Avanti popolo, indietro tutta!

Avanti popolo sarà il titolo del programma che Nunzia De Girolamo condurrà su Raitre al posto di Carta Bianca della Berlinguer, passata sulle reti Mediaset. Titolo audace, e azzeccato, a mio parere, perché scompiglia gli schieramenti ma che ha creato subito indignazione presso i custodi dell’ortodossia progressista. Ma come, su Raitre, al posto della Berlinguer, con un titolo che sembra uno sfottò della sinistra, o per dir meglio, del comunismo… Un oltraggio alla memoria di Berlinguer e del suo partito. Vorrei far notare, senza alcuna polemica, che l’oltraggio alla memoria di Berlinguer semmai l’ha compiuto la stessa Bianca Berlinguer preferendo, presumibilmente per una questione di ingaggio, una rete del nemico storico della sinistra, Berlusconi, alla rete storica della sinistra italiana. Nunzia De Girolamo stava smaltendo il suo precedente impegno politico nel centro-destra, e si stava ripresentando in veste di animatrice della tv d’intrattenimento. Poi, per una vicenda particolare, ossia per l’impreviste dimissioni della Berlinguer e il forfait di Nicola Porro, rimasto anch’egli a Mediaset con un doppio contratto, si è pensato di puntare sulla De Girolamo, che è sveglia e duttile, multitasking, e con l’ispirazione di sinistra della rete ha un curioso legame di parentela: è sposata con Francesco Boccia, uno dei leader del Pd.
Incuriosisce l’impasto che si va profilando: in una rete tradizionalmente di sinistra, un ex ministro del centro-destra che stava dedicandosi ai programmi d’intrattenimento e perfino a ballare in tv, va a condurre un programma dal titolo così forte e impegnativo e annuncia di voler inventare un format un po’ Funari un po’ Costanzo, sulla linea di confine tra politica e antipolitica.
Perché ci siamo soffermati a parlare di un programma, attaccato prima di nascere che vedrà la luce solo il prossimo 3 ottobre? Non per i suoi protagonisti, le polemiche, il tema della Rai e la linea di Raitre, ma per una questione di fondo: dove è finita la spinta al cambiamento nel nostro Paese, dov’è e da che parte sta il nuovo che avanza?
Per anticipare il senso di una risposta abbiamo affiancato il titolo della nota canzone socialista Bandiera rossa, scritta nel 1908 da Carlo Tuzzi, che annunciava un popolo alla riscossa verso il suo trionfo, al titolo di un programma di culto della Rai negli anni ottanta, di Renzo Arbore, con la presenza scintillante di Nino Frassica e tutta la banda arboriana: Indietro tutta! Cosa vogliamo dire? Che la speranza, l’attesa, la passione del cambiamento non c’è più in questo momento in Italia e forse non solo in Italia. Nessun popolo è in marcia, avanza o aspetta cambiamenti, né a destra né a sinistra, né tra i Cinque stelle né altrove. Con l’arrivo per la prima volta nella storia politica del nostro Paese, della destra nazionale e sociale alla guida del governo, abbiamo completato il ciclo: abbiamo avuto al governo il centro-destra e il centro-sinistra, abbiamo avuto i tecnici e i grillini, ci mancava solo la destra-destra, che viene da An e prima ancora dal Msi. Ora abbiamo anche quella da circa un anno alla guida del governo. E avvertiamo tutti, da tutte le parti, che è finita l’epoca in cui aspettavamo cambiamenti, svolte e nuovi corsi. La linea che prevale è sempre la stessa ed è dentro le coordinate imposte dagli scenari sovranazionali, tra Unione Europea, Patto Atlantico, Nato e Usa, indirizzo economico nel segno di Draghi e della Banca centrale europea, conformità al mainstream. Solo divergenze sul piano simbolico, o su temi che non hanno una ricaduta economica e non comportano cambiamenti di rotta, come per esempio i temi civili, la toponomastica, le questioni sensibili, l’orsa Amarena…
Non c’è una forza che oggi rappresenti il cambiamento e la voglia di imprimere una svolta al Paese: la destra della Meloni procede con i piedi di piombo, è prudente, non fa passi falsi, non accoglie nemmeno chi agita le sue stesse istanze di un anno fa, si attiene alle linee maestre tracciate dai poteri sovranazionali. La sinistra pure, si limita ad agitare principi in temi che non hanno una vera ricaduta civile, sociale e soprattutto economica, dai diritti lgbtq+ all’antifascismo, con l’accusa ridicola al governo Meloni di essere contro i migranti e insieme di aver consentito il loro raddoppio da quando è al governo. Nessuno si aspetta più dalla sinistra il cambiamento, al più la restaurazione del dominio precedente. E in fondo, alla restaurazione punta anche il Movimento 5stelle, con le sue battaglie in difesa del reddito di cittadinanza e del superbonus e il costante paragone tra una surreale età dell’oro quando c’era Giuseppe Conte al governo, e la tragedia in cui saremmo caduti da quando c’è Meloni a Palazzo Chigi. E da lontano, in piccolo, un nuovo “partito” nostalgico muove i suoi primi passi: il centro di Matteo Renzi che fonda il suo appeal sul ricordo di quando c’era lui alla guida dell’Italia.
Se esaminate i loro messaggi, da destra a sinistra, nessuno punta sul cambiamento, tutti sulla continuità, il ritorno, la restaurazione, il ripristino. Il futuro è visto più come minaccia che come promessa; suscita paura più che speranza. A questo quadro di vertice corrisponde un paese che ha smesso di confidare nel nuovo, scottato da un turn over di aspettative deluse o presto risoltasi  in senso contrario. Il risultato che ne deriva è appunto quello descritto in partenza: Avanti popolo, indietro tutta!

