Eutanasia della libertà…

 

Viva la muerte, gridavano in Spagna ai tempi della guerra civile. Viva la muerte è il messaggio che manda lo spagnolo Pedro Almodovar dalla Mostra del Cinema per liberarci dal dolore di vivere, ma in un significato assai diverso da quel grido. Dopo aver dichiarato morto Dio con le sue religioni e preghiere, morta la Natura col suo ordine e le sue leggi, morta la famiglia con i suoi legami, morta la tradizione con la storia e le comunità, il messaggio finale che resta è morire in libertà, per autodecisione, anticipando Dio e la Natura, il destino e il decorso della vita. Se non siamo autocreati, possiamo però esercitare la sovranità opposta, la decreazione, la libertà di eliminarci. Disponiamo solo del potere negativo sulla vita e lo esercitiamo fino alla morte. Da tempo i messaggi pubblici inviati dalle maggiori agenzie di riferimento della nostra epoca, tra i quali spiccano il cinema e la tv, ruotano intorno a quei temi e si raccolgono infine nell’elogio dell’eutanasia. Almodovar ha vinto il Leon d’Oro a Venezia col suo film dedicato all’eutanasia – ancora una volta, Morte a Venezia – ma non era un tema originale, è da alcuni anni un filone cospicuo nella narrativa cinematografica della nostra epoca, sempre con lo stesso esito.

Non entro nel merito dell’eutanasia, capisco alcune sue ragioni, reputo ragionevole stabilire dei limiti all’accanimento terapeutico o al mantenimento in vita solo artificiale, di persone che non hanno più una vita cosciente e non hanno più possibilità di riprendersi. Capisco, condivido l’umana pietà di mettere fine alla sofferenza. No, non è di questo che voglio parlare. Ma del fatto che gli unici messaggi ideali e morali, civili e individuali che vengono diramati dalle messaggerie culturali dell’epoca nostra sono rivolti alla morte, al pensiero negativo, alla preferenza per il non essere rispetto all’essere. E l’unica sovranità riconosciuta è di tipo individuale e ancora negativo, come il potere di uscire dalla vita.

Rovesciando il punto di osservazione, noto che l’eutanasia è l’unico messaggio dominante sul passaggio tra la vita e la morte. Non c’è più il mistero di Dio, la scommessa sulla fede, la contemplazione della morte, il destino dell’uomo, la sua memoria e le eredità che lascia a chi resta, ma solo la possibilità del singolo di tagliare il nodo gordiano, di recidere il cordone della vita, come si recidono i cordoni ombelicali per mettere la mondo i neonati. Questa recisione ha un significato inverso, come inverso è ormai il canone odierno. L’eutanasia è l’ultimo decisionismo dell’occidente-uccidente; una decisione-recisione volta solo a negare, a sottrarsi, in una via di fuga individuale. Autonomi nella dissoluzione, libertà come cupio dissolvi.  Aleggia in questa ossessione dell’eutanasia il segno di una società stanca e sfiduciata, demotivata e ripiegata nella vita singola, isolata, popolata da vecchi, impauriti dall’incipiente soglia; che allestisce terapie, balsami e culture utili a giustificare il trapasso indolore e inodore, asettico, verso l’estinzione. Un nirvana per via sanitaria, un nichilismo clinico come sollievo dal dolore di esistere.  Nei millenni passati furono attrezzati grandi cerimoniali per accompagnare la vita nel suo fatale distacco; riti, liturgie, pensieri, opere e missioni, lasciti, eredi e testamenti. Vedevo ieri sera splendidi tableau vivant a Castellabate nel corso del premio Pio Alferano, in cui venivano inscenate alcune grandi opere pittoriche a tema religioso, in prevalenza sulla morte di Gesù Cristo: colpiva vedere la morte come atto corale, corpi viventi intrecciati a corpi morenti, dolore consorte, compagnia dell’addio. La nostra è invece morte ospedaliera, in solitudine.

Fino a pochi anni fa l’unica eutanasia riconosciuta era morire per un motivo che fosse più importante della nostra vita individuale: morire per testimoniare la fede, come facevano i martiri, morire per la patria, come facevano gli eroi, morire per la Causa che trascende la vita dei singoli. Inconcepibile oggi; ma di queste scelte estreme vorrei sottolineare la convinzione che la morte individuale fosse meno importante rispetto a entità, principi, realtà comunitarie che sopravvivono al destino dei singoli. Offrivi la vita sapendo che la tua morte non coincideva col nulla, ma era la fine di una foglia, forse di un ramo, non dell’albero, con le sue radici e il suo tronco e le sue stagionali rinascite; la tua morte rientrava nel ciclo delle stagioni, in cui si rinnova la pianta.

Nessun uomo di senno e di buon senso può rifugiarsi in quel paragone e limitarsi a rimpiangere quel mondo. Ma il fatto che oggi poniamo la questione solo a livello individuale e racchiudiamo la visione della morte solo nell’atto di andarcene, in libertà, quando lo vogliamo noi e non quando lo dice la sorte o la malattia, è il tema di cui dovremmo curarci, perché investe noi oggi, il nostro tempo, il nostro domani. Sconforta osservare che anche su questo tema non esiste alcuna divergenza di vedute nei racconti pubblici, non c’è un film o un’opera che dica una cosa diversa se non opposta a quella del mainstream mortifero. E stiamo parlando di una società che celebra la libertà sopra ogni cosa e ritiene anzi di essere superiore a tutte le epoche precedenti proprio per la sua raggiunta libertà. E invece non c’è possibilità di vedere e narrare diversamente le cose; non è possibile, esiste un muro invisibile, una cappa pervasiva che impedisce di articolare un pensiero differente e metterlo poi su strada. Se ci provi ti saltano a uno a uno gli addendi: non trovi chi si esponga a scrivere, a sceneggiare, a produrre l’opera, a realizzarla, a recitare, a distribuire, a comunicare, a riconoscere e premiare una cosa del genere. Strada facendo il progetto si azzoppa, nessuno vuol andare a sbattere contro il muro, andare allo sbaraglio. Eutanasia del dissenso.

Noi occidentali viviamo in una società profondamente spaccata, con rari e confusi attraversamenti fra le due sponde; siamo divisi tra l’alto e il basso, tra oligarchie e popoli, tra comunitari e individualisti, fra tradizione e liberazione, e potrei a lungo continuare. Non immagino che si possa ritrovare l’unità, se non attraverso l’intolleranza, l’egemonia e la supremazia coatta di una parte sull’altra: vorrei invece che fosse possibile avere la possibilità di scegliere, che sia legittimo divergere e soprattutto che sia possibile esprimerlo pubblicamente. Ma se guardo la realtà, al momento, non vedo segnali e aperture. Chiedono la libertà dell’eutanasia ma io vedo l’eutanasia della libertà.

