Questo post su libri e tarocchi è per gli uomini

“Il patriarcato impone agli uomini di diventare storpi emotivamente”.

Come l’Imperatore al regressivo, cresciamo svendendo le nostre emozioni,chiudendo il petto, la nostra capacità di essere sensibili per ottenere lo scettro, il finto dominio del patriarcato. Abbiamo il dovere di assumerci la responsabilità della nostra cura, altrimenti resteremo niente di  più che bambini traumatizzati ed estremamente violenti, idioti emotivi e tirannici .E per quante ferite possiamo aver ricevuto, se non scegliamo di prendercene cura attivamente, scegliamo allora automaticamente di  diventare gli unici responsabili e perpetratori della violenza. Tutti. E ho visto ancora troppi pochi di noi fare terapia, ho incontrato ancora pochissimi nei gruppi di consapevolezza, pochissimi sforzarsi di trovare i mezzi per riaprire il proprio cuore, troppo pochi scendere in piazza e sostenere il femminismo. E ho visto ancora troppi difendere con i denti la propria violenza, o non riconoscerla (che è lo stesso).

Nelle parole preziose di Bell ooks:

“Nessun uomo che non decide attivamente di impegnarsi a cambiare e a mettere in discussione il patriarcato riesce a sfuggire alla sua influenza. Se i semi del pensiero patriarcale sono stati impiantati nella sua psiche, anche l’uomo più passivo, buono e tranquillo può arrivare a commettere atti di violenza.”

“L’indottrinamento che comincia durante l’infanzia include un’iniziazione psicologica che impone ai bambini di accettare il fatto che la loro disponibilità a commettere atti di violenza ne fa dei patriarchi.”

“Ogni volta che le pensatrici, in particolare quelle femministe, parlano del problema diffuso della violenza maschile, la gente è pronta a contestarle dicendo che la maggior parte degli uomini non è violenta. Si rifiuta di ammettere che masse di ragazzi e uomini sono stati programmati fin dall’infanzia a credere che a un certo punto della loro vita devono diventare violenti, fisicamente e psicologicamente, per dimostrare di essere uomini.”

“Dobbiamo immaginare alternative alla mascolinità patriarcale. Tutti dobbiamo cambiare”.

@daniele.tarot

 

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Halloween non è poi proprio una novità … altri tempi, scopi diversi.

 

Il Giorno dei Morti

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari.

Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza.

A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.

Andrea Camilleri, dai Racconti quotidiani.

 

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Da Omero a Disney, la parabola del mito…

 

