Uniti contro la Bestia…

 

 

Vedo il G7 in Puglia e mi si stringe il cuore. Non perché si faccia dalle mie parti, vicino a casa mia, ma perché vedo lì raccolto e concentrato intorno a un tavolo l’Occidente euro-atlantico, più l’ospite giapponese. E allora penso tante cose. Per mettere ordine la prendo alla lontana e parto dall’inizio: l’Europa, o meglio l’Euro-Usa, è solo una fetta del mondo, minoritaria per popolo, territorio, religione e commercio. All’interno di questo mondo che si definisce democratico, la metà del popolo sovrano non va a votare, per dissenso, disinteresse, disgusto.  Nella mezza popolazione Euro-Usa che va a votare, la maggioranza vota  A est è Putin, a Ovest è Trump, nell’Europa dell’Ovest è Le Pen, nel mezzo, almeno fino a ieri, era la Meloni più contorno di Salvini, nell’Europa dell’est è Orban e altri meno in vista (A sud-est c’è l’Ayatollah).  Ma ogni Paese ha la sua bestia interna, dalla Francia alla Spagna alla Germania, ma la bestia in questione di bestiale poi fa solo una cosa: cresce nei consensi, vince democraticamente le elezioni. Un successo bestiale. Per restare in Europa, i due presidenti più scarsi della storia di Francia e di Germania, Flic & Floc, hanno preso appena il 14 per cento dei voti della metà d’elettorato che è andato a votare; praticamente niente. Ma decidono loro le sorti dei loro paesi, dell’Europa e sono tra i grandi decisori del mondo. Schulz è di imbarazzante mediocrità, ogni cosa che fa, che dice, che esprime con lo sguardo è la vacuità, la miseria del nulla, la disgrazia del niente. Macron, invece, è di massima furbizia e minima intelligenza, ha un moralismo transgenico e intermittente, sconfinato, pari solo al suo cinismo. Sanno, i due, di non essere amati nel mondo, in Europa e soprattutto nei loro Paesi, dal loro Sovrano, il popolo francese, tedesco, europeo. Eppure stanno lì come se nulla fosse accaduto e decretano, decidono, tramano. C’è da fermare la Bestia, non possiamo scendere. In America nei confronti di Trump è in atto il più schifoso e clamoroso tradimento della democrazia, del diritto, del rispetto della libertà e della diversità di opinioni, stanno cercando di impedire di farlo candidare in tutti i modi, a colpi di sentenze, multe, colpi bassi, inguinali; mignottate, in ogni senso. L’argomento principe che motiva questa guerra preventiva per impedire l’accesso al voto è che lui porterebbe l’America fuori dalla democrazia, dai diritti, dalla libertà, dalla civiltà. E per impedire che questo avvenga sospendono la democrazia, i diritti, la libertà, la civiltà… Ma la cosa più ridicola in questa sceneggiata, è che quel signore col ciuffo alla Casa Bianca c’è già stato, abbiamo le prove di cosa succede quando va al potere; e non è successo niente di quel che oggi profetizzano in caso sciagurato di sua vittoria. Non solo, ma non ci furono guerre con lui, a differenza di chi lo precedette e di chi lo ha sostituito; non ci fu tracollo economico ma crescita e benessere; tanto è vero che quattro anni dopo, i cittadini sovrani lo rivogliono al governo. Perché la Bestia andò a casa, dopo aver perso democraticamente le precedenti elezioni (e non consideriamo l’ombra di brogli).  In Europa la Bestia è Marine Le Pen, mentre la Meloni, anche lei confermata a pieni voti al governo, sta a bagnomaria, o a bagnomarine, sotto osservazione, per vedere come si comporta, se è in o out, se si normalizza, cioè si ursulizza o si lepenizza. La Bestia in questione non ha mai compiuto nessuna bestialità, ha solo il torto grave di combattere per le sue idee da decenni; e il torto più grave di essere la più votata di Francia, più del doppio di quel che prende il giovanotto scarso e scaltro dell’Eliseo.  In Europa siamo un tantino più evoluti rispetto all’America: rilasciamo, seppure a malincuore, la patente di voto alla Bestia. Ma appena prende più voti del dovuto, revochiamo il diritto di circolazione. E se i voti sono troppi per impedire la circolazione allora imponiamo la Ztl: al centro del potere la Bestia non può accedere, sono sbarrate tutte le vie d’accesso, le alleanze, i repubblicani. L’ultimo caso è dei gollisti che da decenni sono diventati autogollisti, perché si rovinano con le loro stesse mani e anziché fare maggioranza di centro-destra e governare seppure in condominio con la Bestia, preferiscono finire in terza fila, da comparse, nel trenino di Macron.  Eppure ci sarebbe da fare un discorso semplice: se la Bestia raccoglie i voti della maggioranza del popolo sovrano non può essere più considerata bestia se non a condizione di definire bestiale il popolo sovrano e la democrazia. Quando la Bestia prende i voti che ieri erano dei gollisti, dei centristi, dei moderati, non possiamo più giudicarla come espressione di frange estremiste. C’è il vostro popolo là, non potete ignorarlo, dovete fare i conti…Nel frattempo al G7 volano stracci, aborti, follie, sanzioni e ancora soldi per Zelenskij. Ed è curiosa la rappresentazione dei fatti che viene fornita nell’EuroUsa zone, Italia inclusa, dall’informazione d’apparato: se un’incursione russa uccide nove ucraini si fa titolo sulla strage; poi passi alla Palestina e apprendi con euforia che sono stati liberati quattro ostaggi, e tutti siamo felici; piccolo particolare fatto cadere con disattenzione, nell’operazione sono stati uccisi 275 palestinesi. In Ucraina nove morti fanno, giustamente, orrore e notizia; a Gaza 274 palestinesi uccisi per liberare 4 ostaggi no, capita, normali incidenti sul lavoro. Ma in che mondo viviamo? Ma si, nel mondo, anzi nella porzione di mondo, che ritiene di essere campione dei diritti, del libero pensiero, della verità e della pace. Il mondo che si oppone alla Bestia. Siamo ridotti così male che il migliore degli ospiti della Meloni al g7 è addirittura Papa Francesco…

Marcello Veneziani                                                                                                  

Troppo forti per restare alla periferia di Bruxelles..

Può l’unico leader europeo che ha vinto le elezioni, Giorgia Meloni, mettersi all’opposizione in Europa?