 Marcello Veneziani 

Se stasera ci sarà la fine del mondo…

Che succede se in un tranquillo week end al mare in casa d’amici vieni a sapere che nel giro di poche ore il mondo finirà? È la trama di un film, che la novantenne gagliarda Liliana Cavani ha lanciato nelle sale nel settembre che odora di Mostra del cinema di Venezia. Il film è ispirato sin dal titolo a un saggio del fisico e divulgatore Carlo RovelliL’ordine del tempo. Titolo bellissimo, tema importante, l’illusoria durata del tempo che non si misura in lunghezza e quantità ma in qualità e intensità, come diceva anche il filosofo Henri Bergson. Ma soprattutto il tema del film è cruciale, assoluto: l’umanità di oggi sorpresa davanti alla prospettiva di morire, tutti, simultaneamente, improvvisamente, nel giro di poche ore. La causa della fine del mondo sarebbe un grosso asteroide che viaggia velocemente verso la terra, il cui impatto sarebbe letale per il pianeta, senza possibilità di salvezza. Gli apostoli dell’apocalisse nel film sono due fisici che dicono e non dicono agli altri quel che sta succedendo ma che annunciano La Notizia delle Notizie: il finimondo è a momenti, non c’è scampo.
La trama è intrigante, il film è piacevole anche se gli aggettivi sono inappropriati rispetto al tema immenso che si affronta. Gli attori interpretano un campione della borghesia romana, benestante, un po’ attempata e un po’ radical, quel che si direbbe “il generone” romano con casa al mare a Sabaudia: Claudia Gerini, Alessandro Gassman, Edoardo Leo ed altri. Curiosamente, la sala in cui ho visto il film era costituita da un pubblico esattamente analogo a quello che era sullo schermo; attempati romani, borghesi e benestanti, forse un po’ radical anche loro.
Anni fa mi aveva molto colpito il film di Lars von Trier, Melancholìa, che verteva sullo stesso tema: l’imminente fine della Terra a causa di una collisione con un pianeta “malinconico”. Film straordinario che trasmetteva con potenza l’angoscia disperante di un mondo desolato alla fine del suo corso.
Il film della Cavani, invece, è totalmente diverso. La location è ridente, non certo da ultima spiaggia dell’umanità. I dialoghi mostrano l’assoluta sproporzione tra l’evento cosmico, tragico e apocalittico che si sta compiendo e le preoccupazioni minime, banali, dei “morituri” nel loro amabile rifugio sul mare, tra dolci chiacchiere, tenui rimpianti e residue vanità. Anche quando si cerca di scavare più a fondo, non emergono temi, domande, angosce che pure sarebbero spontanee davanti al disastro annunciato; si gira intorno a piccoli risvolti della propria vita, rapporti di coppia, frustrazioni umane o professionali, apprensioni ordinarie per i figli che non rispondono al cellulare. Non manca l’ironia, tipo non lavarsi i denti l’ultima sera prima della fine del mondo, ed è forse la chiave più simpatica del film, che cavalca la sproporzione tra l’immane tragedia e la vita di ogni giorno. I maschi nel film sono un disastro, tra bonaria coglioneria e miserabili ipocrisie; un po’ meglio le donne, più sveglie, come vuole il cliché femminista imperante. Mentre finisce il mondo, la confessione più forte che si ascolta è l’amore lesbico della moglie di Gassman per una sua amica presente all’addio. Davanti alla fine dell’umanità e a un evento che non si verificava, dicono i fisici, da 69 milioni di anni, l’unico male che viene evocato è il nazismo e la concorde condanna verso chi oggi ne sarebbe complice d’opinione… Ma come, finisce l’umanità, accade qualcosa che non accadeva da milioni d’anni e questi poveri imbecilli restano ancora aggrappati ai temini del politically correct, ai femministi e al gender, ai coming out, al pericolo nazi e menate varie? Temi che inquinano anche l’unica breve parentesi fuori dal banale: l’incontro di una di loro con una suora che vive serena la fine del mondo perché si affida alle mani di Dio. Il resto, niente.
Non mi interessa descrivere o recensire il film, invogliare o scoraggiare chi pensa di vederlo. Interessa invece porre la domanda: ma davvero l’umanità, noi contemporanei, non solo i cittadini romani in vacanza sul Tirreno, davanti all’Evento Supremo della nostra vita, davanti alla catastrofe finale, alla morte della vita sulla terra, siamo così radicalmente incapaci di capire cosa sta succedendo e siamo così ciechi, sordi, muti, meschini? Davvero non sappiamo far altro che raccontare alla vigilia della fine del mondo piccole infedeltà di coppia, riprendere storie d’amore interrotte, confessare gli orientamenti sessuali o dibattere sul nazismo e tacere di tutto, della nascita, della vita, della morte, di cosa resta di noi, la coscienza, se tutto si cancella? Davvero non sentiamo di fare null’altro alla vigilia della nostra scomparsa che restare nella casa al mare di un amico a conversare e ammazzare l’attesa; e non vedere in extremis qualcuno, rivedere qualcosa, ritirarsi a pensare, ripensare la vita, fronteggiare il panico? Non dico che ci vorrebbe un simposio di filosofi, ma davanti alla fine della vita e del mondo chiunque avrebbe tirato fuori tutti i misteri e le paure che sono dentro di noi, tutti i pensieri non detti, i sentimenti e gli impulsi più profondi. E allora la domanda è: siamo davanti a un film piccolo su un tema immenso, ovvero un film non all’altezza del tema che vorrebbe raccontare o siamo davvero così come ci rappresenta il film, un’umanità che anche davanti all’apocalisse pensa a che vestito mettersi stasera? Non un rimorso, non una scoperta in extremis della fede, una preghiera, non un pianto disperato o un gesto assoluto, non un pensiero universale sul destino dell’umanità. Solo piccole, ridicole inezie da fine serata più che da fine del mondo…
L’unico alibi, l’unica attenuante, è la sostanziale incredulità rispetto all’annuncio apocalittico, la convinzione che la catastrofe non ci sarà (come infatti succede) e i fisici magari sbagliano, si fanno prendere la testa dai loro astratti teoremi. Troppo poco per salvare un film; figuriamoci per salvare il genere umano…Alla fine l’umanità la scampa ma è bocciata per indegnità.