Il sogno che ci ha allevati quando eravamo bambini aveva un nome mitico e famoso: Walt Disney. Era la versione infantile dell’american dream, il sogno americano a misura dei più piccoli, il magico mondo parallelo che nutriva e incanalava la fantasia puerile e faceva anche dei bambini dei piccoli consumatori in erba; di fiabe, fumetti e pomeriggi al cinema o davanti alla tv. In fondo non è stato celebrato in grande il centenario della nascita della Walt Disney, nell’ottobre del 1923. Troppe le celebrazioni recenti, dedicate ai cartoons, troppe le polemiche sulla deprimente virata politically correct della multinazionale della ricreazione, che ha riscritto molte fiabe famose in versione edulcorata e corretta, nel segno del femminismo, dell’omofilia, della non violenza e della retorica dell’accoglienza e dell’inclusione. Walt Disney ha prodotto la mitologia del Novecento, made in Usa; un racconto per i bambini di tutto il mondo, o quantomeno d’Occidente, che colonizzava l’immaginario collettivo, non solo infantile. Lo popolava di figure della fantasy che vivevano in una realtà verosimile, e traducevano in chiave di fumetto, situazioni, caratteri, perfino rapporti di classe, avrebbero detto i marxisti di una volta, che rispecchiavano la società capitalista, tra padroni, proletari, emarginati, furbetti e fessi. Paperone “sdoganava” la figura del capitalista, Topolino era letto come un agente piccolo borghese del capitale, quasi un cripto-fascista.
Ma la forza e il fascino maggiore dell’universo disneyano è in quella specie di mitologia parallela. Walt Disney è stato davvero l’Omero del secolo americano: alla mitologia degli antichi che fu il terreno originario della civiltà mediterranea ed europea, Disney sostituì la mitologia fumettistica e cinetelevisiva degli States che ha imperato nel Novecento. Una mitologia in chiave industriale, in cui da un verso si riprendeva in modo nuovo la fiaba, prodotto creativo e narrativo dei secoli passati, e dall’altro si mitizzava il mondo della natura e degli animali, fino a generare un mondo parallelo, in cui assumevano tratti, parole e sentimenti umani anche topi, papere, oche, maiali e lupi, cagnoloni e cagnolini, gatti e canarini, insetti e creature del mare. Più qualche irruzione nel mondo degli umani, come Mary Poppins e alcune comedy disneyane. La cosa che più colpiva la fantasia dei bambini era la bellezza smagliante dei colori, il piacere di entrare, di tuffarsi, in quell’universo cromatico e sgargiante, dai colori netti e vivi, in cui la natura si faceva parlante, amichevole, favolosa. Avveniva così per i bambini cresciuti con i cartoons e con i fumetti, una prodigiosa sostituzione: il mondo reale veniva doppiato e surrogato dal mondo magico dei fumetti. Tanti bambini che vivevano in città ritrovavano un rapporto felice e facile con la natura, ma mediato, cartaceo o in pellicola, grazie agli animali disneyani. Ma al tempo stesso sostituivano la realtà della natura, le sue vere bellezze ed asprezze, i suoi pericoli, la “naturale” aggressività del mondo animale, con una specie di universo finto, giulivo, bonario, antropomorfizzato. Pochi erano i cattivi, sempre puniti, in fondo anch’essi simpatici; tanti erano i giocosi, innocui e affettuosi animali. Sarebbe da studiare il nesso assai stretto tra quella passione fiction per la natura e gli animali disneyani e la successiva passione green, ambientalista e animalista che ha caratterizzato gli stessi bambini diventati adulti e poi i loro figli e nipoti.
Della passione disneyana ricordo con affetto due amici che non ci sono più e che all’universo di Topolino & C hanno dedicato saggi di grande interesse: lo studioso tradizionalista Alessandro Barbera e il filosofo della scienza Giulio Giorello. Ai loro occhi Topolino appare un gigante del Novecento. Giorello salutò il Mouse di Disney come suo collega e maestro in un saggio “La filosofia di Topolino”, uscito da Guanda. La sua non era una civetteria da pop filosofo: Ezra Pound disse che la figura letteraria americana più importante era Mickey Mouse.
Il Topolino di Giorello era fatto su misura per lui: non è Legge e Ordine, come si è spesso detto del topo disneyano, ma è un progressista e un relativista che precorre temi odierni, un ribelle che combatte contro le ingiustizie. A Giorello, contrapposi la mia idea di liberarci di Topolino: derattizziamo il Novecento e la filosofia, gli scrissi. Ricordai poi a Giorello che il padre del Topo, Disney, era un conservatore, vicino ai partiti di destra, con simpatie per il fascismo e perfino con venature reazionarie, esoteriche e massoniche da nazismo magico. Disney fu ricevuto due volte da Mussolini che amava Topolino – suo figlio Romano era tesserato nel club di Topolino – e quando con l’autarchia proibirono i fumetti made in Usa, Mussolini di suo pugno scrisse “eccetto Topolino”. Per il Natale del 1937, raccontava Barbera in Camerata Topolino, Goebbels regalò ben 18 film di Topolino a Hitler. Certo, bisogna distinguere tra fasi diverse di Disney e di Mickey Mouse.
Da bambino mi convertì a Topolino provenendo dal mondo più rude delle “strisce” di Capitan Miki, Tarzan e sopratutto Blek Macigno. Paradossalmente il passaggio dai fumetti “umani” a quelli zoologici fu una specie di urbanizzazione e di ritorno alla contemporaneità. Il Topolino in fondo era un civis americanus, con auto, consumi ed elettrodomestici, un po’ troppo perfettino e assennato, con insopportabili venature yankees. Preferivo Paperino, sfigato con brio, anarcoide e un po’ cazzaro…

Marcello Veneziani                                                                                                                     

Le donne forti…

 

Le donne forti
camminano dritte,
lungo l’asfalto della vita.
Sono donne difficili.
Sono donne che
non si accontentano più.
Hanno il sole negli occhi,
e qualche relitto di troppo
nel cuore.
Eppure, non si stancano
di sfidare l’incertezza del mare.
Vivono di sogni
mischiati al cemento.
E capita che non sappiano
più distinguere gli uni dall’altro.
Danzano scalze.
Un po’ zingare, un po’ selvagge. Eternamente bambine,
sotto le ciglia vestite di rimmel,
e le labbra rosso rubino.
E’ la mente a partorire
il loro erotismo che,
lento, si annida nel cuore.
E poi, sinuoso,
si traduce sul corpo.
Il loro fare l’amore,
è un fare l’amore complesso.
Per questo,
quando prendi una donna,
non ne prendi un pezzo soltanto.
Ne sposi l’armoniosa,
assoluta, totalità.
Le donne forti
spogliano l’anima,
la vestono di magnifico nulla,
la dividono in parti,
piccolissime parti,
e ne mettono una
in ogni cosa che fanno.
Tutto quello che toccano
diventa magia.
La loro vita
è una corsa ad ostacoli,
senza podio e senza medaglie.
Si portano addosso i fallimenti,
e le sconfitte,
con innata eleganza,
e dignità sofferta.
Come un tassello di vita che, malgrado il dolore,
non baratterebbero mai.
Perché sono ciò che sono.
E non lo rinnegano.
Le donne forti
non smettono di cercare qualcuno per cui valga la pena
tornare ad amare.
Perché le donne forti
tornano ad amare
una volta ancora,
una volta in più,
una di troppo.
Anche dopo aver
giurato a sé stesse
che mai più lo avrebbero fatto.
Le donne forti fanno paura.
Ma sono le sole
per cui valga lo sforzo.
Antonia Storace

