Mina, la regina in esilio.

 

Mina ha compiuto 85 anni. So che non sta bene spifferare l’età delle signore, ma Mina è una divinità, e gli anni sono solo un paravento della sua immortalità.

Come capitò a molti regnanti, inclusi i nostri Savoia, Mina è una regina in esilio, seppure volontario, ma non manca di mandare ancora messaggi canori alla nazione e al mondo intero. Solo pochi mesi fa ha donato un ennesimo suo album ai suoi devoti, Gassa d’amante. Per chi non lo sapesse, la gassa d’amante serve in barca per realizzare un’asola provvisoria con una cima, che per i non marinari è una corda, in modo da evitare che alcuni oggetti a bordo cadano in acqua. Riferimento adatto a una sirena incantatrice come lei. Tra i suoi brani c’è il bellissimo Buttalo via, con Francesco Gabbani; ma di Mina non si butta mai niente, anche se il paragone col suino è irriverente, quasi blasfemo. Poco tempo prima con un altro ragazzo che poteva essere figlio di suo figlio, Blanco, ci aveva donato un altro brano squisito, Briciolo d’allegria. Che fenomeno Mina, neanche Adriano Celentano, con cui faceva coppia sui troni canori del nostro paese, le sta più al passo.

Come dice il suo nome, Mina è un magnifico ordigno canoro: non a caso scoppiò come la guerra mondiale in Italia nella primavera del 1940. Aveva un cognome risorgimentale e insurrezionale, Mazzini, e come gli anarchici e i rivoluzionari di un tempo si è rifugiata in Svizzera, nella Lugano bella che cantavano i fuorusciti. Da almeno 65 anni canta, prima sul podio ora da latitante, in contumacia. Si perde nella notte dei tempi l’anno in cui ci rese ciechi di lei, ritirandosi dal video, ma per fortuna ci lasciò la cosa più importante, la delizia musicale per il nostro udito. Sparì più o meno quando non si fece più vedere anche Lucio Battisti, che visse vent’anni da entità invisibile, e poi morì precocemente, in scontrosa cattività. Insieme furono i Santi patroni della canzone italiana, assurti in cielo e dal cielo discesi in forma di canto. Mina ha vissuto ormai più anni nella clandestinità che in video. La visibilità rende famosi, l’invisibilità rende divini.

Quando andava in video, Mina era banalmente la voce grintosa e urlante dell’Italia nuova, figlia del boom economico; l’Italia che figliava e cresceva in ogni senso, scopriva il mare e le vacanze, andava in vespa e in cinquecento, vedeva la tv e si perdeva nella radio. La vedevi in tv ora con Walter Chiari, ora con Lelio Luttazzi, ora con Paolo Panelli, Alberto Lupo, i presentatori e i comici di una volta, i duetti canori; memorabili i suoi dialoghi con Alberto Sordi e col mitico Totò. Roba da studio uno. Poi proseguì gli studi da privatista, a casa sua. Quando la tv passò al colore, lei passò alla trasparenza, si rese invisibile. Ma accompagnò ugualmente nella sua evanescenza generazioni diverse nei viaggi d’amore, nei canti e soprattutto nei disincanti, perché le sue canzoni narravano di amori finiti, svaniti, quantomeno tormentati.

Devoto frequentatore del suo Minareto musicale, solo una volta, tanti anni fa, insinuai una malignità sul suo conto di cui mi pento ancora. In quel tempo, erano gli ultimi anni del millennio scorso, Mina scriveva una rubrica adorabile di varia umanità e io dubitai che fosse farina del suo sacco e lo scrissi su un settimanale che dirigevo. Lei mi mandò una deliziosa lettera in cui riuscì quasi a convincermi che era una scrittrice traviata dalla musica; forse perfino una filosofa, che aveva ripiegato sulla canzone. A quali gloriosi risarcimenti porta talvolta la vita… “Caro Marcello Bello – mi scrisse allora Mina chiamandomi con lo pseudonimo che usavo nella rubrica satirica – la mia mamma adorata sostiene, fin da quando io ero piccola, che scrivo bene. Ora tu mi confermi che ha ragione. Sì, perché il fatto che tu pensi che i miei pezzi li scriva il direttore è per me un complimento talmente grande che mai mi sarei sognata di meritare. Tu dici che sono una grande cantante perché ho l’ugola d’oro. Invece è perché ho un cervello fenomenale … E anch’io te lo dico con ammirazione e non con perfidia, ma soprattutto te lo dico perché il tuo pezzo (molto carino, se avessi un giornale ti vorrei con me) mi ha messo una grande voglia di scherzare”. E così continuava, tra carezze e coltellate… Sto ancora aspettando che Mina fondi un settimanale e mi chiami a scrivere con lei, in modo che possa anch’io vantarmi come altri noti parolieri di aver scritto per Mina.

Vidi una sola volta da bambino Mina dal vivo, cantava in un veglione, come si chiamavano allora i concerti con ballo, in un teatro al mio paese. Ma interruppe la sua esibizione perché fu insultata da alcuni cafoncelli che le rivolsero allusioni pesanti alla sua vita privata, riferendosi a vicende che agli occhi di oggi sarebbero del tutto comuni. Lei s’offese, giustamente, e piantò il palcoscenico. Patì da allora il cantus interruptus di Mina, una patologia che mi lasciò un desiderio insaziabile di lei.

In un libro dal titolo che sembrava dedicato proprio a lei, La sposa invisibile, cantai il suo passaggio dalla visibilità all’invisibilità come un passaggio al mito, allieva di Pitagora e navigante nelle sfere celesti. La consideravo iconoclasta di se stessa. L’idea di scomparire mi sembrò pure un’alternativa migliore al lifting, alle pietose cure dimagranti, alla chirurgia plastica, insomma alla vecchiaia dissimulata, per difendersi dall’oltraggio degli anni e dall’insolenza dei chili in eccesso, semplicemente sparendo alla vista. Anche perché una voce così intensa che incita all’amore non poteva provenire da una grassa e matura signora, già logorata dalla vistosità in tv, quando appariva con la testa turrita e la risata sfacciata. Mina, fece la sua scelta, tra carisma e marketing, e si dileguò.

