Riversong…lento, andante con moto, lento, allegro ..e così viaaaaaaaaaaaaaaaa

 

Riversong

Io vado al fiume,
anche col freddo del mattino,
quasi sempre come l’airone
caccia alle secche.
Nella quiete
del mio respiro lento,
giungono roche
le note del fiume —
il rumore smorzato
di ciottoli spazzati
lentamente al suono
di un dolce gorgoglio d’acqua.
Come un lampo brilla al sole
una lamina d’acciaio,
arrotonda un masso
un filo d’argento
a risalire
misura per misura-
Non c’è alcun vuoto
dove un fiume canta
la canzone dell’eterno
scorrere di un attimo
di  piccola felicità-

gb

fiume

Tutto cambia, attimo dopo attimo…

 

La Luna Non Si Ripete

Non si ripete due volte la luna, né il fiume.
Due volte non si ripete il tuo sguardo,
né il pane si moltiplica benché esclami
mille scongiuri, innalzi altari,
appoggi una pietra sull’altra,
affini la gola
o strappi le radici del tuo ultimo morto.
Potrai metterti in ginocchio
su ciottoli,
sotto il sole o sulla sabbia
dal luogo dove vedesti la prima volta il giorno
fino al punto esatto
del primo ed unico miracolo.
Ma non vedrai due volte la stessa alba.
Nulla torna. Nemmeno tu sei lo stesso.
Soltanto il tuo canto si ripete,
lo ascolterò sempre nelle mie orecchie,
ricordandomi due volte
che il luogo da dove una volta sola te ne andasti
è lo stesso dal quale nemmeno una volta
tornerai.

Mori Ponsowy  ___  da “Quanto tempo un giorno”

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La guerra sessuale contro Madre Natura…

 

Proviamo a leggere la questione della maternità surrogata da un altro punto di vista, come una riflessione sulla commedia umana e i suoi paradossi. C’è una sparuta minoranza che cerca di avere un figlio anche se non può averlo: coppie omosessuali, donne single o in età avanzata, coppie eterosessuali con problemi di sterilità. E c’è una maggioranza che un figlio potrebbe averlo ma non lo vuole; perché sarebbe una rinuncia alla libertà, al lavoro, alla pienezza della vita, al benessere. Sullo sfondo c’è un modello culturale senza precedenti nella storia umana che penalizza l’idea di maternità, fertilità, fecondità, procreazione; che elogia l’autorealizzazione, incompatibile con la gravidanza, la nascita e la cura di un figlio. E invece esalta e agevola chiunque desideri una maternità pur non essendo nelle condizioni di averla, in particolare se omosessuali, prima che coppie “sterili”, single o anziani.

Cosa accomuna chi rifiuta la maternità pur avendo la possibilità di procreare e chi desidera la maternità pur non essendo nelle condizioni di procreare? Il rifiuto del limite, che è il rifiuto della natura e dei suoi confini. Una gravidanza indesiderata pone limiti alla mia libertà e alla mia esistenza, quindi la respingo, fino all’aborto; così, all’opposto, una gravidanza impossibile, ad esempio tra coppie dello stesso sesso, pone limiti al mio desiderio; quindi cerco di aggirarla, fino all’utero in affitto.

Così accade il paradosso di una società che rifiuta i figli eccetto coloro che non possono averli. Un paradosso che fa il paio con un altro: il rigetto del matrimonio e della famiglia, nel nome di relazioni libere e convivenze senza vincoli nuziali; salvo per le coppie omosessuali di cui invece si pretende la codificazione in matrimonio.

Ora, distinguiamo due piani. Uno soggettivo e particolare, e l’altro sociale e generale. Sul piano soggettivo, conosciamo tutti persone e coppie che rientrano in quei differenti travagli: chi rigetta i figli perché complicherebbero la loro vita, chi rigetta i matrimoni perché incompatibili con la loro vita fluida e magari nomade, chi vorrebbe avere o ha avuto figli con maternità surrogata, siano essi omosessuali o single. Di ognuno conosciamo e rispettiamo la storia, conosciamo le sofferenze e le difficoltà, non ci permettiamo di ergerci a giudici, hanno tutta la nostra comprensione.

