Se il mondo finisce in padella…

 

 

Arriva il piatto unico, anzi universale, gastronomicamente corretto. Tra l’industria multinazionale del food, il McMondo, il cibo sostenibile secondo i dettami dell’ambente e del salutismo, eccoci arrivati alla mangiocrazia globale, ultima tappa del pensiero unico, o pausa ristoro, tra cibo standard e cucina spettacolo. Hamburger di carne sintetica, panini coi grilli, patatine di farina di mosca; questo scenario si prospetta nell’alimentazione del futuro. A denunciare la globalizzazione del cibo è Diego Fusaro, vivace pensatore alternativo, che ha sfornato un saggio intitolato La dittatura del sapore (ed. Rizzoli). Il tema del mangiare è diventato centrale nella nostra società opulenta: come discorso, come rappresentazione, come business, in un saliscendi tra denutrizione e obesità, anoressia e bulimia, fame e glicemia. Il mangiare è una delle principali ossessioni globali, soprattutto d’occidente: in tv si parla continuamente di cucina, a tavola si parla ancora del mangiare, in giro è tutto un viavai tra diete e arte culinaria; anche nell’alimentazione si insinuano come vermi solitari le manie ideologiche, ecologiste, salutiste ed esotiche, mentre sullo sfondo prende corpo lo scontro di civiltà tra l’hamburger e il kebab, o tra la pizza e il sushi. E l’ombra inquirtante dei cibi ogm.

Fusaro ricostruisce il filo rosso dei pensieri sul mangiare, ripercorre la filosofia alle prese col cibo e la cucina, l’antica divisione antropologica tra il crudo e il cotto; affronta le mode alimentari e le fobie del nostro tempo. Sullo sfondo resta la provocazione di Andy Warhol, “La cosa più bella a Firenze è il McDonald”, e lo stesso vale a Tokio, a Stoccolma, a Pechino e a Mosca. L’americanizzazione del mondo passa dai fast food, mentre le nostre città, a partire da Roma, sono ridotte a sguaiate mangerie.

Un regime alimentare uniforme incombe sul pianeta; ma non sono così convinto che il mondo si stia uniformando nel cibo. A parte i dislivelli alimentari tra ricchi e poveri, tra occidentali e resto del mondo, ci sono troppe varianti per parlare di dittatura del piatto unico. Ci sono i vegani, che sono uno spazio di mercato rilevante e hanno più udienza rispetto a chi ha problemi di salute: trovi il cornetto vegano ma non trovi il cornetto senza zucchero per i diabetici; ovvero una scelta alimentare viene assecondata mentre una malattia sociale, pure molto diffusa, non viene presa in considerazione. In secondo luogo sono saltati o addirittura sono rovesciati i paradigmi del passato: un tempo i poveri erano magri e i benestanti erano grassi. Oggi, almeno in Occidente, succede più spesso il contrario. E la cattiva alimentazione, lo street food, i fritti e l’overdose di birra, coca, pizze, snack e merendine appartiene più ai ceti meno abbienti e meno istruiti. In secondo luogo, non mangiano male solo i poveri; a volte, per ragioni di fretta, mangiano male anche molti business men, che non pranzano, non si siedono a tavola, ma “mettono qualcosa sullo stomaco”, in una pausa breve tra una telefonata e l’altra. In terzo luogo, è vero che cresce il cibo spazzatura, o quello standard dell’industria globale del food; ma al suo fianco cresce anche la ricerca di cibi alternativi, la riscoperta della cucina povera, della dieta mediterranea, della cucina etnica; e poi la ricerca del cibo di qualità, per non dire dei ristoranti stellati o delle trattorie per buongustai, tra chef e gourmet. La riscoperta di frutta, verdura e pesce, rispetto a salumi, formaggi e carne è un altro segnale positivo. E così il minore uso di sale, zucchero, burro, dolciumi e le dimensioni ridotte delle pietanze. Nelle società povere e arretrate un requisito positivo sono le porzioni abbondanti; nelle società più sviluppate, al contrario, si preferisce la qualità alla quantità: è vistosa la differenza tra i cannoli giganteschi dell’entroterra siciliano e i micropasticcini torinesi… E poi si è più esigenti nel bere, c’è tanta gente che affetta competenza nella scelta dei vini, che è comunque un indice di maggiore ricercatezza. Insomma non siamo in presenza di una sola tendenza, ci sono controtendenze che scompigliano il paesaggio e non lo rendono uniforme. E il nostro mangiare è peggiorato anche perché si cucina meno in casa, c’è meno famiglia e ci sono meno casalinghe. Resta invece, la pressione mediatica, pubblicitaria e pervasiva della grande industria del cibo, degli ipermercati, la retorica della sostenibilità arriva a eccessi grotteschi: quando per esempio di un prodotto non si vantano le sue qualità ma il fatto che sia eco-sostenibile, non lascia residui e vuoti a perdere. E poi i cibi con gli insetti sono per ora più una minaccia, pur inquietante, che una realtà di massa. Certo è molesto l’eccesso di programmi televisivi culinari, troppe chiacchiere intorno al cibo, che sono una perversione del convivio classico: la tavola era l’occasione ma nei simposi fiorivano i dialoghi, come insegna Platone. Ora invece i dialoghi vertono direttamente sul cibo e sulle esperienze alimentari: il cibo diventa causa, occasione e scopo della cena, seppur accompagnata dal cazzeggio.

E comunque l’uomo non è solo ciò che mangia, come diceva Feuerbach: è anche ciò che sogna, che pensa, che fa, che dice, che prega, che ama. Siate magnanimi prima che magnaroni.

 Marcello Veneziani

 

Il santo, il diavolo e il brigante..

 

 

 