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Le parole vanno comprese nel loro vero significato…

 

Le parole sono importanti (cit.)
La frase detta così è da sinistri, cioè non vuol dire nulla: valori “assoluti” di per se le parole come gli atti non hanno.

Importante delle parole è comprenderne e condividerne il SIGNIFICATO (da signum fero: porto un segnale, un emblema). I cultori delle NEOLINGUE vorrebbero invece imporre significati artificiali cangianti, “più corretti”, “adatti ai tempi che cambiano”, al fine di influenzare i comportamenti mediante mutamenti del senso (tipo cartelli stradali).

 Cerchiamo invece radici e significati autentici.

GLEBA: in latino è la zolla di terra, per traslazione é il campo, il fondo da coltivare. La SERVITU’ DELLA GLEBA già in epoca tardo romana (“colonato” regolamentato da Diocleziano) e nel Medioevo era una figura giuridica diffusa che legava l’abitante del contado a una determinata area, a un terreno che NON possedeva. Era una figura formalmente libera ma con obblighi da schiavo: indissolubilmente connesso alla zolla di cui era servo, al punto da esser venduto, con famiglia, assieme ad essa.  Il proprietario poteva multare il colono che uscisse dalla sua “gleba” senza permesso e anche stabilire in quali modi potesse utilizzare i compensi per i suoi servigi extra (la paga base era in natura).

SERVO DELLA GLEBA NELLA NEOLINGUA DIVIENE: “LA CITTA’ IN 15 MINUTI”.

Non avrete nulla – nemmeno figli – e sarete felici!

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Se stasera ci sarà la fine del mondo…