I socialisti non ci stanno simpatici, anzi pensiamo che siano la causa della maggior parte delle disgrazie europee. Neppure la presidente uscente del governo europeo Ursula von der Leyen sprizza simpatia, potendo sarebbe meraviglioso, pensando alla nuova guida dell’Unione, fare a meno degli uni e dell’altra. Nonostante l’ottimo risultato delle varie destre europee, pare però che non ci siano i numeri per mettere su una maggioranza di centrodestra pilotata da quel Partito popolare che raggruppa tutti i partiti moderati (tranne quello di Macron). Questioni complicate, fatte di veti e controveti, che per spiegarle non basterebbe un giornale intero. Il tema che quindi si impone è il seguente: può l’unico leader europeo che ha vinto le elezioni,Giorgia  Meloni, mettersi all’opposizione in Europa? Può il partito italiano principale, Fratelli d’Italia, chiamarsi fuori dalla cabina di regia che deciderà le sorti dell’Europa per i prossimi decisivi e complicati cinque anni perché «noi mai più con i socialisti» o perché «Ursula non ci piace»? Non so che risposte darà a queste domande nei prossimi giorni Giorgia Meloni. Certo ha una grande responsabilità, quella di tenere l’Italia in partita a prescindere dalle appartenenze politiche dei singoli interlocutori. È nello stile della donna, che non si è chiesta se Joe Biden fosse di destra o di sinistra ma se l’America debba o no essere nostro interlocutore privilegiato e strategico; non se il presidente tunisino o quello albanese siano sinceri democratici, ma se utili alla causa italiana. Quella che sta affascinando gli italiani è una nuova destra che si è liberata dai fantasmi che ancora aleggiano nei suoi estremi, che ha superato gli slogan facili del populismo demagogico, che ha dimostrato di saper stare seduta alla pari a tavoli importanti. E allora perché non immaginare che un’operazione simile sia possibile anche in Europa, con o senza socialisti, con o senza Ursula perché i percorsi si costruiscono un passo alla volta. Chi vuole inchiodare Fratelli d’Italia al destino di tutte le destre europee indistintamente ha uno scopo preciso: togliersi dai piedi il più possibile Giorgia Meloni. Non sapendo che la donna ha uno scarso spirito decoubertiniano: l’importante non è solo partecipare, serve vincere.

 Alessandro Sallusti.

Che bello vedere ammainate le bandiere dei politici ambientalisti e abortisti!

 

Mi piacciono le non elezioni: come quella di Federico Pizzarotti, che a Parma mi impone la raccolta differenziata, e quella di Emma Bonino, che mi ha sottratto innumerevoli connazionali con mezzo secolo di impegno pro aborto.

Non sono un elettore, non mi piacciono le elezioni: mi piacciono le non elezioni. Mi piace la non elezione di Federico Pizzarotti, l’uomo che mi ha rubato il cassonetto: da sindaco di Parma mi tolse il prezioso contenitore per impormi la raccolta differenziata, un sistema da colonia di insetti, bene, oggi il mio cassonetto è vendicato. Mi piace la non elezione di Emma Bonino, la donna che mi ha sottratto innumerevoli connazionali, con mezzo secolo di impegno pro aborto: in confronto l’elezione di Ilaria Salis appartiene all’ambito del meno peggio perché fra le varie accuse che pendono su quest’ultima non c’è quella di aver soppresso creature inermi. So perfettamente che i politici sono conformisti per statuto e perciò quasi tutti ambientalisti e abortisti, e che fra destra e sinistra, su questi come su altri temi, le differenze sono semplici sfumature, ma un conto sono i gregari e un conto sono le bandiere, e mi piace vederle ammainate simili bandiere.

Camillo Langone__da IL FOGLIO                        

                         bandiere ammainate                                       

Ci salveranno i nascenti…

 