Il minareto da cui Mina Muezzin lancia le sue canzoni, è naturalmente la sala d’incisione; talvolta ha lanciato pure messaggi pubblicitari ma, si sa, anche gli angeli mangiano fagioli, come diceva un sapiente della nostra antichità, Bud Spencer. Scorporando la sua voce, disincarnando il canto, diventò la colonna sonora delle più intime tenerezze di molte generazioni, dove l’amare sconfina in amarezza. Cantami o’ Diva. Così viviamo ancora nella civiltà minoica da lei de-cantata, anche in sua assenza, come accade alle stelle di cui arriva la luce in terra anche se nel frattempo si sono eclissate. Mina è patrimonio dell’umanità di svariate generazioni che oggi hanno dai trenta ai cento anni, e non dispiace a volte nemmeno ai ragazzini. Non a tutti, però: per anni quando mia figlia era bambina cambiava sul suo ditino le canzoni sulla mia autoradio appena sentiva la voce di Mina, per lei insopportabile, soprattutto perché piaceva a me, cioè a uno di trent’anni più vecchio di lei. Ma io ancora adesso quando sento la sua voce mi sento a casa, in paradiso. Ottantacinque primavere, mai un autunno. Un miracolo.

Marcello  Veneziani

La musica non esiste più..

L’elettronica l’ha avvelenata, il computer l’ha uccisa e l’intelligenza artificiale la seppellirà. Basterà dire all’IA: “Componi un quartetto d’archi 80% Mozart e 20% Haydn!”. Chi vorrà vivere un’autentica esperienza musicale dovrà ascoltare persone fisiche suonare vecchi brani di Mozart

Ero a un concerto a Villa Brazzale, Campodoro, Veneto, e ho sentito il futuro della musica: Mozart. Era, suonato dal valoroso Bennewitz Quartet, un quartetto per archi composto nel 1784. Durante l’Andante cantabile mi è venuto in mente Elio, l’Elio di Elio e le Storie Tese, che l’altro giorno ha detto: “La musica di oggi non è peggiore di quella di prima, la musica di oggi non esiste”. La musica è finita, l’elettronica l’ha avvelenata, il computer l’ha uccisa e ora l’intelligenza artificiale la seppellisce. Si potranno comporre, forse si compongono già, musiche di buon livello senza bisogno di compositori. Basterà il il nerd che scrive il prompt. Componi un quartetto per archi 80% Mozart e 20% Haydn! E la macchina, che ha ascoltato tutti i quartetti di Mozart e tutti i quartetti di Haydn e può smontarli e rimontarli in infiniti modi diversi, rapidamente esegue. Ovvio che presto il valore di tutta la musica post-IA si avvicinerà allo zero. Resterà il repertorio. In futuro chi vorrà vivere un’autentica esperienza musicale dovrà andare ai concerti in cui persone fisiche suonano vecchi brani di Mozart con strumenti di legno, o antichi brani di Scarlatti con canne di piombo. Diventeremo post-umani ascoltando violoncelli e organi a canne.

 

Camillo Langone

 

mozart

Uno dei tanti articoli su Sanremo festival…

Sanremo, questo è l’ombelico del nonno
La prima serata del Festival è già dimenticata, tra gag un po’ fiacche e rapper molto addomesticati. Nella noia, ci siamo ritrovati a parlare tutti delle stesse cose: zio Gerry e Jovanotti.

jovanotti-sanremo1

L’inizio, si può dire, non è ideale: Carlo Conti saluta, ricicla la stessa battuta scadente di mesi fa quando annunciò al Tg1 il suo ritorno alla conduzione («i conti tornano, e io sono tornato»), e salta subito l’audio per qualche secondo. L’errore tecnico è risolto in fretta, ma c’è poca verve. Il normalizzatore Conti, conduttore ragioniere, osa poco: ecco il ricordo di Ezio Bosso, poi quello di Fabrizio Frizzi, le battutine rompighiaccio di Gerry Scotti e Antonella Clerici, affidabili co-conduttori della prima serata, le frasi da Smemoranda sull’amicizia, i cantanti emozionati, le continue rassicurazioni: «Non vi preoccupate, andremo a letto presto». In questo panorama dimesso si prende la scena Gerry Scotti, al debutto all’Ariston. Zio Gerry rompe la scaletta, prova lo scialle di Irama, rimbrotta i più scostumati, canticchia, si fa toccare, ha una buona parola per tutti. Carlo Conti un po’ lo soffre. Quando Gerry si incarica di consegnare i fiori a Elodie, Conti sbotta con il suo Fiorello per la prima volta: «E allora fallo tu».

“Però Conti ha ritmo, sa condurre”, ci assicuravano nei giorni scorsi gli esperti di televisione. In effetti si procede di fretta, con parecchi minuti di anticipo sulle previsioni. Conti, nel pomeriggio, aveva promesso una grossa sorpresa: starà mica creando lo spazio per accogliere un super ospite? Il normalizzatore ci stupirà? Falso allarme. In mezzo alle esibizioni di Achille Lauro e Giorgia, Conti introduce sul palco una cantante israeliana e una palestinese, Noa e Mira Awad, per cantare una innocua versione trilingue di “Imagine”. Qua Conti rompe la quarta parete e annuncia con trasporto un’introduzione speciale, ricordandoci che nel mondo ci sono «tante, troppe guerre». È chiaro subito dove si va a parare: arriva l’ennesimo breve videomessaggio televisivo di pace del Papa, registrato da casa sua, circondato da una luce bianchissima. Pubblicità.