              Marcello Veneziani   

L’Italia di Vannacci e quella della Murgia…

L’estate che finisce lascia in eredità due foto di gruppo contrastanti, anzi contrapposte: il selfie assai affollato di gente comune intorno al generale della Folgore Roberto Vannacci e al suo libro, il mondo al contrario; e il selfie di una famiglia allargata che potrebbe essere anche un collettivo, un club, un gruppo di pressione, raccolta intorno alla figura di Michela Murgia, scomparsa poche settimane fa. Sono due mondi agli antipodi, che in Italia hanno assunto i volti del generale e della scrittrice, ma che si contrappongono in quasi tutto l’occidente, e non solo.
I primi sono considerati conservatori, e comunque si reputano realisti, difensori della normalità, della natura e di come è sempre stato, e si reputano vittime di ostracismo, pubblico disprezzo e supremazia ideologica a loro avversa. I secondi sono considerati progressisti, e comunque si reputano fautori della liberazione, dell’emancipazione e della lotta contro l’eterno fascismo e il tornante spirito reazionario. Si considerano a vicenda bacchettoni: perché ormai è acclarato che oltre il bigottismo tradizionalista c’è pure un bigottismo progressista, come scriveva già trent’anni fa Robert Hughes ne La cultura del piagnisteo.
Le due Italie hanno scelto come terreno di competizione le classifiche librarie, un territorio che dovrebbe essere più agevole per la scrittrice e per la sinistra; e dove invece il libro del militare, del paracadutista Vannacci ha doppiato quello della Murgia, nonostante sia considerato quasi ai limiti della legalità, e fuori da ogni credito intellettuale. In realtà, il mondo a contrario lo hanno comprato anche tanti che non sono lettori abituali, trattandosi di un libro-manifesto, di appartenenza e di denuncia, già nel titolo. Nelle due figure del generale e della scrittrice-queer si sono contrapposti due mondi reali e ideali: uno, forse maggioritario, vasto e popolare, si è riconosciuto nel realismo del generale, nel desiderio di chiamare le cose col loro vero nome, di sfuggire alla retorica dei diritti gender, all’ipocrisia del linguaggio e dei divieti politically correct e all’egemonia dell’ideologia, richiamandosi alla normalità, al senso comune, alla natura e alla vita come è sempre stata. L’altro, espressione invece di una minoranza che però conta e pesa assai più della “trascurabile maggioranza degli italiani” (Flaiano), schierata a difesa di lgbtq+, del femminismo radicale, dei migranti clandestini, dell’antifascismo permanente e militante.
Sono due Italie che si detestano, si delegittimano e contrappongono nuovi pregiudizi a pregiudizi antichi. I pregiudizi, ricordiamolo, sono giudizi a priori, non filtrati dal senso critico ma accolti come postulati, precetti, canoni di vita e rappresentazioni della realtà tramite moduli prefissati.
Sono le due Italie del nostro presente, anche se non coprono l’intero arco della popolazione: nel mezzo c’è un’area abbastanza vasta, disorientata e refrattaria ad assumere posizioni nette e radicali. Riaffiora l’eterno dualismo nazionale, che appare da secoli, e poi a volte scompare, va sotto traccia, per lasciare spazio ai compromessi moderati e alle pragmatiche, opportunistiche convergenze al centro. Ma è sempre in agguato e polarizza gli italiani.
Vi sono tuttavia alcuni paradossi che vanno sottolineati. Primo paradosso: le idee espresse dal generale Vannacci sono le stesse che hanno portato molti italiani a votare per la Meloni e per il centro-destra; ma il generale è stato subito sconfessato, attaccato e infine rimosso dal governo di centro-destra, in particolare dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Una scelta che ha ferito molti elettori della Meloni e ne ha spiazzati altri.
Secondo paradosso: benché minoritaria e benché si presenti con i toni e i tratti di una cultura ribelle, antagonista e denunci le discriminazioni subite da alcune minoranze, l’opinione radicale di Michela Murgia coincide col mainstream, è sovrarappresentata e sovratutelata dai media, dalla cultura e dalle istituzioni. I suoi temi sono dominanti, se non obbligati; ogni opinione difforme viene stigmatizzata, denunciata, penalizzata. Come dimostra la stessa vicenda del gen.Vannacci. Nessuno invece viene vituperato se condivide le opinioni della Murgia.
Terzo paradosso: il gen. Vannacci è uomo d’azione, con una carriera di riguardo alle spalle; Michela Murgia era invece un’intellettuale, una scrittrice, anche di culto, ma alla fine si rovesciano i ruoli: il primo manifesta le sue idee solo tramite i libri e le opinioni personali; mentre la seconda, benché intellettuale, può inserirsi nell’alveo di movimenti, mobilitazioni e associazioni di vario tipo.
La politica insegue con un certo affanno le due platee, con molta prudenza e tanti distinguo, a volte tirandosi indietro, anche perché teme di compromettere la propria agibilità politica e la possibilità di allargare i consensi anche a chi non sposa le posizioni “radicali” di Vannacci o di Murgia. Elly Schlein sembra abbastanza vicina alle posizioni murgiane, ma il suo partito, il Pd, è profondamente diviso e complessivamente prudente verso quelle posizioni. Fratelli d’Italia è stato invece decisamente sulle posizioni di Vannacci ma da quando è al governo rallenta, ammorbidisce, assopisce. E ai suoi margini, la Lega di Salvini cerca di riprendere consensi e agibilità politica strizzando l’occhio al generale.
Intanto l’Italia è chiamata alle armi: stai col generale o con la queer? Spaccaitalia.

Marcello Veneziani, Panorama

Vogliono sostituire la famiglia naturale col modello queer…

 

 

 

 

 

 

 

 

La famiglia scelta. È l’espressione chiave per adottare una nuova, radicale sostituzione. Basta con la famiglia “costretta”, ossia la famiglia naturale, con i suoi legami di sangue e i suoi vincoli determinati dall’essere padri, madri, figli, fratelli “biologici”. Invece la famiglia scelta è per definizione una famiglia volontaria, adottiva, collettiva, libertaria ed egualitaria in cui vivono sotto lo stesso tetto persone varie, e animali annessi, indipendentemente dal genere e l’orientamento sessuale. In una parola, la famiglia queer.