Marcello Veneziani    

Elegia nostrana in un paese smemorato…

 

 

È possibile immaginare un’elegia italiana o nostrana, come J.D. Vance ha imbastito un’ Elegia americana? Il libro scritto dall’attuale candidato a vice di Trump era dedicato alla memoria, all’infanzia, alla profonda provincia dell’America; da noi sarebbe un viaggio nostalgico nella provincia italiana, quel che ha rappresentato nella vita e nell’immaginario nostrano. Ieri, nel mio paese natio, Bisceglie, a conclusione del festival “I libri nel borgo antico”, cercherò – nella brevità di un incontro – di ricamare un’elegia paesana, aiutandomi con le immagini del passato, nel tempo in cui la memoria e i paesi tendono a svanire, con una velocità impensabile alla luce della proverbiale lentezza della vita di paese, al sud in particolare. I festival del libro hanno il merito di portare la cultura in provincia, i libri e gli autori del momento. Tenterò l’operazione inversa, di portare il paese, la provincia nel cuore della cultura, della memoria e della riflessione del presente. In fondo la grande letteratura nasce provinciale prima di diventare universale. Ogni volta che parli di un paese parli di ogni paese, tutto ciò che è profondamente intimo, locale, nostrano è ciò che è più universale, più sentito, comune a tutti. Anche chi vive in città ha un paese d’origine nel cuore; magari non è il suo ma dei suoi nonni; tanti ricordano memorabili giorni vissuti nella carezza del paese e nel suo pigro avvolgersi intorno a noi.
Contrariamente a quel che si dice, il mondo locale era molto più ricco, vario e universale del mondo globale nel quale viviamo. In paese conosci mille persone, ti fermi a parlare con cento, sai vita, morte e miracoli di tanta gente; nella grande città ne conosci e ne saluti assai meno, ti fermi a parlare con pochissimi.
Il bambino cresciuto nel mio paese, come in molti altri paesi, abitava in tre mondi reali: conosceva il paese, la piazza, il corso, le case, i negozi, la vita paesana ma conosceva pure la campagna, gli animali, la civiltà contadina che era fino a pochi decenni fa prevalente e contigua al paese; e conosceva il mare a due passi da casa, i pesci e i pescatori, le reti, le barche, i ricci, le cozze, i bagni; un altro mondo.
Ma non solo. Le famiglie numerose di una volta – allargate, allungate, aperte ad amici, comari e conoscenti – ti mettevano in confronto permanente con mondi diversi dal tuo per età, ceto, esperienza. Oggi, le famiglie sono piccole, introverse e colonizzate dal mondo parallelo dei media; i giovani stanno coi giovani, i vecchi coi vecchi (quando non sono soli). C’è una specie di razzismo generazionale, di ristrettezza dello sguardo, di apartheid anagrafica che ci separa e ci isola; non conosciamo più dal vivo il passato, e gli anziani non conoscono i giovani che abiteranno il futuro. Vivono tempi, mezzi, linguaggi diversi. Accanto al mondo naturale e reale, si viveva in un mondo magico e religioso popolato di miti, folletti, favole e superstizioni, preghiere e processioni; capivi che il mondo non ruota intorno a te o dentro quella teca onnisciente chiamata smartphone, ma esiste nella realtà visibile e invisibile e tu sei solo un puntino dentro quell’universo.
Poi l’esperienza nel paese era multisensoriale. Non c’era solo la parola e la vista, c’era anche l’olfatto, tra odori e puzze, il gusto forte dei sapori veraci, il tatto, cioè il contatto di prossimità, toccarsi oltre a parlarsi, fiatarsi accanto; la prossimità era tangibile. Oggi conosciamo di più il lontano, ieri conoscevamo di più il vicino, la prossimità.
Le case in paese erano centri fiorenti di vita; la gente entrava e usciva di continuo, si chiamavano dai balconi e dalle finestre, avevi continue visite all’improvviso. Famiglie numerose comportavano sciami generazionali in transito continuo nelle proprie case. Società aperte, altro che chiuse, ma nella prossimità. Conviviali, a volte litigiose.
Insomma, contrariamente a quel che oggi si pensa, il mondo del paese era più ricco, vario e movimentato di quello telematico, virtuale e internettaro di oggi. C’era più umanità anche se di rado si vedevano le masse, le folle, le file. La vita nella sua semplicità sembrava nascere, crescere e finire spontanea; è la vita gratis, che vuol dire per grazia, senza prezzo e senza pretese, dove i beni primari sono accessibili gratuitamente.
Sto parlando al passato perché quel paese non c’è più. Si è svuotato, i figli lavorano lontano, le coppie non fanno figli, i vecchi sono aumentati, le strade hanno più extracomunitari che paesani. La vita biologica si allunga, la vita comunitaria si accorcia, la gente sta più in casa o in auto, ha meno natura intorno. Spariti gli asini, i muli, le galline e gli altri animali di cortile, i cani sotto i carretti o traini; le capre e le pecore, munte direttamente a domicilio per avere il latte fresco. Ora ci sono più cani e gatti in casa, umanizzati, trattati meglio, sostituiscono figli e amici.
Chi si aspetta a questo punto il rimpianto per quel tempo, resterà deluso. Primo, perché quel mondo era anche duro, aspro, povero, crudo, affamato, scalzo, ingiusto, ignorante e manesco.
Secondo, perché ogni epoca ha i suoi progressi e i suoi regressi, le sue conquiste e le sue perdite, e non ha senso rimpiangere le une senza considerare le altre.
Terzo, perché anche a volerlo quel mondo non torna più; è impossibile e patetico immaginare di ripristinarlo o rimetterlo artificialmente in vita. E non riusciremmo più a vivere in quel modo, in quel mondo, in quelle condizioni. Non era più bello quel mondo ma gli occhi che lo osservavano, i nostri occhi di bambino e poi di ragazzo, ancora pieni di vita e di aspettative. Era la nostra infanzia ma ci pareva l’infanzia del mondo, quando principiavano tutte le cose.
Allora perché ne parli e con tanta passione? Perché è bello farsi cacciatori di ricordi, è bello aver memoria di un mondo diverso, è bello ritornare a coloro che non ci sono più e alle cose che non ci sono più. Abitare più mondi è una ricchezza, abitare il passato oltre il presente è una preziosa risorsa e un termine di paragone, un buon esercizio che affina il nostro senso critico, la nostra libertà e la nostra coscienza di essere al mondo. La nostalgia è un bellissimo sentimento che fa bene all’anima, umanizza i rapporti, riporta la vita all’essenziale. Diventa una malattia se si capovolge in odio verso il presente, pretesa di abolirlo o almeno di maledirlo. Allora da sentimento si fa risentimento.
Ci vorrebbe un’elegia nostrana, senza pretese restauratrici e velleità revansciste. Un sentimento che prende il cuore, rende più lievi i giorni, ci fa vivere in più mondi e non solo in quello presente, che da vecchi ci piace sempre meno. E che ci rimette in pace con i morti e col passato.
Perciò è bello una domenica sera di fine estate riprendere, mano nella mano, la danza dei ricordi, l’elegia per un mondo che non c’è più.

Marcello Veneziani

Torniamo all’essenziale…

 

 