La cicogna, in versione Dhl, mi ha portato lo scorso pomeriggio un vagone di neonati. Era di maggio, ero in mezzo a un tripudio di fiori nel nostro giardino, e ho ricevuto questo dono inatteso. Non aspettavamo nessuno, tantomeno neonati, l’età gravida è ormai lontana, passata per sempre. Eppure è arrivato un carico di creature, fresche di nascita, accompagnate da un corteo di madri col pancione. Non è un sogno e nemmeno un delirio, ma una sorpresa che ti riconcilia con la vita, col suo sorgivo stupore, con l’infanzia che arriva da un misterioso aldilà e ti guarda con quegli occhi nuovi e una vita intera davanti. Pensate, per un momento pensate, al nostro presente, così avaro di bambini e di natalità, che giudica oscena la fertilità e offensiva, bestiale, retrograda la maternità. È il tempo in cui l’aborto diventa un dogma costituzionale, la devozione lgbtq+ si fa legge europea. È il tempo dei figli di Nessuno, degli uteri in affitto, della compravendita di feti. È il tempo in cui gli esperti dicono che la statua di una mamma che allatta è divisiva e va tolta dagli spazi pubblici. È il tempo che ha separato il sesso dalla procreazione, le voglie dal destino; che reputa offensivo ogni accostamento tra donna e maternità. È il tempo del declino e della decadenza. Poi ti arriva a casa un librone pubblicato da Taschen di una fotografa australiana, nota nel mondo per le sue foto sulla nascita e sulla maternità. Il libro si chiama Small World, ma quel Piccolo Mondo è la promessa che il Mondo grande non finirà. Arrivano i rinforzi, c’è il ricambio.
Il libro, con brevi testi in più lingue, parla con le immagini, come accade ai miti e alle fiabe. Lei, l’autrice delle fotografie, sia benedetta, si chiama Anne Geddes, è stata madre tempo fa, ma semel mater sempre mater, una volta che si è madri lo si è per sempre. “Attorno ai bambini appena nati – dice Anne – c’è solo il bene ed è questo che mi affascina”. L’inerme, assoluta purezza del bene e del bello in natura. La gioia di vedere neonati, dice, non invecchia mai.
La sua, a scherzarci su, è l’Opera Maternità e Infanzia. È una sfilata di madri di ogni continente, con le pance piene di figli, e tanti neonati.
L’amore materno è il primo amore che non si scorda mai più della passione fiammeggiante che si accese nella nostra mente, nel nostro cuore e nel nostro corpo la prima volta che ci innamorammo. E’ tua madre, che hai conosciuto prima di venire al mondo, e ti ha nutrito, amato e accudito già prima di nascere. E’ quello l’amore più carnale e più spirituale, anima e corpo, amore necessario come l’aria che respiri, che ti accompagna per tutta la vita, dalla nascita alla morte.
Quelle immagini valgono più più di una predica pur benedetta del Papa sulla natività, più di un discorso del ministro della famiglia, interrotto dai democratici abortisti; più di una legge, un saggio, una benemerita manifestazione in favore della vita. Quell’album di foto racconta la vita nascente, lo stupore di venire al mondo, la meraviglia di esistere; e l’amore naturale a prima vista suscitato da quelle primizie viventi. Prima di ogni pensiero c’è la visione, che sprigiona vita, promessa e bellezza.
Il libro della vita nascente ci è pervenuto in dono da una amica carissima, Marilena; è già troppo che dica il suo nome, conosco la sua riservatezza, l’ho già oltraggiata con questa indiscreta delazione. Quelle immagini ci riconciliano col mondo, con la realtà, fanno bene alla vita. L’amore tornante per la vita che nasce, che apre gli occhi, scopre il mondo e si rallegra di essere vivo. Hai voglia a ragionare, alla fine l’unica risposta al morire e all’invecchiare è il nascere, la vita che sboccia, lo spettacolo di un neonato all’Inizio. Certo, non sei tu a nascere, a te tocca il declino; ma è bello sapere che il mondo non finisce con noi, che la vita continua oltre la morte. L’importante è spostare il baricentro dalla tua vita singola alla vita del mondo, che si avvicenda e torna a fiorire. Tutte le culture di morte che negano l’essere, desiderano il non essere, il nulla, il vuoto, la liberazione da tutto, tacciono davanti a un campo fiorito e al profumo di maggio, al bambino che nasce, al bambino che cresce, alla madre col pancione. Sono mamme e bambini di ogni parte del mondo, di ogni razza e colore, perché la vita è universale e si estende al regno animale e al regno vegetale. Non escludo che anche i minerali abbiano i loro battesimi. Poi, certo, la vita non è un pranzo di gala; è difficile, per chi nasce e per chi si prende cura, ci sono mille problemi, a volte si soffre. Scomodo, costoso, faticoso. Ma val la pena vivere e ben disporsi verso chi nasce.
Non riesco a descrivervi con le parole le immagini che sto in questo momento sfogliando. Ogni figura è una sorpresa, una tempesta di vita e di colori, sguardi piovuti dal cielo, finestre di luce, una diversa dall’altra, con la promessa del giorno che viene. Venuti alla luce, o dalla luce, dopo l’anticamera buia nel grembo materno. Tutto albeggia in queste figure, è la festa dell’uomo che nasce; eppure l’uomo è una bestia cattiva, a volte brutale, vive tra rabbia e dolore, è mortale, e sfoga la sua mortalità infliggendola agli altri. Pensa di scaricare il male sugli altri. E così lo moltiplica.
Queste immagini nascenti per un momento sospendono sconforti e tristezze di un’epoca senza eredi, di un nonno senza nipoti, di una società che mal sopporta le creature; e di città che si svuotano di figli e di bambini, si riempiono di vecchi, con famiglie destinate a estinguersi nel giro di pochi anni o quantomeno di veder emigrare gli ultimi epigoni in imprecisati altrove, spesso non luoghi. Ma ogni angoscia sembra svanire o sopirsi nel battito d’ali che senti sfogliando quelle pagine, gremite di neonati, tra facce e destini che ti guardano e tendono la mano per ricevere protezione e darti speranza. La vita che nasce è la più bella risposta a ogni perdita; passata, presente e futura.

Marcello Veneziani  

La mappa di un millimetro cubo di cervello umano, per la prima volta: «Una complessità mai vista prima»

Ricercatori di Google e neuroscienziati dell’Università di Harvard hanno combinato l’imaging cerebrale con l’intelligenza artificiale, ricostruendo le cellule e le connessioni in un tessuto grande quanto mezzo chicco di riso

Un millimetro cubo di cervello mappato con dettagli spettacolari

Neuroni in un frammento di corteccia cerebrale (credit: Google Research & Lichtman Lab, Università di Harvard; rendering di D. Berger, Università di Harvard

Potrebbe sembrare un prato fiorito, un paesaggio onirico. Ma anche un’opera d’arte estremamente complessa. E in fondo l’immagine qui sopra è davvero un’opera d’arte incredibile: si tratta di un millimetro cubo di cervello umano ingrandito all’inverosimile.

Mezzo chicco di riso

Il lavoro è di un team congiunto di ricercatori di Google e neuroscienziati dell’Università di Harvard, che hanno combinato l’imaging cerebrale con l’elaborazione e l’analisi delle immagini basate sull’intelligenza artificiale, ricostruendo le cellule e le connessioni all’interno di un volume di tessuto cerebrale grande quanto mezzo chicco di riso. È una visione senza precedenti del cervello umano, che potrebbe aiutare a comprendere meglio i disturbi neurologici e a rispondere a domande fondamentali sul funzionamento della nostra «materia grigia». Le sei immagini ottenute dai ricercatori, pubblicare su Science e Nature, sono state messe a disposizione della comunità scientifica.

Oltre 50mila cellule

La mappa 3D copre un milionesimo di un cervello e contiene circa 50mila cellule e 150 milioni di sinapsi, le connessioni tra i neuroni. Il frammento è stato prelevato da una donna di 45 anni durante un intervento chirurgico per curare l’epilessia. Proviene dalla corteccia, un’area coinvolta nell’apprendimento, nella risoluzione dei problemi e nell’elaborazione dei segnali sensoriali. Il campione è stato immerso in conservanti e colorato con metalli pesanti, per rendere le cellule più visibili.

