cadaveri, esponendosi al pericolo di infezioni. La scusa che adduceva per questi esperimenti era la sua curiosa voglia di approfondire particolari, utili a migliorare la pittura e la scultura. Il suo genio spaziava dalla filosofia alle favole. Amava la compagnia e si divertiva anche scherzando con gli amici ,e allo stesso tempo sedeva accanto a principi e re Europei con acume, signorilità, beneficiando di importanti commissioni, quelle meravigliose opere , per le quali il genio di Leonardo è famoso in tutto il mondo. I suoi codici sono stati visti da milioni di persone, anche se illeggibili, in quanto la sua scrittura era speculare rispetto alla nostra, i suoi disegni di progetti vari, ancora oggi vengono studiati e confrontati con diverse invenzioni dei tempi seguenti, la sua Monna Lisa forse è il ritratto di donna più visto al mondo, anche se, come raccontano certi studiosi, pare che non fosse nemmeno una donna, a dimostrazione di quanto fosse avanti nei tempi; difendeva la natura, era vegetariano, insomma il tipico uomo alla page di oggi, quello della cultura ” giusta”.

Una delle sue favole, che trovo sempre bellissime e mai fuori tempo.

I Tordi e la Civetta

– Siamo liberi! Siamo liberi! – gridarono un giorno i tordi, vedendo che l’uomo aveva catturato la civetta.
– Ora la civetta non ci fa più paura. Ora
dormiremo tranquilli. –
La civetta, infatti, era caduta in un’imboscata, e l’uomo l’aveva rinchiusa in gabbia.
– Andiamo a vedere la civetta in prigione –
dicevano i tordi volando e cantando intorno alla gabbia della loro avversaria.
Ma l’uomo aveva catturato la civetta con un altro scopo, ossia quello di prendere i tordi. Infatti, la civetta fece subito alleanza col suo vincitore il quale, dopo averla legata per una zampa, la metteva ogni giorno bene in mostra sopra un trespolo. I tordi, per vederla, si precipitavano sugli alberi vicini, dove l’uomo aveva nascosto le sue canne impaniate. E i tordi, anziché perdere la libertà come la civetta, perdevano la vita.
Questa favola è detta per tutti quelli che si rallegrano quando qualcuno, che conta più di loro e su di loro, perde la libertà. Perché il vinto, quando è importante, diventa presto alleato o strumento del vincitore, mentre tutti quelli che, prima, dipendevano da lui, cadono sotto un nuovo padrone, e insieme alla libertà perdono, spesso, anche la vita.

civetta e tordi

 

Come riusciamo ad allontanarci da amici e parenti, banalmente…

 

Pensavo che è strano il modo che hanno di volersi bene le persone. Il modo in cui si allontanano per sciocchezze, l’abilità con cui riescono a tessere fili di incomprensioni attorno a piccoli screzi. È una caratteristica che appartiene a molti rapporti, temo. Amori, famiglie, amicizie: periodi uniti e coesi, poi improvvisamente sparpagliati e lontani, incapaci di stare troppo vicini fisicamente e nei sentimenti. Pensavo a com’è più facile allontanarsi anziché chiedere scusa, riconoscere che ,quando discutiamo con le persone che amiamo, a un certo punto dovremmo fregarcene se avevamo torto o ragione. Ammettere che ne sentiamo la mancanza. Invece lasciamo che i giorni passino, e mentre ci affatichiamo a sopravvivere in una routine che ci travolge di impegni, capita che a un certo punto ci si fermi a pensare al motivo per cui ci siamo allontanati. E cosi, scopriamo, che era talmente banale quel motivo, che nemmeno ce lo ricordiamo più. Il problema è che nel frattempo, però, ci siamo abituati alla distanza, e chiedere scusa per qualcosa per cui siamo stati stupidi diventa troppo difficile.  Allora passano altri mesi. Altre cose. Passa altro silenzio. Finisce che siamo talmente ottusi nel rimanere impigliati nella nostra posizione che la distanza prevale. Prevale il distacco. La nostalgia.

Ecco, pensavo proprio questo.

