“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

 

Crepet, genitori ed insegnanti devono rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità: “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna avere coraggio…
“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a difendere”, così evidenzi…

In un mondo in cui tutto sembra avere un prezzo e dove occorre sempre ostentare per poter vivere serenamente, in un mondo in cui è più importante l’apparire che l’essere, diventa sempre più difficile soffermarsi e riflettere su delle tematiche rilevanti, pertinenti alla nostra persona, al nostro animo, ma soprattutto alla nostra felicità.A tal fine Paolo Crepet, nel suo libro “Mordere il cielo”, pone l’accento proprio su tale aspetto. Lo psichiatra coglie l’occasione per rammentarci quando negli anni Settanta sul mercato farmaceutico fu inserito il Prozac, la cd “pillola della felicità”.Il principio farmacologico su cui si basava il Prozac era la fluoxetina: una molecola utile per combattere la depressione, l’ansia, attacchi di panico ma anche bulimia o condotte suicidarie. Si arrivò così ad una “commercializzazione del benessere”: l’idea di non aver più bisogno di un percorso con uno psicoterapeuta, lungo e costoso, e di poter vivere serenamente, raggiungere un proprio equilibrio psicofisico senza alcuno sforzo e senza alcuna perdita di tempo, cominciò a diventare predominante. Ciò che lascia basiti è come in poco tempo si diffuse la convinzione che bastasse una pillola per risolvere qualsiasi tipo di problema, era sufficiente solo un piccolo sforzo per preservare la salute e combattere le patologie che attanagliavano l’animo. Con il passare del tempo però questa “illusione” cominciò a svanire: gli effetti collaterali verificatisi ed un uso sconsiderato da parte dei giovanissimi creò un grande disorientamento.  L’aspetto più drammatico che iniziò a delinearsi fu proprio quello dell’utilizzo del farmaco, un antidepressivo, per poter curare disturbi alimentari, come la bulimia, nella convinzione, sviluppatasi fra migliaia di adolescenti, che ci si potesse “curare” solo con una pillola, senza sforzo, fatica e soprattutto senza alcuna responsabilità.

“L’aspetto è identità”, come sottolinea Crepet e ben presto ebbe ancora più successo e venne maggiormente utilizzato un farmaco nato originariamente per curare il diabete di tipo 2, l’Ozempic. Tale farmaco veniva utilizzato non solo per contrastare l’obesità ma anche un leggero sovrappeso, così da poter dimagrire velocemente. Si diffuse, infatti, la necessità di curare il proprio corpo, l’aspetto esteriore di una persona, si giunse ad una sorta di “terapia cosmetica”: la cura di se stessi non doveva determinare alcun aggravio, pena o preoccupazione. Attraverso la “pillola della felicità” ci si poteva deresponsabilizzare e pensare che una mera cura farmacologica potesse risolvere qualsiasi problema dell’animo: occorre essere perfetti esteticamente, il nostro corpo deve essere perfetto a tutti i costi, mentre si trascura l’aspetto interiore, quello psicologico. “La ricerca della felicità riposa nello stereotipo di un corpo che esige perfezione”, così sottolinea lo psichiatra Crepet.

Le nuove generazioni sembrano non fidarsi più del futuro, sembrano aver perso qualsiasi tipo di ambizione, aspirazione, desiderio ed allora ecco il ruolo fondamentale dei genitori e degli insegnanti: occorre rieducare alla creatività, alla gioia, alla felicità, occorre qualcuno che ci insegni a guardare il mondo dalla giusta prospettiva, con occhi disincantati, stupendoci, giorno dopo giorno, delle cose più semplici che però ci riempiono di felicità e di amore. La vita è davvero bellissima ed ognuno di noi ha diritto di viverla a colori, con le sue sfumature, godendosi quell’arcobaleno che contraddistingue la propria esistenza: ci saranno sicuramente giornate in cui potremmo anche intravedere alcune sfumature di grigio ma ce ne saranno altrettante in cui la felicità riuscirà a colorare la nostra vita e a renderla unica e speciale. “Alla fine, non credo sia ancora tempo di arrendersi, soprattutto se si è giovani. Bisogna rovesciare l’evidenza, sciogliere gli spasmi delle visioni più egoistiche, preparare le valigie per il viaggio verso le idee più impronunciabili. Non c’è differenza e non c’è giudizio”, queste le parole significative e pieno di pathos di Crepet. Ciò che occorre comprendere è che “il bello è riuscire a essere imprevedibili anche nella prevedibilità”.

Bisogna avere il coraggio di scombinare le cose del mondo.“Sognare è il primo dovere che un uomo e una donna gentili dovrebbero imparare a declinare, e a difendere”, così evidenzia il sociologo Paolo Crepet. Le nuove generazioni devono ricominciare a sognare, devono appassionarsi alla vita, vivendo ogni attimo intensamente, senza pause, interruzioni, soste: bisogna custodire gelosamente le proprie ambizioni ed i propri sogni perché solo vivendo appassionatamente, senza mai fermarsi, si potranno perseguire le proprie mete e raggiungere i risultati sperati. Non c’è tempo per omologarsi, per vivere anestetizzando le proprie emozioni, non c’è tempo per la noia e per l’ovvietà: bisogna vivere intensamente, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni, portando avanti le proprie idee e convinzioni, senza ricercare mai il consenso di qualcun altro.

da__ A Scuola Oggi

 

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E’ diventato un volto conosciuto grazie al docu-reality “Il collegio”. Ai suoi alunni insegna che la filosofia è l’lingrediente giusto per salvarsi dal baratro. “Troppi esperti hanno un’immagine stereotipata dei ragazzi”.