Una foresta intricata e misteriosa: ecco come si presenta un millimetro cubo di cervello umano

Un neurone (bianco) con 5.600 assoni (prolungamenti che trasmettono i segnali nervosi, in blu). In verde le sinapsi, cioè le connessioni tra i neuroni (credit: Google Research & Lichtman Lab, Università di Harvard; rendering di D. Berger, Università di Harvard)

Intelligenza artificiale

Jeff Lichtman, neuroscienziato dell’Università di Harvard (Cambridge, Massachusetts) e i suoi colleghi hanno tagliato il campione in circa 5mila fette – ognuna dello spessore di 34 nanometri – che sono state poi fotografate con microscopi elettronici. Il team di Viren Jain, neuroscienziato di Google a Mountain View (California), ha quindi messo a punto modelli di intelligenza artificiale in grado di «ricucire» le immagini al microscopio per ricostruire l’intero campione in 3D. «Ricordo il momento in cui sono entrato nella mappa e ho guardato una sinapsi del cervello di questa donna, per poi zoomare su altri milioni di pixel – ha raccontato Jain -. È stata una specie di sensazione spirituale».

Una foresta intricata e misteriosa: ecco come si presenta un millimetro cubo di cervello umano

La corteccia cerebrale ha sei strati, visibili in questa immagine (credit: Google Research & Lichtman Lab, Università di Harvard; rendering di D. Berger, Università di Harvard)

Una estrema complessità

Esaminando il modello in dettaglio, i ricercatori hanno scoperto alcuni neuroni «annodati» su sé stessi e altri in grado di creare fino a 50 connessioni tra loro. «In generale, tra due neuroni si trovano al massimo un paio di connessioni – ha spiegato Jain -. Nessuno aveva mai visto niente del genere prima d’ora. È quasi un po’ umiliante: come potremo mai fare i conti con tutta questa complessità?». Il team ha inoltre individuato coppie di neuroni che formano immagini speculari. «Abbiamo trovato due gruppi che inviavano i loro dendriti (ramificazioni dei neuroni, ndr) in direzioni diverse e a volte c’era una sorta di simmetria» ha aggiunto lo scienziato.

Una foresta intricata e misteriosa: ecco come si presenta un millimetro cubo di cervello umano

Un neurone (bianco) riceve segnali dagli assoni che possono «dirgli» di accendersi (in verde) e quelli che possono «dirgli» di non farlo, in blu (credit: Google Research & Lichtman Lab, Università di Harvard; rendering di D. Berger, Università di Harvard)

La mappa del cervello

La mappa è molto complessa e per la maggior parte deve ancora essere esaminata: potrebbe contenere errori creati dal processo di «cucitura» delle singole immagini. «Molte parti sono state “corrette”, ma ovviamente si tratta di pochi punti percentuali i punti percentuali rispetto alle 50mila cellule presenti» ha ammesso Jain. L’équipe ha in programma di produrre mappe simili su campioni di cervello di altre persone, ma è improbabile che nei prossimi decenni si riesca a ottenere una mappa dell’intero cervello umano.

 Laura Cuppini

La fortuna di essere vittime…

Da qualche tempo è scoppiata una nuova epidemia: il vittimismo. Vero, presunto e presuntuoso. Dal caso Scurati al caso Canfora, ma anche prima, con Saviano, Lagioia e compagni, è una gara a figurare nel ruolo di vittime del truce regime meloniano.

Lo statuto speciale di vittime dà luogo a una serie evidente di conforti e di vantaggi, oltre che donare un’attenzione mediatica speciale su di sé e i propri prodotti, cinta di un’aureola, una fascetta di santità, che moltiplica il successo degli autori e delle loro mercanzie. bI campi più sensibili del vittimismo sono l’editoria, la cultura, il giornalismo e lo spettacolo. Essere censurati o passare per tali offre dei vantaggi inestimabili, perché oltre l’aura epica ed eroica di combattenti per la libertà con sprezzo del pericolo, fornisce una serie di benefits a cascata che si riflettono su tutte le attività esercitate. A parte i casi di sedicenti vittimismi immaginari, in realtà conviene essere vittime di provvedimenti censori o dimostrare di essere invisi ai potenti di turno per una ragione precisa: nella cultura, nell’informazione e nello spettacolo vige un canone inverso rispetto al potere politico. Qui è possibile che per via di quel fastidioso accidente che è la sovranità popolare, possa andare al governo la destra o simili in forza dei voti ricevuti. Ma una volta conquistato il potere politico, il controllo può essere esercitato nell’ambito – sempre più ristretto, in verità- delle competenze inerenti la politica e alcuni accessi derivati. Si possono lambire ambiti contigui al potere politico, come per esempio l’informazione pubblica, la Rai. Ma anche in quella sfera, la politica riesce a decidere le nomine e influenzare l’informazione che direttamente attiene alla politica, alla visibilità dei leader, ai dosaggi, alla benevolenza se non il servilismo verso chi è al governo. Ma il potere politico non incide invece sugli orientamenti di costume, sui temi civili, storici, culturali che restano invariati. Anzi, il potere politico non ci prova neanche a modificare gli orientamenti, oggi come ieri, ai tempi di Berlusconi, e magari anche prima, ai tempi della Dc, almeno dagli anni settanta in poi; in fondo va bene che il potere culturale e ideologico resti da quella parte, giacché alla politica interessa il controllo di giornata su ciò che direttamente la riguarda. Per   dirla in breve, TeleMeloni funziona – come le tv filo-governative precedenti – a pieno regime nell’ambito della politica e nella narrazione a questa direttamente connessa. Non funziona, invece, sui temi ormai presidiati dalla permanenza di una specie – ma sì diciamolo – di egemonia culturale e ideologica. Che rasenta il monopolio, riferito all’industria culturale, editoriale, cinematografica, musicale e dei grandi eventi, rassegne, premi, ecc.  Invece, nei casi di vittimismo appena citati, cosa succede? Gli autori considerati vittime di censura non ricevono alcun danno nella loro attività ma solo vantaggi: sul piano delle vendite e dell’editoria, sul piano dell’informazione e della notorietà, sul piano dei premi e delle partecipazioni a festival, eventi, cordate; per non dire dei vantaggi sul piano accademico e delle loro carriere. Un programma che li cancella, moltiplica l’effetto mediatico sugli altri programmi che poi li invitano per celebrare e propagare le parti censurate; per l’editore che manda in fretta in libreria i testi dell’autore al centro dello scandalo; per le opposizioni che ne fanno subito una bandiera e un simbolo. Un testo viene censurato? Sarà letto con ben altra enfasi nello stesso programma e ripetuto in cento altri programmi, sarà recitato dall’autore in cento manifestazioni pubbliche di piazza e di tv; lo rilancerà perfino il leader politico accusato dal testo, per attestare che è garantista e non censura i testi contro di lui; persino le foche ammaestrate finaliste dello Strega, leggeranno a pappagallo, in coro, nel Collettivo Autori Indignati, la filastrocca banale del testo censurato. Effetto moltiplicatore, altro che censura. Garanzia di successo, altro che persecuzione…