Che basterebbe poco, in fondo. Basterebbe essere solo un po’ più coraggiosi, deporre l’orgoglio e fare come facevamo da bambini: chiedere alle persone di restare, anziché lasciarle andare via.

Roberto Pellico

andar via

Riflessioni “anta”..

Alla domanda chi e che cosa siamo noi
un vecchio saggio rispose così:
– Siamo la somma
di tutto quello che è successo prima di noi,
di tutto quello che è accaduto davanti ai nostri occhi,
di tutto quello che ci è stato fatto.
Siamo ogni persona, ogni cosa,
la cui esistenza ci abbia influenzato,
o che la nostra esistenza abbia influenzato,
siamo tutto ciò che accade
dopo che non esistiamo più
e ciò che non sarebbe accaduto
se non fossimo mai esistiti.-

 

riflessione1

Una storia Zen…

 

Trovare il coraggio di cambiare è una frase semplice che spesso leggiamo.
Molto più complicato è trovare il coraggio di cambiare nella vita di tutti i giorni, nel fare scelte che ci aiutino a seguire la nostra strada.
Se riferito alla nostra vita, bisogna trovare coraggio quando sentiamo che è arrivato il momento.
Avete presente quando la pentola è sul fuoco con il coperchio chiuso e l’acqua in ebollizione sta uscendo?
Il coraggio nella nostra vita ci vuole, metaforicamente, nel sollevare il coperchio giusto il momento prima che l’acqua esca.

 La storia del re e dei due falchi-
“Un grande Re ricevette in omaggio due pulcini di falco e si affrettò a consegnarli al maestro di falconeria perché li addestrasse.
Dopo qualche mese, il maestro comunicò al Re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato.

“E l’altro? “chiese il Re.
“Mi dispiace, sire, ma l’altro falco si comporta stranamente, forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare.
Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell’albero su cui è stato posato il primo giorno.
Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli il cibo”.

Il Re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì a far volare il falco.
Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté schiodare il falco dal suo ramo.
Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere il falco immobile sull’albero, giorno e notte.
Un giorno fece proclamare un editto in cui chiedeva ai suoi sudditi un aiuto per il problema.
Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con grande stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino.
“Portatemi l’autore di questo miracolo “ordinò.
Poco dopo gli presentarono un giovane contadino.
“Tu hai fatto volare il falco?
– Come hai fatto?
– Sei un mago, per caso? “gli chiese il Re.
Intimidito e felice, il giovane spiegò:

“Non è stato difficile, maestà, ho semplicemente tagliato il ramo.”

 Il falco, semplicemente, si è reso conto di avere le ali e si è messo a volare.

 

due falchi

 

Se è l’amore a toccarti, ad affascinarti, rimani per sempre nel suo abbraccio..

 

E lo senti quando è l’amore a toccarti. Ti tocca con le mani, con gli occhi, con la mente. Ti entra dentro e ti tocca l’anima. Ti tocca sempre, in ogni momento, ti tocca ovunque. Prende il peggio di te e lo ama ancora più forte del tuo meglio. Prende il tuo vuoto e lo riempie di presenza. Prende le tue paure e le trasforma in coraggio. Prende i tuoi sbagli, il tuo malumore, il tuo dolore, la tua tristezza e le fa sue per alleggerire il tuo cuore. Prende la tua gioia e la trasforma in felicità. Lotta con te e per te. Non ti lascia andare via. L’amore non se lo lascia scappare l’amore. Prende i tuoi sogni e li trasforma in realtà. Prende te, tutto di te, perché altrimenti non sarebbe amore. Prende io più te e lo trasforma in noi.
Lo senti quando ti tocca l’amore. E potrai cercarlo in qualsiasi altro tocco, luogo, persona, ma non sarà mai la stessa cosa. Perché quando l’amore ti tocca lo riconosci subito e non lo dimentichi più.

laura loddo   

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La poesia dei paesini perduti…

 