 

Intervista ad Andrea Maggi

Lo hanno definito “il professore più amato d’Italia”. Grazie al docu-reality ‘Il collegio’ trasmesso su Rai 2 per otto edizioni, e al programma ‘Splendida cornice’ su Rai 3, Andrea Maggi conta più di 400 mila follower su Instagram e oltre 500 mila su TikTok. Perciò, quando dice che la filosofia è l’ingrediente giusto per salvare gli adolescenti dai fossi – e dai baratri – lungo il cammino qualche credito bisogna darglielo. Il 2 settembre il professore ha ripreso servizio nella scuola di Sacile, provincia di Pordenone, dove insegna lettere, e l’indomani è uscito in libreria ‘Il mio Socrate’ per Giunti, romanzo e dialogo tra una quattordicenne tormentata e un avatar del filosofo greco, che le indica la strada per la libertà e la felicità. Difficile intanto non pensare alla tragedia di Paderno Dugnano, dove un male insondabile ha spinto un diciassettenne a sterminare la famiglia nella notte del primo settembre. Difficile commentarla senza consumare cliché.

Ha ascoltato le considerazioni degli esperti?

Senza dubitare delle loro competenze, mi chiedo perché quando si parla di giovani non si privilegino le voci degli insegnanti, che lavorano in prima linea e conoscono le cose in presa diretta. Spesso gli esperti hanno smesso da un pezzo di avere contatti personali con i ragazzi e ne hanno un’immagine distorta dal ricordo e stereotipata, come di manichini immutabili nel tempo.

Dica la sua opinione.

Non posso giudicare il caso specifico, ma credo che il malessere diffuso tra i ragazzi sia dovuto in larga parte all’assenza della parola nella paradossale società dell’infosfera, dove si sa tutto in tempo reale ma si chiudono i ponti di comunicazione tra i suoi membri, anche dentro le famiglie. Quando si azzerano le parole per esprimere disagio o inquietudine, ci si involve in un isolamento che può portare alla chiusura, alla sindrome dell’hikikomori, o a una esplosione di violenza.

La ricetta filosofica è davvero praticabile?

Cominciai a riflettere al libro un paio d’anni fa, quando una ragazza di terza media mi chiese: “Cos’è la filosofia?”. Pensai che Socrate potesse raccontarlo, che fosse un tramite per ripristinare il dialogo come confronto e aiuto. Il recupero della parola come di un bene che ci è stato tolto. Chi sa dare un nome al suo male è per metà guarito.

I social hanno rubato le parole ai ragazzi?

Non sono i soli responsabili, ma il rischio è che riducano il confronto e favoriscano su ogni argomento le tifoserie invece del pensiero logico. La filosofia è una medicina possibile: insegno in una scuola secondaria di primo grado e se parlo del paradosso di Zenone i ragazzi ne sono affascinati come da una favola. La filosofia declinata a seconda dell’uditorio può essere una compagna di viaggio fin dalla tenera età perché aiuta a dialogare anche con se stessi e a evitare, per esempio, che ci si iscriva alle superiori o a una facoltà universitaria influenzati dai sogni altrui senza conoscere i propri.

Quanto servono gli psicologi?

Quando la terapia coinvolge la famiglia. I genitori non devono pensare di tenersi fuori e delegare tutto alla scuola e al terapeuta. Noi insegnanti spesso ci troviamo soli a lottare ad armi impari contro un mondo che smentisce i modelli che cerchiamo di inculcare e identifica la felicità con l’auto di lusso e gli orologi costosi. Non basta un “pandoro-gate” a dimostrare la fragilità degli influencer, perché ne spuntano subito altri.

La felicità come si persegue?

Con la conoscenza di sé. Ho in mente un vicino di casa che aveva un grande talento per la falegnameria ma ha fatto l’operaio tutta la vita. Ora che è in pensione mi dice: “Sono stati quarant’anni di galera”.

I ragazzi pensano al futuro?

Nella società del boom erano tutti proiettati al futuro. Oggi si vive in un presente continuo e ci sono solo vaghe, ma alte aspettative sul domani. Non tutti faranno i soldi come youtuber e questo genererà frustrazione, perciò bisogna attrezzarsi a comprendere che la ricchezza non è la felicità.

Servono le buone letture?

Se la lettura è vista come “cosa della scuola” diventa antipatica. Dovrebbe essere una consuetudine familiare, però i genitori non possono invitarti a leggere e poi smanettare sullo smartphone senza aprire un libro.

Cosa fa leggere ai suoi alunni?

L’anno scorso ‘Il Milione’ di Marco Polo. Superata l’osticità della lingua, hanno scoperto che l’uomo medievale abitava il mondo con una presenza concreta, analitica, attenta alle altre culture. Che era molto più moderno di quanto non si creda. Quest’anno vorrei leggere brani da ‘La Gerusalemme liberata’ per far capire tante cose sulla guerra.

Com’è recepita la poesia?