E alla fine del giro, gli stessi censori veri o presunti sono costretti a passi indietro e a reintegrare, con tante scuse e risarcimenti, la Vittima; che nel riceve la solidarietà e l’alta protezione di coloro che attacca (premier, ministro, autorità).  Cosa distingue allora le vere dalle false vittime? Gli effetti che la loro posizione produce. Se scagliarsi contro il potere politico rende così tanto a così vari piani e livelli, non si tratta di vittime ma di ciniche operazioni d’investimento, speculazioni ideologiche nella borsa degli affari culturali.  Le vere vittime, invece, sono coloro che hanno da perdere per le loro opinioni, che si vedono tagliate da ogni significativa visibilità, rimosse da ogni media importante, dimenticate nella loro opposizione clandestina, anche se in molti casi tutt’altro che solitaria ma condivisa da tanti (O impediti di parlare in pubblico). Mentre le vere vittime vengono escluse dalla società inclusiva, cancellate, ignorate nelle loro opere e opinioni, le Vittime per finta, le Vittime Apparenti del Circo Illusionisti, spesso autori modesti e palloni gonfiati, assurgono al ruolo di pseudo-matteotti virtuali o di simil-gramsci in finta pelle, celebrati nella loro lotta intrepida contro il potere, con rimborso a pie’ di lista, ampio risarcimento più lauta indennità di rischio. Insomma, con l’egemonia culturale sempre nelle mani della sinistra, le vere o immaginarie censure politiche alla cultura, funzionano a contrario, sono spot promozionali ad alto reddito.

Marcello Veneziani   

Non resta che privatizzare la Rai..

Al decimo programma televisivo che denuncia in coro la nascita di un regime televisivo meloniano, al decimo annuncio in video del sindacato giornalisti Rai, Usigrai, che lo sciopero ha raccolto quasi l’ottanta per cento di adesioni contro la deriva autoritaria della Rai, e al decimo militante telesovietico che denuncia la Rai di regime perché nonostante lo sciopero ha trasmesso i tg, mi chiedo: ma siamo alla demenza bilaterale, sono cretini e/o ci prendono per cretini?   Ragioniamo. Se ci fosse davvero un regime non ci sarebbero così affollati programmi, giornalisti e conduttori che ripetono all’unisono la menata del regime di destra; se fosse tale, un vero regime non lo permetterebbe. Se poi ci fosse davvero un regime non ci sarebbe l’adesione libera e massiccia, come quella che viene propagata, allo sciopero contro la Rai di regime; ci sarebbero pressioni e intimidazioni a impedirlo. E ancora: tra persone normali, di comune buon senso, lo sciopero è un diritto, non è mica un obbligo; sicché se tu hai la possibilità di astenerti dal lavoro e di far leggere un comunicato in tutti i tg in cui spieghi le tue ragioni, ci dev’essere pure da parte di chi non si riconosce nelle ragioni dello sciopero e nel sindacato storicamente di sinistra della Rai, il diritto di poter invece lavorare. Così come un’azienda, qualunque azienda, non deve impedire lo sciopero ma ha il diritto e il dovere, trattandosi di un servizio pubblico, di mandare in onda l’informazione e cercare di garantire la continuità del servizio. In base a quale legge mafiosa la dichiarazione di uno sciopero deve comportare l’allineamento forzoso e silenzioso di tutti i dipendenti, di tutti i sindacati, dell’azienda al diktat promosso dal soviet dei giornalisti Rai sulla base di una sua lettura unilaterale e partigiana?  Ma ora siamo arrivati a un punto in cui bisogna mettere insieme tutti i pezzi e arrivare a coerenti conclusioni.

Dunque, se come voi dite, la Rai sta scivolando in regime, se la Rai, come voi ripetete, sta andando male, se molti personaggi della tv lasciano la Rai e vanno nelle tv private, viste le offerte vantaggiose e l’impossibilità della Rai di essere competitiva sul piano delle contro proposte, allora la soluzione conseguente che taglia la testa al toro è una sola: privatizzate la Rai, cedetela sul mercato. Si, a questo punto è l’unica ragionevole soluzione per impedire che il potere politico la utilizzi come megafono di regime asservita al governo in carica (un tempo la Rai rispondeva al parlamento, poi mi pare con Renzi, che mi pare fosse allora il leader del Pd, passò a rispondere direttamente al governo); per evitare questa caduta costante di qualità e di ascolti che denunciate; e per mettere fine a questa agonia e fuga di celebrità che lasciano l’azienda pubblica e vanno nelle tv private, nonostante molti di loro fossero storici fautori e testimonial della Tv pubblica contro le tv commerciali. Chi scrive è stato per anni un difensore del ruolo pubblico della Rai, credeva ancora alla bella storia della principale azienda culturale italiana e riteneva che davvero fosse necessario avere un’azienda che si ponesse come missione la crescita culturale e civile del paese. Ero memore del ruolo educativo della Rai e sappiamo quanto la radiotelevisione pubblica abbia contribuito all’istruzione di massa, all’unificazione nazionale e all’uso popolare della lingua italiana. Ho sempre pensato all’utilità di un sistema misto, non solo nell’informazione, con una sfera pubblica e una privata; e ho sempre temuto la privatizzazione generale, la mercatizzazione globale dell’informazione.  Ma a questo punto, visto il pappone velenoso che si è via via stratificato nell’azienda pubblica, e vista la deriva della Rai, penso che sia meglio metterla sul mercato. Naturalmente non si potranno più garantire endemiche rendite di posizione, pletoriche redazioni, giganteschi parchi collaboratori a spese della Rai, migliaia di stipendi e così via. Sarà il mercato a decidere.  Bisogna avere il coraggio di rimetterla sul mercato, mettendo così subito a tacere chiunque dica o voglia effettivamente asservire la Rai al potere. Finalmente avremmo una Rai alla stessa stregua degli attuali gruppi editoriali, reti padronali, network transnazionali, cartelli imprenditoriali, come tutte le altre fonti d’informazione e intrattenimento che ci sono in giro. E ci libereremmo definitivamente dall’assillo sul canone televisivo. Che dite, facciamo un piccolo sforzo? Si immettono sul mercato e gli stessi soggetti che sul mercato si sono accaparrati format, autori e conduttori di provenienza Rai, potranno direttamente accaparrarsi le reti e le testate giornalistiche. Non potete dire infatti che se finisce ai privati viene stuprata e sottomessa a chissà quali oscuri progetti; se i vostri colleghi hanno preferito Cairo, Discovery, Sky, Mediaset alla Rai, perché non si potrebbe scorporare direttamente la Rai e dividerla tra gli stessi o tra altri soggetti che decideranno di partecipare allo smembramento del carrozzone più chiacchierato del nostro Paese? E se siete così bene organizzati, voi del soviet interno alla Rai, potrete concorrere all’asta e magari accaparrarvi una rete, una testata, in cui magari vi sforzerete di stipare tutto il personale eccedente della Rai, oggi spalmato su reti e testate.  In certe cose non si può essere più signori né fessi e tantomeno illusi sulla missione pubblica della Rai, che a vostro parere esiste solo se risponde al potere della sinistra o paraggi. Dite che è una Rai di regime? Eliminatela, abolitela. Un piccolo sforzo, presidente Meloni, per dimostrare la sua buona volontà e per smentire chi la vuole fondatrice di TeleMeloni: sia lei ad avviare questo processo di privatizzazione. E buona notte al secchio. Diranno che pure il passaggio al libero mercato sarà un segno di regime? Certo che lo diranno, e si copriranno di ridicolo, anche perché se si facesse un referendum sulla Rai gli italiani darebbero loro torto marcio e chiederebbero a gran voce di liberalizzarla. Non avrei mai pensato di arrivare a queste conclusioni ma se questa è la realtà, se questa è la deriva…