A un certo punto fra il Papa, la mamma di Cristicchi, le battute retrò di Gerry Scotti, le canzoni tutte scritte da Blanco, Abbate o Petrella e gli abbracci forzati del Fantasanremo ci si inizia un po’ a deprimere. Che noia. Si notano anche dei vuoti fra il pubblico. Per risollevare l’atmosfera arriva Jovanotti, il vero super ospite, in total look oro con i capelli leccati all’indietro. Dopo l’incidente in bici, che l’ha tenuto lontano dalle scene per un bel pezzo, è ancora più gasato del solito. Canta “L’ombelico del mondo” circondato da centomila batterie fuori dall’Ariston, poi entra nel teatro accompagnato da ballerine e un suonatore di sitar, si fa toccare dal pubblico adorante, bacia sua figlia, arriva finalmente sul palco dopo un quarto d’ora, non ha più voce ma parte lo stesso “A te” in un tripudio di telefonini accesi, il pubblico lo aiuta sul ritornello. Apoteosi, standing ovation, bentornato. Benignesco, si concede alle domande. «Chi era quel suonatore di sitar che ti ha accompagnato?» E Jova: «Non lo so, ma ha un nome indiano». Jovanotti, mattatore, chiama sul palco anche Tamberi, forse in sostituzione di Sinner, e gli fa annunciare la partecipazione alle prossime Olimpiadi estive. Ci si rivede in spiaggia.

In questa gazzarra nazional-popolare, si conferma una tendenza: l’addomesticamento dei rapper, accorsi di nuovo in massa a questo Sanremo, però quasi tutti con esibizioni innocue e canzoni pop, anche quelli che sembravano ingestibili come Tony Effe (che si copre pure i tatuaggi su faccia e collo). Pochissima trasgressione. Da un pezzo il Festival non è più tabù per loro, ormai nei podcast di settore alla domanda “parteciperesti a Sanremo?” rispondono tutti quanti, sempre, “con il pezzo giusto, sì”. Sono lontanissimi i tempi dell’underground, delle polemiche per l’ospitata di Eminem e la litigata dei Sottotono con Valerio Staffelli, entrambe a Sanremo 2001, edizione resa leggendaria dallo sbrocco dei Placebo. Ma anche le partecipazioni di Ghali e Dargen dell’anno scorso sembrano rivoluzionarie rispetto al clima sdolcinato di quest’anno. Analizzando le scelte di Carlo Conti, incuriosiva la quantità di rapper in gara. Svolta rap? No, si sono adeguati al contesto, forse per far contenta la mamma. Un gruppo di labradoroni mansueti con i tatuaggi da duri (coperti).

Bresh l’anno scorso era a Sanremo per fare casino agli afterparty e adesso fa il tenero cantautore erede della scuola ligure, perfetto fidanzato d’Italia; Tony Effe fino a pochi mesi fa era il crackomane più bello d’Italia, un misogino da boicottare, e ieri ha presentato una potabilissima canzonaccia romanesca; il povero Rkomi, seminudo, si fa prendere in giro da Gerry Scotti, che gli consiglia di indossare una maglietta della salute, e prova a buttarsi nel pop di denuncia sociale, con risultati deludenti; Achille Lauro ne ha fatta di strada da quando dormiva in macchina; Emis Killa si è ritirato prima della competizione per non intralciare il lavoro della magistratura; Fedez, lo si può capire, è assorbito dal suo angolo rosa, e la canzone in gara ne risente.

Insomma, non esattamente una scena di cattivoni, altro che dissing. L’unico coerente è Gue, vincitore morale. Arriva in team con Shablo, Joshua e Tormento (quest’ultimo protagonista dei tafferugli con Staffelli un quarto di secolo fa), occhiali scuri, rappa, swagga, ama la sua mamy e ‘sti money, fa le doppie, si ritrae quando Conti gli dice di venire qua. Fedele alla linea. In un’intervista di qualche giorno fa ha detto di non sentirsi in gara al Festival, sta solo facendo un favore a un amico, parteciperà nei prossimi anni se troverà una canzone giusta. «Come ho convinto Gue a venire al Festival?», ha rivelato Shablo: «Semplice, lui è il maestro della bella vita. Gli ho detto: vieni che nel weekend ti portiamo a Nizza, Montecarlo…gli abbiamo promesso le ostriche, un po’ di champagne, facile». Due ore prima di salire sul palco, Gue sponsorizzava nelle storie di Instagram il suo brand di tequila.

Ah, poi ci sarebbero le canzoni in concorso, e la loro battaglia verso platini e palazzetti. Si conferma il podio previsto alla vigilia: Giorgia, Achille Lauro e Brunori Sas, decidete voi l’ordine. Menzione speciale per Simone Cristicchi, Joan Thiele e Lucio Corsi, le loro canzoni brillano in un mare di tentativi smarmellati di tormentone. Si è fatta una certa, Achille Lauro e Fedez non si sono picchiati nel backstage, gestire l’eredità di Amadeus non è stato poi così complicato. Il trio di conduttori è ormai stanchissimo, Carlo Conti sembra quasi scocciato, accoglie sul palco un carrello con qualche fondina di trofie al pesto. Conti, Scotti e Clerici provano a distribuirle fra il pubblico, che risponde tiepidamente. La prima serata è andata, senza colpi di scena. «W le trofie», urla la Clerici, e parte la sigla di chiusura, “Tutta l’Italia”, con cassa dritta firmata Gabry Ponte.

Lorenzo Camerini__da__RIvista Studio

C’è posto per Battiato in Chiesa?

 