Il mito di fondazione della famiglia queer è associato a Michela Murgia, la scrittrice che prima di morire decise di rendere pubblica e solenne la sua famiglia scelta, ibrida e allargata. Come tutti i miti di fondazione, la morte della fondatrice ha dato “sacralità” simbolica a questa visione pur dissacratoria della famiglia naturale e tradizionale. Al di là della vicenda terrena della scrittrice sarda, alcuni giornali, circoli intellettuali, cenacoli si stanno impegnando a trasformare quell’esempio di famiglia queer in modello di riferimento alternativo rispetto alla famiglia coatta traducendola in battaglia politica e civile per rivendicare la libertà d’amare e di scegliere (Elly Schlein sarà con loro).
Cos’è una famiglia queer? “Una famiglia ibrida fondata sullo ius voluntatis, sul diritto della volontà” spiegava la Murgia. E i suoi discepoli, da Michela Andreozzi a Marcello Fois, spiegano che la famiglia scelta è struttura variabile oltre che volontaria, e comprende animali, svariate sorelle, papà e mamma elettivi (si scelgono i padri e le madri con votazioni, si procede per acclamazione, si va a rotazione?). E ciascuno specifica come si faceva da bambini quale ruolo assume nel gioco di ruolo che sostituisce la famiglia naturale. Io faccio il papà, io la figlia…Ribadendo che il sangue non c’entra nulla, e la famiglia tradizionale non ha mai funzionato bene, ma ora non funziona più.
Sarebbe facile giocare sull’ironia, ma prendiamo sul serio quel che viene detto e rispettiamo le scelte altrui, fino a quando non pretendono di essere alternative e sostitutive rispetto a quelle che costituiscono la realtà naturale e l’esperienza di vita su cui si fondano la società tramite le famiglie e la loro riproduzione. Dunque, cos’è quella società allargata di conviventi con libera e mutante sessualità? E’ una libera e provvisoria associazione, ma non chiamiamola famiglia. Qual è il legame che insorge tra loro? E’ l’amicizia, non si può paragonare all’amore famigliare. Arrivo a dire che se l’alternativa è l’isolamento, il solipsismo, ovvero la solitudine non come scelta ma come perdita del mondo e depressione, ben vengano questi club allargati, affettivi prima che sessuali, piuttosto che definirle con linguaggio camorristico “nuove famiglie organizzate”.
I problemi sorgono quando queste reti amicali si configurano come la famiglia del futuro, con la pretesa di sostituire i legami famigliari. E quando si pretende di cancellare, degradare, svalutare tutto quel che proviene dalla natura, dal sangue, dall’ereditarietà, dai legami del destino, rispetto a quelli fondati sulla volontà. Che è soggettiva e quindi conflittuale rispetto ad altre volontà soggettive; che è mutevole e quindi non può garantire costanza e sicurezza degli affetti come invece quelli tra genitori e figli, o tra fratelli. Che non è riproduttiva, perché le associazioni di tipo omosessuale non possono riprodursi se non usando terzi (uteri in affitto, fecondazioni artificiali, compravendita di corpi, semi, ovaie, neonati, ecc.).
Torno a dire che nessuno vuol negare la libertà di quelle scelte, ma non sono sostitutive rispetto alle vecchie, scassate, controverse, contestate famiglie naturali. E le fratellanze senza padri e madri, di solito degenerano in fratricidi; se non ti riconosci nella comune origine, se non ti riconosci in un padre e una madre comuni, alla fine, passato il periodo dell’abbraccio generale, insorgono le divergenze, le priorità, le egemonie. Ogni volontà, alla fine, è volontà di potenza, di dominio. Se non personale, ideologica, di un modello, di una struttura, di un collettivo.
La famiglia, si sa, sta male già per conto suo; l’atomismo e l’egocentrismo, il narcisismo e la fluidità, i desideri infiniti e le pretese la mettono a dura prova. Spesso i matrimoni saltano, e il vero rapporto indissolubile, alla fine, è di tipo verticale: è quello tra genitori e figli, che non si può disdire o revocare, come invece può accadere nel rapporto di coppia. Non idealizziamo la famiglia “tradizionale”, cogliamone tutti i limiti, i difetti, le contraddizioni con una società troppo aperta e troppo individualista per poter reggere l’urto a livello famigliare. Però, provate a pensare “senza”, provate cioè a liquidarla, a ritenervi solo figli del vostro tempo e delle vostre scelte, anziché figli della storia e della famiglia. Provate a perdere quell’asse di riferimento, necessario anche quando lo confutate; provate a negare quell’alveo d’origine, quel luogo d’infanzia e di formazione, quel rifugio, quel bisogno originario, primario, di sicurezza; dove i legami sono autentici proprio perché biologici, naturali, precedenti la nostra stessa volontà; veri e istintivi. Perché noi non nasciamo come una tabula rasa su cui decidiamo tutto; noi nasciamo eredi biologici, con legami naturali affettivi (gli stessi che vi commuovono quando parlate dei cuccioli di Amarena, l’orsa abbattuta in Abruzzo). Quel che precede la nostra libertà e la nostra volontà si chiama natura, identità, origine, destino. Perché dovremmo disprezzare, rigettare, spezzare tutto questo? Non siamo autocreati e tutto ciò che costruiamo non lo costruiamo dal nulla ma sempre da realtà preesistenti. Create pure le vostre case arcobaleno e le vostre reti amicali; ma sappiate che non sostituiscono la famiglia da cui provenite e quella costruita accoppiando e procreando. Sono due piani diversi. E bisogna saper distinguere, e rispettare, la sfera dei legami naturali da quelli elettivi. Noi siamo quel che siamo e diventiamo quel che siamo; non nasciamo dalla nostra volontà e dai nostri desideri. Siamo creature, possiamo essere creativi, ma non siamo creatori.

Marcello Veneziani   

Arrestate il pino. E’ apologia del fascismo.

Avete presente la nostra epoca imbevuta di ecologia, feticismo green dappertutto, perfino nella pubblicità, fanatismo ambientalista che paralizza ogni impresa? Beh, con il pino non vale. Il pino va sterminato, sradicato, cacciato dalle città; anche se sono belli, fanno parte ormai del paesaggio e svolgono utili funzioni contro l’inquinamento, il malefico CO2. La guerra contro il pino è la spia di una sensibilità, di un modo di (non) vedere e di una netta divaricazione tra l’ideologia green e la pratica nella realtà. Il pino è la metafora di un odio per l’esistente o per ciò che viene dal passato, nel nome di un Verde perfetto e utopico che verrà.
La battaglia contro il pino si combatte in molti luoghi d’Italia, a partire dalla Capitale, dove i pini erano veramente tanti e godevano di grande fama storica, pittorica e civile. Partiamo da un dato: nel 2016 erano censiti in Roma 120mila pini; ora, sette anni dopo, sono meno della metà, 55mila. Cos’è successo, è passata la Xilella Raggi, la sindaca Virginia? Ma no, la grillina avrà le sue colpe, però la guerra al pino è più vasta e diffusa. Curioso il caso del sindaco in carica, Roberto Gualtieri, che come Berlusconi, aveva promesso nella città un milione di nuovi posti per gli alberi, e invece ne ha piantati poche migliaia e i pini neopiantati, a fronte dell’ecatombe di questi anni, sono in gran parte moribondi. Questi dati mi sono stati forniti da una convinta pasionaria del pino, Jacopa Stinchelli, che si definisce “ministro della difesa dei pini” a cui si sta dedicando con abnegazione. Jacopa non è sostenuta dai movimenti green e dalla galassia ecologista che di solito insorge appena torci una foglia o un ramo di una pianta, ma della sua battaglia e della morìa dei pini in Roma se n’è occupato anche il New York Times il 13 agosto scorso.
Il problema è che il pino è in Italia un albero identitario, anzi è l’albero dell’italianità. Si diffuse con l’unità d’Italia, garibaldina e sabauda. La Regina Margherita fu madrina di pinete. Alla fine dell’ottocento fu lanciata nelle scuole la festa dell’albero, che era ancora viva quando andavo io alle scuole elementari e fu il primo assaggio di sensibilità verde per chi viveva in piena ebbrezza di industrializzazione, cemento e modernità. Si piantava un pino e si celebrava l’utilità, la bellezza e il ristoro che gli alberi davano agli uomini, alle città e alle località. La pigna fu eletta a simbolo dell’unità d’Italia, antico retaggio romano ed etrusco, che la consideravano sacra; il pino diventò il testimonial dei paesaggi nei pittori ottocenteschi che venivano in Italia (uno tra tanti, William Turner). Il pino fu reso famoso dai poeti, primo tra tutti Gabriele D’Annunzio con la sua pioggia nel pineto, che celebrava la Versilia ma anche la sua Pescara. Il pino fu amato dai musicisti, come Ottorino Respighi, che gli dedicò un poema sinfonico. Fa capolino nella musica leggera con i pini di Roma cantati da Antonello Venditti, mentre Brian May dei Queen dice che i pini di Roma lo affascinano in modo speciale. Anche nel cinema italiano fanno da sfondo a molti capolavori del passato e anche recenti. Le pinete diventarono sontuose cornici di litorali e accompagnarono amene località non solo marine.
Ma il pino l’ha combinata grossa, diventò pure il simbolo dell’Italia fascista, che potenziò la festa dell’albero, piantò pini dappertutto, da Ostia alla Maremma bonificata e in mille altri luoghi d’Italia. L’edilizia fascista, le città di fondazione e le colonie estive, erano contornate da pini. Piantavano pini nel risanamento dalle paludi e dalla malaria.
A Roma c’era un missionario dei pini, dall’Italia prefascista all’Italia fascista e poi alla repubblica: si chiamava Raffaele de Vico, era architetto, paesaggista e urbanista e propagò i pini in Roma, da Villa Glori al Parco della Rimembranza, dove i pini simboleggiavano le anime dei caduti. Insomma, il pino è un albero “patriottico”, la cui presenza suona come amor patrio e per taluni come apologia di fascismo. Dunque, va abbattuto o lasciato morire. Il Pino è fascista, e pure neofascista: vi dice nulla Pino Rauti, Pino Romualdi, Pino Tatarella (detto Pinuccio perché postfascista)?
Paradossi ideologici a parte, conosciamo i più ragionevoli motivi addotti per estirparli: sono pericolosi, soprattutto con il maltempo, le loro pigne sono contundenti, come i loro rami, le loro radici sono invasive, dissestano le strade. E poi sono cagionevoli, si ammalano, la loro manutenzione è faticosa, non sono autoctoni (anche in questo caso salta la retorica dell’accoglienza e si diventa improvvisamente identitari, in difesa delle specie vegetali autoctone, le pure “razze” nostrane rispetto agli alberi stranieri). Conosco la guerra del pino per esperienza personale, perché avendo quattro pini maestosi ai fianchi della casa, subisco una diffusa campagna pinofoba, con pressanti richieste di tagliarli, sfoltirli, abbatterli. Certo, i pini danno problemi, le radici, gli aghi, le pigne; ma danno senso e identità a un luogo, danno ombra e luce, aria e bellezza. E poi esistono rimedi efficaci contro i suoi malanni, assicura Jacopa, ci sono le cosiddette endoterapie, si possono contenere e incanalare le radici, lo dicono i pochi esperti e amanti del pinus pinea o dei pini domestici.
I pinicidi confidano in un famigerato parassita alieno, la cocciniglia toumeyella parvicornis, che fornisce un formidabile pretesto per la ” soluzione finale” dei pini. Il parassita s’insinuò prima nelle pinete di Napoli, dove i pini torreggiano nelle vedute più famose di Posillipo, del golfo e del Vesuvio. A differenza di altri allarmi ambientali, col pino si preferisce collaborare col parassita, tifare per lui, o precederlo negli abbattimenti, piuttosto che difendere la pianta. Prevale, come dice Jacopa, “l’invidia del pino”, variante arborea del famoso complesso freudiano. L’odio verso i pini, naturalmente con forti alibi sanitari, rivela l’ipocrisia dell’amore per la natura e il disprezzo per tutto quanto evochi una storia e un’identità. In pino veritas.