Marcello Veneziani                                                                                                                   

Quello stupro di massa dimenticato…

Se cercate la madre di tutte le violenze alle donne, gli stupri e i cosiddetti femminicidi, dovete risalire a 80 anni fa nel centro-sud d’Italia. È il capitolo amaro e atroce delle cosiddette marocchinate. I singoli episodi di violenza e di abusi che si leggono quotidianamente e che suscitano ribrezzo e preoccupazione, impallidiscono di fronte a una vera e propria mattanza di corpi femminili, ragazze, minorenni o sposate, che avvenne nella primavera di ottant’anni fa, in Italia, in un’area che va dalla Toscana alla Campania e alla Sicilia, con particolare accanimento nel basso Lazio. Non fu opera di sciagurati maniaci sessuali, ma fu quasi pianificato e autorizzato come bottino di guerra, ed ebbe come protagonisti soldati in divisa di eserciti di liberatori, come i francesi.
Esorto le femministe di lotta e di denuncia, le compagne di piazza e di corteo, le parlamentari progressiste e radicali, le combattenti antifasciste, antisessiste e le attrici impegnate, ad aprire e approfondire quella pagina di storia che risale alla primavera del 1944.  E vi suggerisco un insolito punto di partenza. Andate a scoprire chi era Maria Maddalena Rossi. Per aiutarvi nella ricerca vi dirò che aderì al Partito comunista quand’era ancora clandestino, fu arrestata dalla polizia fascista, mandata al confino, espatriata. Poi fu eletta nell’assemblea Costituente nel gruppo comunista, fece battaglie per la parità dei diritti delle donne; fu parlamentare del PCI, sindaco, presidente dell’Unione Donne Italiane. Morì novantenne nel ’95. Insomma ha i titoli a posto per essere celebrata dalle femministe progressiste.
Perché proprio lei? Perché nel ’52 aprì in un’interrogazione parlamentare quel capitolo scabroso e rimosso della seconda guerra mondiale nelle vulgate storiografiche sulla liberazione: le marocchinate, ovvero le migliaia di donne italiane stuprate, violentate dalle truppe marocchine venute a “liberare” l’Italia con gli alleati. In Ciociaria, in particolare, fu uno scempio, di cui restò traccia molti anni dopo nel film La ciociara di Vittorio De Sica con Sophia Loren, tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Donne stuprate e messe incinta, bambini violentati, più di mille uomini uccisi per aver cercato di difendere le loro donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, figlie.
Nel dibattito parlamentare che seguì all’interrogazione della Rossi, venne fuori che il numero più attendibile era di 25mila vittime, ma se si considera che il campo d’azione dei magrebini si estendeva a mezzo centro-sud, il numero di 50-60mila marocchinate indicato da alcune ricerche è plausibile. Il pudore nel raccontare queste storie ne ha ridotto la portata e coperto con un velo protettivo di omertà le reali dimensioni della tragedia. Si voleva tutelare col silenzio l’onorabilità delle loro donne, e non sottoporle anche a una gogna. La responsabilità, oltre che dei soldati marocchini, fu dei vertici dell’esercito francese che dettero loro sostanziale impunità e carta bianca, come un tribale diritto di preda. Non furono i soli, intendiamoci, nella barbarie di quel tempo. Ma un fenomeno così vasto e quasi pianificato, su donne inermi che non avevano colpe è raccapricciante per la ferocia animalesca. Una pagina rimasta impunita e rimossa.
Migliaia di storie strazianti e interi paesi violentati, quando il sud era “liberato”. Per chi voglia approfondire, rimando ai libri sulle marocchinate di Emiliano Ciotti, Stefania Catallo e di una francese d’origine italiana, Eliane Patriarca. Un corposo e documentato dossier uscì sulla rivista ‘Storia in rete’ di Fabio Andriola.
Ma è da sottolineare che una donna comunista, leader delle donne in lotta, antifascista col fascismo imperante – non come i grotteschi militanti postumi dell’Anpi d’oggi – ebbe il coraggio e l’amor di verità di denunciare questo obbrobrio, che per ragioni di antirazzismo e antifascismo ora si preferisce mettere a tacere. Le stesse ragioni che portano a non scendere in piazza se una ragazza oggi è stuprata e uccisa da migranti. O a dimenticare quelle donne violentate, rasate a zero e uccise solo perché ausiliarie della Repubblica sociale; o stuprate in Istria. La stessa omertà che accompagna il vergognoso racket di uteri in affitto, dove la dignità della donna è venduta al capriccio danaroso di benestanti, spesso coppie omosex. Il Pci sessista di quegli anni aveva donne più rappresentative nei suoi ranghi, che provenivano dalla lotta politica, dalla piazza, dalla militanza di base e anche dalla guerra civile.
Probabilmente la Rossi dovette vedersela anche allora con le reticenze dei suoi compagni, lo strisciante maschilismo del vecchio Pci e l’omertà sulle pagine nere dei “liberatori”. Anche perché quelle pagine infami ne avrebbero richiamato delle altre, per esempio gli eccidi nel Triangolo rosso. Suggeriamo alle femministe perennemente mobilitate in campagne contro i maschi e i loro soprusi, di ricordarsi di una femminista, comunista e antifascista che non si tirò indietro a raccontare le scomode verità e le pagine nere della Liberazione. Sarebbe il caso che il presidente della repubblica, che non si lascia sfuggire mezzo anniversario di quel che accadde nella storia della seconda guerra mondiale e della resistenza, si ricordasse anche di questo evento corale, che mortificò la dignità femminile e stuprò i loro corpi, la loro verginità, la loro maternità. Gli orrori della guerra vanno raccontati e ricordati per intero, senza amnesie (come ad esempio il silenzio sugli ottant’anni dello scempio dell’abbazia di Montecassino, bombardata dagli Alleati). Per aiutarlo a ricordare e a ripararsi dietro un’immagine inattaccabile, si ricordi almeno della compagna partigiana comunista Maria Rosaria Rossi, del film di Vittorio de Sica e del libro dello scrittore filocomunista Alberto Moravia. Tre alibi per poter raccontare in modo inattaccabile, compiacendo l’antifascismo dominante, una storia dolorosa di cui furono vittime così tante donne italiane.