È messa male. Il congelamento della parola la uccide e l’amore è visto più come possesso che con romanticismo. I maschi controllano i profili social delle fidanzatine e guai a sgarrare, e le ragazze si assoggettano. È come se si fosse interrotta la comunicazione anche con certe conquiste del passato. Come se la Generazione Alpha ricominciasse da zero. Bisogna riaprire i ponti con tutta la storia. Far sapere che in Afghanistan e in Iran prima del burqa e del velo c’è stata la minigonna, e i musulmani che combattevano per Francesco Giuseppe avevano per slogan: niente rum, niente battaglia.

Un altro fenomeno sommerso dai luoghi comuni è il bullismo.

Se ne parla in occasione di episodi eclatanti, ma nelle forme più striscianti è quotidiano, un altro frutto delle frustrazioni di chi vive una vita che non ritiene sua. La prevenzione è ancora nel dialogo. Torniamo sempre a Socrate.

Francesco Palmieri

 

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Per ogni anno che passa, togli qualcosa…

 

Qualche giorno fa conversavo con un’amica, la quale mi ha raccontato un colloquio con il suo medico. Una raccomandazione del dottore mi ha colpito. «Signora – ha detto lo specialista – si ricordi: per ogni anno che passa lei deve dire addio a qualcosa». Il consiglio era quello di una rinuncia progressiva, graduale, inversamente proporzionale all’età.
Più invecchi, più devi alleggerirti.
Più si accumulano gli anni, più devi eliminare cose alla tua vita.
Clic Per una come me che da anni affina l’esercizio della sottrazione (con risultati altalenanti), quella raccomandazione è immediatamente suonata naturale, oltre che molto sana. Ma per buona parte della serata ho continuato a riflettere su quel bizzarro movimento a correnti alternate e contrarie: cresce l’età, diminuisce il peso (dell’anima e della mente). E ho concluso che nella vita che conduciamo spesso avviene l’esatto opposto.Più invecchiamo e più ci arrocchiamo sull’accumulo, ci attacchiamo alle certezze e restiamo appesi, impotenti, alla paura di perdere qualcosa. L’età (non sempre ma spesso) porta dei benefici e delle posizioni conquistate che innescano un meccanismo di sopravvivenza: per mantenere quello che ho non posso fermarmi, ma devo andare avanti e ottenere sempre qualcosa di più. Non parlo solo del lavoro: mantenere il basso continuo di una relazione sentimentale, per esempio, impone un incessante «allungo», un inesauribile orizzonte di progresso. E allora, mi sono chiesta, come si fa a togliere una cosa per ogni anno che passa? Intanto è utile riconoscere l’accumulo. Perché è un rumore sottile, qualche volta si confonde con la necessità. Quel «sì» detto nonostante una vita piena di impegni, è davvero necessario? Ho veramente bisogno di dispiegare tempo ed energia in questa cosa, oppure è solo la paura di vedere crollato un castello inesistente? Perché, sia chiaro, ogni costruzione che crediamo di avere edificato è fatta di sabbia: basta un imprevisto, anche invisibile, a demolire ogni cosa. Allenarsi alla precarietà, allora, può essere un ottimo esercizio. C’è un bel libro che spiega bene questo meccanismo ed è «Niente di speciale», scritto da Charlotte Joko Beck (in Italia tradotto dall’editore Ubaldini e oggi pressoché introvabile). Beck è stata un’insegnante di meditazione Zen e in questa guida, molto semplicemente, invita a guardare le cose come sono. Quello che ci capita senza che noi facciamo nulla per farlo accadere, è ogni volta un piccolo miracolo: la pura vita, l’essenza di quello che ci succede ogni giorno, la bellezza della quiete. Togliere ogni sforzo, come in un asana dello yoga fatto bene, sentire il sostegno della terra e fidarsi di quello che ci sta davanti agli occhi. Restare eleganti e pieni di grazia anche nella tempesta, perché come affermava Pema Chödrön, una famosa monaca buddista, «tu sei il cielo, il resto è solo il tempo che fa». Sembra facile, ma per molti è difficile, per alcuni impossibile. Allenarsi alla precarietà vuol dire lasciare andare e osservare momento per momento la nostra vita. Diventare pura osservazione. Allora ho pensato che questo allenamento alla lenta purificazione, eliminando quello che non serve, possa essere un lenitivo. Come lo sciroppo per la tosse grassa, può sciogliere quei nodi che ci lasciano appesi alle passioni, ai desideri inutili, alla rabbia priva di senso. Cose che con il tempo, come rifletteva Gabriel García Márquez, assumono una sgradevole sfumatura triste. Notarle, dare loro un nome, equivale a stabilizzarle. Un po’ come quando ci mettiamo a osservare con calma e insistenza gli occhi della tigre: ci troviamo un lampo di arrendevolezza.

Roberta Scorranese
Salvatore lamberti

Illustrazione Salvatore Lamberti

Sono il tuo corpo…

 

Sono il tuo CORPO, e mi rivolgo a te.

Sono così come tu mi pensi; ti prego, pensa che io sia bello; lo sarò.

Quando pensi alle malattie e le cerchi in me… sono costretto ad obbedire e m’ammalo.

Quando hai molti pensieri negativi, m’ammalo, perché stai sperperando per questi pensieri la forza vitale.