Nei giorni di Pasqua vi consiglio un fioretto civile e sentimentale: andate a ritrovare un paesino del vostro passato. Fate visita a quel piccolo, vecchio, parente delle vostre origini; tutti abbiamo un piccolo paese nel cuore, nativo o adottivo, o sfiorato solo in un giorno d’infanzia o di gioventù. Portatevi come compagno di viaggio un libro di Franco Arminio, poeta e paesologo, come lui si definisce. O paesofilo, direi. Un geopoeta, che non è un poeta geometra ma un poeta della terra, dei luoghi, dei piccoli comuni. “Vorrei essere ricordato con una sola frase, l’uomo che amava i paesi”, dice Arminio, nativo a Bisaccia, nell’Irpinia d’Oriente.
Vi parlerò dei paesi con le parole sue, tratte dai suoi libri. Tornate al vostro paese, esorta il poeta, non c’è luogo più vasto. Cominciate la migrazione al contrario, anche se non è conveniente. Avete una casa vuota che vi aspetta; lì se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto. Una volta, dice il poeta, i paesi erano fatti dei vivi e dei morti. Chi moriva veniva evocato in continuazione. Oggi seppelliamo assai presto anche la memoria. Eppure il paese è una fabbrica dove si producono sentimenti, attese tradite, indifferenze inusuali, presenze mute, sostegni di cui neppure ti accorgi. Avere un paese significa avere più mondo.
Per fare comunità ci vuole un luogo. Il luogo ha una poetica, oltre che un paesaggio. Ci vuole una tensione intellettuale e sentimentale insieme, avverte il poeta. La poesia ha il compito di legarci di più alla Terra, ci radica nella vita. Poesia per fare comunità, per dare coraggio al bene, per ingentilire il mondo più che biasimarloLa poesia è di chi sta al mondo per cantarlo. Amore per l’essere e la realtà, aggiungo io, realismo fisico e metafisico. Il consiglio del poeta è portare la poesia ovunque, in ogni contesto, scolastico, istituzionale, civile. Il nero dell’Italia di oggi, dice bene il poeta, non è il fascismo ma la depressione. C’è gente che finisce la giornata prima di cominciarla. La depressione non è avversata perché non dà fastidio, è remissiva, al più nuoce a se stessi. Ma la scontentezza fa danni, dice il poeta (lo scrissi anch’io in un saggio dedicato agli Scontenti). Si parla tanto di narrazione ma nessuno sa narrare niente; e ci si ammala anche per questo, c’è come un ristagno delle emozioni. Occorre riprendere la cura dello sguardo, la passione di vedere il mondo; e piantare la vostra inquietudine in mezzo al salotto, e ovunque.
Il poeta rivolge il messaggio ai ragazzi di paese e dice loro: prendetevi le albe, non solo il far tardi, contestate con durezza i ladri del vostro futuro, siete la prua del mondo, davanti a voi non c’è nessuno. Ma ricordatevi, aggiungerei io, di quanti c’erano e ci sono dietro di voi, fate pace con la storia, le eredità, le radici, la memoria.
Un paese, avverte il poeta, per sua natura fa resistenza al nuovo, è conservatore. Ma i paesani d’oggi sono inzuppati di sfiducia, sono rami senza radici…Bisogna arieggiare i paesi, agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello più che una comunità pozzanghera. Riabitare i paesi non è questione di soldi, dice il poeta. I soldi servono a farli più brutti, mentre per riabitare i paesi servono piccoli miracoli, una nuova religione dei luoghi; la questione non è economica ma teologica. Siate inattuali.