Ma è possibile che della storia della repubblica italiana, l’unico santo che si salvi e sia venerato ancora oggi sia Enrico Berlinguer? Sbrigato l’ossequio ad Alcide De Gasperi, e ad Aldo Moro assassinato, l’unico leader politico a cui si dedicano saggi e agiografie, film in uscita, documentari ed elegie è il segretario del Pci, che non è mai stato al governo del Paese e ha guidato i comunisti per dodici anni.
Spariscono tutti, Andreotti e Fanfani, Craxi e Nenni, Saragat e Togliatti, La Malfa e Pannella, Spadolini e Malagodi, i capi dello stato e del governo. Al più le menti più libere confrontano Berlinguer e Giorgio Almirante, come Antonio Padellaro che rese onore ai due opposti capi dell’opposizione e ai loro rapporti furtivi. Ma da Berlinguer ti voglio bene, lui vivente, di Giuseppe Bertolucci al famoso omaggio di Roberto Benigni, dal docufilm Quando c’era Berlinguer veltroniano di dieci anni fa, alle biografie osannanti, di cui l’ultima di Marcello Sorgi San Berlinguer; e poi i numerosi suoi scritti, peraltro modesti, ripubblicati in questi anni, e ora Prima della fine di Samuele Rossi, mentre arriva al festival di Roma e nelle sale La grande ambizione di Andrea Segre, con Berlinguer interpretato da Elio Germano.
A ridurre la storia della repubblica italiana agli stereotipi correnti, potremmo così sintetizzare gli ultimi decenni della prima repubblica: il santo, il diavolo e il brigante. Il santo, naturalmente, è Berlinguer; il diavolo resta Giulio Andreotti, Belzebù già in vita, mai riscattato post mortem, anche di recente sono riemerse le accuse di mafia in relazione all’assassinio del Generale Della Chiesa. E il brigante resta Ghino di Tacco, al secolo Bettino Craxi, morto in esilio ad Hammamet e considerato ancora – nonostante un film che gli aveva restituito un po’ di dignità e memoria – il Delinquente Politico per Eccellenza, il Bersaglio più noto e più grosso di Mani Pulite, detto anche Il Cinghialone da Vittorio Feltri (che perlomeno dopo si pentì).
Possiamo dire invece che fu una fortuna per il nostro Paese se al governo dei tre non ci andò mai proprio Berlinguer? Andreotti, tra lati oscuri e misteri obliqui, fu uno dei riferimenti basilari su cui si resse per anni la repubblica. E Craxi fu un grande leader e un gran premier, portò il socialismo nella realtà di oggi, avversò la demagogia sindacale, riscoprì la nazione e la storia risorgimentale e portò l’Italia a primati internazionali impensati.
Possiamo dire che se avesse vinto Berlinguer, avremmo avuto il comunismo al potere, con tutti i fallimenti che ha comportato in ogni parte del mondo? Berlinguer non compì alcuno strappo dal comunismo. Il suo tormentato rapporto con Mosca alternò adesioni a tentativi di graduale e timoroso affrancamento, restando pur sempre dentro la tradizione comunista e sentendosi comunista fino al midollo e fino alla fine. Anzi la sua popolarità, con la sua morte prematura sul campo, la si deve proprio al fatto che era visto come il compagno comunista.
Vogliamo dimenticare la sua critica radicale al capitalismo, la sua convinzione che l’austerità sarebbe stata l’occasione per fuoruscire dal sistema occidentale, tentando una nuova via del socialismo? Vogliamo dire che Berlinguer non sconfessò mai la tradizione leninista e in Italia il gramscismo e il togliattismo? Vogliamo dire che la sua sinistra guardava ancora al passato, si baloccava con l’eurocomunismo e condannava il socialismo craxiano che si apriva all’Europa, al Mercato, all’Occidente e all’identità nazionale? Vogliamo dire che la questione morale che sollevò dall’opposizione l’aveva sollevata prima di lui da destra Almirante, denunciando la corruzione politica e la spartizione del potere? Vogliamo dire che Berlinguer non lasciò grandi tracce della sua visione, ma fu un diligente primo funzionario del Partito; non ebbe la lucidità strategica e la statura politica del pur cinico Togliatti, né l’efficacia oratoria di Pajetta, il realismo storico di Amendola, l’impronta profetica di Ingrao? Non fu una grande intelligenza politica né un grande leader ma un solerte dirigente di Partito, che non andò mai oltre il suo Partito e la sua ideologia.
Berlinguer fu una persona onesta, per bene, misurata e sobria, che credeva nelle sue idee, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo e un gigante della Repubblica italiana? A “salvarlo”, per così dire, fu l’assassinio di Moro che fece saltare la svolta consociativa verso cui stava andando l’Italia del compromesso storico Dc-Pci. Ci volle poi la caduta del muro di Berlino e dell’impero sovietico per cancellare il nome del Pci e il riferimento al comunismo; ma Berlinguer era già morto da anni.
Non è un caso che i due comunisti di cui ancora si celebra la memoria sono i due sardi Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer, che ebbero la fortuna di non andare al potere. Quando era in carcere, Gramsci teorizzava un regime ben più totalitario di quello che lo aveva messo in galera, e se non si riconosceva nello stalinismo, si considerava ancora pienamente nella scia di Lenin. Se Gramsci e poi Berlinguer fossero andati al potere avremmo realmente capito come intendevano governare l’Italia; altro che liberali e democratici, come testimoniano le loro idee e la loro coerenza a cui rendiamo onore, pur essendo agli antipodi. E invece, il teatro della prima repubblica funziona con tre maschere: A. Il demonio, B. Il santo e C. il brigante. Ma la storia è un’altra cosa.

 

I tre poteri della sinistra e chi si oppone è nazi…

 

 

 

Il voto in Austria ha confermato una vasta tendenza europea: la destra nazionalepopulista e sovranista, anti-establishment, è la prima forza in campo quasi ovunque. Forza di maggioranza relativa, di solito intorno al 30%, per governare ha bisogno di trovare alleati e questo succede con fatica. Di solito scatta la conventio ad excludendum, l’alleanza di tutti i perdenti contro il vincente, come sta profilandosi a Vienna. In Italia, grazie al varco aperto ai tempi di Berlusconi, è stato invece possibile allargare la coalizione al centro-destra. La prima difficoltà è dunque nel potere di alleanza; in un sistema elettorale come quello inglese, il trenta per cento dà la possibilità di governare con una maggioranza assoluta di seggi (come è capitato ora ai laburisti); in Francia no, come è successo con gli stessi voti alla Le Pen (ora è il suo turno nella persecuzione giudiziaria).

Intanto monta per i vincitori austriaci l’accusa di nazismo e antisemitismo. Un’accusa corale e folle, che s’inquadra in un grottesco quadro riassuntivo: Netanyahu è un nazi di estrema destra, chi condanna Israele per le sue invasioni e stermini di civili è un nazi di estrema destra, gli islamici che odiano Israele sono nazi di estrema destra, le destre europee che si oppongono alle invasioni islamiche sono nazi di estrema destra. Tutti nazi di estrema destra (e non abbiamo parlato di Putin e dell’Ucraina). Ma se è un quadrangolare tra nazisti, che fine hanno fatto gli altri? Chiedetelo ad esempio alla Gruber che sostiene quel quadrangolo.

Ma lasciamo i deliri, torniamo all’analisi dei fatti. Le difficoltà permanenti della destra al governo restano di tre tipi: l’ostilità dell’establishment e del relativo potere mediatico-giudiziario; i margini ristretti d’azione e decisione dovendo rispondere e attenersi a direttive e vincoli sovranazionali, supremazie e alleanze militari; e infine la difficoltà di selezionare e cooptare una classe dirigente qualificata di esperienza. Se la destra anti-establishment raccoglie di solito il trenta per cento dei voti, il suo antagonista primario, la sinistra, di solito è attestato poco oltre la soglia del venti per cento. Il resto si divide tra centristi, moderati, popolari, liberali o tra verdi e formazioni locali e radicali. In sintesi, metà elettorato non va a votare, e la metà votante è divisa in modo difficilmente componibile. L’ingovernabilità è l’esito più frequente, se non intervengono espedienti elettorali o di potere. Ma per un gioco di prestigio elettorale e una serie di combinazioni e agevolazioni, la sinistra si ritrova spesso in un ruolo preminente o egemone, pur raccogliendo meno voti di altri e riscuotendo il maggior tasso di avversione tra i votanti e i non votanti.

Prendiamo il caso italiano. Nonostante i riti wodoo della stampa, dei media e dei loro affiliati, il centro-destra mostra di essere più compatto e meno scomponibile dei suoi avversari. Invece, come si vede ogni giorno, il cosiddetto campo largo è sempre più difficile a comporsi, figuriamoci a reggere nel tempo. Al di là delle singole leadership, delle refrattarietà incrociate, c’è una considerazione elementare da fare: il Movimento 5 Stelle sa che in un’alleanza coi dem ha solo da perdere, in termini di consensi e agibilità politica. Il Pd è partito-establishment: per una forza nata come alternativa antisistema come il M5S è autolesionistico allearsi coi dem già in partenza e perdere consensi, identità e autonomia. Inutile quindi imprecare contro Conte; il suo calcolo è elementare e sensato, non è mica scemo a immolarsi per il Pd. Accade così che la sinistra in Italia, se non intervengono mani invisibili, pressioni sovranazionali e giochi di palazzo, non ha tecnicamente e politicamente la possibilità di esprimere una maggioranza. Del resto non è mai accaduto alla sinistra di essere maggioritaria in Italia. Il tetto dei suoi consensi risale alla breve parabola di Matteo Renzi, quando una leadership ambigua se non ambidestra, consentiva a Renzi di accumulare i voti ereditati dalla sinistra coi voti provenienti dal centro e da alcuni settori del berlusconismo. Si deve risalire all’epoca dei partiti popolari di massa per trovare una forza vasta e coesa come il Pci raggiungere il trenta per cento, riuscendo pure nella fase iniziale del declino democristiano, a godere l’ebbrezza transitoria del sorpasso.