È bene, è giusto accogliere in chiesa eventi che esulano dalla liturgia cattolica e dalla vita cristiana? Lo chiedo nel giorno di San Francesco, il santo più amato dai laici e dai non credenti. Non mi riferisco alle chiese sconsacrate ormai aperte a eventi musicali, teatrali, culturali, mostre di ogni genere o trasformate in locande e resort per la ristorazione e l’albergo. Dico invece di chiese, cattedrali, dove si celebrano messe, eucarestia e sacramenti.
Sabato scorso sono stato a un suggestivo concerto della musica mistica di Franco Battiato nel duomo di Ibla dedicato a san Giorgio. Il concerto era nell’ambito della rassegna Oltre il sipario a cura di Vicky e Costanza Di Quattro. Canti di forte intensità spirituale, di un cantautore da me prediletto, eseguite in modo appropriato, alla presenza dell’arcivescovo di Ragusa, entusiasta, del parroco riluttante e di un vasto uditorio. Battiato non era un cattolico e un credente, la sua “mistica leggera” attinge a tradizioni esoteriche e religiose e repertori spirituali assai diversi: dall’Islam all’Induismo, da René Guénon a Georges Ivanovič Gurdjieff, dagli sciamani ai dervisci, ai Sufi, fino alle teorie della reincarnazione, come nella sua ultima canzone E torneremo ancora. In più aggiunge una venatura gnostica e l’influenza di un pensatore siciliano compiutamente e dichiaratamente ateo, “empio” e nichilista, Manlio Sgalambro, legato da forti vincoli di amicizia e di collaborazione canora con Battiato.
Il concerto di Battiato in cattedrale ha suscitato la comprensibile perplessità di qualche osservante della tradizione: si può ammettere in chiesa il canto di Giuni Russo, la cantante precocemente scomparsa che si unì in sodalizio canoro con Battiato, seguì la sua linea spirituale ed esoterica, ma poi si convertì alla fede cristiana, nel nome di Santa Teresa d’Avila e incontrò in convento la mistica cristiana. Ma Battiato resta estraneo alla fede cristiana…
Non è la prima volta che la musica leggera entra in chiesa, in cattedrale, in convento. È accaduto tante volte. Anzi, a dir la verità, è entrato ogni genere musicale: mi è capitato di sentire in chiesa o’Sole mio, e di riascoltarla in un rito nuziale nel duomo di Cuzco in Perù. Quando fu liquidato l’austero ordo missae in latino, fu come diffuso un tacito “rompete le righe”. Ricorderete le schitarrate, i capelloni, la musica pop e ogni altro genere di incontro in chiesa col mondo beat, hippie, sessantottino… Si svuotavano le chiese ma si aprivano alla musica alternativa.
Qualcuno potrà ancora obiettare che la musica leggera in fondo è innocua, non scalfisce minimamente la fede; più insidiosa è invece la spiritualità, in forma new age, esoterica, gnostica, i surrogati di religione o di altre religioni. Comprendo l’apprensione e apprezzo il rigore.
Ma non dimentichiamo che la cristianità, ai suoi albori e poi anche dopo, convisse con altri culti e altri riti, le chiese furono spesso erette su templi pagani e la sacralità precristiana dette linfa alla santità cristiana. Molti culti pagani, molte divinità furono trasfigurati nella cristianità, nelle icone, nelle devozioni e nelle leggende dei santi e della Madonna.
Se agli albori vi fu questo innesto e questa trasfusione, forse non è infondato che analoghi innesti, analoghe trasfusioni, o quantomeno incontri, aperture, vi possano essere nell’epoca del suo tramonto, o nel tempo della scristianizzazione. Certo, i pericoli ci sono, le ambiguità e i malintesi sono possibili, ma la cristianità – che vive tra ricorrenti contaminazioni col mondo secolarizzato e profano e con le esperienze odierne – può ritrarsi davanti a espressioni reali di spiritualità e di attenzione al sacro? Non si tratta di irenismo o di sincretismo, ma della capacità di confrontarsi e in una certa misura di trarre spunto, alimento e ispirazione da altre esperienze del sacro senza rinunciare alla propria. Questa mia convinzione discende dagli studi di Mircea Eliade ma anche di Frithjof Schuon che parlava dell’unità trascendente delle religioni, come Guénon: le religioni, diceva, sono come raggi di una ruota che tendono tutti verso lo stesso centro metafisico. Ciascuno percorre il raggio a lui più consono, quello in cui è nato e cresciuto, e che più rappresenta la tradizione della sua famiglia, del suo popolo, della sua civiltà, il suo lessico, la sua sensibilità. Certo, questa visione non si sposa facilmente col rigore della dottrina cristiana, con l’incontro con Gesù Cristo, “Io sono la via, la verità, la vita” (Giovanni, 14, 6). Ma la verità, spiegava Vincenzo Gioberti, filosofo e sacerdote, è un poligono, ciascuno conosce solo un lato; la verità suprema e integra la conosce solo Dio. Un modo per accettare con umiltà i propri limiti, e non ergersi a depositari esclusivi della verità, detentori di un monopolio che poi diventa prevaricazione: la verità esiste ma non ne possediamo le chiavi, piuttosto siamo abbracciati dalla verità, che ci trascende.
Anche l’esperienza musicale e spirituale di Battiato è un modo per avvicinarsi al Divino, per aprirsi all’Essere, per lodare l’Uno o l’Inviolato, come dice una sua canzone. Non è fede, dottrina, pratica religiosa, ma ci avvicina, per certi versi può preparare, comunque fa bene alla nostra anima. Lo stesso vale per i conventi che ospitano gli incontri con il poeta Franco Arminio e la sua idea del sacro “quotidiano”, “paesano”, “rupestre”.
La vera differenza tra l’ecumenismo filantropico che si è insinuato nella Chiesa dai tempi del Concilio Vaticano II e l’unità trascendente delle religioni è quella che corre tra il dissolversi orizzontale della cristianità nei precetti sociali, umanitari, cosmopoliti, etici o vagamente morali; o intraprendere la salita, il cammino in verticale, trovando conforto anche in altre esperienze religiose o spirituali.
E’ un discorso delicato, difficile, che non può essere sbrigato nell’arco di un articolo; ma importante nell’epoca dell’irreligione e della desacralizzazione.
L’avversario primario del cristianesimo non è la religione altrui ma la negazione di ogni fede e di ogni trascendenza o la loro sottomissione a un disegno predominio e di annientamento altrui nel nome di un dio, un demone o un idolo sterminatore. Detto in altre parole: il pericolo per i cristiani non è la diversa esperienza del sacro o la diversa espressione del cammino spirituale ma è il nichilismo o il fanatismo, e la mescolanza tra i due, anche travestita in “pappa del cuore”.