Poi, però, guardiamo alla società, vediamo cosa resta della vita, del mondo. La famiglia vista come un male assoluto, soprattutto se legata a un aggettivo che evoca legami e continuità, come famiglia naturale o tradizionale. La sostituzione delle identità con la fluidità dei soggetti e dei loro desideri; lo spostamento assoluto del baricentro dal noi, dalla natura, dall’identità all’io, alla volontà soggettiva, al desiderio. La sostituzione della persona – che ha un’identità, un volto, una storia, un’eredità – con l’individuo, che è neutro e asettico, anzi è ciò che vuole essere, rigetta ogni limite.

Le singole storie meritano rispetto e affetto, ma il risultato che ne sortisce da questo modello di società è la fine della comunità, e alla lunga della società stessa, della civiltà, dell’umanità; è l’avvento del transumano. L’umanità è una corda tesa tra la natura e la cultura, esiste finché c’è una dialettica tra la libertà e la responsabilità, le scelte e le rinunce, i diritti e i doveri, il desiderio e il destino. Le facoltà e i limiti. Nel momento in cui salta uno dei due termini, l’umanità finisce e si perde nell’infinito. Stiamo sognando un’umanità senza limiti, senza doveri, senza spirito di rinuncia, dunque un’umanità senza umanità. E’ la fine della civiltà, il punto di non ritorno dell’umanità, la sostituzione di ogni prospettiva comunitaria – da quella famigliare a quella sociale, religiosa e territoriale – con una radicale soggettivizzazione dell’esistenza. Io sono ciò che voglio essere, la realtà non vale; prevale il mio desiderio. Voglio un figlio ma senza una famiglia; al più un libero e fluido consorzio tra un Io e un altro Io, con la fabbricazione, anche a pagamento, di un terzo Io. Tre singoli senza il contesto storico, affettivo, radicato della famiglia. Tre volontà singole e illimitate senza identità, legami, eredità.

L’argomento principale in difesa di questo modello è sempre uno: niente ti impedisce di vivere con i tuoi canoni tradizionali e naturali, ma lascia agli altri la possibilità di vivere come meglio credono. Il discorso varrebbe se la società fosse solo un arcipelago di solitudini radicali, un occasionale e superficiale consorzio di soggetti autonomi e atomizzati. Esistiamo come target, come audience, come utenti, fruitori; ma non come popolo, comunità, nazione, civiltà. La società è finita, restano individui infiniti. Che non potendo essere realmente infiniti sono in realtà non-finiti, abbozzati, abortiti, indefiniti.

È permesso dire che una società deve invece avere una sfera privata di libertà personali ma anche una sfera pubblica in cui valgono principi e criteri superiori a quelli puramente individuali? E’ permesso dire che se fai una scelta di vita poi non puoi pretendere scorciatoie e salvacondotti per godere dei risultati di altre vite? Ogni scelta comporta una rinuncia. Sei libero di vivere, ad esempio, la tua omosessualità ma non pretendere di avere dei figli noleggiando altrui maternità, usando uteri come bancomat di figli delivery, grembi come bucce, gusci o container, asserviti ai propri desideri, concessi solo a chi può permetterseli. Non puoi subordinare ai tuoi desideri la vita di un’altra persona, privandola di un padre e una madre.

Capisco il punto di vista di chi desidera i figli pur avendo fatto una scelta incompatibile con averli; ma se usciamo dal suo ambito soggettivo, quel desiderio è sfruttamento, abuso, depredazione. Ci sono due modi per disumanizzarci: se perdiamo la libertà, con le sue scelte, o se cancelliamo la natura, con i suoi limiti. Non siamo angeli né bestie, solo umani. E chi si pretende angelo diventa bestia.