Si può essere cattolici, credenti e praticanti oppure no, ma si deve convenire che la domanda a cui è dedicato il Meeting di Comunione e Liberazione di quest’anno, in corso a Rimini, è la più centrata, urgente e universale che ci possa essere: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. Al Meeting di CL il sottinteso è l’incontro essenziale con Gesù Cristo, e poi l’impegno sociale, solidale, comunitario che ne deriva, nelle opere, nella vita e nel lavoro. Ma la ricerca dell’essenziale è il tema cruciale dell’uomo, coincide con la fede e col pensiero; precede ogni scelta religiosa, filosofica, esistenziale, civile. Ci mette in gioco davanti alla vita e alla morte, alla nascita e all’amore, alla gioia e al dolore, all’infanzia e alla vecchiaia, al mistero e al destino.
Se dovessimo infatti riassumere la dispersione, la dissoluzione, l’alienazione, la follia del nostro tempo, soprattutto nell’Occidente cristiano, dovremmo proprio condensarle in quella constatazione: abbiamo perso di vista l’essenziale, ci stiamo perdendo nelle procedure, negli alibi, nei surrogati, nelle deviazioni di percorso, nei regni fluttuanti del superfluo, in balia della volontà di potenza. Vivere per le procedure significa scambiare il fine della vita con i mezzi per vivere, barattare il significato con le funzioni e le utilità. Quando perdi di vista l’essenziale ti fabbrichi degli alibi, perché non hai tempo per fare “filosofia” sulla vita, devi campare e procurarti da vivere; poi ti rifugi nei surrogati dell’essenziale, gli obbiettivi fallaci, gli idoli, i consumi, il profitto, la tecnica, gli agi elevati a valori. Da qui le deviazioni di percorso, scorciatoie, vie di fuga o itinerari turistici, diversivi o solo divertenti, per non intraprendere il cammino a cui ti chiama la vita. Una vita che perde l’essenziale è una vita che si perde nel superfluo, in tutto ciò che è accessorio, labile, ornamentale, banalmente superficiale. Se la vita non ha senso, non ha destino, non vuole lasciare eredità e tracce meritevoli di essere salvate ma è una pura affermazione ed espansione illimitata di potenza e desideri, ha già imboccato la direzione opposta alla ricerca dell’essenziale. Anche perché la domanda sull’essenziale è una domanda sull’essere, mentre l’affermazione di potenza è protesa contro o senza l’essere, presuppone la forza di annientare chi vi si oppone e di creare dal nulla.
La domanda che sta dentro la ricerca dell’essenziale è primaria, originaria: perché vivere, cosa ci spinge a vivere anziché lasciarsi andare? C’è un modo di aggirare quella domanda ed è nel puro regredire allo stato biologico: ti aggrappi al puro istinto di sopravvivenza ed autoconservazione. Chiunque vive vuole preservarsi, restare in vita e difenderla come l’istinto elementare e naturale primario che precede ogni altro pensiero o volontà. Dunque non c’è da porsi nessuna domanda, siamo fatti così, predisposti geneticamente come qualunque altro essere vivente, a vivere per vivere, abbiamo l’istinto a sopravvivere; la volontà di vivere, direbbe Schopenhauer.
Ma l’uomo pensa, sceglie, ricerca, esplora, è nella sua indole. Sa di morire. L’uomo cammina su una corda tesa tra la libertà e il destino,  e i due poli estremi della corda lo inducono a ricercare l’essenziale. Non è solo il filosofo, il ricercatore, il devoto a porsi quella domanda, ma è l’uomo, in virtù della sua coscienza e della sua sensibilità. La ricerca dell’essenziale pone sulla stessa linea l’istinto di vivere, il sentimento e la ragione.
C’è tuttavia un punto di crisi in cui si perde la ricerca dell’essenziale: è quando la partenza coincide con l’arrivo e tutto ruota intorno all’io e si risolve in lui. Se il mondo è solo un corollario, uno strumento, uno specchio per l’io, si è già fuori dalla ricerca dell’essenziale. L’essenziale è ciò che oltrepassa l’io, ci apre oltre noi, non amplifica l’ego.
La religione col suo senso del divino è da sempre il luogo di proiezione e di protezione; ossia il punto in cui oltrepassare se stessi, proiettarsi oltre noi, fino a proiettarsi nei cieli, e insieme trovare protezione ai nostri limiti, alla nostra mortalità, alla nostra precarietà. Possiamo spingerci a riconoscere o prevedere il tramonto di una religione, la fine di una civiltà legata a quella fede, ma non possiamo pensare l’umanità senza quel bisogno innato di proiezione e di protezione. Se ciò accade vuol dire che ha trovato surrogati per sostituire quel duplice bisogno e camuffarlo sotto altre vesti. Oppure ha smesso di essere umana, cioè libera, pensante, protesa verso il destino.
In ogni caso, se cerchi l’essenziale devi sporgerti oltre l’io, concepire l’essere come una casa più grande in cui sei compreso, di cui non sei padrone.
Certo, la ricerca dell’essenziale non può risolversi in un bel meeting, in qualche dialogo e in qualche predica, come non può semplicemente esaurirsi in uno scritto, una riflessione intellettuale o una dichiarazione solitaria. Ma quando una società perde l’orientamento, quando non sa più riconoscere l’alto e il basso, il vicino e il lontano, il prioritario e il secondario, quando non sa distinguere il bene e il male, o usa al contrario le parole rispetto alla realtà e chiama pace la guerra, inclusione l’esclusione, libertà l’intolleranza, sviluppo il degrado, emancipazione l’imbestiamento, è necessario che si avvii da tutte le postazioni possibili, a tutti i livelli, una chiamata alla realtà, alla vita vera, alla nascita e alla morte, e alla missione reale e ideale della nostra vita.
E se la politica, la società, il pensiero non si curano di questa domanda, può essere una ragione per non curarsi del potere politico, sociale e culturale, ma non è un buon motivo per abbandonare la ricerca dell’essenziale; che diventa, proprio per quella latitanza, più essenziale che mai.

Marcello Veneziani  

Carnera, il gigante buono e la memoria cattiva…

La cittadina di Sequals, poco più di duemila abitanti nella provincia di Pordenone, è conosciuta in Italia e non solo perché ha dato i natali al mitico pugile e gigante Primo Carnera. E ora che avevano pensato di dedicargli lo stadio, il paese natale si divide in favorevoli e contrari, perché lui, il Gigante buono di Sequals, è stato un mito fascista.

Carnera era un povero friulano e diventò il simbolo dell’Italia fascista e la rappresentazione fisica della sua mania di grandezza. In Carnera l’Italia trovò un triplice riscatto: dei poveri emigrati italiani nel mondo, essendo anch’egli emigrato in Francia e poi famoso negli Stati Uniti; il riscatto del piccolo italiano, visto come rachitico, debole, vigliacco e di bassa statura, secondo uno stereotipo del tempo, rispetto ai giganti americani e agli atleti negri; e infine il riscatto della provincia profonda e contadina rispetto alle metropoli e alle città industriali. Ma Carnera incarnò soprattutto il mito del gigante buono, dell’uomo più forte del mondo ma anche tenero e generoso; l’eroe che porta in alto nel mondo il tricolore e l’orgoglio di essere italiani. Carnera era diventato da poco campione del mondo di pesi massimi, nel 1933, e i suoi detrattori al sud lo paragonavano in negativo a Garibaldi. “Sono tutti trucchi. Carnera ha vinto perché era d’accordo prima. E’ proprio una specie di Garibaldi. La storia non cambia. Sui vostri libri di storia vi insegnano un mucchio di frottole, la verità è un’altra”. E’ un passo di “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi e la dice lunga sul mito di Carnera e le sue ombre, i suoi fan e u suoi detrattori, una specie di eroe dei due mondi in ambito sportivo. Un eroe che debordò dallo sport nel cinema, diventando attore in tredici film, ma anche nei fumetti e nella pubblicità. E un campione di virilità che celebrava il gallismo fascista. Carnera fu usato anche ironicamente, per contrasto: memorabile fu la sua accoppiata con il piccoletto Renato Rascel. Carnera era un modello fatto su misura per un regime che esaltava la virtù terapeutica e catartica dello sport e dei cazzotti, celebrati dal futurismo, come nel memorabile pugno di Boccioni realizzato da Balla, nel cui movimento si esprimeva plasticamente la Esse della storia in marcia. Del resto anche la propaganda per demolire il fascismo usò poi il penoso declino di Carnera per dimostrare, come il titolo di un famoso film degli anni 50 con Humphrey Bogart, che Carnera fosse “Un gigante d’argilla”, come l’Italia fascista. Il fascismo usò Carnera e poi lo accantonò quando diventò uno sconfitto; il duce lo esibì dal balcone di piazza Venezia ma non apparve al suo fianco, per non sembrare al suo cospetto un nano.  L’Italia fascista fu attraversata da miti sportivi largamente popolari e valorizzati dal regime: da Girardengo, che inaugurò l’epoca degli eroi a pedali, dalle trasvolate atlantiche di Balbo alle imprese automobilistiche di Tazio Nuvolari dalla Nazionale di Pozzo, Piola e Meazza alle dinastie calcistiche dei Ferraris e dei Caligaris, da Ondina Valla fino a Carnera.