Quando gioisci, ringiovanisco e fiorisco.

Le mie risorse sono tante. Credi in me, posso guarire anche quando i medici emetteranno una sentenza della fine. Aiutami semplicemente con la tua fiducia in me.

Sono fatto per funzionare per tantissimi anni; perché inizi a pensare alla vecchiaia già a 35-40 anni? Perché credete che i 100 anni sia un limite?

Quando vuoi mangiare qualcosa, chiedimelo se ne ho bisogno. Se imparerai a sentirmi, ti risponderò.

Sulla bellezza. Non riempirmi di vari integratori, botox, gel, silicone… posso essere bello anche senza questa roba, aiutami solo, e assumerò le forme che vorrai tu.

Mi piace passeggiare, nuotare, correre, ballare, mi piace il massaggio, il sesso. Mi piacciono le occupazioni che ti portano gioia.

Stare tutto il giorno davanti al computer o la Tv… non troppo.

Ti credo molto. Se tu credi di ingrassare perché hai mangiato un pezzo di torta, realizzerò il tuo pensiero e ingrasserò.

Ti amo molto. Mi piacerebbe sentire da te delle parole d’amore e di gratitudine. Almeno qualche volta. Ma se non lo farai… ti amo lo stesso.. incondizionatamente.

Sono io, il tuo corpo… il tuo Universo. Anche tu sei una particella dell’immenso universo.

Ti ringrazio.. esisto perché tu lo hai voluto. E sono così come mi vuoi vedere. Aiutiamoci!

Francesco Oliviero

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Torniamo all’essenziale…

 

 

Si può essere cattolici, credenti e praticanti oppure no, ma si deve convenire che la domanda a cui è dedicato il Meeting di Comunione e Liberazione di quest’anno, in corso a Rimini, è la più centrata, urgente e universale che ci possa essere: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. Al Meeting di CL il sottinteso è l’incontro essenziale con Gesù Cristo, e poi l’impegno sociale, solidale, comunitario che ne deriva, nelle opere, nella vita e nel lavoro. Ma la ricerca dell’essenziale è il tema cruciale dell’uomo, coincide con la fede e col pensiero; precede ogni scelta religiosa, filosofica, esistenziale, civile. Ci mette in gioco davanti alla vita e alla morte, alla nascita e all’amore, alla gioia e al dolore, all’infanzia e alla vecchiaia, al mistero e al destino.
Se dovessimo infatti riassumere la dispersione, la dissoluzione, l’alienazione, la follia del nostro tempo, soprattutto nell’Occidente cristiano, dovremmo proprio condensarle in quella constatazione: abbiamo perso di vista l’essenziale, ci stiamo perdendo nelle procedure, negli alibi, nei surrogati, nelle deviazioni di percorso, nei regni fluttuanti del superfluo, in balia della volontà di potenza. Vivere per le procedure significa scambiare il fine della vita con i mezzi per vivere, barattare il significato con le funzioni e le utilità. Quando perdi di vista l’essenziale ti fabbrichi degli alibi, perché non hai tempo per fare “filosofia” sulla vita, devi campare e procurarti da vivere; poi ti rifugi nei surrogati dell’essenziale, gli obbiettivi fallaci, gli idoli, i consumi, il profitto, la tecnica, gli agi elevati a valori. Da qui le deviazioni di percorso, scorciatoie, vie di fuga o itinerari turistici, diversivi o solo divertenti, per non intraprendere il cammino a cui ti chiama la vita. Una vita che perde l’essenziale è una vita che si perde nel superfluo, in tutto ciò che è accessorio, labile, ornamentale, banalmente superficiale. Se la vita non ha senso, non ha destino, non vuole lasciare eredità e tracce meritevoli di essere salvate ma è una pura affermazione ed espansione illimitata di potenza e desideri, ha già imboccato la direzione opposta alla ricerca dell’essenziale. Anche perché la domanda sull’essenziale è una domanda sull’essere, mentre l’affermazione di potenza è protesa contro o senza l’essere, presuppone la forza di annientare chi vi si oppone e di creare dal nulla.
La domanda che sta dentro la ricerca dell’essenziale è primaria, originaria: perché vivere, cosa ci spinge a vivere anziché lasciarsi andare? C’è un modo di aggirare quella domanda ed è nel puro regredire allo stato biologico: ti aggrappi al puro istinto di sopravvivenza ed autoconservazione. Chiunque vive vuole preservarsi, restare in vita e difenderla come l’istinto elementare e naturale primario che precede ogni altro pensiero o volontà. Dunque non c’è da porsi nessuna domanda, siamo fatti così, predisposti geneticamente come qualunque altro essere vivente, a vivere per vivere, abbiamo l’istinto a sopravvivere; la volontà di vivere, direbbe Schopenhauer.
Ma l’uomo pensa, sceglie, ricerca, esplora, è nella sua indole. Sa di morire. L’uomo cammina su una corda tesa tra la libertà e il destino,  e i due poli estremi della corda lo inducono a ricercare l’essenziale. Non è solo il filosofo, il ricercatore, il devoto a porsi quella domanda, ma è l’uomo, in virtù della sua coscienza e della sua sensibilità. La ricerca dell’essenziale pone sulla stessa linea l’istinto di vivere, il sentimento e la ragione.
C’è tuttavia un punto di crisi in cui si perde la ricerca dell’essenziale: è quando la partenza coincide con l’arrivo e tutto ruota intorno all’io e si risolve in lui. Se il mondo è solo un corollario, uno strumento, uno specchio per l’io, si è già fuori dalla ricerca dell’essenziale. L’essenziale è ciò che oltrepassa l’io, ci apre oltre noi, non amplifica l’ego.
La religione col suo senso del divino è da sempre il luogo di proiezione e di protezione; ossia il punto in cui oltrepassare se stessi, proiettarsi oltre noi, fino a proiettarsi nei cieli, e insieme trovare protezione ai nostri limiti, alla nostra mortalità, alla nostra precarietà. Possiamo spingerci a riconoscere o prevedere il tramonto di una religione, la fine di una civiltà legata a quella fede, ma non possiamo pensare l’umanità senza quel bisogno innato di proiezione e di protezione. Se ciò accade vuol dire che ha trovato surrogati per sostituire quel duplice bisogno e camuffarlo sotto altre vesti. Oppure ha smesso di essere umana, cioè libera, pensante, protesa verso il destino.
In ogni caso, se cerchi l’essenziale devi sporgerti oltre l’io, concepire l’essere come una casa più grande in cui sei compreso, di cui non sei padrone.
Certo, la ricerca dell’essenziale non può risolversi in un bel meeting, in qualche dialogo e in qualche predica, come non può semplicemente esaurirsi in uno scritto, una riflessione intellettuale o una dichiarazione solitaria. Ma quando una società perde l’orientamento, quando non sa più riconoscere l’alto e il basso, il vicino e il lontano, il prioritario e il secondario, quando non sa distinguere il bene e il male, o usa al contrario le parole rispetto alla realtà e chiama pace la guerra, inclusione l’esclusione, libertà l’intolleranza, sviluppo il degrado, emancipazione l’imbestiamento, è necessario che si avvii da tutte le postazioni possibili, a tutti i livelli, una chiamata alla realtà, alla vita vera, alla nascita e alla morte, e alla missione reale e ideale della nostra vita.
E se la politica, la società, il pensiero non si curano di questa domanda, può essere una ragione per non curarsi del potere politico, sociale e culturale, ma non è un buon motivo per abbandonare la ricerca dell’essenziale; che diventa, proprio per quella latitanza, più essenziale che mai.