MV

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Elon Musk, come un dio laico, ha in mente la creazione di un mondo nuovo, in cui un’unica intelligenza collettiva rappresenterà l’umanità.

 

Il Brano in lettura è tratto dal libro di Fabio Chiusi “L’uomo che vuole risolvere il futuro. Critica ideologica di Elon Musk”, edito da Bollati Boringhieri (134 pagine, 12 euro)

A Elon Musk chiediamo quello che chiediamo a un dio. Salvaci, diciamo all’uomo che è stato capace di diventare il più ricco del mondo. Mostraci la Via, liberaci dal male. Perché è una notte fonda, là fuori, buia e piena di terrori. Pandemie, guerre, catastrofi climatiche, crisi sociali ed economiche: c’è un senso greve di fine, di apocalisse, di disperazione, nel mondo. E allora illuminaci, salvatore! Illumina la notte, gli diciamo, devoti e insieme attoniti, nel mistero; rischiarala con la luce della verità.

È una religione laica, quella nell’imprenditore di Tesla e SpaceX, NeuraLink e ora anche Twitter, che al sacro ha sostituito la ragione, e ai comandamenti le leggi di natura. Ma che sempre come religione si configura. Le sue verità non sono rivelate dal Verbo, ma dal metodo scientifico; le sue profezie sono probabilistiche, ma ugualmente imperscrutabili; e il suo paradiso è terrestre, ma non meno paradisiaco. Musk non moltiplica pani e pesci, e tuttavia annuncia comunque un futuro di benessere e felicità infiniti, dove miseria, malattia, scarsità, perfino il lavoro non saranno altro che ricordi di un’epoca passata di barbarie e irrazionalità; errori di un’umanità nella sua adolescenza, destinata a redimersi con la tecnologia e l’ingegno, per poi godere una lunghissima, beata maturità. A patto che si rispettino i dogmi del “muskismo”. A patto che l’umanità tutta ragioni e si comporti come una unica, enorme intelligenza collettiva intenta esclusivamente a massimizzare il bene aggregato del massimo numero di esseri umani, presenti e futuri.

Anche la fede, infatti, è richiesta. Una fede militante, che si traduce nell’obbedienza di precisi precetti morali e rivoluzionarie scelte politiche, nell’adesione a una propria teoria della storia e della conoscenza. Perché chi trasgredisce i suoi comandamenti, ammonisce l’imprenditore-dio, non mette a repentaglio soltanto il suo futuro, ma quello dell’umanità intera. Perché è ora che bisogna credere: domani potrebbe essere tardi. Una Intelligenza Artificiale superintelligente potrebbe – quasi certamente potrà, dice Musk – superare l’umano e, per errore o diletto, annientarci ora e per sempre. O forse potrebbe essere la stupidità umana a mettere fine alla storia, questa volta per davvero. Una qualche sua perversione ideologica, una qualche conseguenza del suo agire senza considerare le conseguenze di lunghissimo termine delle proprie azioni. Qualunque sia la causa, la diagnosi è certa: è ora, che c’è bisogno di salvarci. Ora che i “rischi esistenziali” minacciano la fine della civiltà umana si impone la necessità di un salvatore.

Anche la religione del muskismo ha le sue apocalissi, dunque. Solo che non recano ad alcun giudizio universale: l’universo, direbbe Musk con il suo idolo e guida Douglas Adams, ha già da sempre giudicato; è già la risposta. Tutto ciò che possiamo fare è cercare le domande giuste, porle, e tentare di meglio avvicinarci alla sua comprensione – oppure estinguerci, sparire nel silenzio di un cosmo che potrebbe essere vuoto, senza di noi, privo della “luce della coscienza” che Musk vorrebbe, con la sua vita e le sue opere, estendere il più possibile, sulla Terra e nello spazio. Siamo noi, insomma, l’apocalisse. E solo a noi spetta il compito di evitarla.