Qual è allora la ragione per cui la sinistra appare a larga parte del paese come l’espressione dell’establishment e dunque degli assetti dominanti, a livello internazionale e non solo? I dem dispongono di tre poteri che la destra non ha e non riesce ad espugnare: il potere dirigenziale, il potere ideologico e il potere ostativo. Il potere dirigenziale è frutto di una sedimentazione nei decenni: da quando crollò il potere democristiano e Mani Pulite sotterrò il pentapartito, i ceti dirigenti del paese finirono in buona parte nell’orbita della galassia dem. La burocrazia ministeriale, regionale e locale, il ceto amministrativo, il personale delle amministrazioni comunali, inclinano o provengono più dalla sinistra. E anche quando si indicano candidati per gli enti locali, alla sinistra è più agevole trovare nomi più noti, collaudati, con più benevolenza mediatica.Il potere ideologico nasce dalla prevalenza (o egemonia) nel linguaggio e nel racconto della rappresentazione progressista, radical, liberal, rispetto a quelle opposte. Una dominazione che persiste, pervade, è esercitata a tutti i livelli, anche per la presenza di un ceto professionale, mediatico, intellettuale e docente affine. Nulla del genere esiste tra i cattolici, i moderati, i conservatori, le destre.  Dai due poteri precedenti e dalla macchina propagandistica che ne deriva, sorge il potere ostativo, ossia la capacità di rendere difficile la vita a chi governa, se non impossibile. Ogni giorno un obiettivo da abbattere. Campagne mirate, strategie del discredito, della delegittimazione, della ridicolizzazione, e perfino della criminalizzazione (col prezioso supporto giudiziario) rivelano la potente macchina da guerra con un vasto potere di veto e di intimidazione. E poi la magistratura fa il resto. La sinistra non ha dimostrato in questi decenni capacità di governo, di durata, di coesione e di efficacia costruttiva ma detiene un formidabile potere distruttivo d’interdizione, demolizione e boicottaggio. Su questi tre poteri la sinistra costruisce la sua pretesa egemonica e il suo assedio ai governi nemici. Ah, se non ci fosse quell’inconveniente della sovranità popolare… In caso di emergenza chiamare il nazi.

Marcello Veneziani                                                                                                    

 

Nonna radio ha una marcia in più..

 

Abbraccia la tua radio per favor, compie cent’anni ed è il media più antico tra i moderni e il più confidenziale per indole, il più sentimentale, il più magico, il più italiano. Intanto è il più compatibile con l’immaginazione, perché non ha immagini e ti fa cavalcare con la fantasia. Poi, è il più adatto a un paese loquace, refrattario ai silenzi e alla lettura, più incline alla cultura orale dove il fascino è nella parola e nel tono di voce. E poi la radio è la più rispettosa della vita pratica, perché per ascoltarla non devi interrompere la tua attività, puoi fare altro. E infine, se permettete, è il media più italiano, anche perché nessuno discute la sua paternità, come per il telefono, è nata dal genio italiano di Guglielmo Marconi e dal suo telegrafo: la tv, la stampa, il web, hanno padri diversi o controversi, la radio no.

La discrezione della radio, la signorilità del suo sussurrare e il pudore di non mostrare la rendono davvero un mezzo per bene, d’altri tempi, quando si diceva ossequi alla signora e ci si toglieva il cappello. È stato facile celebrare quest’anno i settant’anni della Tv perché la sua nascita cadeva in epoca repubblicana, il 1954, nonostante le prime prove tecniche di trasmissione fossero nei primissimi anni quaranta. Più spinoso è invece parlare della Radio che il prossimo 6 ottobre compirà cent’anni, essendo nata a pieno regime, sotto il fascismo, il 1924. Eiar era il suo cognome da signorina, molto più volatile e aereo, facilmente declinabile alla fascista: Ejar, ejar alalà (in realtà era un motto dannunziano a sua volta mutuato dagli antichi romani e perfino greci).

Come soffrì la radio, quando era ancora giovane, a vedere che il successo della figlia Televisione oscurava il suo. Sì, felice per sua figlia ma si sentiva messa da parte, invecchiata di colpo. Si è rifatta un po’ coi nipoti, i new media, che in parte l’hanno rivalutata e in parte hanno reso più attempata sua figlia in video. E si è poi mescolata con l’i-phone, in forme ibride e creative, che non l’hanno resa del tutto superflua. La modernità della radio era consegnata alle sue dimensioni: più era grossa più era vecchia, antiquata e viceversa più era piccola, transistor, e più era agile e moderna. Poi passarono entrambi al vintage e al modernariato, come il magnetofono e il mangiadischi.

La radio vive nascosta e sedentaria, tra casa e auto, sopraffatta dallo smartphone in cui in fondo sopravvive sotto falso nome; non ama esibire, non vive d’apparenza, si affida alle parole più che ai gesti, alle canzoni più che alle azioni, e parla, parla tanto.

La radio non è la preistoria dei mass media, ma è qualcosa in più, di magico e fatale. La radio, dicevamo, è insuperabile per questa sua flessibilità che la rende duttile alla vita e alla sua pratica: tu puoi farti la barba, puoi lavorare, puoi guidare, puoi correre e fare sport, puoi fare ogni cosa mentre ascolti la radio. Con la tv, il tablet, lo smartphone, il pc, no, è più difficile. Ti occupano la vista. Lei è multitasking e non si sostituisce al mondo, ma ti accompagna, è la colonna sonora della vita. La sua magia è nella parola e nella musica; incanta più della visione e al tempo stesso fa pensare. Vai in tv e ti notano la cravatta, vai in radio e ti notano un concetto. È più di sostanza, la radio, meno futile. Per dirla nel gergo ruffiano della contemporaneità la radio è Smart, Warm and Friendly. Passateci l’uso ironico dell’americanismo, noi che vent’anni fa proponemmo il ritorno alla lingua italiana in Rai, ma ci permette di riassumere perché uno strumento antico o perlomeno di modernariato, comunica ancora bene, molto meglio di tante recenti innovazioni, rispetto alle quali mantiene un maggior grado di penetrazione, di fidelizzazione e di appetibilità. Ma la Radio davvero è particolarmente efficace perché è un mezzo facilmente abbordabile e diretto (Smart), intimo ed emozionale (Warm), non invasivo ma amichevole (Friendly).

Poi un limite oggettivo e grosso della radio rispetto agli altri media è anche per altri versi un suo pregio esclusivo: la mancanza di immagini, anzi la cecità del suo comunicare, ha tagliato le gambe agli aspetti più facili e a volte più torbidi della comunicazione, anche pubblicitaria: c’è meno Sesso, Sangue, Violenza, Trucco e Avvenenza a fare da richiamo. La Radio è più sobria, più autentica, più mite, sembra perfino meno interessata all’aspetto venale, ai soldi e al successo, un mezzo quasi da confessionale. Ti giochi tutto con le parole e con quel che c’è dentro. Certo, pure con la voce si può essere seduttivi e perfino erotici, ma alla fine l’arte dell’affabulazione, la capacità di combinare parole, musiche e silenzi per entrare in un universo parallelo e invisibile, fatto di armonie e cibo per la mente, è la specialità magica della radio.

Ho molti ricordi radiofonici, e non solo perché in radio, alla Rai, ci ho lavorato per anni. Anzi, i ricordi più mitici e più tenaci sono quelli che ti porti da bambino. Ogni tanto la preistoria personale viene a trovarci. Tu ricordi vagamente il soggiorno di casa tua da bambino, tuo padre accanto a un gran bestione di radio, tu e i tuoi fratelli raccolti a sentire le partite di calcio, “se la squadra del vostro cuore ha perso consolatevi con Stock 84”. Ricordi lo stupore del quadrante acceso, gremito di nomi esotici, la sorpresa di quelle linee luminose che si spostavano con la manopola e le voci promiscue che cambiavano rapidamente, dall’inglese al russo all’arabo. Il Lontano entrava in casa. Scusa Ciotti, linea ad Ameri, grazie Bortoluzzi.