Marcello Veneziani  

Bruno Martino ha cantato la malinconia di chi non riesce mai a sentirsi all’altezza dell’estate…

“Odio l’estate” non è il manifesto degli hater delle vacanze ma la canzone di chi non può fare a meno di sentirsi inadeguato a una stagione troppo bella, vitale e spensierata.

Parlare ancora di “Estate” di Bruno Martino (rititolata così dopo che Lelio Luttazzi la parodiò in tv con “Odio le statue”, ma meglio riconoscibile col suo primo titolo: “Odio l’estate”) potrebbe sembrare il solito strale antipatico del guastafeste che si oppone alla stagione più amata dalle masse. Non è così semplice, per vari motivi. Il primo è che la tristezza estiva non è una posa dei bastiancontrari su X, ma un sentimento antichissimo che il poeta Alceo, vissuto a Lesbo nel VII secolo a.C., descriveva con queste parole: «Bagna i polmoni nel vino […] La stagione è opprimente, assetato è tutto […] È in fiore il cardo: ed ora le donne son più lascive, molli son gli uomini, giacché Sirio il capo e le ginocchia inaridisce».

Il fastidio per l’estate – per il cattivo accordo dei propri moti interiori con la luce e il calore opprimente – risale a molto prima che i motori dell’aria condizionata venissero a turbare le notti dei palazzi urbani e la brutta musica quelle degli alberghi a mare; a ben prima che il Summer blues – la variante estiva della depressione meteoropatica – venisse codificata con la stessa dignità degli istinti suicidi nei Paesi nordici d’inverno. La seconda ragione per cui “Estate” non è una banale scelta da Sad girl è che Bruno Martino (e il paroliere Bruno Brighetti) non odiavano davvero l’estate; infatti, pur morendo di dolore e invocando la neve a coprire tutte le cose, il risultato era una specie di ode (ok, malinconica) alla stagione. Prova ne sia che le versioni inglesi o brasiliane del brano – che negli anni è stato ripresissimo, fino a diventare un canone del jazz e della bossanova – hanno solo parole elogiative per questa stagione, come se al di là del testo originario, e perfino dell’arrangiamento, stessero a significare che, alla fin fine, questa è una canzone dell’estate, sull’estate, per l’estate. Mi riferisco, per esempio, a un adattamento inglese del 1965, il quale, anziché lamentarsi di un amore trovato e perso d’estate, si augurava che l’avventura a questo giro si rivelasse solida: «This summer/ perhaps I’ll meet the one who’ll be my true love/ The one who won’t be just another new love/ Who’ll still be mine when leaves begin to fall…». Lo stesso João Gilberto, artefice della fama mondiale del brano, aveva tolto subito la parola odio dal testo, pensando che la saudade insita nella musica fosse più che bastevole. L’odio poi, oggi, è cosa ben diversa: ha a che fare col livore, è espressione gratuita e violenta di dissenso da hater. Invece Bruno Brighetti, che leggenda vuole avesse scritto il testo dopo una intossicazione da frutti di mare in un hotel di Napoli nel 1960, non era capace di vero odio. Al massimo del malumore diceva: odio l’estate perché è troppo bella. Voglio che passi solo perché io non sono felice. Perché tutti sono innamorati invece io ho mal di stomaco.