Che succede se in un tranquillo week end al mare in casa d’amici vieni a sapere che nel giro di poche ore il mondo finirà? È la trama di un film, che la novantenne gagliarda Liliana Cavani ha lanciato nelle sale nel settembre che odora di Mostra del cinema di Venezia. Il film è ispirato sin dal titolo a un saggio del fisico e divulgatore Carlo RovelliL’ordine del tempo. Titolo bellissimo, tema importante, l’illusoria durata del tempo che non si misura in lunghezza e quantità ma in qualità e intensità, come diceva anche il filosofo Henri Bergson. Ma soprattutto il tema del film è cruciale, assoluto: l’umanità di oggi sorpresa davanti alla prospettiva di morire, tutti, simultaneamente, improvvisamente, nel giro di poche ore. La causa della fine del mondo sarebbe un grosso asteroide che viaggia velocemente verso la terra, il cui impatto sarebbe letale per il pianeta, senza possibilità di salvezza. Gli apostoli dell’apocalisse nel film sono due fisici che dicono e non dicono agli altri quel che sta succedendo ma che annunciano La Notizia delle Notizie: il finimondo è a momenti, non c’è scampo.
La trama è intrigante, il film è piacevole anche se gli aggettivi sono inappropriati rispetto al tema immenso che si affronta. Gli attori interpretano un campione della borghesia romana, benestante, un po’ attempata e un po’ radical, quel che si direbbe “il generone” romano con casa al mare a Sabaudia: Claudia Gerini, Alessandro Gassman, Edoardo Leo ed altri. Curiosamente, la sala in cui ho visto il film era costituita da un pubblico esattamente analogo a quello che era sullo schermo; attempati romani, borghesi e benestanti, forse un po’ radical anche loro.
Anni fa mi aveva molto colpito il film di Lars von Trier, Melancholìa, che verteva sullo stesso tema: l’imminente fine della Terra a causa di una collisione con un pianeta “malinconico”. Film straordinario che trasmetteva con potenza l’angoscia disperante di un mondo desolato alla fine del suo corso.
Il film della Cavani, invece, è totalmente diverso. La location è ridente, non certo da ultima spiaggia dell’umanità. I dialoghi mostrano l’assoluta sproporzione tra l’evento cosmico, tragico e apocalittico che si sta compiendo e le preoccupazioni minime, banali, dei “morituri” nel loro amabile rifugio sul mare, tra dolci chiacchiere, tenui rimpianti e residue vanità. Anche quando si cerca di scavare più a fondo, non emergono temi, domande, angosce che pure sarebbero spontanee davanti al disastro annunciato; si gira intorno a piccoli risvolti della propria vita, rapporti di coppia, frustrazioni umane o professionali, apprensioni ordinarie per i figli che non rispondono al cellulare. Non manca l’ironia, tipo non lavarsi i denti l’ultima sera prima della fine del mondo, ed è forse la chiave più simpatica del film, che cavalca la sproporzione tra l’immane tragedia e la vita di ogni giorno. I maschi nel film sono un disastro, tra bonaria coglioneria e miserabili ipocrisie; un po’ meglio le donne, più sveglie, come vuole il cliché femminista imperante. Mentre finisce il mondo, la confessione più forte che si ascolta è l’amore lesbico della moglie di Gassman per una sua amica presente all’addio. Davanti alla fine dell’umanità e a un evento che non si verificava, dicono i fisici, da 69 milioni di anni, l’unico male che viene evocato è il nazismo e la concorde condanna verso chi oggi ne sarebbe complice d’opinione… Ma come, finisce l’umanità, accade qualcosa che non accadeva da milioni d’anni e questi poveri imbecilli restano ancora aggrappati ai temini del politically correct, ai femministi e al gender, ai coming out, al pericolo nazi e menate varie? Temi che inquinano anche l’unica breve parentesi fuori dal banale: l’incontro di una di loro con una suora che vive serena la fine del mondo perché si affida alle mani di Dio. Il resto, niente.
Non mi interessa descrivere o recensire il film, invogliare o scoraggiare chi pensa di vederlo. Interessa invece porre la domanda: ma davvero l’umanità, noi contemporanei, non solo i cittadini romani in vacanza sul Tirreno, davanti all’Evento Supremo della nostra vita, davanti alla catastrofe finale, alla morte della vita sulla terra, siamo così radicalmente incapaci di capire cosa sta succedendo e siamo così ciechi, sordi, muti, meschini? Davvero non sappiamo far altro che raccontare alla vigilia della fine del mondo piccole infedeltà di coppia, riprendere storie d’amore interrotte, confessare gli orientamenti sessuali o dibattere sul nazismo e tacere di tutto, della nascita, della vita, della morte, di cosa resta di noi, la coscienza, se tutto si cancella? Davvero non sentiamo di fare null’altro alla vigilia della nostra scomparsa che restare nella casa al mare di un amico a conversare e ammazzare l’attesa; e non vedere in extremis qualcuno, rivedere qualcosa, ritirarsi a pensare, ripensare la vita, fronteggiare il panico? Non dico che ci vorrebbe un simposio di filosofi, ma davanti alla fine della vita e del mondo chiunque avrebbe tirato fuori tutti i misteri e le paure che sono dentro di noi, tutti i pensieri non detti, i sentimenti e gli impulsi più profondi. E allora la domanda è: siamo davanti a un film piccolo su un tema immenso, ovvero un film non all’altezza del tema che vorrebbe raccontare o siamo davvero così come ci rappresenta il film, un’umanità che anche davanti all’apocalisse pensa a che vestito mettersi stasera? Non un rimorso, non una scoperta in extremis della fede, una preghiera, non un pianto disperato o un gesto assoluto, non un pensiero universale sul destino dell’umanità. Solo piccole, ridicole inezie da fine serata più che da fine del mondo…
L’unico alibi, l’unica attenuante, è la sostanziale incredulità rispetto all’annuncio apocalittico, la convinzione che la catastrofe non ci sarà (come infatti succede) e i fisici magari sbagliano, si fanno prendere la testa dai loro astratti teoremi. Troppo poco per salvare un film; figuriamoci per salvare il genere umano…Alla fine l’umanità la scampa ma è bocciata per indegnità.