Poi, la domenica radiosa, le canzoni riempivano la casa combinandosi con l’odore di ragù. Pensi che sia un mondo sepolto o solo sognato, tanto pallido e stinto è il ricordo. Ma poi un pomeriggio, alla controra, ti arrampichi sulla soffitta della casa paterna e ritrovi lacerti del passato che giacciono inerti ma alludono a una preistoria favolosa e affettiva. Ritrovi con loro quelle stanze, quelle voci, quei volti, quelle abitudini di casa. Riemerge da quell’Atlantide familiare la carcassa del prezioso animale domestico, la radiona Clariton in radica di noce che irradiava il soggiorno. Con qualche espediente si rianima, dà segnali di vita, emette rumori, suoni… Vorresti riascoltare le parole e le voci di quel tempo e rivedere al suo fianco quella poltrona occupata. Ma poi ti accontenti d’aver ritrovato la macchina del tempo e ti reincanta il suo fervore di luci. Non sai come festeggiare la sua ricomparsa, ma mentre ci pensi, ti accorgi che lo stai già facendo. Si riaccendono i ricordi, va in onda il passato. Benedetta Radio, sei stata sempre di parola.

Marcello Veneziani                      

Eutanasia della libertà…

 

Viva la muerte, gridavano in Spagna ai tempi della guerra civile. Viva la muerte è il messaggio che manda lo spagnolo Pedro Almodovar dalla Mostra del Cinema per liberarci dal dolore di vivere, ma in un significato assai diverso da quel grido. Dopo aver dichiarato morto Dio con le sue religioni e preghiere, morta la Natura col suo ordine e le sue leggi, morta la famiglia con i suoi legami, morta la tradizione con la storia e le comunità, il messaggio finale che resta è morire in libertà, per autodecisione, anticipando Dio e la Natura, il destino e il decorso della vita. Se non siamo autocreati, possiamo però esercitare la sovranità opposta, la decreazione, la libertà di eliminarci. Disponiamo solo del potere negativo sulla vita e lo esercitiamo fino alla morte. Da tempo i messaggi pubblici inviati dalle maggiori agenzie di riferimento della nostra epoca, tra i quali spiccano il cinema e la tv, ruotano intorno a quei temi e si raccolgono infine nell’elogio dell’eutanasia. Almodovar ha vinto il Leon d’Oro a Venezia col suo film dedicato all’eutanasia – ancora una volta, Morte a Venezia – ma non era un tema originale, è da alcuni anni un filone cospicuo nella narrativa cinematografica della nostra epoca, sempre con lo stesso esito.

Non entro nel merito dell’eutanasia, capisco alcune sue ragioni, reputo ragionevole stabilire dei limiti all’accanimento terapeutico o al mantenimento in vita solo artificiale, di persone che non hanno più una vita cosciente e non hanno più possibilità di riprendersi. Capisco, condivido l’umana pietà di mettere fine alla sofferenza. No, non è di questo che voglio parlare. Ma del fatto che gli unici messaggi ideali e morali, civili e individuali che vengono diramati dalle messaggerie culturali dell’epoca nostra sono rivolti alla morte, al pensiero negativo, alla preferenza per il non essere rispetto all’essere. E l’unica sovranità riconosciuta è di tipo individuale e ancora negativo, come il potere di uscire dalla vita.

Rovesciando il punto di osservazione, noto che l’eutanasia è l’unico messaggio dominante sul passaggio tra la vita e la morte. Non c’è più il mistero di Dio, la scommessa sulla fede, la contemplazione della morte, il destino dell’uomo, la sua memoria e le eredità che lascia a chi resta, ma solo la possibilità del singolo di tagliare il nodo gordiano, di recidere il cordone della vita, come si recidono i cordoni ombelicali per mettere la mondo i neonati. Questa recisione ha un significato inverso, come inverso è ormai il canone odierno. L’eutanasia è l’ultimo decisionismo dell’occidente-uccidente; una decisione-recisione volta solo a negare, a sottrarsi, in una via di fuga individuale. Autonomi nella dissoluzione, libertà come cupio dissolvi.  Aleggia in questa ossessione dell’eutanasia il segno di una società stanca e sfiduciata, demotivata e ripiegata nella vita singola, isolata, popolata da vecchi, impauriti dall’incipiente soglia; che allestisce terapie, balsami e culture utili a giustificare il trapasso indolore e inodore, asettico, verso l’estinzione. Un nirvana per via sanitaria, un nichilismo clinico come sollievo dal dolore di esistere.  Nei millenni passati furono attrezzati grandi cerimoniali per accompagnare la vita nel suo fatale distacco; riti, liturgie, pensieri, opere e missioni, lasciti, eredi e testamenti. Vedevo ieri sera splendidi tableau vivant a Castellabate nel corso del premio Pio Alferano, in cui venivano inscenate alcune grandi opere pittoriche a tema religioso, in prevalenza sulla morte di Gesù Cristo: colpiva vedere la morte come atto corale, corpi viventi intrecciati a corpi morenti, dolore consorte, compagnia dell’addio. La nostra è invece morte ospedaliera, in solitudine.

Fino a pochi anni fa l’unica eutanasia riconosciuta era morire per un motivo che fosse più importante della nostra vita individuale: morire per testimoniare la fede, come facevano i martiri, morire per la patria, come facevano gli eroi, morire per la Causa che trascende la vita dei singoli. Inconcepibile oggi; ma di queste scelte estreme vorrei sottolineare la convinzione che la morte individuale fosse meno importante rispetto a entità, principi, realtà comunitarie che sopravvivono al destino dei singoli. Offrivi la vita sapendo che la tua morte non coincideva col nulla, ma era la fine di una foglia, forse di un ramo, non dell’albero, con le sue radici e il suo tronco e le sue stagionali rinascite; la tua morte rientrava nel ciclo delle stagioni, in cui si rinnova la pianta.

Nessun uomo di senno e di buon senso può rifugiarsi in quel paragone e limitarsi a rimpiangere quel mondo. Ma il fatto che oggi poniamo la questione solo a livello individuale e racchiudiamo la visione della morte solo nell’atto di andarcene, in libertà, quando lo vogliamo noi e non quando lo dice la sorte o la malattia, è il tema di cui dovremmo curarci, perché investe noi oggi, il nostro tempo, il nostro domani. Sconforta osservare che anche su questo tema non esiste alcuna divergenza di vedute nei racconti pubblici, non c’è un film o un’opera che dica una cosa diversa se non opposta a quella del mainstream mortifero. E stiamo parlando di una società che celebra la libertà sopra ogni cosa e ritiene anzi di essere superiore a tutte le epoche precedenti proprio per la sua raggiunta libertà. E invece non c’è possibilità di vedere e narrare diversamente le cose; non è possibile, esiste un muro invisibile, una cappa pervasiva che impedisce di articolare un pensiero differente e metterlo poi su strada. Se ci provi ti saltano a uno a uno gli addendi: non trovi chi si esponga a scrivere, a sceneggiare, a produrre l’opera, a realizzarla, a recitare, a distribuire, a comunicare, a riconoscere e premiare una cosa del genere. Strada facendo il progetto si azzoppa, nessuno vuol andare a sbattere contro il muro, andare allo sbaraglio. Eutanasia del dissenso.

Noi occidentali viviamo in una società profondamente spaccata, con rari e confusi attraversamenti fra le due sponde; siamo divisi tra l’alto e il basso, tra oligarchie e popoli, tra comunitari e individualisti, fra tradizione e liberazione, e potrei a lungo continuare. Non immagino che si possa ritrovare l’unità, se non attraverso l’intolleranza, l’egemonia e la supremazia coatta di una parte sull’altra: vorrei invece che fosse possibile avere la possibilità di scegliere, che sia legittimo divergere e soprattutto che sia possibile esprimerlo pubblicamente. Ma se guardo la realtà, al momento, non vedo segnali e aperture. Chiedono la libertà dell’eutanasia ma io vedo l’eutanasia della libertà.