 Marcello Veneziani       

…e poi c’è la vita invivibile …e i nuovi zombi!

La droga dei nuovi zombie

La droga dei nuovi zombie

 

 

Cos’è lo stupefacente osservato a Seattle e perché è differente da cocaina ed eroina.

 Alcuni la chiamano droga-zombie. Ne avevo sentito parlare da diverso tempo, ma non avevo mai potuto osservare in presa diretta i suoi effetti. Nel nostro Paese, da quello che mi risulta, non circola ancora. Mi è capitato questa estate in una Seattle dall’aria triste e abbandonata di incontrare le sue vittime in piena downtown. Quello che colpisce è la postura bloccata dei corpi, come colpiti da una paralisi inquietante; corpi sospesi, vivi ma senza vita, marmorizzati, imprigionati in un denso e infernale torpore, immobilizzati, specie di sculture morte, ripiegate su se stesse, accartocciate in posizioni irreali. Come i corpi pietrificati di Pompei in fuga dalla incandescenza della lava: corpi irrigiditi in una sorta di ultimo spasmo di vita, corpi senza scampo, senza più vie di fuga.

La sostanza è un mix chimico micidiale di due molecole: la xilazina utilizzata per lo più nella medicina veterinaria come prodotto sedativo per animali di grossa mole e il fentanyl, un oppioide sintetico con effetti analgesici. Questi nuovi tossicomani li chiamano zombie. Nei film horror gli zombie appaiono per lo più nella forma dei morti che riprendono imprevedibilmente vita, che ritornano spettralmente dal mondo buio dell’oltretomba alla ricerca di vita umana da sbranare. Nel centro di Seattle, invece, questi giovani zombie apparivano solamente come vite già morte. Non dunque come vite morte che ritornano spettralmente vive, ma come vite vive che appaiono già intaccate dalla morte. Davvero impressionante anche per uno psicoanalista abituato ad avere a che fare anche con le forme più gravi della sofferenza umana. Lo sfondo il degrado sociale e la povertà, la vita esclusa, schiacciata nell’angolo, lasciata cadere.

Quanto è diversa questa droga da quelle che abbiamo già conosciuto? Negli anni Settanta del secolo scorso l’eroina si era configurata come il paradigma trasgressivo dell’intossicazione. L’estasi, il paradiso artificiale, la fuga dalla realtà, ma anche la contestazione nei confronti del sistema, il suo ripudio radicale, la sua condanna senza appello. Distruggersi per non fare parte di un mondo i cui valori erano anarchicamente rifiutati. Quel primo paradigma trasgressivo dell’intossicazione implicava la dissociazione dal conformismo della vita borghese e l’illusione che potesse esistere una vita differente, svincolata dall’ideologia dei consumi e dalla violenza del capitalismo. Abbiamo poi conosciuto un paradigma completamente diverso. È quello iperattivo che trova nella cocaina la sua sostanza ideale. Abbiamo tutti in mente la sulfurea figura di The Wolf of Wall Street di Scorsese, interpretata da uno straordinario Di Caprio. In questo caso la contestazione del sistema ha lasciato il posto alla sua più estrema assimilazione. In primo piano non è più il flash del godimento eroinomane come via di accesso (illusoria) ad un altro mondo, ma l’avidità senza scrupoli e senza tregua di un godimento pienamente omogeno alla pulsione neo-libertina del capitalismo finanziario.

Il consumo della cocaina non dissocia la vita dal sistema, ma la rende competitiva, rafforza il principio di prestazione, amplifica la volontà di potenza del proprio Io. Mentre l’illusione del paradigma trasgressivo dell’eroina consisteva nel raggiungere una forma di vita alternativa a quella del consumatore borghese, quella sostenuta dalla cocaina si definisce come una sorta di corsa maniacale verso un godimento senza limiti. Mentre l’eroina è una droga dell’inconscio, la cocaina è una droga dell’Io. Questo ultimo paradigma della droga-zombie sembra invece introdurci in un universo differente. La contestazione trasgressiva del sistema (eroina) e la sua assimilazione iperattiva (cocaina) ha lasciato il posto ad un altro paradigma. Quello che la droga zombie mette in luce è che la finalità ultima della droga è sempre una finalità mortifera. Freud aveva parlato a questo proposito del principio del Nirvana: azzerare le tensioni della vita, estinguere la spinta del desiderio, condurre la vita verso lo zero assoluto. La droga zombie dichiara in modo inequivocabile questa finalità ultima dell’intossicazione. Nessun paradiso artificiale, nessuna trasgressione, nessuna critica al sistema. Ma anche nessun potenziamento narcisistico del proprio Ego, nessuna volontà di potenza, nessun godimento neo-libertino. Quello che resta è solo la vita che rigetta la vita, la vita già morta, la vita bloccata, immobilizzata, la vita senza alcuna avvenire di vita. Si tratta dell’anima più propria dell’intossicazione, della sua vocazione più profondamente nirvanica. È la faccia in ombra della maniacalità neo-libertina.