Si potrebbe obiettare che il paragone tra un dio e un uomo, per quanto ricco e potente, sia fuorviante e ideologico. Che certo, Musk con un tweet può indirizzare i mercati e stravolgere le regole del dicibile, ma i miracoli ancora non gli competono. O ancora, che la sua religione prevede una nutrita schiera di miscredenti, che tendono a dipingerlo come un Satana, più che come un Cristo dell’era dell’Intelligenza Artificiale. E che dunque se di fede si tratta è quella di una setta, al più. A parte gli iniziati, non tocca nessuno. […] Ma il culto di Musk è tutt’altro che una setta. È, al contrario, espressione di una fede più ampia e strisciante nella nostra società iper-informatizzata, di cui Musk è solo la manifestazione più nitida: quella nel soluzionismo tecnologico. Intuita come tratto caratteristico della contemporaneità dallo scienziato politico Evgeny Morozov già un decennio fa, consiste in una incrollabile fede nel potere salvifico della tecnologia, e più di preciso nella capacità della scienza e della tecnica di risolvere da sé problemi sociali, politici, economici complessi.

Non importa quanto le sfide poste dalla realtà siano imbevute di storia, discriminazione, violenza. Importa la loro riduzione a risposta computabile, quantificabile, algoritmica. Quello che importa, insomma, è la loro riduzione scientifico-matematica, il loro essere sostanzialmente problemi di calcolo, di efficienza. Musk è elevato a rango di divinità perché incarna meglio di ogni altro questo mito soluzionista, che sta al fondamento dell’innovazione secondo Silicon Valley e insieme della nostra stessa idea di progresso. Perché gli ha dato un volto irriverente e affascinante. E perché, contrariamente alla maggioranza dei soluzionisti, qualche soluzione l’ha prodotta davvero.

Copyright 2023 Bollati Boringhieri editore

 

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La fabrique du crétin_di Jean Paul Brighelli. Un saggio , un vademecum di salvezza per tutti coloro che non vogliono l’omologazione di stato.

 

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Jean Paul Brighelli, in questo saggio ci parla del cretino, non nel senso dispregiativo ,usato per secoli ad indicare lo scemo del villaggio, colui al quale mancavano due rotelle, ignorante, portatore di quella allegria incosciente, che divertiva coloro i quali ,avendo magari anche solo due o tre anni di scuola elementare si sentivano totalmente superiori al poveretto. Ci parla della volontà politica di impoverire la scuola di tutto quello che ,fino ad un trentennio addietro, era la base della cultura di una persona, che venisse poi più o meno approfondita. Oggi lo scopo della scuola è quello di dare agli studenti una formazione professionale approfondita nell’uso , nello sviluppo e nell’applicazione delle moderne tecnologie, creare quei professionisti di cui l’età moderna abbisogna, tralasciando tutto quel contorno che faceva l’uomo di cultura. Il civis  novus  non ne ha bisogno, ci pensa e ci penserà la politica a riempire il cervello del cittadino di discorsi e dialoghi politicamente corretti e in linea sempre col potere dominante. E’ un saggio di grande ed unico interesse, uno dei tanti, che , in ogni paese stanno proliferando colla speranza di arrivare in tempo a fermare tutto questo disastro.

 

Uomo o donna, quercia o muschio, cerchiamo di vivere felici del nostro essere.