Marcello Veneziani   

L’anticonformismo dei vecchi ,e il cambio della guardia del punk italiano…

Si pensa che la contestazione sia un fenomeno giovanile, ma contro il confinamento ci sono rimaste la canzoni di Van Morrison e Eric Clapton: altro che Sfera Ebbasta e Achille Lauro.

morris

La pandemia ha dimostrato che gli italiani se ne fregano di chiese e musei  .Ci salveranno i vecchi leoni? Van Morrison, classe 1945, ha scritto alcune canzoni contro il confinamento: una l’ha cantata lui e si intitola appunto “No more lockdown”, un’altra, “Stand and deliver”, l’ha suonata e cantata Eric Clapton, sempre classe 1945. Chi gliel’ha fatto fare? Credo sapessero che sarebbero stati sommersi dalle critiche, com’è puntualmente avvenuto. Si noti che i due dissidenti rappresentano il gotha musicale del Regno Unito, e non solo musicale (Morrison è Sir). Fra i nostri veterani, canzoni del genere oggi chi potrebbe cantarle? Gianni Morandi? Al Bano? Non scherziamo. Forse i giovani? Comunemente si pensa che anticonformismo e contestazione siano fenomeni giovanili… Analizziamoli, questi giovani. Sfera Ebbasta,  canta: “Ho cambiato un’altra tipa mentre pensavo a te, eh, eh”. Mentre nel nuovo video di Achille Lauro si può sentire: “Questa tipa va alla grande, ma ama il glande”. No, costoro non mi sembrano interessati ai princìpi giuridici come invece Eric Clapton (“Magna Carta, Bill of Rights / The Constitution, what’s it worth?”). Non ci resta che Enrico Ruggeri.

ruggeri

Cambio della guardia per quanto riguarda il punk italiano, o il rock italiano, o come vogliamo chiamarlo. Giovanni Lindo Ferretti ha fatto salire Andrea Scanzi sul palco dei suoi concerti e io l’ho messo in pausa. Enrico Ruggeri ha pubblicato “40 vite (senza fermarmi mai)” (La nave di Teseo) e io ho ricominciato ad ascoltare i Decibel. Di Ruggeri ammiro innanzitutto la coerenza: dal ventenne bowiano al sessantenne dannunziano (cercatevi “Il volo su Vienna”, video girato giustamente al Vittoriale) c’è la costante dell’ammirazione dell’eroismo. In chiave più estetica che bellica, direi. Poi com’è noto il cantautore milanese scrisse “Il mare d’inverno” che non era punk, che non era rock, che era molto di più: un nuovo sguardo. Per la mia visione dell’Adriatico, che è il mare di entrambi, decisivo quanto le fotografie di Luigi Ghirri. Tornando al repertorio dei Decibel ho scoperto, meglio tardi che mai, intrecciarsi al filone eroico un filone esplicitamente aristocratico. Bastino i titoli: “Contessa”, “Lettere dal Duca” e “Vivo da re”, capolavoro imperituro e programma esistenziale di noi rocker monarchici. Viva il re, viva Ruggeri!

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

Morgan sia messo in condizione di non nuocere, ma non impeditegli di lavorare ….

 

Nessuno che riesca a distinguere il peccato dal peccatore. Far perdere al musicista contratti e concerti non è giustizia, è vendetta. Visto anche il numero di infervorati, somiglia a una lapidazione. Il duro mestiere del genio. Ieri Busi e Bene, oggi Morgan e Sgarbi.
Sono tutti pagani (Calcutta con quel nome magari sarà induista) e quindi non riescono a distinguere il peccato dal peccatore. Preziosissimo insegnamento di Santa Madre Chiesa. Pio XII disse che “bisogna essere risoluti contro l’errore e pieni di riguardo verso gli erranti”. Che Morgan sia un errante non ho difficoltà a crederlo, per un articolo di blanda critica mi scrisse messaggi vaneggianti per ore (quanto tempo da perdere ha quest’uomo?). Se il musicista è davvero pericoloso sia messo in condizione di non nuocere: arresti domiciliari, braccialetto elettronico, non so. Ma non gli si impedisca di lavorare. Fargli perdere contratti e concerti non è giustizia, è vendetta. Visto anche il numero di infervorati, somiglia a una lapidazione. E sono tutti senza peccato? Urge inoltre distinguere l’arte dall’artista. Qui oltre che cristiano sono proustiano: Marcel invitava a separare l’opera dalla biografia, altrimenti si riduce tutto a pettegolezzo (o linciaggio). Sid Vicious ha forse accoltellato la fidanzata ma che spettacolo la sua “My way”. Gesualdo da Venosa ha ammazzato la moglie fedifraga e il di lei amante eppure nessuno si presenta alla Decca col presuntuosissimo, prepotentissimo “O lui o io”. Battiato lo spiegò alla perfezione: “Musicista assassino della sposa / cosa importa? / scocca la sua nota / dolce come rosa”.

Camillo Langone__da __IL FOGLIO

 

morgan

Il tango…

 