              Marcello Veneziani   

Vivere tanto per vivere… un presente destinato a durare…

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Massaggi

Due di notte, una fitta nebbiolina sfuoca e amalgama con il buio della notte le lampade dei lampioni. Barcolla. Sa di aver bevuto troppo. Quattro bicchierini di grappa. La grappa non l’ha mai retta. Il suo amico gli propone di accompagnarlo a casa ma lui lo ringrazia e preferisce rimanere seduto un altro po’ al tavolo. Poi esce verso la sua macchina. Più volte la spalla del suo cappotto struscia sui muri delle case. Si ferma. Si guarda attorno e non vede nessuno. Meglio! Continua  a camminare oscillando come un metronomo. Si ferma di nuovo. Vede una panchina, riparte. Cade con il sedere sulla panchina e nasconde i tratti del suo volto nelle mani. Alza il mento e apre il cancello sudato delle sue mani e vede una fontana. Si sciacqua la faccia e riprende il suo cammino. Non ricorda più dove ha parcheggiato la  macchina. Improvvisamente il suo sguardo si infila in una stradina e vede una piccola insegna luminosa. Un taglio rosso nel nero. La nebbiolina si mescola con la luce rossa smarginando  quel rettangolo luminoso. Cambia bruscamente direzione e si dirige verso quel rettangolo che gli accende curiosità. Cambia passo e inizia a correre. Inciampa e cade in avanti. Si rialza e spolvera il suo cappotto di Hugo Boss. E’ sotto a quella luce rossa. La fissa con insistenza e un leggero sorriso affiora dal suo volto. “Massaggi”, sull’insegna c’è scritto “Massaggi” e soprattutto “aperto”. Fa dei respiri grandi. Si mette in bocca una mentina e suona il campanello. Edoardo è un uomo alto. Anche quando è un po’ brillo riesce sempre a mantenere una certa eleganza e raffinatezza. Adora parlare in inglese e gli fa piacere recitare la parte dello straniero distratto, leggermente confuso ma gentile ed educato. Ama recitare quella parte perché si prende in giro e ama osservare gli sguardi attoniti o indifferenti della gente sconosciuta. A volte viene accolto, altre volte ignorato. Ma lui si diverte tantissimo. Fa finta di non capire e inizia a farfugliare, a muovere le mani con arte. Quando è ubriaco è un attore nato ed è meno diffidente verso le persone. Entra in un piccolo ingresso. C’è un banco nero. Dietro, una piccolissima figura di donna. A malapena si vedono gli occhi. Si alza e aggira il banco la donna gli sorride e lo saluta. Sopra di lei una lampada a forma di Drago. La polvere ha sostituito la nebbiolina fuori. C’è un silenzio assoluto che si impasta con diversi odori: sudore, candele, profumo di bassissima qualità. Chiede un massaggio completo e si siede su una panca di legno. Vicino a lui una pianta di plastica che ha perso molte foglie. Sembra una lisca di pesce fossile. Intorno a lui tutto è finto e scadente. La piccola donna arriva accompagnata da una ragazza e gli propone un bagno prima del massaggio. Trenta più venti: totale cinquanta. Sarà la ragazza a lavarlo. La guarda e scopre un sorriso, un lieve sorriso di circostanza. Accetta e la segue. I suoi fianchi ricordano le forme laterali del violino. Sono stretti e perfetti nelle curve. I suoi capelli sono neri e lunghi. Ha tatuata una farfalla sulla spalla sinistra. La piccola donna è ritornata dietro al banco come un soprammobile nero dagli occhi piccolissimi. La stanza dove entrano ha le pareti di legno e su di esse sono appese altre piante di plastica. Sopra il lettino c’è un televisore al plasma che proietta un video musicale. Il soggetto è una cascata gigantesca. I suoni sono acuti e ripetitivi. Alla destra del lettino c’è una semplice vasca circondata da una piccola staccionata. Tutto è finto ma a lui non interessa, vuole spogliarsi fare un bagno caldo e viversi un  massaggio. La ragazza lo aiuta a spogliarsi. Lui oscilla ancora un po’ ma è leggermente più lucido. I contorni si fanno più netti e meno sfuocati. Vede meglio le mani di lei. Dita lunghissime e affusolate. Dita da pianista. Sono leggere e profumate. Lo aiuta a spogliarsi. E’ lenta nei movimenti. Senza dirgli una parola lo mette a suo agio. Edoardo è completamente nudo. Sul fianco sinistro ha una linea più chiara. E’ leggermente più rossa rispetto al colore della sua pelle. E’ lunga diciotto centimetri. Circa trenta punti: operazione al rene. Un disegno della chirurgia che non cancellerà più. La ragazza lo nota e gli sorride. Poi, con la punta dell’indice della mano destra ripercorre dal basso verso l’alto e viceversa quella stradina fatta da un bisturi sul corpo di lui. Edoardo la guarda e non dice nulla. Anzi, alza il braccio sinistro e la invita con un semplice movimento del mento a passeggiare un altro po’ su quel segno indelebile. Lei lo invita a distendersi sul lettino mentre prepara la vasca. E’ immerso nell’acqua. Le dita di lei si muovono sul corpo di lui con leggerezza. Esce dalla vasca e la vede meglio. Lo asciuga sempre lentamente e gli offre un paio di mutande di carta morbidissima. Rischia di cadere su una gamba. Lei interviene subito e lo sostiene, non conosce l’italiano balbetta solo qualche frase. Si distende e lei comincia a mettergli addosso un olio profumato. Il tempo passa ma nessuno se ne accorge. L’uomo chiude gli occhi e si lascia trasportare.  Il suo corpo sta diventando una sfoglia e un suo desiderio sta lievitando. La ragazza si ferma. Lui apre gli occhi. Il tempo  questa volta è davvero finito. Lui si aspetta una proposta, una cifra. E’ sicuro! Lei si avvicina al suo orecchio, lui pensa già alla cifra, cinquanta? sessanta? Ma lei gli sussurra: ”Tu bello! Bello, bello uomo! Che fa tu qui?” Edoardo non capisce e prova a sfiorarle le braccia, ma lei si allontana subito ed esce dalla stanza. Edoardo rimane disteso e molto sorpreso. Niente prestazione sessuale? Ma non è possibile! Poi, dopo un paio minuti sente la voce della piccola donna:” Uscire, uscire. Si chiude!”.