Mentre questa si consuma nella sua spinta avidamente illimitata di consumo, il drogato-zombie ha gettato la spugna, si è ritirato dalla gara perpetua di tutti contro tutti, punta solo ad annientarsi, a ridursi alla dimensione minerale di una scultura senza anima.

Massimo  Recalcati    da La Repubblica

Il sud è un geo-pensiero fruttuoso..Dalla Gazzetta del mezzogiorno.

Alla festa della Taranta mi hanno chiesto di parlare del sud stasera a Sternatia. Il tema è riassunto in un’espressione che coltivo da anni: cogito ergo sud. Al meridione non tocca adeguarsi all’unione europea o inseguire i modelli del nord, diventando solo una caricatura a rimorchio e a comando; ma far riemergere l’anima pensante del meridione e renderla fruttuosa nel presente.
Parto da una celebre espressione usata con disprezzo da Gianni Agnelli verso un politico meridionale: intellettuale della Magna Grecia. Ad avercene di intellettuali della Magna Grecia, ma veri. Se le sognano in altre parti d’Europa le fervide menti meridionali, se le sognano le dinastie industriali come gli Agnelli (basterebbe dire che oggi il miglior erede degli Agnelli è Lapo Elkann; ho detto tutto, diceva Peppino a Totò).
Si tratta di compiere una piccola rivoluzione: quel che conta non è sempre e solo essere al passo coi tempi ma a volte è prezioso essere al passo coi luoghi, sentirsi non contemporanei ma conterranei. Ossia mettere a frutto il legame geografico comune col sud, la nostra matria. Questo significa geofilosofia, un pensiero all’altezza dei luoghi, figlio di un paesaggio, di una storia in una terra, di una cultura derivata da coltura, e fluente come il lungo mare nostrano. C’è un legame creativo e fecondo tra il genius loci e il pensiero, tra i caratteri, i miti, le musiche e le danze, come la taranta, e il pensiero mediterraneo, amato da Paul Valéry, Albert Camus e Jean Grenet, indagato a Bari alla luce del pensiero meridiano da Franco Cassano. C’è un legame fortissimo tra pensiero e natura, tra l’ideario e il cibario, che potrebbe affascinare anche oltre il sud e trasformare le onde anomale e provvisorie del turismo in una scoperta antropologica, uno stile di vita, una modalità di pensiero da frequentare con più fruttuosa assiduità. Dalla frenesia dell’ora all’ozio creativo della controra.
Da anni disperdo al vento del sud il seme di un progetto per la raccolta del pensiero mediterraneo, di una Fondazione che se ne prenda cura, di un Ateneo che lo tenga a battesimo, di un giornale o più giornali che se ne facciano veicoli… Un campo di ricerche in cui promuovere studi e arti, iniziative ed eventi, rinascita di luoghi, senso del bello e amor del luogo, mitologia del sud e letteratura identitaria. Qualcosa che riprenda in modo originale le intuizioni del meridionalissimo Giambattista Vico (a cui ho dedicato una biografia in uscita tra una settimana da Rizzoli), gli studi antropologici di Ernesto de Martino e tutto il filone sommerso del pensiero meridionale, non meridionalista; mediterraneo, meridiano, non lagnoso o solo retrospettivo.
Quanto ai ritardi del sud, li vedo anch’io, ma proviamo a fare un discorso diverso: siamo gli ultimi in fila alla vecchia cassa, ma se stiamo attenti, saremo i primi appena se ne apre una nuova. Non sto parlando di cassa per il mezzogiorno, dico fuor di metafora che i nostri ritardi in materia di industrializzazione e di modernizzazione potrebbero diventare un’opportunità ora che il modello verso cui ci muoviamo è postmoderno e postindustriale. Il terziario, i servizi, la tecnologia, il lavoro a casa, la creatività, l’accoglienza delle popolazioni anziane e benestanti del nord Europa, la ricerca di campi inesplorati, la cultura, la natura, il culto di bio.
Parliamo sempre di chi se ne val sud, ma se ci occupassimo pure di chi resta? Se oltre i migranti ci interessassimo ai restanti o restii? E poi l’originalità di un approccio non tecno-scientista, ma mito-umanista. Immaginate cosa può fare un Parmenide, un Pitagora, un Platone con uno smartphone in mano, un pc, un cervello artificiale al suo servizio… Provate a pensare inauditi incroci anziché ripetere vecchie formule tardomoderne e cascami di ideologie andate a male. Il sud non è solo un modo di dire ma anche di fare e di pensare. Il mondo visto dalla controra.

Marcello Veneziani

Esselunga…dai Racconti di vetro di Andrea Salvatici.