Marcello Veneziani    

Elegia nostrana in un paese smemorato…

 

 

È possibile immaginare un’elegia italiana o nostrana, come J.D. Vance ha imbastito un’ Elegia americana? Il libro scritto dall’attuale candidato a vice di Trump era dedicato alla memoria, all’infanzia, alla profonda provincia dell’America; da noi sarebbe un viaggio nostalgico nella provincia italiana, quel che ha rappresentato nella vita e nell’immaginario nostrano. Ieri, nel mio paese natio, Bisceglie, a conclusione del festival “I libri nel borgo antico”, cercherò – nella brevità di un incontro – di ricamare un’elegia paesana, aiutandomi con le immagini del passato, nel tempo in cui la memoria e i paesi tendono a svanire, con una velocità impensabile alla luce della proverbiale lentezza della vita di paese, al sud in particolare. I festival del libro hanno il merito di portare la cultura in provincia, i libri e gli autori del momento. Tenterò l’operazione inversa, di portare il paese, la provincia nel cuore della cultura, della memoria e della riflessione del presente. In fondo la grande letteratura nasce provinciale prima di diventare universale. Ogni volta che parli di un paese parli di ogni paese, tutto ciò che è profondamente intimo, locale, nostrano è ciò che è più universale, più sentito, comune a tutti. Anche chi vive in città ha un paese d’origine nel cuore; magari non è il suo ma dei suoi nonni; tanti ricordano memorabili giorni vissuti nella carezza del paese e nel suo pigro avvolgersi intorno a noi.
Contrariamente a quel che si dice, il mondo locale era molto più ricco, vario e universale del mondo globale nel quale viviamo. In paese conosci mille persone, ti fermi a parlare con cento, sai vita, morte e miracoli di tanta gente; nella grande città ne conosci e ne saluti assai meno, ti fermi a parlare con pochissimi.
Il bambino cresciuto nel mio paese, come in molti altri paesi, abitava in tre mondi reali: conosceva il paese, la piazza, il corso, le case, i negozi, la vita paesana ma conosceva pure la campagna, gli animali, la civiltà contadina che era fino a pochi decenni fa prevalente e contigua al paese; e conosceva il mare a due passi da casa, i pesci e i pescatori, le reti, le barche, i ricci, le cozze, i bagni; un altro mondo.
Ma non solo. Le famiglie numerose di una volta – allargate, allungate, aperte ad amici, comari e conoscenti – ti mettevano in confronto permanente con mondi diversi dal tuo per età, ceto, esperienza. Oggi, le famiglie sono piccole, introverse e colonizzate dal mondo parallelo dei media; i giovani stanno coi giovani, i vecchi coi vecchi (quando non sono soli). C’è una specie di razzismo generazionale, di ristrettezza dello sguardo, di apartheid anagrafica che ci separa e ci isola; non conosciamo più dal vivo il passato, e gli anziani non conoscono i giovani che abiteranno il futuro. Vivono tempi, mezzi, linguaggi diversi. Accanto al mondo naturale e reale, si viveva in un mondo magico e religioso popolato di miti, folletti, favole e superstizioni, preghiere e processioni; capivi che il mondo non ruota intorno a te o dentro quella teca onnisciente chiamata smartphone, ma esiste nella realtà visibile e invisibile e tu sei solo un puntino dentro quell’universo.
Poi l’esperienza nel paese era multisensoriale. Non c’era solo la parola e la vista, c’era anche l’olfatto, tra odori e puzze, il gusto forte dei sapori veraci, il tatto, cioè il contatto di prossimità, toccarsi oltre a parlarsi, fiatarsi accanto; la prossimità era tangibile. Oggi conosciamo di più il lontano, ieri conoscevamo di più il vicino, la prossimità.
Le case in paese erano centri fiorenti di vita; la gente entrava e usciva di continuo, si chiamavano dai balconi e dalle finestre, avevi continue visite all’improvviso. Famiglie numerose comportavano sciami generazionali in transito continuo nelle proprie case. Società aperte, altro che chiuse, ma nella prossimità. Conviviali, a volte litigiose.
Insomma, contrariamente a quel che oggi si pensa, il mondo del paese era più ricco, vario e movimentato di quello telematico, virtuale e internettaro di oggi. C’era più umanità anche se di rado si vedevano le masse, le folle, le file. La vita nella sua semplicità sembrava nascere, crescere e finire spontanea; è la vita gratis, che vuol dire per grazia, senza prezzo e senza pretese, dove i beni primari sono accessibili gratuitamente.
Sto parlando al passato perché quel paese non c’è più. Si è svuotato, i figli lavorano lontano, le coppie non fanno figli, i vecchi sono aumentati, le strade hanno più extracomunitari che paesani. La vita biologica si allunga, la vita comunitaria si accorcia, la gente sta più in casa o in auto, ha meno natura intorno. Spariti gli asini, i muli, le galline e gli altri animali di cortile, i cani sotto i carretti o traini; le capre e le pecore, munte direttamente a domicilio per avere il latte fresco. Ora ci sono più cani e gatti in casa, umanizzati, trattati meglio, sostituiscono figli e amici.
Chi si aspetta a questo punto il rimpianto per quel tempo, resterà deluso. Primo, perché quel mondo era anche duro, aspro, povero, crudo, affamato, scalzo, ingiusto, ignorante e manesco.
Secondo, perché ogni epoca ha i suoi progressi e i suoi regressi, le sue conquiste e le sue perdite, e non ha senso rimpiangere le une senza considerare le altre.
Terzo, perché anche a volerlo quel mondo non torna più; è impossibile e patetico immaginare di ripristinarlo o rimetterlo artificialmente in vita. E non riusciremmo più a vivere in quel modo, in quel mondo, in quelle condizioni. Non era più bello quel mondo ma gli occhi che lo osservavano, i nostri occhi di bambino e poi di ragazzo, ancora pieni di vita e di aspettative. Era la nostra infanzia ma ci pareva l’infanzia del mondo, quando principiavano tutte le cose.
Allora perché ne parli e con tanta passione? Perché è bello farsi cacciatori di ricordi, è bello aver memoria di un mondo diverso, è bello ritornare a coloro che non ci sono più e alle cose che non ci sono più. Abitare più mondi è una ricchezza, abitare il passato oltre il presente è una preziosa risorsa e un termine di paragone, un buon esercizio che affina il nostro senso critico, la nostra libertà e la nostra coscienza di essere al mondo. La nostalgia è un bellissimo sentimento che fa bene all’anima, umanizza i rapporti, riporta la vita all’essenziale. Diventa una malattia se si capovolge in odio verso il presente, pretesa di abolirlo o almeno di maledirlo. Allora da sentimento si fa risentimento.
Ci vorrebbe un’elegia nostrana, senza pretese restauratrici e velleità revansciste. Un sentimento che prende il cuore, rende più lievi i giorni, ci fa vivere in più mondi e non solo in quello presente, che da vecchi ci piace sempre meno. E che ci rimette in pace con i morti e col passato.
Perciò è bello una domenica sera di fine estate riprendere, mano nella mano, la danza dei ricordi, l’elegia per un mondo che non c’è più.

Marcello Veneziani

Torniamo all’essenziale…

 

 