Il poeta vede ovunque l’impronta del sacro, il sacro minore, che si annida tra gli uomini, la terra, gli animali, le cose, i gesti. E scrive un libro dove la prima parola di ogni poesia è Sacro. Sacra è la poesia, ma solo quando è ladra, quando ruba un poco di miseria al mondo. Sacro era mio padre, dice il poeta, che non amava andarsene a dormire, gli era caro il sonno sul tavolino. Prosegue il poeta, abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Ogni albero è un pensatore, uno storico locale. E invece da troppi anni non arriva un anno nuovo, il mondo è simbolicamente morto.
Poi torni dalla poesia alla realtà e vedi che vanno via tutti dai piccoli comuni; chi resta è vecchio, sordo, disabile, rassegnato o eroico, fedele ad oltranza all’abitudine di un’origine e di mondo ereditato. I provinciali al quadrato, anzi alla terza potenza, per quelli che abitano nei paesini del sud, vivono quest’assedio; ogni giorno si arrende qualcuno e si consegna alla città. Nessuno si cura di loro, non c’è un Corriere dei piccoli che li racconti e li rappresenti, se non un poeta disarmato. Tanti sono i disagi, gli abbandoni, le lunghe noie, di chi vive nei paesini. Eppure nei piccoli comuni conosci più persone che nelle grandi città: nel paesino ti fermi a parlare con cento persone e ne saluti mille, nella metropoli ti fermi a parlare con sei persone e ne saluti venti. Vedi meno folle ma incontri più persone. Il paesano ha più mondo, più vita, più natura. Il paesano non va in farmacia, in caserma, in salumeria, in chiesa ma va dal farmacista, dal brigadiere, dal salumiere, dal parroco. Figure al singolare, non intercambiabili; di tutti sai vita, morte e miracoli. Forse perché sono piccoli comuni fanno più comunella; perché, non so ancora per quanto, sono comunità. Il piccolo comune è come un giardino d’infanzia, anche se abitato da vecchi, lo dovremmo tutelare come un bambino, con premura e tenerezza. Dovremmo aiutarlo ad attraversare la strada della modernità ed estendere ai piccoli comuni la legge a tutela dei minori. Col poeta riconosciamo la letizia senza scampo di vivere sotto la luce del sole; specialmente in un paese piccolo, inerme, ricco della sua piccola immensità.

La leggenda maya del colibrì…

 

Secondo gli antichi Maya gli Dei hanno creato tutte le cose sulla Terra e, nel fare ciò, ogni animale, ogni albero e ogni pietra sono stati incaricati di fare un lavoro. Ma quando ebbero finito, notarono che non c’era nessuno incaricato di trasportare i loro desideri e pensieri da un luogo all’altro. Dato che non avevano più fango o mais per creare un altro animale, presero una pietra di giada e con essa scolpirono una freccia molto piccola. Quando fu pronta, le soffiarono addosso e la piccola freccia volò fuori. Non era più una semplice freccia, ora aveva la vita: gli dei avevano creato il ts’unu’um , cioè il colibrì.  Le sue piume erano così fragili e così leggere, che il colibrì poteva avvicinarsi ai fiori più delicati senza muovere un solo petalo. Brillava sotto il sole come gocce di pioggia e rifletteva tutti i colori.  Quindi, gli uomini hanno cercato di catturare quel bellissimo uccello per fare decorazioni con le sue piume. Gli dei, vedendoli, si arrabbiarono e dissero che se qualcuno avesse osato catturare un colibrì, sarebbe stato punito.
Ecco perché i colibrì non possono essere tenuti in gabbia. Gli dei li hanno creati per volare liberamente. Ma gli dei non solo hanno creato questi splendidi uccelli e li hanno resi liberi. Assegnarono loro anche un lavoro: i colibrì avrebbero dovuto portare i pensieri degli uomini e degli dei stessi da una parte all’altra.  Ecco perché, secondo la leggenda, quando un colibrì appare improvvisamente davanti a te, porta un messaggio di amore e affetto da qualcuno che ti sta pensando.

colibrì

Il Mediterraneo…

Per quelli che l’attraversano ammucchiati e in piedi sopra imbarchi d’azzardo, il Mediterraneo è un butta dentro. Al largo d’estate s’incrociano zattere e velieri, i più opposti destini. La grazia elegante, indifferente di una vela gonfia e pochi passeggeri a bordo, sfiora la scialuppa degli insaccati. Non risponde al saluto e all’aiuto. La prua affilata apre le onde a riccioli di burro. Dalla scialuppa la guardano sfilare senza potersi spiegare perché, inclinata su un fianco, non si rovescia, affonda, come succede a loro. Qualcuno di loro sorride a vedere l’immagine della fortuna. Qualcuno ci spera, di trovare un posto in un mondo così. Qualcuno di loro dispera di un mondo così.

erri de luca

zattera