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Esselunga

Vincenzo uscì dal suo studio pubblicitario alle ore venti e quindici un po’ prima rispetto al solito. La sua agenzia pubblicitaria era fra le più importanti e potenti di Milano. Aveva sbaragliato la concorrenza nazionale, ma soprattutto quella americana e adesso la sua creatura aveva un ruolo predominante nel mercato pubblicitario televisivo: campagne per la Fiat, per la Barilla, per la Superga, per l’Adidas, per la Nike.  Insomma, la sua agenzia era la numero uno. Premi, targhe, riconoscimenti internazionali, tutto contribuiva a rafforzare la sua qualità e creatività professionale. Alle ore venti e trenta era già con il suo carrello fra il corridoio dei detersivi e quello dei sottaceti, distratto e lontano da tutto, con una leggera fame e tanta voglia di andare a casa e mettersi sul divano a vedere qualche programma registrato di Lucarelli. Possedeva tutte le cassette della serie “Blu notte”. Persino al lavoro ripeteva ogni tanto al suo fidato collaboratore: ”Lui non sa … ma è già morto”. Lento e leggermente sfiorato da una stanchezza cronica oramai accettata senza nessuna conflittualità personale, Vincenzo provava a quell’ora una rilassatezza meravigliosa. Comprava quasi sempre broccoli, cimette di rapa, acciughe, aglio, peperoncini e pasta fresca, in particolare orecchiette pugliesi. Dopo il divorzio le sue serate si erano trasformate: all’inizio in un momento nuovo e assai eccitante, col tempo si era poi stancato di avventure occasionali e adesso difendeva fermamente il suo spazio personale. Non era una rinuncia alla nuova vita da single o un rifiuto del mondo femminile, era soltanto una voglia diversa di viversi. Voleva stare da solo dopo tre relazioni importanti e un matrimonio fallito. In lui non c’era né rabbia, né tristezza, né dolore. C’era solo il desiderio di godersi la sua vita per la prima volta da solo. Quella sera al supermercato comprò cimette di rapa già pulite e tagliate, parmigiano in busta, acciughe, peperoncino e orecchiette di pasta fresca. Domani non sarebbe andato al lavoro. Gara vinta, due giorni di riposo, quindi si comprò due bottiglie di Chianti, il solito, quello che beveva con Francesco ai tempi dell’università, ai tempi della prima occupazione degli anni novanta. Era affezionato a quel vino anche se non era fra i più pregiati ma quel rosso gli ricordava le serate con Francesco, che ora non c’era più, a Castellina in Chianti con le loro amiche di corso. Tutti davanti a un grande caminetto acceso. Quante discussioni filosofiche e quanti innesti meravigliosi fra una goccia di sudore e l’altra. Giunto alla cassa cinque si mise in fila dietro due ragazze che parlavano inglese speditamente. Vincenzo guardava le lamette e i giornali. Spostò lo sguardo e incontrò quello di una delle due ragazze: potente e immediato nel trattenere quello di Vincenzo nel verde dei suoi occhi. Lei gli sorrise e ritornò a sistemare i pochi prodotti acquistati con l’amica sul nastro della cassa: insalata già pulita, yogurt, cracker e una bottiglia di Rum cubano. Vincenzo rimase immobile e aspettò il suo turno. L’altra ragazza dai capelli biondi, gli passò il separatore con scritto “prossimo cliente”. La cassiera, una donna sui quarant’anni, passava i prodotti a grande velocità, la ragazza dai capelli biondi, sorridendo con un certo imbarazzo, si accorse di non avere i soldi per comparare la bottiglia di Rum cubano. Chiese all’amica un aiuto. Niente, nessuna delle due poteva  pagare la bottiglia e la cassiera continuava a dire in tono assai acido: ”Allora?”. Vincenzo capì un’esclamazione in inglese un po’ imbarazzata e intervenne con il suo perfetto inglese e con estrema delicatezza. “ Posso darvi una mano per la bottiglia? Senza offesa…”. Le due ragazze lo guardarono e annuirono sorridendo. Lui pagò la loro bottiglia, la cassiera si tranquillizzò e le giovani donne lo ringraziarono. Assomigliavano a due modelle. Alte, magre e vestite con  jeans e magliette bianche.

Vincenzo mise i suoi prodotti sul rullo e guardò le due sirene uscire senza voltarsi. Nel parcheggio aprì il lucchetto della bicicletta e vide le due ragazze non lontane da lui appoggiate a una macchina mentre fumavano una sigaretta. Gli fecero un sorriso invitante.

Inforcando la sua bicicletta gli passò accanto, rispose al sorriso e incominciò a pedalare con leggerezza.

da Il Corriere della Sera       

Termofilosofia e tirannia del Meteo .

 

Insomma, questo caldo bruciante a sud, queste tempeste devastanti a nord, sono gli eccessi di un’estate come altre in passato o sono il segno di un drastico cambiamento climatico? Sono frutti bizzosi del caso e del maltempo o derivano da errori, disattenzioni e colpe umane? In altri tempi, mistici e messianici, avrebbero discusso se siamo alle soglie della fine del mondo oppure è uno di quei feroci ruggiti del solleone che periodicamente si affacciano nella storia climatica del mondo. Anche in quel caso, le catastrofi sarebbero state attribuite da alcuni ai peccati degli uomini, alla loro tracotanza, che i greci chiamavano hybris. E da altri agli imprevedibili capricci della natura. Stavolta, ad aggravare la scena si è messo il primo governo “di destra” della nostra repubblica, subito accusato di grave complicità nelle catastrofi, anzi di concorso esterno in calamità ambientali.
Proviamo a ragionare, non su basi scientifiche e nemmeno statistiche, dopo aver letto esaurienti spiegazioni e dettagliati paragoni col passato che conducevano a opposte conclusioni con dati alla mano.
Siamo in presenza di una termofilosofia, ovvero una filosofia del caldo, che s’intreccia a una specie di tirannia del meteo, altrimenti definibile come meteocrazia. Il precedente filosofico e teologico fu il terremoto che distrusse Lisbona nel 1755: c’è chi vide in quel terremoto una punizione divina (es. de Caussade) e chi trovò in quel sisma la prova dell’inesistenza di Dio (es. Voltaire). I primi furono detti oscurantisti, i secondi illuministi.
Ma torniamo al presente. Lasciamo fuori dal ragionamento le due ipotesi estreme, che sconfinano in due reati, non solo d’opinione: da una parte il negazionismo di chi nega il cambiamento climatico, e dall’altra il meteoterrorismo, di chi specula sul terrore meteo per trarre profitto politico, mediatico, industriale, commerciale.
Quel che possiamo constatare in partenza è che viviamo ormai da alcuni anni sotto la Cappa dell’Emergenza: si passa senza soluzione di continuità da un’emergenza a un’altra, sanitaria e farmaceutica, bellica e militare, poi ecologica da inquinamento, ora la bolla meteocatastrofica, più altre sottoemergenze che accompagnano le macro-priorità.
Terrorismo mediatico quotidiano, psicosi di massa indotta dai media, anche per vendere l’informazione: impresa sempre più difficile, necessita di dosi emotive sempre più forti. Emergenza vuol dire sospendere alcune libertà e tanta spensieratezza, vuol dire accettare sacrifici e restrizioni sempre per il nostro bene, controllare e sorvegliare, produrre campagne massicce, prescrizioni e proscrizioni di massa, più investimenti adeguati. E si tratta di additare alla popolazione un capro espiatorio su cui scaricare la colpa della situazione col relativo carico di paure, invettive e rancori.
Concorre a questo mutato “clima”, in ogni senso, la nostra mutata percezione e la nostra mutata soglia di sopportazione, molto più ridotta nel tempo, non solo a causa dell’uso massiccio di aria condizionata. La stoica sopportazione del caldo o delle intemperie nelle società antiche si è assai assottigliata in una società fisicamente e psichicamente fragile, delicata, benestante, un po’ nevrotica, fin troppo accessoriata e foderata di mediazioni. Ogni evento fuori controllo diventa estremo, biblico. E in una società di vecchi soffriamo di più gli eccessi climatici.
Ciò detto, è innegabile che qualcosa di diverso stia accadendo nel clima: non si tratta più di citare Plinio che già duemila anni fa diceva che sono finite le mezze stagioni. C’è qualcosa che nella nostra esperienza di vita, non avevamo vissuto: o per dir meglio, ricordiamo tanti eventi atmosferici avversi, di ogni tipo; ma si è intensificata la frequenza, è aumentata e accelerata. Per fare un paragone filosofico e umanistico, il clima sta mutando con la stessa velocità con cui ci stiamo disumanizzando, in vari ambiti, perdendo la consuetudine di mondi, visioni, morali, religioni e culture con una velocità impressionante. Qui fa capolino una visione metafisica della decadenza, ma in questa sede atteniamoci alla realtà.
Detto questo, è doveroso e urgente cercare di far qualcosa per prevenire, arginare, salvare il salvabile. Dunque non si tratta di abbandonarsi al liberismo teologico e climatico, e lasciar fare il corso della Natura; qualcosa bisogna fare per frenare le emissioni di gas nocivi, inquinamento, la moria di vegetazione e animali, e così via. E bisogna essere il più possibile tempestivi e incisivi. Riconosciuta la necessità di interventi, aggiungerei però due considerazioni intrecciate. La prima è che le possibilità che ha l’uomo di modificare l’ecosistema, l’equilibrio geotermico e il clima sono assai relative, ridotte; la nostra incidenza non va esagerata, siamo dentro processi più grandi che dipendono da fattori più vasti. E anche i fattori umani, a cominciare dal sovraffollamento del pianeta come mai era accaduto, sono quasi insormontabile, non possono essere risolti in modo efficace e razionale. Dunque non attribuiamo troppi poteri all’uomo. E qui torniamo alla filosofia del nostro tempo, anche in senso meteo: da anni rifiutiamo l’idea di evento catastrofico, di incidente, di calamità naturale. Cerchiamo dietro ogni evento una responsabilità, dei colpevoli per dolo, incuria o malvagità; sembra quasi che ogni morte sia causata da un incidente, un disguido, una mancanza di precauzione e prevenzione, insomma sia sempre responsabile qualcuno. Convinciamoci di una cosa: la prima causa, assoluta, di decessi è che siamo mortali. La morte non è un errore ma un destino. Non è colpa tua, mia, loro, della Meloni. Il fatto è che siamo mortali.