 

In Inghilterra esiste un bosco davvero affascinante. Si tratta di un’antica area boschiva alle pendici del Dart West River, nella località di Dartmoor. Si estende su soli 8 ettari di terreno e rappresenta un bosco isolato, ciò che rimane di un’antica foresta che un tempo copriva un’area molto vasta.Gli alberi di questo bosco sono molto antichi eppure non lo dimostrano, forse a causa di una particolare combinazione di clima e terreno. I rami si intrecciano in forme fantastiche e si stagliano su un meraviglioso tappeto di muschio verde brillante. In questo bosco troviamo querce alte più di 7 metri e i loro rami intrecciati lo rendono quasi inaccessibile. Così gli alberi si riparano dalla distruzione che potrebbero causare sia gli uomini che gli eventi climatici. Secondo le leggende, questo bosco magico esiste ancora dato che è stato protetto per secoli da druidi, fantasmi e creature soprannaturali. Secondo la tradizione popolare, il bosco di Wistman era un luogo sacro protetto dai druidi del popolo celtico durante l’Età del Ferro. Il bosco sarebbe stato difeso da cani feroci che avevano il compito di attaccare le anime perse e gli incauti viaggiatori. Nelle notti buie e nebbiose in questo bosco incantato si potrebbero udire realmente ululati di cani. Il bosco, sempre secondo le leggende, ospiterebbe delle vipere molto velenose. Una di queste vipere avrebbe ucciso un cane chiamato Jumbo che di tanto in tanto apparirebbe ancora nel bosco come un fantasma.

bosco

 

Qualche volta noi pensiamo di sbagliare a causa di inutili confronti- Come il muschio si tormenta col fatto che vorrebbe essere alto come una quercia, allo stesso tempo una quercia sogna di essere come il muschio, mai preso d’assalto da uno stormo di uccelli. Il modo in cui ognuno cresce è solo suo. Non c’è alcun bisogno di guardare com’è la vita degli altri. Lo stesso vale per il successo, lo stesso per la felicità- Siamo muschio. Siamo una quercia. Una felce. Un pettirosso. Una stella marina.
Facciamo in modo che il nostro abituale modo di vivere sia corretto e meriti sempre rispetto.

Una pittrice un po’speciale…

 

Tamara de Lempicka è stata una pittrice polacca dallo stile Art Déco, nata a Varsavia il 16 maggio 1898.
Dopo la morte del padre, Tamara trascorre qualche anno con la nonna Clementine e insieme a lei compie il primo importantissimo viaggio in Italia, nel 1907, per poi trasferirsi a San Pietroburgo.
Nella città russa conosce e sposa un giovane avvocato, Tadeusz Lempicki, dal quale deriva il suo nome d’arte e con il quale si traferisce a Parigi nel 1918. Nella Ville Lumière Tamara frequenta l’Académie de la Grande Chaumière e nel 1922 espone per la prima volta al Salon d’Automne.

Tamara scrisse di se stessa:”Sono stata la prima donna a dipingere in maniera chiara e pulita: questo è il segreto del mio successo. Un mio quadro può essere subito riconosciuto tra altri cento…Il mio stile attirava subito l’attenzione: era chiaro, era perfetto.”
Ho incrociato questa sua opera, che non avevo mai visto e mi ha ispirato a parlare di lei.

tamara de Lempika, la domeuse1930

Tamara de Lempika__La dormeuse (1930)

Nel 1925 ottiene i primi riconoscimenti a Parigi trasformandosi in una delle icone della pittura femminile.

Tamara de Lempicka si ispira alle rotondità e le tonalità tipiche di Ingres e al post-cubismo del suo maestro Andrè Lhote. La pittrice dipinge la plasticità dei corpi creando una luce artificiale con ombre decise di influenza cubista e un gusto Art Déco riletto in chiave personale. Tamara dipige con pennellate piatte e compatte, utilizza colori accesi graduati per creare linee pure e definite. Le sue opere sono dense di erotismo e provocazione. Le donne di Tamara sono nuove veneri moderne, borghesi e altezzose, hanno la pelle avorio e sono adagiate in pose sensuali, riflettendo il clima culturale e la moda del suo tempo.