La danza salvifica dell’amore

Quando ci innamoriamo si fa un dono a una intera comunità.
L’inizio di un amore è uno degli agenti purificanti più forti del nostro pianeta, dovrebbero inserire l’innamoramento tra le azioni ecosostenibili. Due anni fa mi sono iscritta a un corso di tango. Potrei dire che l’ho fatto perché mi piace ballare, può essere, anche se (a me piace ballare quando sono in casa, scalza, con la musica nelle orecchie e non mi vede nessuno) sospetto sia stato l’abbraccio. Due anni fa ero a Rio de Janeiro e ho frequentato un po’ per caso una lezione di tango. Ero l’unica allieva e l’insegnante, una signora piccolina piccolina, mi ha stretta a lei e mi ha fatto camminare avanti e indietro per tutto il tempo lungo il perimetro della sala. Ammetto che ero un po’ delusa, volevo imparare dei passi veri, mi vedevo già a volteggiare con la rosa rossa tra le labbra, ma lei ha detto o abraço (in portoghese, eravamo in Brasile), devi sentire l’abbraccio, ha detto. Aveva ragione, infatti poi di e in quell’abbraccio mi sono innamorata  .Due anni fa mi sono iscritta a un corso di tango, ancora ci vado, anche se ogni tanto mi chiedo come mai non smetto: quello del tango è uno degli ambienti più fastidiosi che abbia mai frequentato, teatrale direi, e sto usando un eufemismo. Da quando ho cominciato, in ordine sparso: ho perso un’amica, ho iniziato a mettere degli stupidi copri capezzoli e mi sono domandata più volte in quale punto delle mie scarpette fosse finito il mio presunto femminismo (nel tacco o nella punta?). Funziona che se sei giovane e molto scoperta balli tantissimo (alla faccia della non oggettificazione della donna), se sei donna di una certa età puoi anche fare tappezzeria (alla faccia del combattere il tabù dell’invecchiamento) a meno che tu non balli come Augustina Rodriguez (nome inventato per l’occasione). Per gli uomini timidi è durissima, gli uomini hanno tutto un loro sistema lì dentro: c’è chi si impettisce come un piccione e fa a gara a chi ha l’ego più grande, quelli nascosti dietro al palo, quelli al bancone del bar (beh, lì ci sono anche io in verità).
Il tango, a onor del vero mi dà anche delle cose belle, la prima è la leggerezza, mi diverto come una pazza, soprattutto quando ci sono i tanghi ritmici, viene proprio fuori tutta la mia leopardiana urgenza di giocare; la seconda è la musica, non è facile, ma piano piano impari a capirla – grazie Shazam – e ti avvolge mentre balli.  La terza cosa bella è l’abbraccio, dentro quell’abbraccio, se dato bene, c’è un tentativo di abbraccio collettivo, qualcosa di cui dovremmo fare uso più spesso, e dentro quell’abbraccio, mi sono anche innamorata. Quando ci innamoriamo si fa un dono a una intera comunità, l’inizio di un amore è uno degli agenti purificanti più forti.  L’amore si propaga su ogni cosa, si trasmette di persona in persona, di casa in casa; piccole particelle di baci si propagano per le strade, raggiungono anche i fiori, i pesci del lago nel parco, i cani e i gatti. È stato il suo fiato sul mio collo, il profumo della pelle, toccare il corpo di qualcuno che ancora non conosci, ma del quale volta dopo volta, impari a riconoscerne i segni, i rigonfiamenti e gli avvallamenti. È bello innamorarsi di un nome che ancora non sai, è come uno scrigno ancora da aprire, dove ci sono tutte le promesse intatte. Io mi sono innamorata ripetutamente a dire la verità. Credo di essermi sentita vergine, per quanto potesse farmi paura, mi sono chiesta se ero mai stata così tanto attratta da qualcuno. Forse accade a tutti, che quando ci innamoriamo diventiamo degli analfabeti, o forse è proprio il presupposto dell’amore: l’urgenza, se non il dovere, di andare sempre un po’ più in là; dover pensare a tutti i costi «questo è quello grande grande grande». Lo diceva anche Mina.  Mi sono innamorata di nuovo quando l’ho sentito parlare, non gli ho mai sentito dire cose stupide (cosa per me quasi orgasmica); e ho imparato anche io a parlare, quando ho scoperto a mia insaputa di usare così tanto il verbo scopare, quando te ne rendi conto, dopo ci sono sedute di terapia a capire come mai ti esprimi in maniera così sconnessa dalla tua età biologica. E non può essere colpa di tutte le serie che hai visto, c’è dell’altro. Si dice fare l’amore. E fare è un verbo bellissimo, fa pensare all’agire, all’adoperarsi dell’artigiano, come se l’amore non fosse davvero una bottega, dove nel retro si lavora. Poi ci sono i suoi occhi, che odio sempre un po’, perché più belli dei miei, mi costringono a fare di tutto per stare sulla terraferma e non affogarci dentro, come si affoga in quegli oceani dove non si tocca. Ma in veritas, io sono un disastro, e in quel grande grande grande mi ripiego su me stessa.  Bisognerebbe che la scuola ci insegnasse ad amare, perché tanto le famiglie non ne possono niente, allora dovrebbero scrivere dei manuali, stilare delle formule sui libri, delle linee pratiche da seguire, così almeno quelli come me saprebbero come fare le cose che non sanno fare e così, potremmo continuare purificare l’aria del nostro pianeta.

Chiara Cerri

Illustrazione  Laura   Bersellini
tango,lauraBersellini

Se la canzone riflette il male di vivere…

 

Spesso il male di vivere ho incontrato, poetava Eugenio Montale. Quel male di vivere s’insinua anche nella musica leggera, che pure esprime la voglia di leggerezza e di spensieratezza.