È questo il sentimento veramente condivisibile che abbiamo provato tutti – non il lamento sterile dei calorosi, dei nemici delle zanzare, dei detrattori del mare, dei workaholic: la sensazione esistenziale che il nostro cuore non stia al passo col fulgore dell’estate; che non si accordi ai colori sgargianti della frutta e dei vestiti; alla dolcezza delle carni all’ombra, ai profumi del pino e del limone. Che il nostro cuore, insomma, sia un posto troppo più freddo della spiaggia a quaranta gradi dove tutti si muovono con ostentata grazia e stolido buonumore. Se è vero che “Estate” era in netta controtendenza rispetto alla canzone leggera di un’estate italiana del boom economico, è però successo a tutti, in ogni epoca storica, di sentirsi sfasati rispetto all’obbligo morale estivo dell’innamoramento e della spensieratezza. Chi soffre lo sfasamento per l’estate non è un vero hater, sa che l’estate è calda come i baci (che ha perduto) che ha dato il suo profumo ad ogni fiore (facendoci morire di dolore) e il sole che ogni giorno ci donava adesso brucia solo con furore. La tristezza dell’estate, in definitiva, non è che il perenne desiderio di raggiungere i suoi standard. Io, personalmente, soffro di un complesso da inadeguatezza all’estate dai tempi dei miei primi compleanni agostani, che spesso, per manie di grandezza congenite, si rivelavano delle puntate di giochi senza frontiere casalinghe che coinvolgevano tutta la cittadinanza minorenne. Al momento di chiudere la porta alle spalle dell’ultimo invitato, crollavo in una crisi di nervi perché avevo atteso quel giorno sin dai primi bagliori di giugno, perché come un santo patrono portato in gloria avevo immaginato che sarei stata davvero felice, e perché quella felicità non l’avevo acchiappata nemmeno quando dalla torta era uscita una carrozza con i pony. Tutto fuori da me appariva troppo più smagliante e sorridente del mio stato d’animo, di me, delle mie possibilità emotive, dei miei più ottimistici desideri di esser come tutti.
Che la si ami o no, arriva per ciascuno il momento in cui l’estate chiede troppo alla nostra vitalità in termini di entusiasmo; arriva, cioè, il momento in cui ci ciascuno in segreto si ripete piano: tornerà un altro inverno, e il cuore un po’ di pace troverà.

Arianna Giorgia Bonazzi

 

Ordinaria quotidianità…

 

Non sono la donna dell’angolo a destra

Mi conoscono per il posto che occupo. Per loro sono la donna dell’angolo a destra. Sorridono, non sempre, però si alzano per consentire il mio passaggio. Il rispetto della differenza di età è ancora esistente. Forse è l’unico elemento in comune tra la mia e la loro generazione. La conversazione latita, anzi, è proprio assente. Per questo motivo, ripeto il mio gesto ogni mattina. Un po’ per abitudine, ma soprattutto per sfida.Alle sette e trenta, al rintocco delle campane, scendo le quattro rampe di scale del mio palazzo. L’ultimo pianerottolo costituisce la linea di demarcazione tra la vita ordinaria, quella del palazzo, e la vita straordinaria ritmata dalla musica assordante, che rimbomba dalle pareti del bar a bordo strada. La connotazione del bar è mutata. Non sono cambiati soltanto i tessuti delle tovaglie o i colori delle pareti, sono variate pure la clientela e l’atmosfera. Il gruppo consuetudinario di persone che leggevano il giornale e si fermavano per una chiacchierata è stato sostituito da un flusso variegato di clienti di corsa e pressoché silenti. Le parole sono state risucchiate da una musica continua e intensa. Io sono l’unica degli storici avventori che ancora mi ostino a frequentare il bar e alle sette e trenta mi presento all’entrata. «Buongiorno, il solito».Ripeto ogni mattina anche se so che non è necessario. Per me, però, rappresenta il filo invisibile di congiunzione, il tentativo di un legame, il richiamo di un antico scambio di parole, oggi pressoché inesistente. Il caffè scende lento e va a adagiarsi sul fondo. Il proprietario fissa la fila di persone che occupano lo spazio ristretto davanti al bancone. Sporge il mento in avanti e due ragazze depositano alcune monete sul recipiente. Non salutano lui, né parlano tra di loro. Hanno le cuffie alle orecchie e mi chiedo se ascoltino la musica assordante all’interno del bar o riescano a udire altre canzoni. Lui resta immobile. Io invece mi sposto di lato per far transitare le due ragazze, che a capo chino e con lo sguardo occupato dal bagliore del cellulare, mi affiancano ed escono. Per loro rappresento soltanto un ostacolo che si è spostato in tempo lungo il loro cammino. Il resto delle persone di fronte al bancone attende nel silenzio rumoroso della musica che rimbomba nei pochi metri quadrati del locale. Solo una ragazza si distingue rispetto al resto del gruppo: ondeggia sul posto, batte le mani e fa un giro su se stessa. Mi fissa nel momento esatto in cui si blocca sul posto. Le sorrido. E la ragazza pronuncia un buongiorno stentato, che decifro dal movimento delle sue labbra. Continuo a sorriderle. È per attimi come questi che sono qua, perché mi piace lo scambio e il confronto. Marco, il proprietario, deposita il mio cappuccino sopra l’ultima parte del bancone. Come per distanziarmi dal resto della clientela, per lo più studentesca e giovane. Lui alza un muro che io non desidero. «Grazie.» Dico a voce alta sopra la musica rompendo l’assenza di voci nel tentativo di attirare l’attenzione, ma non ascolto nessuna reazione, neppure una levata di sguardi. Sono presenze assenti. Mi incammino lenta all’esterno con la tazza stretta nella mano. La musica si disperde e allenta la sua intensità. La pedana è occupata per metà. Alcuni ragazzi stazionano in piedi e con le dita scorrono veloci sullo schermo del cellulare. Altri sono appoggiati alla balaustra, la sigaretta elettronica posizionata tra le labbra. Quelli seduti hanno le cuffie alle orecchie e il computer aperto davanti agli occhi. Forse studiano. Non parlano. Non con me, ma neppure tra di loro. «Grazie». Dico ai primi che si spostano. Ripeto «grazie» anche ai due che con fatica si mettono di lato. Dico ancora un «grazie» alle cinque ragazze che si sono assiepate intorno a un tavolo lasciando libero quello in fondo a destra. Il mio. Mi siedo appoggiando le scapole alla spalliera e li osservo.  Il cappuccino si raffredda, ma non importa. È una scusa per prendere posto ogni mattina lì fuori. Non lo bevo. Il latte mi congestiona l’intestino. Ma non credo che nessuno nell’onda di persone che attraversa il bar se ne sia mai accorto. Sono trasparente, anche se non lo accetto. Non accetto soprattutto che la mia trasparenza assuma nuovamente un contorno solo attraverso l’occupazione di un posto. È per questo che la mia sfida quotidiana continua. Attendo lo spazio di un dialogo. Di un frammento di conversazione. Di uno scambio che abbia il sapore della conoscenza. Di poter dire come mi chiamo e che non sono solo la donna dell’angolo a destra.