Quando la stampa si sbugiarda da sola…

 

C’era una volta un mondo dove non esisteva internet, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che la socialità delle persone sarebbe tanto cambiata per scomparire quasi completamente. I social non esistevano, la gente non era abituata ad avere sempre notizie di prima mano, poichè pochi compravano i giornali, non tutti avevano un apparecchio radio e pochissimi la televisione, che fece la sua commparsa nella metà degli anni cinquanta. I bar, le caffetterie, le piazze erano i luoghi di aggregazione. Tuttavia anche allora c’erano i simpatizzanti di questo o quel partito, la gente si conosceva ma i fans politici avevano un modo per distinguersi; il giornale che li rappresentava appena acquistato sotto il braccio , col titolo bene in vista. La Stampa per i moderati di centro, L’Unità, il Manifesto per quelli di sinistra, tutti per chi tendeva a distinguersi come intellettuale. Ieri la gente non litigava sui social, ieri i giornali erano sinceramente di parte, la gente leggeva poco, ma chi leggeva leggeva tutto per avere idee chiare attraverso una propaganda chiara e lampante, i proseliti li facevano i chiacchieroni nei bar e i politici nei loro uffici, dove ricevevano di tanto in tanto gli elettori e con quella mania tutta italiana di sistemare l’amico dell’amico si accapparravano voti. Oggi non so se ci siano ancora quelli che girano con Repubblica, la Stampa, il Corriere,il Giornale, Libero o la Verità sotto il braccio. Oggi abbiamo tutto online fin dalla rassegna stampa del mattino e i siti dei giornali in continuo aggiornamento. Stamattina, con grande stupore ho ascoltato un giornalista Rai aprire la sua trasmissione con un appunto che ha confermato tutta la sfiducia che nutro verso i media, giornali, web, Tv.Repubblica già aveva pubblicato commenti negativi, una specie di fallimento meloniano al consiglio Europeo, quando questo non era nemmeno cominciato. E questo giornalista è un fedelissimo di sinistra, per questo il mio stupore nel riconoscere che qualcuno si ricorda a volte che la sua dignità ha un limite e ha dato questa notizia , sottovoce, senza commenti,ma l’ha data. E non è la prima volta che succede, infatti mi sono chiesta tante volte come mai certa stampa sia talmente depositaria dell’unica verità da accettare, che diventa persino preveggente. La cosa che rattrista è che purtroppo la gente è talmente affetta da pigrizia mentale, che trova tanto comodo mangiare il cibo masticato da mamma stampa che ci vuole tanto bene, e come le mamme troppo buone fa come le gatte pietose, che crescono gattini ciechi.

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21 Marzo, inizio di Primavera, giornata dedicata alla poesia.

 

In questa poesia la donna di Neruda è un’anonima donna amata,  ed egli elogia  l’effetto positivo , la cui sola presenza nella sua vita esprime il sentimento di amore sconvolgente che ha suscitato in lui. Già nei primi versi la descrive coi segni naturali della  primavera, e parla di lei come la bella stagione.
Un apprezzamento verso l’amata che è anche una celebrazione del valore di rinascita e di vita intrinseco nella primavera stessa, con un invito diretto a “farsi primavera”, quasi un auspicio a dedicarsi all’amore, senza più paure e incertezze.
Celebri i versi finali con cui si conclude questa dolce poesia scritta dal poeta cileno Pablo Neruda: “Voglio fare con te / ciò che la primavera fa con i ciliegi“. Una dichiarazione d’amore tenera ed esplicita, che esprime la volontà di dedicare la propria vita all’amata, a “fiorire” insieme come in Primavera.

Questa poesia è la mia scelta per l’inizio della Primavera e per la giornata dei versi poetici, che si celebra oggi.

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“Giochi ogni giorno”

Giochi ogni giorno con la luce dell’universo.
Sottile visitatrice, giungi nel fiore e nell’acqua.
Sei più di questa bianca testolina che stringo
come un grappolo tra le mie mani ogni giorno.

A nessuno rassomigli da che ti amo.
Lasciami stenderti tra le ghirlande gialle.
chi scrive il tuo nome a lettere di fumo tra le stelle del sud?
Ah lascia che ricordi come eri allora, quando ancora non esistevi.