La canzone e il nulla. Tema vago e vagamente minaccioso. Ne abbiamo parlato l’altra sera al Festival di popsophia ad Ancona, tra una canzone e l’altra. Il tema era nientemeno “nichilismo e canzonette”. L’accostamento così stridente tra pensiero del nulla e canzonette a prima vista spiazza, induce a un effetto di straniamento. Troppo pesante il fardello del nichilismo sulle fragili spalle della musica leggera. Ma se è vero che il nichilismo è sceso dalle altezze dei filosofi solitari a fenomeno di massa e permea la vita di ogni giorno, i consumi, i linguaggi, la canzone non ne è immune. Il nichilismo intuito due secoli fa da Turgenev e Dostoevskij, Stirner e Nietzsche, poi germogliato tra gruppi, intellettuali e alta società nel secolo scorso, è diventato clima epocale di massa, e se ne fa interprete la musica leggera. Qualche anno fa il filosofo nichilista Manlio Sgalambro, amico e paroliere di Franco Battiato, scrisse una Teoria della Canzone; sostenne che la canzone non è la pappa del cuore, tutta romanticherie e fatuità, ma riflette il tema della nostra epoca, “la morte dello spirito”. La canzone dura quanto la vita di un insetto ma si replica tante volte, sostituisce l’attimo con l’eterno; e la discoteca, arriva a dire, è una palestra di nirvana in versione attuale-occidentale. Eppure è rassicurante la banalità delle canzonette, con le vecchie rime di cuore e amore, il recinto privato dei languori, la storia ridotta a vita intima. Ma per Sgalambro i corpi sputano l’anima sotto le note, si scoprono nel nulla.  Se ascoltate con attenzione alcune canzoni, per esempio Un giorno dopo l’altro di Luigi Tenco, Dio è morto, di Francesco Guccini, Voglio una vita spericolata di Vasco Rossi, o Avec le temps di Leo Ferrè, anche nella versione italiana di Patty Pravo (Col tempo sai) o Ne me quitte pas di Jacques Brel, cogliete il male di vivere, la disperazione affidata alla canzone. E Domenico Modugno de L’uomo in frac, Sergio Endrigo, Gino Paoli, Mia Martini e altri ancora, fino alla più recente “voglia di niente”della musica leggerissima di Colapesce e Dimartino “per non cadere dentro al buco nero che sta a un passo da noi”; cresce il lato d’ombra della musica leggera.  Sotto l’epidermico mondo delle canzonette, in pieno boom economico, poi in pieno impegno ideologico, ora in piena solitudine globale, scorre quel fiume carsico, il sottofondo disperato della società opulenta, oltre la frenesia di vivere e divertirsi. Tragico fu il destino di Luigi Tenco, col suo epilogo suicida; nelle sue canzoni la malinconia della vita oscilla tra la noia e il dolore, il perdersi nel tempo e il vuotarsi dei motivi per vivere che trascina nel nulla. L’epica nichilista è esaltata in Vasco Rossi, con la sua vita spericolata, piena di guai; il caos in cui annega l’esistenza tra fumi e alcol, il vivere per niente, l’istigazione a perdersi nel fiume della trasgressione. Il nichilismo assume tratti apparentemente nietzscheani e dionisiaci, che sembrano evocare il vivi pericolosamente e l’al di là del bene e del male. Quando scrissi di questo fondo nichilistico in Vasco, i suoi fan insorsero con veemenza e lui mi rispose risentito, da un verso negando il nichilismo, che aveva forse confuso con una sostanza stupefacente, e dall’altro spacciando un autoritratto di uomo dedito alla famiglia, con un quadro fiscale, sanitario e giudiziario irreprensibile (ma nessuno si era riferito a queste cose). Ma poco dopo uscì una sua canzone che era un vero manifesto del nichilismo musicale: in Dannate nuvole canta versi come “Niente dura niente”, “Quando cammino in questa valle di lacrime vedo che tutto si deve abbandonare”, “non esiste niente, solo del fumo, niente di vero”. Il vitalismo assoluto si rovescia in un nichilismo cupo, proiettato nel male di vivere senza senso. Siamo oltre Nietzsche, oltre Dioniso, oltre Sartre e gli esistenzialisti, oltre perfino la trasgressione. Altri brevi trattati di nichilismo e di male di vivere si affacciano in molte star e gruppi rock; il più famoso è Jim Morrison, ma è solo la punta di un iceberg. Facile ritrovare scampoli di nichilismo nella musica rock americana e nelle sue varianti hard o heavy e trovare riscontro in certe vite e certe morti precoci o suicide, tra droga, sesso, velocità e rock and roll. Il nichilismo rock, tra allucinazioni e perdita della realtà, insegue déi e demoni estemporanei, vite capovolte, cupio dissolvi, oscuri abissi. La canzone del male di vivere e la scoperta amara che niente ci aspetta, il nulla come destinazione, una volta reso niente il destino.  Sbiadisce il nichilismo nella musica leggera più recente, tra canzoni banali, narcisismo generazionale chiuso al mondo, fantasmi virtuali e autistici. Vivere a orecchio, sostituire il pensiero con l’emozione, la riflessione con la vibrazione, percorrendo il cammino inverso dell’illuminismo kantiano: non elevare l’uomo da mezzo a fine, ma il contrario e vivere di energie emotive, impulsi, ebbrezze aleatorie. L’uomo si fa chitarra, batteria, suono e percussione, veicolo musicale. Dietro l’amoreggiare della musica leggera, serpeggia quella perdita di senso e di scopo nel rifugio nelle pulsioni. Così le canzonette, magari senza volerlo, diventano la scuola elementare del nichilismo, di cui fornisce i primi assaggi o forse gli ultimi cascami. In realtà sono lo specchio di una società snaturata e deculturata, priva di principi, valori, eredità, legami. La musica rispecchia il suo tempo e propaga le sue ossessioni. I pensieri alti come cieli plumbei si specchiano in basso, nelle pozzanghere della quotidianità e si riflettono nella musica leggera. A dimostrazione che esiste un clima d’epoca che i filosofi chiamano Zeitgeist, che colpisce “in alto e in basso”, per dirla con Zarathustra. Nulla da obiettare a chi canta e a chi ascolta, ma i demoni dell’epoca serpeggiano pure nelle canzoni…

Marcello Veneziani       

Oggi la pioggia, una banana e la musica…

 

Oggi piove, come non pioveva da tanto. La pioggia tranquilla, pulita, regolare, direi una pioggia d’altri tempi, quella che ogni goccia smuove il terreno, scende un millimetro dopo l’altro nella terra appena inumidita dalle notti invernali, ristoro per terreni assetati, ristoro per i miei occhi, che da sempre amano queste giornate. Quando le gambe non avevano il peso degli anni erano questi i giorni in cui il tempo passava macinando chilometri, passo dopo passo sulle stradine di campagna, osservando la natura rinascere, nel silenzio appeno interrotto dal canto della pioggia. Ma oggi ho camminato il solito passeggio in giardino,e ho cercato di respirare pioggia a pieno cuore, e poi.. é lunga una giornata,e allora mi è venuta voglia di ascoltare qualche vecchio disco. Mentre cerco, spolvero i molti dischi in vinile, che non hanno regolarmente la mia attenzione. Mi capita in mano una copertina bianca, al centro una banana matura, un disco del 1967, l’esordio rock sperimentale dei Velvet Undergoud, come era chiamato allora questo genere musicale , al mio orecchio un rock gradevole, non aggressivo. Ed ecco accavallarsi ricordo su ricordo. L’occhio corre subito alla firma di Andy Warhol ,che pilotò allora la corsa all’ acquisto del long-play, forse più che per la musica, per la copertina dell’album . Con pochi soldi bella musica e l’illusione di possedere un’ opera di una celebrità dell’epoca.. questa banana firmata Andy Warhol, il pittore newyorkese famoso per le sue feste strampalate e per i famosissimi ritratti di celebrità .Che meraviglia i dischi in vinile di un tempo, riproduzioni perfette.. è vero, bastava un graffietto provocato dallo strisciare accidentale del pickup per bloccare la riproduzione sulla stessa nota, eppure , anche strisciati mi piace ancora risentirli a distanza di tanto tempo… persino la musica di allora pare suonare diversa, mi riporta agli occhi della mente ragazze coi capelli cotonati, giovani in abiti attillati, pantaloni a zampa d’elefante, le zeppe altissime.. fine anni sessanta ,era bella la vita. Si, davvero bella e felice la mia gioventù, quando tutto era perfetto, senza sbavature e il tempo sembrava dovesse passare solo per gli altri…la vita , poi , è tutta un’altra storia.