La consacrazione di questi miti era negli Stati Uniti. Là, nel mondo nuovo, tra gli emigrati italiani, sotto i grattacieli, ogni successo di Balbo, Nuvolari o Carnera diventava non solo la celebrazione del primato italiano nel mondo; ma anche motivo di orgoglio per gli italiani emigrati, che finalmente non erano più visti come subalterni, affamati e camerieri, né come mafiosi, mariuoli e imbroglioni. Vedere il tricolore issato sui palchi americani e sui podi internazionali e l’inno nazionale suonato all’estero in segno di vittoria, erano un risarcimento morale e sentimentale con ricaduta sulla vita pratica degli italiani e sulla loro considerazione all’estero. Dovremmo ricordarlo in questi giorni olimpionici quando risuona l’inno di Mameli a ogni successo sportivo italiano. Diventare un Carnera divenne un modo di dire per indicare l’alta statura, la corporatura muscolosa, la forza fisica e la mascolinità. Fu anche un po’ fenomeno da baraccone, Carnera, come la donna cannone; ma vi era qualcosa di bonario nel gigante di Sequals, come ha mostrato poi la sua vita; un campione d’animo gentile, se si considera la sua filantropia e la sua passione per la lirica e per Dante. Perfino la sua bruttezza lo faceva apparire un Frankenstein del bene, un Eroe, un Gigante, un Superdotato dall’animo buono.  Le sue foto tra gentiluomini americani ben vestiti che gli arrivavano all’ombelico, e le sue grandi mani sulle loro spalle in un gesto di protezione indicava anche quanto fosse sovrastante la sua persona. Così diventò il simbolo della megalomania nazionale. Carnera in contrapposizione ai colletti bianchi e agli impiegati, rappresentava il culto del corpo, la forza esuberante e il tratto antiborghese che il fascismo accentuò negli anni trenta. Perfino il mito dell’ impero è la proiezione gigantesca del nazionalismo. Ma nella mania di grandezza l’Italia era accomunata nel mito moderno degli States, dove tutto è gigantesco, dai grattacieli alle vie, dalle auto ai marciapiedi, dalle vetrine agli spazi sconfinati. Il fascismo fu un regime con velleità macroscopica. Di quel sogno Carnera fu il testimonial vivente, in muscoli e statura.

I regimi passano, il mito di Carnera invece resta, con il riscatto degli italiani nel mondo e il suo primato sportivo. Che facciamo, cancelliamo le strade dedicate a Marconi, Pirandello, Mascagni e cento altri grandi perché furono fascisti? La solita, stupida storia. Carnera il gigante tra i pigmei astiosi del presente.

 Marcello Veneziani  

La vita gratis…

 

I ricordi dormono accanto a noi. A volte è bello svegliarli e svegliarsi con loro. Si apre un mondo che credevi di non conoscere, invece ci vivevi dentro, e allora ti appariva naturale, come l’acqua che scorre e l’aria che respiri. La nostalgia non è una malattia ma un dono, la sua malinconia è un guscio che protegge un frutto gioioso.
Ci vorrebbe davvero una clinica dei ricordi, come scrive Georgi Gosdopinov nel suo romanzo Cronorifugio, dove la gente va a riprendersi i ricordi smarriti nel tempo o nella testa delle persone. Se dovessi scegliere il decennio preferito in cui rivivere, come succede ai popoli nel romanzo di Gosdopinov, sceglierei senza esitazioni il primo che vissi. Perché il più antico, il più lontano vissuto, il più diverso da oggi, avvolto nel mitico alone dell’infanzia quando non sai dove finisce la realtà e dove comincia la favola, tramite la fantasia. Risale a un’epoca primitiva, ancora senza tv ed elettrodomestici, usati da poco e da pochi pionieri. La chiave per aprire quel cassetto favoloso, oltre l’incanto della vita vista con gli occhi magici dell’infanzia – la scoperta primigenia delle cose, il fascino della prima volta di tutto, il piacere di scoprirsi al mondo e di conquistare ogni giorno un pezzo di vita e di conoscenza – è l’apriti sesamo di quel tempo magico, quel luogo, quel mondo che non c’è più: la vita gratis.
È la vita a portata di mano, all’aperto, senza prezzo e senza pretese, semplice e generosa, gratuita, dove tutto è accessibile a tutti: il ristoro delle fontane, il riposo delle panchine, il giardino pubblico, i frutti appesi agli alberi, i carrubi offerti dai rami ai viandanti, il ruscello in cui ti lavi e lavi i tuoi panni, i giochi fatti con ciò che hai a disposizione, senza arnesi, più la fantasia di un regola o di un oggetto che facilmente costruisci con le tue mani; e poi il mare libero, come i boschi e la campagna. Hai sete? Non vai al bar ma bevi alla fontana, e anche a casa non compri l’acqua minerale ma attingi dalle pompe e dai ruscelli. Le fontane d’estate erano ritrovi affollati, gente che beve, che riempie brocche, che si lava i piedi, dove ai bambini si dà fretta nei loro trastulli d’acqua per far bere gli adulti. Hai fame per uno spuntino? Stacchi un frutto dall’albero e lo mangi; finché è un frutto puoi anche staccarlo da un albero che appartiene a qualcuno, non lo stai saccheggiando, non è un peccato. Anzi, lo sarebbe il contrario, non dare da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, come ci insegnavano. Vuoi riposarti? Non c’è bisogno di ordinare qualcosa a un tavolo, ti siedi alla panchina, come ancora fanno, soprattutto i vecchi al paese e aspetti, aspetti che passi il tempo, il caldo, la stanchezza. Da vecchi, il tempo è lungo e la vita è breve; il contrario dei giovani, a cui le ore corrono in fretta ma gli anni davanti sono tanti.
Vuoi farti un bagno? Niente stabilimento balneare, con lettini e ombrelloni, niente cabine, pedalò o gommoni, ma spiaggia libera con bagno libero, a volte senza costume o con le mutande di casa; e se hai caldo ti rituffi o trovi l’ombra di una grotta, la cavità di uno scoglio, o un albero vicino a riva. Tutto appare più semplice. E al mare corpi magri, non obesi né sottoposti a dieta, non rifatti, ritoccati, siliconati, palestrati, senza tatuaggi, creme, lampade, telefonini. Poi si passa la sera con lo struscio, il piacere è l’incontro, lo scambio di parole, la battuta. Basta poco per vivere. Gratis.
I bambini che giocano con niente tra strade e spiazzi, il massimo è rimediare un pallone. Il resto solo giochi di fantasia: la campana, i quattro angoli, nascondino, mago o libero, la piramide, il ciuccio, fiori e frutti, più mimica e indovinelli; giochi d’inventiva e abilità che non prevedono attrezzi.
Questa era la vita gratis, in uso soprattutto nella provincia, in particolare a sud, ma in fondo tutto il mondo è paese. E non era un secolo fa. Si poteva vivere senza soldi e senza limiti d’accesso, con poche pretese. Si campava d’aria, di terra, d’acqua, d’amicizia, espedienti e fantasia. Poi, è vero, c’erano i benestanti e i bisognosi, le proprietà private, i muri di recinzione, i privilegi, l’abbondanza e la penuria, le criature scalze; i mendicanti erano del posto.
La vita gratis era un mondo che sembrava fresco di creazione, appena sfornato da Madre Natura o dal Padreterno; ancora giovane, un po’ bambino, ingenuo nei suoi piccoli desideri, facili d’appagare.
Era bella la vita gratis, e lo dici con un sospiro, ma chissà se lo pensi davvero. Era una vita povera, ancora cruda, difficile nella sua facilità, aspra nella sua dolcezza; una vita che non riusciremmo più a vivere, perché abbiamo bisogno di troppe cose che prima non avevamo e perciò erano allora superflue; ma ora non sappiamo farne a meno. La nostalgia è dolceamara perché sai che quel mondo non può tornare e non ha senso affannarsi a restaurarlo. Tutta la sua poesia, la sua bellezza, è in quella irrimediabile lontananza; l’incanto di una perdita che non si recupera. Non si torna bambini, tuttavia è bello ritrovare lo spirito e lo stupore delle origini, pur sapendo che il tempo è passato ed è impossibile retrocedere. Ma il tempo, lo dice pure Gosdopinov, sembra rettilineo invece è circolare; alle curve rallenta, ci sono i tornanti. E la vita perfetta sa ricongiungere la fine all’inizio. In fondo, gratis vuol dire per grazia, e il proverbio antico aggiungeva et amore dei. La vita gratis, la grazia di essere al mondo…