Sono le tre e mezzo. Quasi tutti dormono. L’uomo con il suo cappotto di Hugo Boss lascia alle sue spalle quel rettangolo luminoso. E’ sicuro, non ritornerà più in quel centro estetico. Quel rosso elettrico si spegne. E la stradina con Edoardo diventa buio.

 

Andrea Salvatici

 

Esselunga…dai Racconti di vetro di Andrea Salvatici.

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Esselunga

Vincenzo uscì dal suo studio pubblicitario alle ore venti e quindici un po’ prima rispetto al solito. La sua agenzia pubblicitaria era fra le più importanti e potenti di Milano. Aveva sbaragliato la concorrenza nazionale, ma soprattutto quella americana e adesso la sua creatura aveva un ruolo predominante nel mercato pubblicitario televisivo: campagne per la Fiat, per la Barilla, per la Superga, per l’Adidas, per la Nike.  Insomma, la sua agenzia era la numero uno. Premi, targhe, riconoscimenti internazionali, tutto contribuiva a rafforzare la sua qualità e creatività professionale. Alle ore venti e trenta era già con il suo carrello fra il corridoio dei detersivi e quello dei sottaceti, distratto e lontano da tutto, con una leggera fame e tanta voglia di andare a casa e mettersi sul divano a vedere qualche programma registrato di Lucarelli. Possedeva tutte le cassette della serie “Blu notte”. Persino al lavoro ripeteva ogni tanto al suo fidato collaboratore: ”Lui non sa … ma è già morto”. Lento e leggermente sfiorato da una stanchezza cronica oramai accettata senza nessuna conflittualità personale, Vincenzo provava a quell’ora una rilassatezza meravigliosa. Comprava quasi sempre broccoli, cimette di rapa, acciughe, aglio, peperoncini e pasta fresca, in particolare orecchiette pugliesi. Dopo il divorzio le sue serate si erano trasformate: all’inizio in un momento nuovo e assai eccitante, col tempo si era poi stancato di avventure occasionali e adesso difendeva fermamente il suo spazio personale. Non era una rinuncia alla nuova vita da single o un rifiuto del mondo femminile, era soltanto una voglia diversa di viversi. Voleva stare da solo dopo tre relazioni importanti e un matrimonio fallito. In lui non c’era né rabbia, né tristezza, né dolore. C’era solo il desiderio di godersi la sua vita per la prima volta da solo. Quella sera al supermercato comprò cimette di rapa già pulite e tagliate, parmigiano in busta, acciughe, peperoncino e orecchiette di pasta fresca. Domani non sarebbe andato al lavoro. Gara vinta, due giorni di riposo, quindi si comprò due bottiglie di Chianti, il solito, quello che beveva con Francesco ai tempi dell’università, ai tempi della prima occupazione degli anni novanta. Era affezionato a quel vino anche se non era fra i più pregiati ma quel rosso gli ricordava le serate con Francesco, che ora non c’era più, a Castellina in Chianti con le loro amiche di corso. Tutti davanti a un grande caminetto acceso. Quante discussioni filosofiche e quanti innesti meravigliosi fra una goccia di sudore e l’altra. Giunto alla cassa cinque si mise in fila dietro due ragazze che parlavano inglese speditamente. Vincenzo guardava le lamette e i giornali. Spostò lo sguardo e incontrò quello di una delle due ragazze: potente e immediato nel trattenere quello di Vincenzo nel verde dei suoi occhi. Lei gli sorrise e ritornò a sistemare i pochi prodotti acquistati con l’amica sul nastro della cassa: insalata già pulita, yogurt, cracker e una bottiglia di Rum cubano. Vincenzo rimase immobile e aspettò il suo turno. L’altra ragazza dai capelli biondi, gli passò il separatore con scritto “prossimo cliente”. La cassiera, una donna sui quarant’anni, passava i prodotti a grande velocità, la ragazza dai capelli biondi, sorridendo con un certo imbarazzo, si accorse di non avere i soldi per comparare la bottiglia di Rum cubano. Chiese all’amica un aiuto. Niente, nessuna delle due poteva  pagare la bottiglia e la cassiera continuava a dire in tono assai acido: ”Allora?”. Vincenzo capì un’esclamazione in inglese un po’ imbarazzata e intervenne con il suo perfetto inglese e con estrema delicatezza. “ Posso darvi una mano per la bottiglia? Senza offesa…”. Le due ragazze lo guardarono e annuirono sorridendo. Lui pagò la loro bottiglia, la cassiera si tranquillizzò e le giovani donne lo ringraziarono. Assomigliavano a due modelle. Alte, magre e vestite con  jeans e magliette bianche.