Melissa Turchi

656x492 Illustrazione Futura - Irene Alessandrino - Melissa Turchi-klEG-U3480500271364ZXF-656x492@Corriere-Web-Sezioni

illustrazione di Irene Alessandrino

Melissa Turchi è in libreria con «Parole in grammi», Morellini Editore

Le regine d’agosto: mosche, zanzare e cicale …

 

 

Nel silenzio immobile della canicola, ronza sovrano un moscone.  Protagonista assoluta della controra, la mosca è la sola che si fa sentire nell’inerzia pomeridiana e mostra a quell’ora una vitalità sconosciuta a uomini e bestie, accasciati dal caldo. Desta speciale invidia la sua totale libertà negata a ogni altro essere vivente. Le senti ronzare nelle stanze dei morti, nel silenzio tombale o celestiale dei pomeriggi estivi, sprezzanti del calore e del cordoglio; le sentivi violare, con sfrontata irriverenza, il sacro silenzio dell’eucaristia, nelle chiese accaldate d’estate, quando neanche i ventagli accennavano un rumore; le sentivi esibirsi nei momenti di massimo silenzio in scuole e caserme, quando non doveva volare una mosca ma lei se ne fotteva. Ai pranzi solenni violano il cibo e le cerimonie. La sublime libertà della mosca, la sacrilega noncuranza del suo ronzare, la divina strafottenza dei suoi giri…
Ora c’è la demuscazione ma l’arma chimica per combattere le mosche un tempo era il flit, l’arma bianca era invece il picchietto. La prima volta che apparve su un giornale un mio lavoro non avevo quattro anni: era il corpo di una mosca schiacciato col picchietto sulla pagina di un quotidiano. Fui incaricato da mia madre di uccidere le mosche in cucina. Non solo per disinfestazione ambientale ma per tenermi impegnato, perché all’epoca ero nullafacente. Lei sosteneva che “le mosche sono giornaliste” nel senso che amano posarsi sui giornali, forse attirate dall’odore dell’inchiostro, e allora stendeva sulla tavola lenzuolate di quotidiani per attirarle nel gioco fatale. Era il tempo in cui la stampa aveva ancora un ruolo importante. L’informazione come esca, la lettura come alibi. Ed io, armato di picchietto con retina in plastica gialla e manico di metallo, provvedevo a sterminarle. Fu il mio primo incarico per un giornale. La prima cosa mia che apparve su un quotidiano fu una mosca schiacciata. L’esordio precoce nell’attività giornalistica cominciò dunque con una stroncatura, firmando mosconi in cronaca nera; ma da killer e non da semplice cronista. Non si conoscevano le generalità della vittima, ma il corpo era sbattuto in prima pagina.