Improvvisamente il vento ulula e sbatte la mia finestra chiusa.
Il cielo è una rete colma di pesci cupi.
Qui vengono a finire i venti, tutti.
La pioggia si denuda.

Passano fuggendo gli uccelli.
Il vento. Il vento.
Io posso lottare solamente contro la forza degli uomini.
Il temporale solleva in turbine foglie oscure
e scioglie tutte le barche che iersera s’ancorarono al cielo.

Tu sei qui. Ah tu non fuggi.
Tu mi risponderai fino all’ultimo grido.
Raggomitolati al mio fianco come se avessi paura.
Tuttavia qualche volta corse un’ombra strana nei tuoi occhi.

Ora, anche ora, piccola mi rechi caprifogli,
ed hai persino i seni profumati.
Mentre il vento triste galoppa uccidendo farfalle
io ti amo, e la mia gioia morde la tua bocca di susina.

Quanto ti sarà costato abituarti a me,
alla mia anima sola e selvaggia, al mio nome che tutti allontanano.
Abbiamo visto ardere tante volte l’astro baciandoci gli occhi
e sulle nostre teste ergersi i crepuscoli in ventagli giranti.

Le mie parole piovvero su di te accarezzandoti.
Ho amato da tempo il tuo corpo di madreperla soleggiata.
Ti credo persino padrona dell’universo.
Ti porterò dalle montagne fiori allegri, copihues,
nocciole oscure, e ceste silvestri di baci.
Voglio fare con te
ciò che la primavera fa con i ciliegi.

Pablo Neruda

 

L’egemonia demenziale del nostro paese..

Ma davvero un manager di Stato deve dimettersi dal suo incarico non per incapacità, disonestà, abuso di potere ma per aver usato una citazione di Mussolini in altro contesto, non certo per farne l’apologia? Ma davvero un dipendente pubblico deve essere licenziato, secondo la Corte di Cassazione, non per incapacità, disonestà, abuso di potere, assenteismo, violenza o altro ma perché ha chiamato “lesbica” una sua collega? Ma davvero sono più delinquenti coloro che in metro non borseggiano, non derubano il prossimo, non lo aggrediscono, ma filmano e denunciano i ladri? Ma davvero merita provvedimenti disciplinari un dipendente che avverte i passeggeri dai microfoni della metro che a bordo ci sono zingari che stanno rubando? (Avrebbero dovuto dire: esponenti della cultura rom stanno tenendo corsi di redistribuzione dei redditi). Potrei andare all’infinito, dirvi di carriere onorate ma mozzate solo da una parola sconveniente, atleti di valore cancellati perché una volta hanno usato un linguaggio non conforme, o solo una parolina oggi proibita, e tanto altro. Si sono bevuti il cervello.

Non è solo un delirio ideologico questo strapotere del “correttivo” (variante moralista e punitiva del collettivo); ma diventa sanzione, discriminazione, persecuzione. Puoi avere avuto una vita esemplare, una carriera fondata su merito, fatica e capacità, puoi preoccuparti dei diritti, della libertà e della sicurezza dei cittadini; ma se dici quella parola vietata, se usi quell’espressione proibita, sei entrato come nel gioco dell’oca nella casella fatale e la fortuna come si diceva anticamente in quel gioco “‘nzerra a’porta”, chiude per sempre ogni tua aspettativa, ogni tuo diritto, ogni tuo requisito.

Poi c’è sempre un cazzullo qualunque che dice: ma non c’è nessuna egemonia culturale, è una fandonia. E’ vero, c’è un’egemonia demenziale, che è infinitamente peggio; ha perso i suoi residui caratteri culturali, tramite l’ideologia è arrivata al suo stadio peggiore, quello che mortifica l’intelligenza, il buon senso, la percezione della realtà. Ed è così pervasiva che non ti accorgi nemmeno che è una gabbia ideologica, una lente deformante.