Si può essere cattolici, credenti e praticanti oppure no, ma si deve convenire che la domanda a cui è dedicato il Meeting di Comunione e Liberazione di quest’anno, in corso a Rimini, è la più centrata, urgente e universale che ci possa essere: “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?”. Al Meeting di CL il sottinteso è l’incontro essenziale con Gesù Cristo, e poi l’impegno sociale, solidale, comunitario che ne deriva, nelle opere, nella vita e nel lavoro. Ma la ricerca dell’essenziale è il tema cruciale dell’uomo, coincide con la fede e col pensiero; precede ogni scelta religiosa, filosofica, esistenziale, civile. Ci mette in gioco davanti alla vita e alla morte, alla nascita e all’amore, alla gioia e al dolore, all’infanzia e alla vecchiaia, al mistero e al destino.
Se dovessimo infatti riassumere la dispersione, la dissoluzione, l’alienazione, la follia del nostro tempo, soprattutto nell’Occidente cristiano, dovremmo proprio condensarle in quella constatazione: abbiamo perso di vista l’essenziale, ci stiamo perdendo nelle procedure, negli alibi, nei surrogati, nelle deviazioni di percorso, nei regni fluttuanti del superfluo, in balia della volontà di potenza. Vivere per le procedure significa scambiare il fine della vita con i mezzi per vivere, barattare il significato con le funzioni e le utilità. Quando perdi di vista l’essenziale ti fabbrichi degli alibi, perché non hai tempo per fare “filosofia” sulla vita, devi campare e procurarti da vivere; poi ti rifugi nei surrogati dell’essenziale, gli obbiettivi fallaci, gli idoli, i consumi, il profitto, la tecnica, gli agi elevati a valori. Da qui le deviazioni di percorso, scorciatoie, vie di fuga o itinerari turistici, diversivi o solo divertenti, per non intraprendere il cammino a cui ti chiama la vita. Una vita che perde l’essenziale è una vita che si perde nel superfluo, in tutto ciò che è accessorio, labile, ornamentale, banalmente superficiale. Se la vita non ha senso, non ha destino, non vuole lasciare eredità e tracce meritevoli di essere salvate ma è una pura affermazione ed espansione illimitata di potenza e desideri, ha già imboccato la direzione opposta alla ricerca dell’essenziale. Anche perché la domanda sull’essenziale è una domanda sull’essere, mentre l’affermazione di potenza è protesa contro o senza l’essere, presuppone la forza di annientare chi vi si oppone e di creare dal nulla.
La domanda che sta dentro la ricerca dell’essenziale è primaria, originaria: perché vivere, cosa ci spinge a vivere anziché lasciarsi andare? C’è un modo di aggirare quella domanda ed è nel puro regredire allo stato biologico: ti aggrappi al puro istinto di sopravvivenza ed autoconservazione. Chiunque vive vuole preservarsi, restare in vita e difenderla come l’istinto elementare e naturale primario che precede ogni altro pensiero o volontà. Dunque non c’è da porsi nessuna domanda, siamo fatti così, predisposti geneticamente come qualunque altro essere vivente, a vivere per vivere, abbiamo l’istinto a sopravvivere; la volontà di vivere, direbbe Schopenhauer.
Ma l’uomo pensa, sceglie, ricerca, esplora, è nella sua indole. Sa di morire. L’uomo cammina su una corda tesa tra la libertà e il destino,  e i due poli estremi della corda lo inducono a ricercare l’essenziale. Non è solo il filosofo, il ricercatore, il devoto a porsi quella domanda, ma è l’uomo, in virtù della sua coscienza e della sua sensibilità. La ricerca dell’essenziale pone sulla stessa linea l’istinto di vivere, il sentimento e la ragione.
C’è tuttavia un punto di crisi in cui si perde la ricerca dell’essenziale: è quando la partenza coincide con l’arrivo e tutto ruota intorno all’io e si risolve in lui. Se il mondo è solo un corollario, uno strumento, uno specchio per l’io, si è già fuori dalla ricerca dell’essenziale. L’essenziale è ciò che oltrepassa l’io, ci apre oltre noi, non amplifica l’ego.
La religione col suo senso del divino è da sempre il luogo di proiezione e di protezione; ossia il punto in cui oltrepassare se stessi, proiettarsi oltre noi, fino a proiettarsi nei cieli, e insieme trovare protezione ai nostri limiti, alla nostra mortalità, alla nostra precarietà. Possiamo spingerci a riconoscere o prevedere il tramonto di una religione, la fine di una civiltà legata a quella fede, ma non possiamo pensare l’umanità senza quel bisogno innato di proiezione e di protezione. Se ciò accade vuol dire che ha trovato surrogati per sostituire quel duplice bisogno e camuffarlo sotto altre vesti. Oppure ha smesso di essere umana, cioè libera, pensante, protesa verso il destino.
In ogni caso, se cerchi l’essenziale devi sporgerti oltre l’io, concepire l’essere come una casa più grande in cui sei compreso, di cui non sei padrone.
Certo, la ricerca dell’essenziale non può risolversi in un bel meeting, in qualche dialogo e in qualche predica, come non può semplicemente esaurirsi in uno scritto, una riflessione intellettuale o una dichiarazione solitaria. Ma quando una società perde l’orientamento, quando non sa più riconoscere l’alto e il basso, il vicino e il lontano, il prioritario e il secondario, quando non sa distinguere il bene e il male, o usa al contrario le parole rispetto alla realtà e chiama pace la guerra, inclusione l’esclusione, libertà l’intolleranza, sviluppo il degrado, emancipazione l’imbestiamento, è necessario che si avvii da tutte le postazioni possibili, a tutti i livelli, una chiamata alla realtà, alla vita vera, alla nascita e alla morte, e alla missione reale e ideale della nostra vita.
E se la politica, la società, il pensiero non si curano di questa domanda, può essere una ragione per non curarsi del potere politico, sociale e culturale, ma non è un buon motivo per abbandonare la ricerca dell’essenziale; che diventa, proprio per quella latitanza, più essenziale che mai.

Marcello Veneziani  

Carnera, il gigante buono e la memoria cattiva…

La cittadina di Sequals, poco più di duemila abitanti nella provincia di Pordenone, è conosciuta in Italia e non solo perché ha dato i natali al mitico pugile e gigante Primo Carnera. E ora che avevano pensato di dedicargli lo stadio, il paese natale si divide in favorevoli e contrari, perché lui, il Gigante buono di Sequals, è stato un mito fascista.

Carnera era un povero friulano e diventò il simbolo dell’Italia fascista e la rappresentazione fisica della sua mania di grandezza. In Carnera l’Italia trovò un triplice riscatto: dei poveri emigrati italiani nel mondo, essendo anch’egli emigrato in Francia e poi famoso negli Stati Uniti; il riscatto del piccolo italiano, visto come rachitico, debole, vigliacco e di bassa statura, secondo uno stereotipo del tempo, rispetto ai giganti americani e agli atleti negri; e infine il riscatto della provincia profonda e contadina rispetto alle metropoli e alle città industriali. Ma Carnera incarnò soprattutto il mito del gigante buono, dell’uomo più forte del mondo ma anche tenero e generoso; l’eroe che porta in alto nel mondo il tricolore e l’orgoglio di essere italiani. Carnera era diventato da poco campione del mondo di pesi massimi, nel 1933, e i suoi detrattori al sud lo paragonavano in negativo a Garibaldi. “Sono tutti trucchi. Carnera ha vinto perché era d’accordo prima. E’ proprio una specie di Garibaldi. La storia non cambia. Sui vostri libri di storia vi insegnano un mucchio di frottole, la verità è un’altra”. E’ un passo di “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi e la dice lunga sul mito di Carnera e le sue ombre, i suoi fan e u suoi detrattori, una specie di eroe dei due mondi in ambito sportivo. Un eroe che debordò dallo sport nel cinema, diventando attore in tredici film, ma anche nei fumetti e nella pubblicità. E un campione di virilità che celebrava il gallismo fascista. Carnera fu usato anche ironicamente, per contrasto: memorabile fu la sua accoppiata con il piccoletto Renato Rascel. Carnera era un modello fatto su misura per un regime che esaltava la virtù terapeutica e catartica dello sport e dei cazzotti, celebrati dal futurismo, come nel memorabile pugno di Boccioni realizzato da Balla, nel cui movimento si esprimeva plasticamente la Esse della storia in marcia. Del resto anche la propaganda per demolire il fascismo usò poi il penoso declino di Carnera per dimostrare, come il titolo di un famoso film degli anni 50 con Humphrey Bogart, che Carnera fosse “Un gigante d’argilla”, come l’Italia fascista. Il fascismo usò Carnera e poi lo accantonò quando diventò uno sconfitto; il duce lo esibì dal balcone di piazza Venezia ma non apparve al suo fianco, per non sembrare al suo cospetto un nano.  L’Italia fascista fu attraversata da miti sportivi largamente popolari e valorizzati dal regime: da Girardengo, che inaugurò l’epoca degli eroi a pedali, dalle trasvolate atlantiche di Balbo alle imprese automobilistiche di Tazio Nuvolari dalla Nazionale di Pozzo, Piola e Meazza alle dinastie calcistiche dei Ferraris e dei Caligaris, da Ondina Valla fino a Carnera.