 Marcello Veneziani

 Grazie a  Marcello Veneziani,scrittore, giornalista, filosofo, che seguo da tantissimi anni. Leggerla per me è , fin dalla prima volta, pane quotidiano, che nutre il mio spirito, la mia mente. I suoi scritti mi fanno una meravigliosa compagnia, grazie infinite per ogni sua parola, in cui spessissimo mi ritrovo,e sono felice che molte persone visitino questo mio blog, dove da tempo ho preso abitudine di condividere quanto di suo  mi piace avere a portata di rilettura.. Ancora grazie di cuore e tutta la mia stima. GSB

La staffetta…

Prendetela per un’insolazione estiva, un delirio d’agosto, la ricerca di una zona d’ombra in tanto sole. Ma se sono veri alcuni indizi, alcuni retroscena, alcuni segnali degli ultimi giorni, il Quartier Generale sta confezionando un pacco per Giorgia Meloni e il suo governo. Intendo per Quartier Generale il potere sovrastante ai governi nazionali, quello che decide in ultima istanza e corregge, laddove è possibile, gli esiti elettorali e l’agire politico. È un potere che genericamente definiamo tecnocratico o meglio buro-tecnocratico  ma di fatto cammina su due zampe: quella economico-finanziaria e quella militare, che con qualche approssimazione possiamo ricondurre al Mercato, tramite la Banca Centrale Europea, e all’apparato militare della Nato e al Patto Atlantico. La rete dei poteri intermedi e sovranazionali, dei mediatori e dei funzionari è vasta sicché non è chiara la catena di comando.

Se abbiamo ben compreso, il pacco prevede qualcosa come una staffetta a Palazzo Chigi. Si, staffetta è il termine giusto e non solo perché siamo in tempi d’Olimpiadi. Chi corre nella staffetta non può andarsene per conto suo, deve seguire il percorso prestabilito e consegnare il testimone al successore. Dopo una crisi, sul tipo di quelle provocate dalle spread, già accadute in Italia e altrove, ci sarebbe un cambio della guardia a Palazzo Chigi. Esce Meloni entra Schlein, con larghe alleanze e ampi sostegni, regia politica di Matteo Renzi nel ruolo ormai consolidato di malefico scazzamuriello; ma regia transpolitica di Autori Vari del Quartier Generale, più concorso esterno di collaudate figure jolly e faccendieri nostrani. Pressioni in questo senso raggiungerebbero pure Forza Italia e il mite Tajani. Ignara precorritrice di questa politica trans è la ricca ereditiera Francesca Pascale che ha dichiarato di sognare un governo berlusconiani-dem a guida Schlein, in modo da sistemare non certo l’Italia ma almeno la sua biografia…

Un tassello utile sarà la battaglia sulle tre regioni in cui si vota – Liguria, Emilia-Romagna e Umbria – per dare la parvenza di un vento elettorale cambiato a favore della sinistra.
Sulla caduta della Meloni dopo le Europee e comunque nel corso del terzo anno di governo, scommette dall’inizio Renzi; di recente anche Cacciari in un’intervista al Corriere della sera si è sbilanciato in questo senso, dicendo che bastano due pomeriggi ai mercati per rovesciare con un golpetto finanziario (diciamo noi) il governo in carica. Convinzione condivisa anche al governo, da cui la prudenza.
Qual è la ratio della svolta? Si potrebbe dire che nonostante le numerose prove di lealtà e di adesione al Quartier Generale, sussistono sulla Meloni riserve, accresciute dal mancato sostegno all’elezione di Ursula Von Der Leyen, lo scontro per il controllo del comando Nato nel sud Europa, le visite a Roma da Mattarella e i vertici parigini appena la Meloni è volata a Pechino; la sua amicizia malvista con Marine Le Pen e con Orbàn, i suoi tentativi di una politica estera relativamente autonoma, da ultimo con il viaggio in Cina. E sopratutto il timore che l’Italia meloniana-salviniana possa diventare domani la sponda euro-mediterranea di Trump, bestia nera dell’Establishment.
In realtà, dietro le ragioni contingenti c’è un nodo strutturale: i governi nazionali, quando non possono essere affidati direttamente al personale della Casa – tecnici, maggiordomi o affini – devono allinearsi nelle scelte di fondo, e non possono pretendere di sottrarsi ai cicli sempre più brevi di durata loro consentita, per evitare che con la permanenza lunga al governo azzardino una parvenza di sovranità nazionale, politica e popolare e di autonomia decisionale. Il ciclo previsto da tempo non supera il triennio. Fatti questo mezzo giro ma poi devi riportare la staffetta qui. Brevi governi di passaggio, in modo che ben si comprenda quali sono i poteri veri e permanenti e quelli fittizi e transitori, e ben si rispecchino gli interessi forti (economici, finanziari, militari, geo-strategici) rispetto a quelli labili collegati al consenso, gli umori, le retoriche identitarie.
I cicli della politica dopo Berlusconi, sono stati sempre più corti, nessuno è durato più di un triennio, inclusi Renzi e Conte nel suo duplice format, e alla fine anche Draghi. Il triennio sembra essere ormai la curva fisiologia della leadership politica, anziché il quinquennio canonico delle legislature. Abbiamo presidenti della repubblica che diventano monarchi a cui si concede il bis dei già lunghi settennati, e poi abbiamo presidenti del consiglio che scadono precocemente, per consentire il turn over e impedire che mettano radici e passino da esecutori a decisori. Tutti transitori…
Da qualche tempo, dopo un anno di prove, scetticismo e incredulità, è in corso una specie di investitura politico-mediatica di Elly Schlein. Lo si capisce da troppi indizi; è trattata da prossima premier, le hanno dato il numeretto e aspetta il turno. La politica ci ha abituato a ricambi repentini e a giri completi di turnazione: antipolitici e politici, tecnici e grillini, sinistre e destre, non avendo il centro una consistenza elettorale che permette di governare da solo. In questo modo tutti sono provvisori, sostituibili e complementari. Così ora si prepara il turno della Schlein, e ci sono già le tifoserie mobilitate, i marchettifici pronti a narrare il cammino dell’astro nascente, riconoscerle uno spessore politico prima negato e lanciare la svolta. Ma è ben chiaro che eccettuata la fuffa, che riassunsi sin dall’inizio in “gay, migranti e bella ciao”, la politica richiesta alla Schlein non è né più né meno di quella che si pretende dalla Meloni: in politica estera, nelle alleanze, nelle scelte economiche, civili e militari. La stessa di Draghi, e di Conte. La fuffa serve per sceneggiare il cambiamento, ma la sostanza resterebbe la stessa, anzi i dem sono più omogenei al Quartier Generale e ai suoi paraggi, e in più non sono sovranisti ma sottanisti, cioè reputano l’Italia un inquilino subalterno del Palazzo euroglobale. La loro speranza è che arrivi la Harris, Amala col K, alla Casa Bianca. Ma se arriva Trump, si complicano le cose.
Intanto la prospettiva serve per minacciare la Meloni e farla rientrare nei ranghi; e dare più spazio di manovra a Tajani e ai centristi rispetto a Salvini (nel frattempo Crosetto è sull’attenti, in tuta mimetica, pronto per la guerra). L’Italia si attrezza di nuovo a portaerei della Nato in vista di imprese belliche e il Mediterraneo si conferma acqua di colonia.