Vincenzo mise i suoi prodotti sul rullo e guardò le due sirene uscire senza voltarsi. Nel parcheggio aprì il lucchetto della bicicletta e vide le due ragazze non lontane da lui appoggiate a una macchina mentre fumavano una sigaretta. Gli fecero un sorriso invitante.

Inforcando la sua bicicletta gli passò accanto, rispose al sorriso e incominciò a pedalare con leggerezza.

da Il Corriere della Sera       

Coin… di Andrea Salvatici, da I Racconti di vetro.

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Coin

Daniele guardava dormire suo figlio Filippo con soddisfazione e con gioia. Era riuscito a farlo addormentare. Adesso poteva ritornare in salotto. Filippo aveva due anni e assomigliava a sua nonna in modo impressionante: occhi blu molto grandi  con un leggerissimo strabismo di Venere. Labbra molto carnose assai sproporzionate rispetto agli altri tratti ma che donavano già al bambino una fisionomia animale e sensuale. Daniele lo guardava e sorrideva dicendo a se stesso: ”Mio figlio sarà un animale braccato e desiderato dalle donne per le sue labbra, ma lui riuscirà a trasformarle in gazzelle nelle sue fauci di predatore affamato”. Quest’idea gli ritornava spesso quando guardava suo figlio e senza dire una parola a nessuno capiva che si nutriva di un luogo comune verso il sesso femminile. Di fatto era troppo sentimentale, dolce, disponibile! Di fatto era debole verso le donne. Persino la paternità non era riuscita a suscitare in lui qualcosa di nuovo e di vero. Continuava a non comunicare in modo leale e sincero con la donna che gli aveva dato un figlio bellissimo. Continuava a non affidarsi e a fidarsi completamente delle donne. Ecco la verità! Le donne concedono e non si danno completamente. Le donne creano il latte. Gli uomini lo bevono. Per lui non era un pregiudizio, era il suo sentire dopo molte donne. Tutto qui. Un suo parere e non voleva farne assolutamente un manifesto per la collettività. Il divario rimaneva, ma ora cominciava ad accettarlo con una tranquillità più pratica ed efficiente: carriera, soldi, potere, vacanze al mare, in montagna e qualche scappatella con giovani donne. Insomma tutto si ripeteva allo stesso modo con le stesse fissità, con gli stessi piccoli soccorsi: matrimonio, figli, convivenza. Viveva su dei binari d’oro, ma erano pur sempre dei binari. Passò dal salotto, sua moglie e la sua amica si erano trasferite in terrazza: cento metri quadri di fiori e di piante. Una vetrata separava il divano bianco da un gigantesco ciliegio cinese. Lo aveva comprato Daniele il giorno della nascita di Filippo. Amava regalare o comprare alberi quando arrivava un bambino. Lo faceva con gli amici, con i parenti e quel giorno lo fece per la sua famiglia. Tre mesi dopo sua suocera, senza dirgli nulla, potò i due rami centrali e lo trasformò in un bonsai. Che rabbia per lui! Che voglia di mandarla a quel paese! Ma poi l’albero era riuscito in pochi mesi a crescere di nuovo e quella rabbia si era persa nella distanza fra lui e la suocera. Salutò sua moglie e la sua amica e uscì. Aveva voglia di fare due passi ma si accorse che era sabato pomeriggio e lui abitava in una traversa di Corso Vercelli. Erano le quattro. Un fiume in piena fatto di persone lo costrinse a entrare da Coin. Senza pensarci prese la scala mobile e arrivò all’ultimo piano: casalinghi. Trovò una sedia davanti a una lampada e si sedette. Cominciò a guardare quella lampada che sembrava un girasole con i petali chiusi in avanti.  Simpatica, allegra ma di pessima qualità. Lui amava le lampade, quelle costose, di alto design, ma quel giorno decise di fissare quella lampada. Si sentì toccare con delicatezza la spalla e si voltò. Era una giovane commessa. Lui la guardò senza dirle una parola. “Le chiedo scusa! Ma ho bisogno di questa sedia!” disse la giovane commessa. Lui si alzò immediatamente e le sorrise scusandosi. La ragazza prese la sedia e la portò via. Daniele rimase tutto il pomeriggio all’ultimo piano di Coin a guardare caffettiere, forchette, frullatori, fiori finti, oggetti colorati, bicchieri e piatti. In quel luogo di solito, in compagnia di sua moglie, riusciva a rimanere dieci minuti al massimo, poi si innervosiva e usciva. Ma quel giorno era da solo e non pensava a nulla. Ogni tanto incontrava lo sguardo della giovane commessa, sempre indaffarata a sistemare oggetti, pacchi, scontrini e buste. Lui, tra forchette, piatti, tazze e pentole, si sentiva a suo agio. Poi, prima della chiusura, ci fu un groviglio inaspettato di sguardi fra Daniele e la giovane commessa: un rampicante impazzito, un’edera di bosco magica e vivente tra le fronde di un albero. Daniele si trovava  vicino a un vaso di cristallo, assai insignificante e normale, di forma cilindrica allungata, pieno di sassi colorati. Quei vasi che dopo una settimana ti stancano di vederli ma non sai dove metterli. Quei vasi che si trasformano in oggetti ingombranti e brutti. Squillò il suo cellulare. Non rispose! Era sua moglie che lo stava cercando. Dopo un paio di minuti gli arrivò un suo messaggio: ”Ma dove sei finito? Non te lo ricordi? Siamo a cena da mio fratello!” Daniele rispose senza usare tante parole: ”Arrivo!” Lei non gli rispose e lui alla fine comprò  quella lampada a forma di girasole. La giovane commessa, quella che gli aveva tolto la sedia, adesso si trovava alla cassa. Lo guardò e gli dette lo scontrino insieme alla lampada. Daniele allungò il braccio per prendere la busta con la lampada.