La consacrazione di questi miti era negli Stati Uniti. Là, nel mondo nuovo, tra gli emigrati italiani, sotto i grattacieli, ogni successo di Balbo, Nuvolari o Carnera diventava non solo la celebrazione del primato italiano nel mondo; ma anche motivo di orgoglio per gli italiani emigrati, che finalmente non erano più visti come subalterni, affamati e camerieri, né come mafiosi, mariuoli e imbroglioni. Vedere il tricolore issato sui palchi americani e sui podi internazionali e l’inno nazionale suonato all’estero in segno di vittoria, erano un risarcimento morale e sentimentale con ricaduta sulla vita pratica degli italiani e sulla loro considerazione all’estero. Dovremmo ricordarlo in questi giorni olimpionici quando risuona l’inno di Mameli a ogni successo sportivo italiano. Diventare un Carnera divenne un modo di dire per indicare l’alta statura, la corporatura muscolosa, la forza fisica e la mascolinità. Fu anche un po’ fenomeno da baraccone, Carnera, come la donna cannone; ma vi era qualcosa di bonario nel gigante di Sequals, come ha mostrato poi la sua vita; un campione d’animo gentile, se si considera la sua filantropia e la sua passione per la lirica e per Dante. Perfino la sua bruttezza lo faceva apparire un Frankenstein del bene, un Eroe, un Gigante, un Superdotato dall’animo buono.  Le sue foto tra gentiluomini americani ben vestiti che gli arrivavano all’ombelico, e le sue grandi mani sulle loro spalle in un gesto di protezione indicava anche quanto fosse sovrastante la sua persona. Così diventò il simbolo della megalomania nazionale. Carnera in contrapposizione ai colletti bianchi e agli impiegati, rappresentava il culto del corpo, la forza esuberante e il tratto antiborghese che il fascismo accentuò negli anni trenta. Perfino il mito dell’ impero è la proiezione gigantesca del nazionalismo. Ma nella mania di grandezza l’Italia era accomunata nel mito moderno degli States, dove tutto è gigantesco, dai grattacieli alle vie, dalle auto ai marciapiedi, dalle vetrine agli spazi sconfinati. Il fascismo fu un regime con velleità macroscopica. Di quel sogno Carnera fu il testimonial vivente, in muscoli e statura.

I regimi passano, il mito di Carnera invece resta, con il riscatto degli italiani nel mondo e il suo primato sportivo. Che facciamo, cancelliamo le strade dedicate a Marconi, Pirandello, Mascagni e cento altri grandi perché furono fascisti? La solita, stupida storia. Carnera il gigante tra i pigmei astiosi del presente.

 Marcello Veneziani  

La vita gratis…

 

I ricordi dormono accanto a noi. A volte è bello svegliarli e svegliarsi con loro. Si apre un mondo che credevi di non conoscere, invece ci vivevi dentro, e allora ti appariva naturale, come l’acqua che scorre e l’aria che respiri. La nostalgia non è una malattia ma un dono, la sua malinconia è un guscio che protegge un frutto gioioso.
Ci vorrebbe davvero una clinica dei ricordi, come scrive Georgi Gosdopinov nel suo romanzo Cronorifugio, dove la gente va a riprendersi i ricordi smarriti nel tempo o nella testa delle persone. Se dovessi scegliere il decennio preferito in cui rivivere, come succede ai popoli nel romanzo di Gosdopinov, sceglierei senza esitazioni il primo che vissi. Perché il più antico, il più lontano vissuto, il più diverso da oggi, avvolto nel mitico alone dell’infanzia quando non sai dove finisce la realtà e dove comincia la favola, tramite la fantasia. Risale a un’epoca primitiva, ancora senza tv ed elettrodomestici, usati da poco e da pochi pionieri. La chiave per aprire quel cassetto favoloso, oltre l’incanto della vita vista con gli occhi magici dell’infanzia – la scoperta primigenia delle cose, il fascino della prima volta di tutto, il piacere di scoprirsi al mondo e di conquistare ogni giorno un pezzo di vita e di conoscenza – è l’apriti sesamo di quel tempo magico, quel luogo, quel mondo che non c’è più: la vita gratis.
È la vita a portata di mano, all’aperto, senza prezzo e senza pretese, semplice e generosa, gratuita, dove tutto è accessibile a tutti: il ristoro delle fontane, il riposo delle panchine, il giardino pubblico, i frutti appesi agli alberi, i carrubi offerti dai rami ai viandanti, il ruscello in cui ti lavi e lavi i tuoi panni, i giochi fatti con ciò che hai a disposizione, senza arnesi, più la fantasia di un regola o di un oggetto che facilmente costruisci con le tue mani; e poi il mare libero, come i boschi e la campagna. Hai sete? Non vai al bar ma bevi alla fontana, e anche a casa non compri l’acqua minerale ma attingi dalle pompe e dai ruscelli. Le fontane d’estate erano ritrovi affollati, gente che beve, che riempie brocche, che si lava i piedi, dove ai bambini si dà fretta nei loro trastulli d’acqua per far bere gli adulti. Hai fame per uno spuntino? Stacchi un frutto dall’albero e lo mangi; finché è un frutto puoi anche staccarlo da un albero che appartiene a qualcuno, non lo stai saccheggiando, non è un peccato. Anzi, lo sarebbe il contrario, non dare da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, come ci insegnavano. Vuoi riposarti? Non c’è bisogno di ordinare qualcosa a un tavolo, ti siedi alla panchina, come ancora fanno, soprattutto i vecchi al paese e aspetti, aspetti che passi il tempo, il caldo, la stanchezza. Da vecchi, il tempo è lungo e la vita è breve; il contrario dei giovani, a cui le ore corrono in fretta ma gli anni davanti sono tanti.
Vuoi farti un bagno? Niente stabilimento balneare, con lettini e ombrelloni, niente cabine, pedalò o gommoni, ma spiaggia libera con bagno libero, a volte senza costume o con le mutande di casa; e se hai caldo ti rituffi o trovi l’ombra di una grotta, la cavità di uno scoglio, o un albero vicino a riva. Tutto appare più semplice. E al mare corpi magri, non obesi né sottoposti a dieta, non rifatti, ritoccati, siliconati, palestrati, senza tatuaggi, creme, lampade, telefonini. Poi si passa la sera con lo struscio, il piacere è l’incontro, lo scambio di parole, la battuta. Basta poco per vivere. Gratis.
I bambini che giocano con niente tra strade e spiazzi, il massimo è rimediare un pallone. Il resto solo giochi di fantasia: la campana, i quattro angoli, nascondino, mago o libero, la piramide, il ciuccio, fiori e frutti, più mimica e indovinelli; giochi d’inventiva e abilità che non prevedono attrezzi.
Questa era la vita gratis, in uso soprattutto nella provincia, in particolare a sud, ma in fondo tutto il mondo è paese. E non era un secolo fa. Si poteva vivere senza soldi e senza limiti d’accesso, con poche pretese. Si campava d’aria, di terra, d’acqua, d’amicizia, espedienti e fantasia. Poi, è vero, c’erano i benestanti e i bisognosi, le proprietà private, i muri di recinzione, i privilegi, l’abbondanza e la penuria, le criature scalze; i mendicanti erano del posto.
La vita gratis era un mondo che sembrava fresco di creazione, appena sfornato da Madre Natura o dal Padreterno; ancora giovane, un po’ bambino, ingenuo nei suoi piccoli desideri, facili d’appagare.
Era bella la vita gratis, e lo dici con un sospiro, ma chissà se lo pensi davvero. Era una vita povera, ancora cruda, difficile nella sua facilità, aspra nella sua dolcezza; una vita che non riusciremmo più a vivere, perché abbiamo bisogno di troppe cose che prima non avevamo e perciò erano allora superflue; ma ora non sappiamo farne a meno. La nostalgia è dolceamara perché sai che quel mondo non può tornare e non ha senso affannarsi a restaurarlo. Tutta la sua poesia, la sua bellezza, è in quella irrimediabile lontananza; l’incanto di una perdita che non si recupera. Non si torna bambini, tuttavia è bello ritrovare lo spirito e lo stupore delle origini, pur sapendo che il tempo è passato ed è impossibile retrocedere. Ma il tempo, lo dice pure Gosdopinov, sembra rettilineo invece è circolare; alle curve rallenta, ci sono i tornanti. E la vita perfetta sa ricongiungere la fine all’inizio. In fondo, gratis vuol dire per grazia, e il proverbio antico aggiungeva et amore dei. La vita gratis, la grazia di essere al mondo…