Marcello Veneziani      

Non cadere nel tranello…

 

Conosco poco i ragazzi di Gioventù nazionale per ragioni d’età e di lontananza da ogni militanza politica. Ma se li paragono ai ragazzi del Fronte della gioventù di ieri e soprattutto se li paragono ai ragazzi militanti della sinistra di oggi, mi sembrano decisamente più miti, più integrati, vorrei dire più inoffensivi. I giovani militanti della destra nazionale di ieri attraversarono gli anni di piombo e altre stagioni cruente, vissero climi di mobilitazione politica, furono sprangati e cacciati, messi a tacere con violenza, alcuni non potevano andare in giro da soli, ci furono anche decine di morti; anche per questo, oltre che per un sentimento politico di non celata continuità simbolica col passato, se non fascista almeno neofascista, erano comunque più esposti al rischio di rispondere alla violenza con la violenza, mostravano più fierezza e avevano un frasario militante più vigoroso, da partito emarginato e ghettizzato. I ragazzi di Gioventù nazionale vivono invece in un’epoca in cui la storia è sparita, la cultura politica si è rarefatta e la politica è l’ombra di se stessa, ridotta solo a leadership e teatrino sui media. E militano nel partito di maggioranza relativa che sta al governo. Quel che affiora a volte in una boutade è solo fiction della storia passata, scampoli ridotti a fumetti, personaggi-cartoons; più gli effetti allergici del politically correct e l’insofferenza verso il soffocante canone woke. Sono ragazzi che possono suscitare giudizi diversi, positivi o negativi, per il loro impegno nonostante l’apatia politica e l’anemia di passioni o per le loro scelte che possono piacere o no; ma certo non suscitano preoccupazione, tantomeno paura.  C’è più violenza molecolare, allo stato sfuso, nella società, sui social, tra i ragazzi presi nel circuito di droga, velocità, narcisismo e ossessione di procacciarsi soldi per accedere ai loro desideri, piuttosto che nella politica. Gli episodi di cronaca lo confermano tragicamente: nessuno uccide in nome di Mussolini o di Che Guevara mentre ogni giorno qualcuno uccide per questioni di droga, di soldi o perché teme di perdere la sua ragazza.

Rispetto poi ai giovani militanti di sinistra, o quantomeno alle frange più radicali, i ragazzi di Gioventù nazionale non occupano case, scuole e università, non impediscono agli altri di parlare o di entrare nelle università, non aggrediscono chi non la pensa come loro e non fanno spedizioni punitive anche all’estero per massacrare di botte i loro nemici. Nessuna persona di senno e in buona fede, dotata di un minimo senso della realtà, può davvero pensare che i ragazzi di Gioventù nazionale siano pericolosi per la libertà e per la democrazia, per l’incolumità altrui e per la tenuta delle istituzioni.   Per giudicare un movimento politico e i suoi militanti ci sono due criteri oggettivi: le posizioni politiche assunte pubblicamente e i comportamenti pratici. E non mi sembra che su ambo i lati ci sia qualche segnale preoccupante di pericolo; tanto più nel paragone con i loro dirimpettai di sinistra, eco-radicali, ecc. Ciò che si dicono in privato, le gag, le battute off record, non ha alcuna rilevanza politica, pratica e giuridica.

Quando viaggio nei treni locali, sento dialoghi tra ragazzi che si divertono nel cazzeggio e amano i paradossi per violare e beffeggiare divieti e tabù, che ieri riguardavano il sesso, la fede e le tradizioni e oggi riguardano migranti, gender e “nazifascismo”. Non sono militanti di nessun partito, forse neanche simpatizzanti, ma dicono battute che riprese in un consesso pubblico susciterebbero riprovazione, indignazione e condanna. Loro stessi, penso, in un contesto pubblico non le direbbero, e magari non lo pensano veramente; o al più semplificano ed esagerano (fanno appunto la caricatura) quel che realmente pensano.  Se qualcuno s’infiltrasse in un qualunque gruppo militante di sinistra, probabilmente battute come uccidere un fascista non è un reato, auspici per la premier di finire a testa in giù, maledizioni e insulti, voglia di eliminare l’avversario, sarebbero diffusi esattamente come le infelici battute dei ragazzi spiati. Ma anche di quelle battute non c’è da tener conto, finché non vengono espresse in sede pubblica e politica, magari accompagnate da un atteggiamento minaccioso e da comportamenti conseguenti. Sappiamo pure che quando si bandiscono i concorsi per l’assunzione di mostri qualcuno poi si presenta sempre all’appello, per vanità e fatuità, per “provocare” o per chissà quale meccanismo perverso di domanda e di offerta. Se li invochi di continuo, prima o poi qualcuno arriva.  Quel che è inaccettabile e da rifiutare senza possibilità di mediazione è invece la trappola in cui si vorrebbero far cadere i leader. È una continua, perentoria intimazione a scusarsi, a dichiarare quel che lorsignori suggeriscono, come nei tribunali dell’Inquisizione; e a cacciare, sconfessare, prendere le distanze dai propri iscritti, esponenti, alleati. È una vessazione permanente, da respingere in partenza, senza nemmeno discutere, perché in malafede, finalizzata solo a nuocere, a far perdere consensi, a dividere, a mettere in stato d’accusa e d’inferiorità l’avversario, a imporre il proprio gioco, le proprie regole e il proprio frasario. Il sottinteso di questo giochino al massacro è che la sinistra in questione non è solo avversaria nel campo di gioco, ma è anche arbitro e segnalinee, cronista e giudice sportivo. Ogni volta che chiedono abiure e dichiarazioni bisogna respingerle senza nemmeno entrare nel merito, rispondendo che non hanno nessun titolo per imporre all’avversario il gioco che a te fa comodo; in quanto giocatore non puoi arbitrare la partita, ammonire ed espellere chi vuoi, o fischiare il fuori gioco, falli e decretare punizioni, annullare i gol. Giocate la vostra partita, e contendete sul campo la vittoria agli avversari.  Per tornare invece alla realtà, ma davvero qualcuno pensa sul serio che quattro battute carpite in privato a quattro ragazzi siano un pericolo per la libertà e la democrazia e coinvolgano le responsabilità del governo? Via, raccontatela ai fessi.

 Marcello Veneziani            

La nostalgia è l’amor fati. Ciò che si lascia è perduto. La rotta del destino la tracciamo noi.