La ragazza gli disse: “Prossima settimana arriveranno nuove lampade a forma di fiore!”.

Una favola, forse dal Novellino di Masuccio Salernitano…

 

Il tempo passa, passa il pensiero dell’uomo, sostituito da un altro, cambia la politica e si lavora perchè questa cambi ancora e ancora, per non cambiare mai. Cambiano soltanto quelli , che del potere beneficiano e col tempo spartiscono tutte le utilità, un po’ per uno, un po’ alla volta.

 L’adulazione (Novellino, XXIV)

Il potentissimo imperatore Federico II di Svevia, sovrano di tutto il mondo cristiano e grande cultore delle arti e del diritto, aveva due consiglieri famosi per la loro proverbiale saggezza: il primo si chiamava messer Bolghero, mentre l’altro aveva per nome messer Martino.

Un giorno Federico stava passeggiando tra i portici del suo castello in compagnia di questi due saggi; poiché l’imperatore aveva sentito il desiderio di disquisire di diritto proprio in quel momento, pose ai propri fidati consiglieri il seguente quesito: — Signori, secondo la legge potrei io togliere ai miei sudditi ciò che voglio senza spiegarne il motivo se non che io sono il loro signore? In fondo, non si insegna che ciò che piace al sovrano debba essere legge per i propri sudditi? Fatemi sapere ciò che ne pensate, perché la questione mi interessa moltissimo.

Il primo dei due giuristi così rispose: — Maestà, l’imperatore può fare dei beni dei propri sudditi ciò che più gli aggrada, senza che gli si possa muovere alcun rimprovero.

L’altro, invece, argomentò: — A me non sembra che le cose stiano così, perché la legge si basa sulla giustizia e ai suoi principi occorre conformarsi. Se fosse vostra intenzione togliere qualcosa ai vostri sudditi, essi vorranno sapere il perché.

L’imperatore Federico sembrò apprezzare entrambi i pareri e perciò fece un dono ad ambedue i consiglieri: al primo donò un cappello scarlatto e un palafreno bianco, all’altro invece venne richiesto di redigere una legge secondo la propria coscienza.

Tra i nobili facenti parte del seguito dell’imperatore si discuteva in maniera appassionata per stabilire a chi fosse stato fatto il dono più prezioso, ma nessuno sembrava trovare l’argomento decisivo.

Alla fine, fu lo stesso Federico a spiegare il suo comportamento: semplicemente, a colui che lo aveva adulato egli aveva fatto dono di un cappello e di un cavallo, come si è soliti fare con i giullari; a colui il quale aveva dimostrato di perseguire l’ideale della giustizia, il sovrano aveva invece chiesto di scrivere una legge.

Adulatore-Pieter-Brueghel 1592

adulazione-Brueghel-1592 a