(Il Borghese, aprile 2024) Marcello Veneziani

Almirante e Berlinguer si davano la mano…

a cura di Federica Fantozzi per Huffingtonpost

Marcello Veneziani, giornalista e scrittore, oltre che di romanzi è autore di numerosi saggi sulla storia, la filosofia e la cultura della destra non soltanto in Italia. E’ editorialista della “Verità” e di “Panorama”.

1. Alla convention di FdI A Pescara, momento importante perché Giorgia Meloni ha annunciato la sua candidatura alle Europee, Ignazio La Russa ha omaggiato “la figura di Enrico Berlinguer” suscitando un applauso come “coerente continuazione dell’omaggio che Almirante gli rese nel giorno della sua scomparsa”. E’ stato – come spiegano a destra – un gesto cavalleresco e l’onore delle armi all’avversario o un tentativo di allargare il pantheon del Partito della Nazione in campagna elettorale?

A destra piacciono i gesti cavallereschi ma la mitizzazione a destra dei rapporti tra Almirante e Berlinguer funziona più come una forma di legittimazione postuma della destra postmissina e un modo per celebrare Almirante tramite lo specchio di Berlinguer. È l’unico modo consentito…

2. Il riferimento di La Russa è al noto episodio di Almirante che si presentò, solo e senza scorta, alla camera ardente di Berlinguer a Botteghe Oscure, il 13 giugno 1984, per “salutare un uomo estremamente onesto”, accolto da Pajetta e Nilde Iotti, che quattro anni dopo ricambiarono la cortesia alle esequie del leader missino. Perché secondo lei Almirante fece quella scelta?

Almirante amava i bei gesti di teatro ed estetica politica e restò impressionato dalla morte “sul campo” di Berlinguer in un comizio, quasi invidiandola. Poi c’erano stati i rapporti precedenti con Berlinguer e si era creato un reciproco rispetto; confermato anche dalla partecipazione della delegazione del Pci ai funerali di Almirante.

3. Dei rapporti tra i due uomini politici molto si è favoleggiato e poco saputo davvero. Antonio Padellaro, nel suo libro “Il gesto di Almirante e Berlinguer” ha ricostruito da 4 a 6 incontri riservati nel 1978-79 all’ultimo piano di Montecitorio. Per parlare di cosa?

S’incontravano per arginare il terrorismo rosso e nero, si disse, per scambiarsi informazioni, essendo ambedue nel mirino. E magari per capire il ruolo dei servizi segreti nelle trame rosse e nere e nel tentativo di giocarle contro il Pci e il Msi.

4. Erano gli anni del terrorismo rosso e nero, delle congiure dei servizi deviati, dell’uccisione di Aldo Moro, delle dimissioni del presidente Leone. Ex post, si vede traccia concreta di un’interlocuzione tra i due?

L’Msi stava subendo una dolorosa scissione che ritenevano pilotata dalla Dc. E il Pci, dopo il caso Moro, era sulla graticola tra compromessi, frenate e colpi bassi. Ad un incontro Almirante ci andò con una misteriosa borsa in cuoio; forse aveva dei documenti da mostrare. Quegli incontri “galeotti” avvennero in un anno eccezionale, il 1978, l’anno dei tre papi, due presidenti della repubblica, Moro ucciso, Leone costretto alle dimissioni… Tutto stava cambiando, erano perciò possibili anche incontri impensabili. Forse ce ne furono altri, in seguito. Si narra di un mitico incontro a Villa Borghese, da soli, senza scorte. Li immagini, circospetti, come amanti clandestini, coi loro corpi magri, seduti su una panchina di pietra…

5. Meloni è stata anche alla mostra organizzata da Ugo Sposetti. Berlinguer è sulla tessera elettorale 2024 del Pd. La “santificazione” è un’operazione nostalgia? Come scrive Massimiliano Panarari sulla “Stampa” finiti i partiti di massa “il berlinguerismo viene infilato nel frullatore delle suggestioni con funzione di legittimazione e rilegittimazione?

Sì, probabile ma al di là del frullatore erano due personalità diverse, non solo per ideologia e appartenenza. Almirante era il principe degli oratori, paroliere d’Italia, figlio di teatranti e amante di Dante e d’Annunzio; Berlinguer era l’antioratore per eccellenza, sobrio e austero come un sardo aristocratico, di scarso carisma. Almirante sovrastava il suo piccolo Msi, Berlinguer era sovrastato dal grande Pci. Almirante era ammirato e amato da tanti ma votato da pochi; Berlinguer fu amato e mitizzato da morto, ma votato da tanti, nel segno del Pci. Il picco dei voti lo ebbe proprio da morto, quando il Pci sorpassò la Dc dopo il suo grandioso funerale, con Pertini.