 Marcello Veneziani

 Grazie a  Marcello Veneziani,scrittore, giornalista, filosofo, che seguo da tantissimi anni. Leggerla per me è , fin dalla prima volta, pane quotidiano, che nutre il mio spirito, la mia mente. I suoi scritti mi fanno una meravigliosa compagnia, grazie infinite per ogni sua parola, in cui spessissimo mi ritrovo,e sono felice che molte persone visitino questo mio blog, dove da tempo ho preso abitudine di condividere quanto di suo  mi piace avere a portata di rilettura.. Ancora grazie di cuore e tutta la mia stima. GSB

La staffetta…

Prendetela per un’insolazione estiva, un delirio d’agosto, la ricerca di una zona d’ombra in tanto sole. Ma se sono veri alcuni indizi, alcuni retroscena, alcuni segnali degli ultimi giorni, il Quartier Generale sta confezionando un pacco per Giorgia Meloni e il suo governo. Intendo per Quartier Generale il potere sovrastante ai governi nazionali, quello che decide in ultima istanza e corregge, laddove è possibile, gli esiti elettorali e l’agire politico. È un potere che genericamente definiamo tecnocratico o meglio buro-tecnocratico  ma di fatto cammina su due zampe: quella economico-finanziaria e quella militare, che con qualche approssimazione possiamo ricondurre al Mercato, tramite la Banca Centrale Europea, e all’apparato militare della Nato e al Patto Atlantico. La rete dei poteri intermedi e sovranazionali, dei mediatori e dei funzionari è vasta sicché non è chiara la catena di comando.

Se abbiamo ben compreso, il pacco prevede qualcosa come una staffetta a Palazzo Chigi. Si, staffetta è il termine giusto e non solo perché siamo in tempi d’Olimpiadi. Chi corre nella staffetta non può andarsene per conto suo, deve seguire il percorso prestabilito e consegnare il testimone al successore. Dopo una crisi, sul tipo di quelle provocate dalle spread, già accadute in Italia e altrove, ci sarebbe un cambio della guardia a Palazzo Chigi. Esce Meloni entra Schlein, con larghe alleanze e ampi sostegni, regia politica di Matteo Renzi nel ruolo ormai consolidato di malefico scazzamuriello; ma regia transpolitica di Autori Vari del Quartier Generale, più concorso esterno di collaudate figure jolly e faccendieri nostrani. Pressioni in questo senso raggiungerebbero pure Forza Italia e il mite Tajani. Ignara precorritrice di questa politica trans è la ricca ereditiera Francesca Pascale che ha dichiarato di sognare un governo berlusconiani-dem a guida Schlein, in modo da sistemare non certo l’Italia ma almeno la sua biografia…

Un tassello utile sarà la battaglia sulle tre regioni in cui si vota – Liguria, Emilia-Romagna e Umbria – per dare la parvenza di un vento elettorale cambiato a favore della sinistra.
Sulla caduta della Meloni dopo le Europee e comunque nel corso del terzo anno di governo, scommette dall’inizio Renzi; di recente anche Cacciari in un’intervista al Corriere della sera si è sbilanciato in questo senso, dicendo che bastano due pomeriggi ai mercati per rovesciare con un golpetto finanziario (diciamo noi) il governo in carica. Convinzione condivisa anche al governo, da cui la prudenza.
Qual è la ratio della svolta? Si potrebbe dire che nonostante le numerose prove di lealtà e di adesione al Quartier Generale, sussistono sulla Meloni riserve, accresciute dal mancato sostegno all’elezione di Ursula Von Der Leyen, lo scontro per il controllo del comando Nato nel sud Europa, le visite a Roma da Mattarella e i vertici parigini appena la Meloni è volata a Pechino; la sua amicizia malvista con Marine Le Pen e con Orbàn, i suoi tentativi di una politica estera relativamente autonoma, da ultimo con il viaggio in Cina. E sopratutto il timore che l’Italia meloniana-salviniana possa diventare domani la sponda euro-mediterranea di Trump, bestia nera dell’Establishment.
In realtà, dietro le ragioni contingenti c’è un nodo strutturale: i governi nazionali, quando non possono essere affidati direttamente al personale della Casa – tecnici, maggiordomi o affini – devono allinearsi nelle scelte di fondo, e non possono pretendere di sottrarsi ai cicli sempre più brevi di durata loro consentita, per evitare che con la permanenza lunga al governo azzardino una parvenza di sovranità nazionale, politica e popolare e di autonomia decisionale. Il ciclo previsto da tempo non supera il triennio. Fatti questo mezzo giro ma poi devi riportare la staffetta qui. Brevi governi di passaggio, in modo che ben si comprenda quali sono i poteri veri e permanenti e quelli fittizi e transitori, e ben si rispecchino gli interessi forti (economici, finanziari, militari, geo-strategici) rispetto a quelli labili collegati al consenso, gli umori, le retoriche identitarie.
I cicli della politica dopo Berlusconi, sono stati sempre più corti, nessuno è durato più di un triennio, inclusi Renzi e Conte nel suo duplice format, e alla fine anche Draghi. Il triennio sembra essere ormai la curva fisiologia della leadership politica, anziché il quinquennio canonico delle legislature. Abbiamo presidenti della repubblica che diventano monarchi a cui si concede il bis dei già lunghi settennati, e poi abbiamo presidenti del consiglio che scadono precocemente, per consentire il turn over e impedire che mettano radici e passino da esecutori a decisori. Tutti transitori…
Da qualche tempo, dopo un anno di prove, scetticismo e incredulità, è in corso una specie di investitura politico-mediatica di Elly Schlein. Lo si capisce da troppi indizi; è trattata da prossima premier, le hanno dato il numeretto e aspetta il turno. La politica ci ha abituato a ricambi repentini e a giri completi di turnazione: antipolitici e politici, tecnici e grillini, sinistre e destre, non avendo il centro una consistenza elettorale che permette di governare da solo. In questo modo tutti sono provvisori, sostituibili e complementari. Così ora si prepara il turno della Schlein, e ci sono già le tifoserie mobilitate, i marchettifici pronti a narrare il cammino dell’astro nascente, riconoscerle uno spessore politico prima negato e lanciare la svolta. Ma è ben chiaro che eccettuata la fuffa, che riassunsi sin dall’inizio in “gay, migranti e bella ciao”, la politica richiesta alla Schlein non è né più né meno di quella che si pretende dalla Meloni: in politica estera, nelle alleanze, nelle scelte economiche, civili e militari. La stessa di Draghi, e di Conte. La fuffa serve per sceneggiare il cambiamento, ma la sostanza resterebbe la stessa, anzi i dem sono più omogenei al Quartier Generale e ai suoi paraggi, e in più non sono sovranisti ma sottanisti, cioè reputano l’Italia un inquilino subalterno del Palazzo euroglobale. La loro speranza è che arrivi la Harris, Amala col K, alla Casa Bianca. Ma se arriva Trump, si complicano le cose.
Intanto la prospettiva serve per minacciare la Meloni e farla rientrare nei ranghi; e dare più spazio di manovra a Tajani e ai centristi rispetto a Salvini (nel frattempo Crosetto è sull’attenti, in tuta mimetica, pronto per la guerra). L’Italia si attrezza di nuovo a portaerei della Nato in vista di imprese belliche e il Mediterraneo si conferma acqua di colonia.

Marcello Veneziani