banana.jpg1

                                                  http://youtu.be/0cWzxJvgWc8

Nausea da overdose di Sanremo…

Mi dice un amico: non vedrò il festival di Sanremo per nausea, come se l’avessi già visto, con tutte le anticipazioni e i programmi dedicati da mesi. In effetti arriviamo al fatidico Festival e non lo sopportiamo più dopo cento giorni di bombardamento televisivo quotidiano. Dovevano servire a promuovere l’evento e a generare l’attesa e invece hanno creato overdose, indigestione, intolleranza, rigetto verso Sanremo e la faccia, il becco, la voce di Amadeus. Poi magari i numeri ci saranno perché è ormai un riflesso condizionato e non vuoi sentirti escluso dalla festa ufficiale della nostra Repubblica; ma l’effetto nausea c’è tutto. Non c’era telegiornale della Rai che non avesse ogni giorno tra i titoli e poi in coda, un annuncio su Sanremo, un collegamento col solito Amadeus, che evoca Fiorello. E’ stato un vero e proprio stolkeraggio quotidiano, che ha superato ogni limite di sopportabilità e di decenza promozionale. Mille interviste su Sanremo e un solo concetto, una sola parola che tutti pronunciano nelle domande come nelle risposte: emozione. Ma che noia, ma che monotonia…A me Sanremo non fa né caldo né freddo, è un programma come altri che ha una sua storia e una sua ragion d’essere. Ma quando un evento d’intrattenimento, una gara canora diventa in assoluto l’evento più citato, più evocato, più annunciato della nostra vita pubblica, persino più della giornata della memoria, vuol dire che siamo in una fase patologica e in una distorsione della realtà e delle sue priorità. Affidare a Sanremo l’identità collettiva degli italiani, la festa nazionale più lunga, più larga, più sentita, nel senso di ascoltata, dell’anno, ha qualcosa di malato, di noioso, di banale, che ci squalifica agli occhi del mondo. E riduce uno dei popoli più creativi e vivaci del mondo, a figurare come uno dei più idioti e pappagalleschi…  Sanremo è diventata l’unica tradizione ancora vigente, difesa e promossa dalla “principale azienda culturale del Paese”, dalla radiotelevisione di Stato. Una somministrazione di massa con richiami all’inverosimile, un video-stupro del nostro senso critico. Sanremo è poi il coagulo di tutti i luoghi comuni, le tendenze, a partire dalle peggiori, i vizi e le storture del paese; i soliti messaggi politically correct, il solito woke, e tutte le menate ,sfuse e profuse lungo tutti i giorni, qui si concentrano e si danno appuntamento in riviera. Il nero, il migrante, il gay, la lesbica, la femminista e il femminicidio, il pacifista, tutto il presepe si ripete ogni anno, mutano solo i dosaggi e i testimonial, secondo il vento. Nessun governo osa interferire, può star lì Conte, Draghi o la Meloni, ma Amadeus e il suo minestrone (detto anche mainstream) non si discutono. Peraltro è un presentatore come tanti altri, non più bravo e nemmeno più autorevole di altri, come fu per anni Pippo Baudo. Ma sembra che non esistano altri in grado di condurre questa kermesse; la sua voce risuona di continuo sugli schermi e nei programmi tv… Perciò capisco l’obiezione di coscienza su Sanremo, la diserzione, il servizio civile alternativo, il cambio di programma, la fuga sui monti di Netflix o di altre reti, o meglio ancora la lettura di un bel libro, un bell’ascolto di altra musica, un film, un’opera teatrale o una conversazione tra amici e famigliari.  Sanremo è il nulla in abito da sera. Al di là delle solite polemiche “esantematiche” che come il morbillo e la varicella accompagnano e guarniscono da sempre Sanremo e servono a generare curiosità e finta animazione intorno all’evento, perché una fiera così trombona  ha una platea così larga e duratura? Vero è che la metà degli spettatori vede Sanremo per disprezzarlo, e dunque l’indice d’ascolto è ben altra cosa dall’indice di gradimento; ma un fenomeno pop, trash e pulp come il Festival non può essere ignorato. In Italia un fenomeno  dicesi popolare quando i suoi numeri sono pari ai voti della Dc di un tempo: ovvero quando sono oltre i dieci milioni. Anche la Dc era disprezzata ma poi la votavano.  Non è merito del modesto presentatore o delle stupide menate sul festival inclusivo e nemmeno dei pur bravi Fiorello, Incursori o Portatrici di Messaggio. Sanremo è una formula tautologica. Si vede Sanremo perché la domenica si fa la passeggiata al corso e in piazza, e non si può essere impreparati; se ne parla al telefono, rientra nei riti domestici, civici e tribali; vediamolo, sennò di che parliamo dal bar, a cena, al telefonino? E con il Sanremo parallelo che è sui social, c’è la possibilità di rendere interattivo e critico il festival: ciascuno fa il controcanto e il controsghignazzo in tempo reale. Ed è forse la cosa più spiritosa prodotta da Sanremo, contro Sanremo.  Ho però l’impressione che Sanremo non sia più l’autobiografia della nazione, come ai tempi del regno sa-Baudo, ma l’autopsia della nazione, questo cadavere sovrappeso che ci ostiniamo a chiamare Italia. Se proviamo l’arduo esercizio dello psicofestival, per capire le molle che spingono gli italiani a “guardare Sanremo” non basterà nemmeno dire che è la coazione a ripetere, lo specchio futile del futile presente, la civetteria del pettegolezzo collettivo, il voler far parte di un racconto collettivo, la mania d’inclusione nel dire c’ero anch’io… ma c’è qualcosa in più: Sanremo è il surrogato estremo di un’identità collettiva e di una tradizione perduta e smarrita. Non andiamo più a messa, non abbiamo più vive tradizioni domestiche, cittadine, patriottiche, religiose. E allora cerchiamo in Sanremo il fantoccio rassicurante delle cose durevoli. Un placebo, una canna del gas, un gioco illusionista. E un fuoco fatuo, molto fatuo…

Marcello Veneziani