6. L’omaggio a Berlinguer, che peraltro Gasparri ha circoscritto all’uomo e giammai al partito che ha rappresentato, è da FdI anche una reazione alle accuse di non volersi dire antifascisti?

C’è un nesso a doppia chiave: per dimostrare che si può stimare e rispettare l’avversario pur non dichiarandosi antifascisti o anticomunisti, come accadde ad Almirante e Berlinguer. Conta la sostanza e non l’ipocrisia di conformarsi al catechismo “correct”.

Marcello Veneziani 

La società senza eredi…

Non siamo eredi, non lasciamo eredi. Non ereditiamo niente da nessuno, non lasceremo eredità di niente a nessuno. È questa, per dirla in breve e in modo diretto e brutale, la fotografia della nostra condizione oggi. Ogni vita è un fatto a sé. La sconnessione dal prima e dal poi riguarda in varia misura e a vari livelli di consapevolezza ciascuno di noi, nella vita personale e in quella pubblica e sociale. Anche la politica schiva o rinnega le eredità. Restano in politica come nel commercio marchi inanimati e sbiadite icone, ma nulla che somigli a un’eredità. Per la prima volta nella storia dell’umanità, o almeno della storia a noi nota, viviamo in un’epoca senza eredi. O quantomeno è la prima a non riconoscere alcuna eredità come valore da custodire e da trasmettere. La prima epoca ad avvertire, come Re Luigi XV, che dopo di noi verrà il diluvio; finirà con noi il mondo nostro. Dopo di noi nessuno continuerà la nostra opera, nessuno salverà qualcosa della nostra eredità; non lasceremo tracce, tutto sarà cancellato dall’acqua e dal vento. L’acqua dell’oblio che cancella ogni orma e il vento della rimozione che spazza ogni cosa. È il coerente epilogo di una società senza padre, poi diventata società senza figli, una società parricida e infanticida, all’insegna delle orfanità elettive. La società dei mutanti e dei nonati, per via della denatalità e dell’aborto. L’epoca del nichilismo alla fine mantiene la promessa: di tutto resterà niente, dopo di noi il nulla.  A chi lasci i tuoi beni, il tuo patrimonio di vita, spirituale e reale, la tua biblioteca, il tuo archivio di ricordi, oggetti e pensieri? Ai topi e agli inceneritori. Verrà al più estratto da quel patrimonio il loro valore venale e mercantile, verrà cioè quantificato e svenduto ciò che ha valore commerciale; se privo di valore economico occorrerà disfarsene nel modo più rapido e indolore, sarà un’opera da svuotacantine o da wc chimico. Dovrà svanire senza lasciar traccia di sé. Lo statuto di eredi vale finché si è dal notaio, ovvero fino alla commutazione delle intenzioni testamentarie in beni da usufruire. In ogni campo ha valore positivo ciò che non è ereditato e non lascia eredità, ciò che è nuovo, senza precedenti o destinato a sorpassare e far dimenticare ogni antefatto. In politica ogni leader e ogni movimento deve presentarsi come nuovo, deve effettuare radicali restyling che sono un periodico disfarsi delle eredità per apparire più adeguati al presente e meno gravati da scheletri nell’armadio, ingombranti eredità da cancellare. Nuove app ci attendono, non è più tempo di mantenere le vecchie. La storia in sé è un peso insopportabile. La tecnica ci dispone di continuo verso l’aggiornamento.  Allo stesso modo sono disconosciuti i maestri, perché non ci sentiamo eredi e continuatori della loro opera e della loro lezione, non hanno da insegnare nulla perché provengono da tempi arretrati rispetto al nostro, con tecnologie decisamente superate. Nessun abitatore del passato può guidarci nel futuro o insegnarci qualcosa di adeguato al mondo che verrà.  Del passato viene salvata solo la memoria delle vittime, però non è un’eredità da salvaguardare e da continuare, ma vale a contrario come un monito per non ripetere quegli e/orrori. La memoria delle vittime è un atto d’accusa e di rigetto dell’eredità dei carnefici.   Come si manifesta sul piano generazionale la fine delle eredità? In primis non si fanno più figli; se ci sono partono, lasciano la casa e la città familiare, cambiano orizzonte. E se non partono si diseredano da soli, si allontanano con la mente e col cuore, reputano che vivere sia emanciparsi da chi li ha messi al mondo. Non mancano eccezioni, e non sono neanche rare; ma la tendenza generale, lo spirito del tempo, è quello. Niente eredi. I paesi si svuotano, non c’è ricambio, le famiglie sono sull’orlo dell’estinzione dalla denatalità e dall’emigrazione; presenze secolari spariranno nel volgere di pochi decenni; al più resterà dispersa nell’altrove una spaesata disseminazione. I nostri contemporanei si sentono figli del loro tempo più che dei loro genitori o dei loro paesi d’origine e dei loro maestri. Si sentono autoprodotti, si pensano autocreati, ritengono – anche se poi non è vero- di fabbricarsi e autogestire per intero la propria vita   . Di conseguenza non si tramanda più niente, l’infedeltà diventa un valore e un atto di autonomia, tutto si rende obsoleto in fretta: dall’obsolescenza programmata degli oggetti all’obsolescenza integrale e inesorabile dei soggetti, che sopravvivono solo se sono fluidi, geneticamente modificabili, mutanti.  Altra conseguenza del rifiuto dell’eredità: non vale la pena ricordare, o peggio nutrire nostalgia del passato e di chi non c’è più; tempo perso, vano esercizio, grottesco spiritismo contro il procedere ineluttabile della vita. Anche per questo si interrompe la trasmissione di saperi, principi, pratiche, consuetudini, esperienze: tutto ciò un tempo si chiamava tradizione era fondata su un principio di eredità biunivoca, ossia ricevuta e consegnata, che sintetizzo nello status di “eredi gravidi”. Il passato è privo di valore e significato, va cancellato, rimosso, maledetto, superato; tutto è accelerato, meccanizzato e sostituito. Non si trattiene nulla, tantomeno il senso della continuità.  Ogni vita finisce su un binario morto, non proviene da nessun luogo e non continua da nessuna parte. Benvenuti nella società senza eredi. Non resta che confidare nell’imprevisto, nell’ignoto, nella pietà, nei tornanti. O nel miracolo di imprecisati dei.

 Marcello Veneziani