Da Panorama, di Marcello Veneziani

Coin… di Andrea Salvatici, da I Racconti di vetro.

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Coin

Daniele guardava dormire suo figlio Filippo con soddisfazione e con gioia. Era riuscito a farlo addormentare. Adesso poteva ritornare in salotto. Filippo aveva due anni e assomigliava a sua nonna in modo impressionante: occhi blu molto grandi  con un leggerissimo strabismo di Venere. Labbra molto carnose assai sproporzionate rispetto agli altri tratti ma che donavano già al bambino una fisionomia animale e sensuale. Daniele lo guardava e sorrideva dicendo a se stesso: ”Mio figlio sarà un animale braccato e desiderato dalle donne per le sue labbra, ma lui riuscirà a trasformarle in gazzelle nelle sue fauci di predatore affamato”. Quest’idea gli ritornava spesso quando guardava suo figlio e senza dire una parola a nessuno capiva che si nutriva di un luogo comune verso il sesso femminile. Di fatto era troppo sentimentale, dolce, disponibile! Di fatto era debole verso le donne. Persino la paternità non era riuscita a suscitare in lui qualcosa di nuovo e di vero. Continuava a non comunicare in modo leale e sincero con la donna che gli aveva dato un figlio bellissimo. Continuava a non affidarsi e a fidarsi completamente delle donne. Ecco la verità! Le donne concedono e non si danno completamente. Le donne creano il latte. Gli uomini lo bevono. Per lui non era un pregiudizio, era il suo sentire dopo molte donne. Tutto qui. Un suo parere e non voleva farne assolutamente un manifesto per la collettività. Il divario rimaneva, ma ora cominciava ad accettarlo con una tranquillità più pratica ed efficiente: carriera, soldi, potere, vacanze al mare, in montagna e qualche scappatella con giovani donne. Insomma tutto si ripeteva allo stesso modo con le stesse fissità, con gli stessi piccoli soccorsi: matrimonio, figli, convivenza. Viveva su dei binari d’oro, ma erano pur sempre dei binari. Passò dal salotto, sua moglie e la sua amica si erano trasferite in terrazza: cento metri quadri di fiori e di piante. Una vetrata separava il divano bianco da un gigantesco ciliegio cinese. Lo aveva comprato Daniele il giorno della nascita di Filippo. Amava regalare o comprare alberi quando arrivava un bambino. Lo faceva con gli amici, con i parenti e quel giorno lo fece per la sua famiglia. Tre mesi dopo sua suocera, senza dirgli nulla, potò i due rami centrali e lo trasformò in un bonsai. Che rabbia per lui! Che voglia di mandarla a quel paese! Ma poi l’albero era riuscito in pochi mesi a crescere di nuovo e quella rabbia si era persa nella distanza fra lui e la suocera. Salutò sua moglie e la sua amica e uscì. Aveva voglia di fare due passi ma si accorse che era sabato pomeriggio e lui abitava in una traversa di Corso Vercelli. Erano le quattro. Un fiume in piena fatto di persone lo costrinse a entrare da Coin. Senza pensarci prese la scala mobile e arrivò all’ultimo piano: casalinghi. Trovò una sedia davanti a una lampada e si sedette. Cominciò a guardare quella lampada che sembrava un girasole con i petali chiusi in avanti.  Simpatica, allegra ma di pessima qualità. Lui amava le lampade, quelle costose, di alto design, ma quel giorno decise di fissare quella lampada. Si sentì toccare con delicatezza la spalla e si voltò. Era una giovane commessa. Lui la guardò senza dirle una parola. “Le chiedo scusa! Ma ho bisogno di questa sedia!” disse la giovane commessa. Lui si alzò immediatamente e le sorrise scusandosi. La ragazza prese la sedia e la portò via. Daniele rimase tutto il pomeriggio all’ultimo piano di Coin a guardare caffettiere, forchette, frullatori, fiori finti, oggetti colorati, bicchieri e piatti. In quel luogo di solito, in compagnia di sua moglie, riusciva a rimanere dieci minuti al massimo, poi si innervosiva e usciva. Ma quel giorno era da solo e non pensava a nulla. Ogni tanto incontrava lo sguardo della giovane commessa, sempre indaffarata a sistemare oggetti, pacchi, scontrini e buste. Lui, tra forchette, piatti, tazze e pentole, si sentiva a suo agio. Poi, prima della chiusura, ci fu un groviglio inaspettato di sguardi fra Daniele e la giovane commessa: un rampicante impazzito, un’edera di bosco magica e vivente tra le fronde di un albero. Daniele si trovava  vicino a un vaso di cristallo, assai insignificante e normale, di forma cilindrica allungata, pieno di sassi colorati. Quei vasi che dopo una settimana ti stancano di vederli ma non sai dove metterli. Quei vasi che si trasformano in oggetti ingombranti e brutti. Squillò il suo cellulare. Non rispose! Era sua moglie che lo stava cercando. Dopo un paio di minuti gli arrivò un suo messaggio: ”Ma dove sei finito? Non te lo ricordi? Siamo a cena da mio fratello!” Daniele rispose senza usare tante parole: ”Arrivo!” Lei non gli rispose e lui alla fine comprò  quella lampada a forma di girasole. La giovane commessa, quella che gli aveva tolto la sedia, adesso si trovava alla cassa. Lo guardò e gli dette lo scontrino insieme alla lampada. Daniele allungò il braccio per prendere la busta con la lampada.

La ragazza gli disse: “Prossima settimana arriveranno nuove lampade a forma di fiore!”.