Recensione di Biagio Riccio

Il presente è ponderato con difficoltà, soprattutto quando uno spezzone della vita sia stato vissuto intensamente.
Affiora il sentimento della nostalgia, dell’irripetibile condizione di un tempo passato, sfiorito.
Come se il presente si annullasse, non esistesse: vi è un conato dell’anima, uno sforzo proteso al ricordo, ad un richiamo del passato, al suo contesto già compiuto.
Se infatti si intende ripetere un film già visto, o fare una rimpatriata, non sarà mai più come prima.
Senti la vecchiezza del presente, la tristezza di una condizione impossibile.
La vigoria del fisico non si può ripristinare, nemmeno con la chirurgia plastica: certe donne non accettano la corrosione del tempo, il presentarsi implacabile delle rughe, la caduta delle forze e ricorrono ad interventi medici che ridicolmente imbruttiscono- (inesorabilmente)-con tiraggi della pelle, il volto e le parti del corpo.
Così non si fa: si ama anche la caduta del tempo: sovvien la tenerezza d’animo che è sublime.
La vecchiezza frantuma il corpo, ma non la voglia di vivere:amate le rughe, sono la gioventù dell’anima.
La nostalgia è una curva, un portarsi all’indietro per raccogliere il tempo versato. Riconosce il fascino dell’inattuale, l’ irriducibilita’ del destino, che giocoforza deve scorrere, come un fiume che deve sfociare nel mare.
La corrente non può risalire, rigurgitare, deve andare irreversibilmente verso quella direzione.
È questa condizione dell’uomo che non accetta il suo destino.
Perché se siamo felici, egoisticamente desideriamo che il tempo si fermi, diventi eterno, non corra verso l’ignoto: la paura e l’angoscia ci prendono.
Ci voltiamo, dunque, indietro e siamo nostalgici: in greco “ritorno” si dice nòstos.
Álgos significa “sofferenza”.
La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare al già vissuto.
Proust ne ha scritto un capolavoro: “Alla ricerca del tempo perduto”.
D’Annunzio dei versi bellissimi ( La sabbia del tempo): si evoca la condizione dell’ uomo, come quella di chi si pone in un ozio immobile (trattenuto dal cavo della mano) al cospetto della clessidra nella quale scorre la sabbia (sempre), anche quando la capovolgi.
“Come scorrea la calda sabbia lieve per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve.
E un’ansia repentina mi assale”.
L’uomo dunque deve vivere ed accettare il suo destino predisporsi al futuro, ad una progettualità che deve superare anche la consapevolezza della morte.
Amor fati.
È l’amor fati: accettare il destino della vita per cambiarla, per possederla, per rimuovere la nostalgia che produce melanconia.
Questa è la filosofia dell’ottimismo, del dominio della volontà sull’evento, della forza sulle cose.
Una dichiarazione d’amore per la vita.
Dire sì a tutto: sofferenza e felicità, dispiacere e piacere, miseria e gioia, malattia e salute, tristezza e allegria, dolore e soddisfazione, depressione ed estasi, prostrazione ed esaltazione, lutto ed esultanza.
Ecco perché bisogna porsi sotto il segno del fanciullo che vive sanamente nell’innocenza del divenire, come ci aveva insegnato Nietzsche.
Amiamo ciò che accade, perché l’accadere ha luogo nella forma più potente, più feconda, più vera della volontà di potenza, perché essa è pura necessità.
Amor fati come ha scritto in un bellissimo libro Marcello Veneziani è un antidoto al fatalismo contemporaneo: accogliere l’essere nel suo accadere, perché essere è avere un destino, è accettare la vita con i suoi limiti e le consunte responsabilità, non struggersi per essere altro e stare altrove, è amore metafisico per la realtà, è la serenità degli inquieti, una adeguata replica alla grandezza infinita del destino.
Si deve tendere all’espansione della vita, alla ricerca del piacere e dell’ottimismo.
La mitologia segna lo scorrere del tempo: come un filo che un giorno sarà tagliato.
Le figlie della notte, le Moire sono tre: Cloto, nome che in greco antico significa “io filo”, che appunto filava lo stame della vita; Lachesi che significa “destino”, che lo avvolgeva sul fuso e stabiliva quanto del filo spettasse a ogni uomo; Atropo che significa “inflessibile”, che, con lucide cesoie, lo recideva, inesorabile.
La nera Atropo va rimossa : ciò che si lascia è perduto, se non è vissuto.
Amiamo il destino per tracciarne noi la rotta.

( a margine di Amor Fati di Marcello Veneziani).

La fortuna di essere vittime…

Da qualche tempo è scoppiata una nuova epidemia: il vittimismo. Vero, presunto e presuntuoso. Dal caso Scurati al caso Canfora, ma anche prima, con Saviano, Lagioia e compagni, è una gara a figurare nel ruolo di vittime del truce regime meloniano.

Lo statuto speciale di vittime dà luogo a una serie evidente di conforti e di vantaggi, oltre che donare un’attenzione mediatica speciale su di sé e i propri prodotti, cinta di un’aureola, una fascetta di santità, che moltiplica il successo degli autori e delle loro mercanzie. bI campi più sensibili del vittimismo sono l’editoria, la cultura, il giornalismo e lo spettacolo. Essere censurati o passare per tali offre dei vantaggi inestimabili, perché oltre l’aura epica ed eroica di combattenti per la libertà con sprezzo del pericolo, fornisce una serie di benefits a cascata che si riflettono su tutte le attività esercitate. A parte i casi di sedicenti vittimismi immaginari, in realtà conviene essere vittime di provvedimenti censori o dimostrare di essere invisi ai potenti di turno per una ragione precisa: nella cultura, nell’informazione e nello spettacolo vige un canone inverso rispetto al potere politico. Qui è possibile che per via di quel fastidioso accidente che è la sovranità popolare, possa andare al governo la destra o simili in forza dei voti ricevuti. Ma una volta conquistato il potere politico, il controllo può essere esercitato nell’ambito – sempre più ristretto, in verità- delle competenze inerenti la politica e alcuni accessi derivati. Si possono lambire ambiti contigui al potere politico, come per esempio l’informazione pubblica, la Rai. Ma anche in quella sfera, la politica riesce a decidere le nomine e influenzare l’informazione che direttamente attiene alla politica, alla visibilità dei leader, ai dosaggi, alla benevolenza se non il servilismo verso chi è al governo. Ma il potere politico non incide invece sugli orientamenti di costume, sui temi civili, storici, culturali che restano invariati. Anzi, il potere politico non ci prova neanche a modificare gli orientamenti, oggi come ieri, ai tempi di Berlusconi, e magari anche prima, ai tempi della Dc, almeno dagli anni settanta in poi; in fondo va bene che il potere culturale e ideologico resti da quella parte, giacché alla politica interessa il controllo di giornata su ciò che direttamente la riguarda. Per   dirla in breve, TeleMeloni funziona – come le tv filo-governative precedenti – a pieno regime nell’ambito della politica e nella narrazione a questa direttamente connessa. Non funziona, invece, sui temi ormai presidiati dalla permanenza di una specie – ma sì diciamolo – di egemonia culturale e ideologica. Che rasenta il monopolio, riferito all’industria culturale, editoriale, cinematografica, musicale e dei grandi eventi, rassegne, premi, ecc.  Invece, nei casi di vittimismo appena citati, cosa succede? Gli autori considerati vittime di censura non ricevono alcun danno nella loro attività ma solo vantaggi: sul piano delle vendite e dell’editoria, sul piano dell’informazione e della notorietà, sul piano dei premi e delle partecipazioni a festival, eventi, cordate; per non dire dei vantaggi sul piano accademico e delle loro carriere. Un programma che li cancella, moltiplica l’effetto mediatico sugli altri programmi che poi li invitano per celebrare e propagare le parti censurate; per l’editore che manda in fretta in libreria i testi dell’autore al centro dello scandalo; per le opposizioni che ne fanno subito una bandiera e un simbolo. Un testo viene censurato? Sarà letto con ben altra enfasi nello stesso programma e ripetuto in cento altri programmi, sarà recitato dall’autore in cento manifestazioni pubbliche di piazza e di tv; lo rilancerà perfino il leader politico accusato dal testo, per attestare che è garantista e non censura i testi contro di lui; persino le foche ammaestrate finaliste dello Strega, leggeranno a pappagallo, in coro, nel Collettivo Autori Indignati, la filastrocca banale del testo censurato. Effetto moltiplicatore, altro che censura. Garanzia di successo, altro che persecuzione…

E alla fine del giro, gli stessi censori veri o presunti sono costretti a passi indietro e a reintegrare, con tante scuse e risarcimenti, la Vittima; che nel riceve la solidarietà e l’alta protezione di coloro che attacca (premier, ministro, autorità).  Cosa distingue allora le vere dalle false vittime? Gli effetti che la loro posizione produce. Se scagliarsi contro il potere politico rende così tanto a così vari piani e livelli, non si tratta di vittime ma di ciniche operazioni d’investimento, speculazioni ideologiche nella borsa degli affari culturali.  Le vere vittime, invece, sono coloro che hanno da perdere per le loro opinioni, che si vedono tagliate da ogni significativa visibilità, rimosse da ogni media importante, dimenticate nella loro opposizione clandestina, anche se in molti casi tutt’altro che solitaria ma condivisa da tanti (O impediti di parlare in pubblico). Mentre le vere vittime vengono escluse dalla società inclusiva, cancellate, ignorate nelle loro opere e opinioni, le Vittime per finta, le Vittime Apparenti del Circo Illusionisti, spesso autori modesti e palloni gonfiati, assurgono al ruolo di pseudo-matteotti virtuali o di simil-gramsci in finta pelle, celebrati nella loro lotta intrepida contro il potere, con rimborso a pie’ di lista, ampio risarcimento più lauta indennità di rischio. Insomma, con l’egemonia culturale sempre nelle mani della sinistra, le vere o immaginarie censure politiche alla cultura, funzionano a contrario, sono spot promozionali ad alto reddito.