La sottile punizione dell’estate è la zanzara. Le senti spuntare all’imbrunire, cerchi riparo, ogni casa ormai fronteggia l’importuna creatura, dotandosi di zanzariere; a nessun altro animale è dedicata così speciale attenzione. Ma la pungente molestatrice d’agosto riesce a infilarsi nell’attimo fuggente in cui passiamo della porta; entra da fessure impreviste, e mette a rischio la notte. Di guerre domestiche alle zanzare sono piene le notti insonni d’estate. Si vorrebbe capire la loro funzione nel creato, qualcuno rispolvera antichi testi di teologici per dirci che servono per mettere alla prova l’umana pazienza. Ma non possiamo pensare che la loro vita sia in funzione della nostra. Pungono per proprio piacere e godere, per nutrirsi e bere alla spina, e non perché assumono una funzione educativa nei confronti dell’uomo. Non c’è animalista, tuttavia, che non avverta un senso di sollievo davanti a un corpo di zanzara spiaccicato, e persino a una strage di zanzare. I diritti degli animali non si estendono agli insetti, si è indulgenti pure con l’orso e col lupo nonostante mettano a repentaglio la vita umana; ma con la zanzara non c’è indulgenza, neanche un filo di pietà. Sterminio, o arma letale: aria condizionata a palla.

Ogni estate ha la sua canzone regina, ma in ogni estate non finisce mai il refrain della cicala, vera colonna sonora d’ogni agosto. I suoi concerti sono gratuiti e non richiesti, inesorabili, a vasta diffusione. Vivono poco le cicale, ma il loro frinire non finisce con la vita di un singolo insetto; l’una riprende il canto dell’altra, la loro vita è corale: tante singole brevità formano un’eternità collettiva. La cicala canta l’agosto rimando i diurni silenzi nel ventre sopito di una campagna, nell’afosa quiete d’agosto. Pensieri e parole s’arrendono, come asciugate dal caldo e cedono il posto al suo ritmo infinito. La nascosta regina delle calure dissolve le voci, cattura gli uditi, nei suoi lunghi, frenetici monologhi, di rado interrotti da magiche intermittenze. Il suo canto d’agosto scioglie gl’istanti, nell’incessante monotonia sonora, che scorre e si placa, e ancora riprende, uguale, vana e soave, incurante del tempo. Eterni ritorni racconta la sua effimera vita. Da sempre, dai tempi delle favole, si oppone la vanità estetica del suo frinire all’operosità etica della formica, lavoratrice indefessa, che trasporta pesi più grandi di lei. Eppure breve è la vita di entrambi, l’una terrestre, l’altra nascosta tra le fronde degli alberi. Da Esopo a La Fontaine, da Trilussa a Rodari, si è inventata la lotta di classe tra le parassitarie cicale e le lavoratrici formiche; eppure non sappiamo se la cicala sia privilegiata dalla sorte o sia condannata a frinire come in una pena infernale. Le formiche sono laboriose, “un popolo di formiche” furono definiti da Tommaso Fiore i fatigatori della terra, i cafoni delle campagne pugliesi. La cicala, insieme al suo più sobrio parente, il grillo, sono invece considerati i gagà nullafacenti della natura, che si perdono nel dire mentre le formiche si ammazzano nel fare. Sono smartphone della natura perennemente in linea. Cicale sono chiamate le persone che parlano a dirotto; e cicale sono definite le persone inconcludenti dalla vita oziosa, dissipata nel loro infinito ciarlare. Mosche, zanzare e cicale sono le vere regine d’agosto. Noi umani siamo solo comparse di passaggio.

 Marcello Veneziani          

Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso.

Dobbiamo fare di tutto per dimostrare la massima gratitudine. Questo è un bene nostro, allo stesso modo che la giustizia non riguarda gli altri, come comunemente si crede: gran parte ricade su se stessa. Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso. E non lo dico perché chi è stato aiutato vuole aiutare, chi è stato difeso vuole proteggere e perché il buon esempio ritorna sulla persona che lo ha dato, (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori, e se uno con le sue azioni ha insegnato che si può offendere, non trova commiserazione quando viene a sua volta offeso); ma lo dico perché ogni virtù trova in se stessa la sua ricompensa. Non la si esercita in vista di un premio: il guadagno di un’azione virtuosa consiste nell’averla compiuta.  Dimostro gratitudine non perché un altro spronato dal mio precedente esempio mi aiuti più volentieri, ma per compiere un’azione dolcissima e bellissima; sono grato non perché mi conviene, ma perché mi piace. Per renderti conto che le cose stanno così, sappi che se potrò dimostrare la mia gratitudine solo sembrando ingrato, se potrò ricambiare un favore solo sotto l’apparenza di un’offesa, con la massima tranquillità realizzerò questo giusto proposito anche a prezzo dell’onore. Nessuno, secondo me, tiene in maggior conto la virtù, nessuno le è più devoto di chi rovina la propria reputazione di uomo onesto per non tradire la propria coscienza.  Perciò come ho già detto, il dimostrare gratitudine è un bene maggiore per te che per il tuo prossimo; a lui càpita un fatto comune, di tutti i giorni, riavere quello che ha dato, a te un fatto importante, generato da uno stato d’animo di intensa felicità, aver dimostrato gratitudine. Se la malvagità rende infelici e la virtù felici, e l’essere riconoscenti è una virtù, hai dato una cosa comune e ne hai ottenuta una di valore inestimabile, la coscienza della gratitudine, che nasce solo in un animo straordinario e fortunato.

Seneca__Lettere a Lucilio___ I secolo d.C.

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