L’altra sera avevo voglia di andare al cinema, ci andavo spesso, almeno un paio di volte a settimana. Ho visto le novità nelle sale: non c’era un film che non trattasse di quei temi obbligati del “correttivo”, film sui gender, sulla storia riscritta in chiave femminista, sulle storie omotrans, e se trattano di storia, sul nazismo e dintorni. Variante, i migranti. Perfino i film d’animazione si vanno adeguando, tra un po’ pure nei thriller ci sarà l’obbligo assoluto che la vittima sia nero, gay, trans, migrante, e l’assassinio sia il maschio bianco, fascista, etero, conservatore, sessista e omofobo. Devi sperare in qualche film asiatico, o della periferia estrema del mondo per vedere qualcosa di diverso, ma fino a un certo punto, perché se entrano nel circuito globale devono avere almeno qualche ingrediente d’obbligo nella confezione. Alla fine non sono andato al cinema. E quando l’ho scritto nei social, oltre a ricordarmi che pure le serie che si vedono a casa rispettano gli stessi ingredienti e hanno gli stessi indirizzi, molti mi hanno detto, gloriandosene, che loro al cinema non ci vanno più. Va bene, ma non c’è nessun orgoglio in questa rinuncia, è una sconfitta, una mutilazione della libertà e della cultura, un cedere a chi usa il suo potere in modo demenziale ed infame. Non si può continuamente sottrarsi, rinunciare, escludersi perché altri somministrano la loro pappa ideologico-correttiva. Ed è superfluo aggiungere, ma è doveroso farlo, che il lato b di questa situazione è la sconsolante assenza di alternative, di culture, movimenti e produzioni diverse. Il carosello è sempre a senso unico, come fu a Sanremo (egemonia demenziale, anzi monopolio coatto).

Non ne parlo più per denunciare questa egemonia e nemmeno per farne l’analisi; ma perché avverto crescente un disagio di vivere, in questo mondo, a queste condizioni. E so già che qualunque testimonianza, opera o riflessione in senso inverso non lascerà traccia, non verrà presa in considerazione, sarà prima o poi cancellata dal diario di bordo dei nostri giorni. Così il dissenso muta in defezione e la defezione in rabbia. Ma rabbia impotente, a giudicare dagli esiti di questa denuncia. Rabbia impotente, se si considera che perfino un chiaro e preciso orientamento, opposto a questo calderone, ha vinto le elezioni e governa in paese. E sai già che nulla potrà fare per cambiare le cose e almeno favorire che si affianchi una chiave opposta o diversa di lettura del mondo rispetto a quella dominante e soffocante.

Qualcuno obbietta: si vede che sta bene alla gente tutto questo, se nulla impedisce che si affermi, e così in fretta. No, signori, non è che sta bene alla gente, il problema è che da una parte c’è un potere, una mafia, una cappa e dall’altra ci sono cittadini sfusi, perduti nella loro vita di singoli, impotenti. E il martellamento è così insistente, quotidiano, ossessivo che alla fine abbozzi, accetti- sindrome di Stoccolma, rassegnazione, tortura cinese goccia a goccia, farsi andar bene tutto per sopravvivere – e alla fine magari pensi che la realtà sia davvero il contrario di quel che vedono i tuoi occhi e percepisce la tua mente. E la cancel culture applicata a tanti ambiti, che pure viene respinta da gran parte della gente, che la sente come falsa, dispotica, innaturale? Ma alla lunga è più facile cancellare che costruire o conservare, è più facile ignorare che ricordare; basta un colpo di spugna, un reset, un tasto che cancella e vince l’ignoranza unita all’amnesia. Per costruire e per salvaguardare, invece, ci vuole pazienza, coraggio, capacità e creatività di inventare – pezzo su pezzo una cultura – qualcosa che necessita di cura e di manutenzione. No, è molto più facile liberarsene, disfarsi, cancellare. Per questo confesso il disagio di vivere in un mondo del genere, senza verità.

MV