Marcello Veneziani   

La filosofia educa alla vita…

Ma poi a che serve la filosofia? Domanda di sempre, risposta di mai, sottile rimprovero di esistere nonostante la sua certificata inutilità. E magari sottintesa accusa d’impostura. Eppure la filosofia non riguarda solo i filosofi, o peggio i professori, cioè i cultori di quella scienza, come dicono le menti piccine, “con la quale e senza della quale tutto rimane tale e quale”. E invece no. E non solo perché ci sono cose inutili che pure sono necessarie per vivere e per capire il mondo. Ma la filosofia è un bene pubblico, universale, tocca ciascuno di noi, sin da bambini, quando l’attitudine poetico-filosofica è più acuta e smagliante, come tutte le cose appena inaugurate, fresche di vita. Ciascuno a suo modo, secondo la sua mente, il suo rango di pensiero e di cultura, il suo livello di comprensione e di lettura; ma tutti siamo in varia misura filosofi e ci nutriamo senza saperlo di filosofia. Lo sapevano le popolazioni del sud del mondo, non solo del nostro meridione, ma dell’infinito oriente, dove la filosofia è una pianta naturale che pure genera frutti invisibili a occhio nudo; la chiamano in modo diverso, ma la visione della vita e del mondo è essenziale per stare al mondo.
Ma oltre i motivi universali che affronta la filosofia c’è un tema specifico, diretto, pratico, che è sempre stato importante e che oggi sembra non esserlo più mentre è ancora più importante di prima: è la filosofia come educazione a vivere, esercizio pratico di vita. Traggo questa definizione, semplice e completa al tempo stesso, da un grande studioso, Pierre Hadot, scomparso nel 2010. Ho seguito Hadot lungo tante sue opere dedicate a Plotino, a Marc’Aurelio, a Seneca, al pensiero antico e a quelli che lui chiama “esercizi spirituali”. Prete mancato, ma non deluso dalla religione, solo “emancipato”, come lui dice, Hadot ha visto la filosofia non come puro sapere, ma come un mezzo per trasformare l’uomo, farlo vivere meglio, a occhi aperti, ed elevarlo.
Ora è uscita un’importante raccolta di suoi saggi, tradotta da Giorgio Leonardi, dedicata a La filosofia come educazione degli adulti (Marietti1820). E’ un’opera che esorta a vivere la filosofia e non solo a leggerla, a farla diventare esercizio quotidiano, pratica di vita, allenamento a vivere e a morire, e – se mi è permesso estendere lo sguardo – a saper invecchiare.
Il tutto è condensato in uno sguardo che il più saggio imperatore di tutti i tempi, Marc’Aurelio, sintetizzava in modo mirabile: “vivere ogni momento come se fosse il primo e l’ultimo”: lo sguardo del filosofo comprende lo stupore di essere al mondo e la lucida coscienza di lasciarlo. Nella saggezza antica Hadot fa convergere la vigilanza stoica, la gioia epicurea e l’ispirazione mistica in Plotino. Filosofare è destarsi, vivere a occhi aperti. Platone e Aristotele riconoscevano che lo stupore è alla base del filosofare, ma anche la capacità di apprendere a morire. Lo stupore di nascere e il dolore di svanire sono i confini del suo pensare la vita; la meraviglia di essere al mondo e la lucida consapevolezza di doverlo lasciare. Imparare a morire fu la lezione che Hadot trasse da adolescente da Montaigne; quella lezione traduceva la capacità di addestrarsi a morire e insieme di addomesticare la morte che già gli antichi ponevano alla base della saggezza. Da questa visione, Hadot trae un comportamento, auspica la nascita di scuole o comunità che sappiano insegnare, apprendere e mettere a frutto quei pensieri, vivendoli nella quotidianità. Proposito ancora più urgente nel tempo in cui scompaiono non solo quelle riflessioni, quella cogitatio vitae et mortis, ritenute importune, da rimuovere; ma spariscono anche i maestri e gli allievi, non ci sono più discepoli, mancano gli eredi, e tutto finisce nel nulla. Eppure la vita è connessione, trasmissione, trasferimento di conoscenze ed esperienze, ricordo e promessa, vivere è annodare ponti, stabilire continuità. Perfino Nietzsche il solitario ha sognato di vivere in comune con un gruppo di filosofi, dice Hadot, “per elevarsi a una vita superiore nel segno del dialogo e dell’amicizia”. La filosofia sorge in solitudine ma genera comunità.
Il livello più profondo di quella connessione è individuato da Hadot nella mistica, e nell’insegnamento segreto, simbolico, tramite allegoria che conduce “all’unione intima e diretta dello spirito umano al principio fondamentale dell’essere” inteso sia come vita pratica che come conoscenza. Il fine è liberarsi dall’Ego e da Narciso – dice Plotino – e ritornare al Tutto, ricongiungersi all’Uno. Oltre un certo livello, la coscienza non basta più, anzi “senza coscienza – osserva Plotino – gli atti sono più puri, intensi e vivi al più alto grado”. Giunge l’estasi, breve e folgorante, la fusione amorosa, la gioia mistica. La precede il sentimento del sacro che per Hadot suscita angoscia e serenità insieme.
Il filosofo per Hadot resta fondamentalmente un educatore, ben sapendo che come diceva Kierkegaard (ma lo diceva anche Gentile) “essere maestro è essere discepolo”. L’educazione, spiega Hadot, si assume il compito di “raddrizzare” il fanciullo, portando alla luce il bambino che è dentro di noi. La filosofia è arte di vivere: educa a essere al mondo, a comprenderlo, ad amarlo e a lasciarlo.
Compito della filosofia, aggiunge Hadot stavolta seguendo il Kant “illuminista” di “Sapere Aude!” (Osa sapere) è educare a pensare con la propria testa. Proposito mirabile se non si traduce nella pretesa autonomia della ragione da ogni testo e contesto e da tutto ciò che non nasce nella nostra testa: ci sono pensieri, tradizioni, riti, simboli e liturgie che ci precedono e ci sovrastano e la nostra intelligenza è anche la duttile capacità di mettere a frutto esperienze, patrimoni, consuetudini, idee ereditate.
Il presupposto è l’amore della verità che accompagna il filosofo. Ma come si dimostra la verità? Hadot ricorre al filosofo spiritualista Louis Lavelle: “La verità è un atto vivo…si dimostra attraverso la sua efficacia, attraverso la comunicazione che stabilisce tra noi e l’universo, tra noi e tutti gli altri esseri”. Ossia la verità non è pura enunciazione, teoria, ma prova pratica, la si scopre solo vivendola. Tesi bella e ardua.
Gli esercizi spirituali per Hadot ci permettono di superare il punto di vista individuale e parziale; ci concentrano sul presente, fanno guardare le cose dall’alto e curano l’anima. E tuttavia Hadot riconosce che spesso “noi filosofi viviamo in una bolla”, gli esercizi spirituali si riducono a esercizi intellettuali; così fallisce la missione del filosofo. Hadot ricorda quando da giovane si era chiuso per molti giorni in casa a studiare i neoplatonici; poi quando finì la sua ricerca, andò dal fornaio a comprare il pane. E lì comprese di aver vissuto lontano dal mondo, dal laborioso rumore della vita, lontano dal pane fresco, sfornato ogni giorno a scandire il ripetersi e il rinnovarsi della vita quotidiana. La fragranza di una baguette, appena sfornata, lo restituì alla semplice bellezza della vita.

Marcello Veneziani