E’ diventato un volto conosciuto grazie al docu-reality “Il collegio”. Ai suoi alunni insegna che la filosofia è l’lingrediente giusto per salvarsi dal baratro. “Troppi esperti hanno un’immagine stereotipata dei ragazzi”.

 

Intervista ad Andrea Maggi

Lo hanno definito “il professore più amato d’Italia”. Grazie al docu-reality ‘Il collegio’ trasmesso su Rai 2 per otto edizioni, e al programma ‘Splendida cornice’ su Rai 3, Andrea Maggi conta più di 400 mila follower su Instagram e oltre 500 mila su TikTok. Perciò, quando dice che la filosofia è l’ingrediente giusto per salvare gli adolescenti dai fossi – e dai baratri – lungo il cammino qualche credito bisogna darglielo. Il 2 settembre il professore ha ripreso servizio nella scuola di Sacile, provincia di Pordenone, dove insegna lettere, e l’indomani è uscito in libreria ‘Il mio Socrate’ per Giunti, romanzo e dialogo tra una quattordicenne tormentata e un avatar del filosofo greco, che le indica la strada per la libertà e la felicità. Difficile intanto non pensare alla tragedia di Paderno Dugnano, dove un male insondabile ha spinto un diciassettenne a sterminare la famiglia nella notte del primo settembre. Difficile commentarla senza consumare cliché.

Ha ascoltato le considerazioni degli esperti?

Senza dubitare delle loro competenze, mi chiedo perché quando si parla di giovani non si privilegino le voci degli insegnanti, che lavorano in prima linea e conoscono le cose in presa diretta. Spesso gli esperti hanno smesso da un pezzo di avere contatti personali con i ragazzi e ne hanno un’immagine distorta dal ricordo e stereotipata, come di manichini immutabili nel tempo.

Dica la sua opinione.

Non posso giudicare il caso specifico, ma credo che il malessere diffuso tra i ragazzi sia dovuto in larga parte all’assenza della parola nella paradossale società dell’infosfera, dove si sa tutto in tempo reale ma si chiudono i ponti di comunicazione tra i suoi membri, anche dentro le famiglie. Quando si azzerano le parole per esprimere disagio o inquietudine, ci si involve in un isolamento che può portare alla chiusura, alla sindrome dell’hikikomori, o a una esplosione di violenza.

La ricetta filosofica è davvero praticabile?

Cominciai a riflettere al libro un paio d’anni fa, quando una ragazza di terza media mi chiese: “Cos’è la filosofia?”. Pensai che Socrate potesse raccontarlo, che fosse un tramite per ripristinare il dialogo come confronto e aiuto. Il recupero della parola come di un bene che ci è stato tolto. Chi sa dare un nome al suo male è per metà guarito.

I social hanno rubato le parole ai ragazzi?

Non sono i soli responsabili, ma il rischio è che riducano il confronto e favoriscano su ogni argomento le tifoserie invece del pensiero logico. La filosofia è una medicina possibile: insegno in una scuola secondaria di primo grado e se parlo del paradosso di Zenone i ragazzi ne sono affascinati come da una favola. La filosofia declinata a seconda dell’uditorio può essere una compagna di viaggio fin dalla tenera età perché aiuta a dialogare anche con se stessi e a evitare, per esempio, che ci si iscriva alle superiori o a una facoltà universitaria influenzati dai sogni altrui senza conoscere i propri.

Quanto servono gli psicologi?

Quando la terapia coinvolge la famiglia. I genitori non devono pensare di tenersi fuori e delegare tutto alla scuola e al terapeuta. Noi insegnanti spesso ci troviamo soli a lottare ad armi impari contro un mondo che smentisce i modelli che cerchiamo di inculcare e identifica la felicità con l’auto di lusso e gli orologi costosi. Non basta un “pandoro-gate” a dimostrare la fragilità degli influencer, perché ne spuntano subito altri.

La felicità come si persegue?

Con la conoscenza di sé. Ho in mente un vicino di casa che aveva un grande talento per la falegnameria ma ha fatto l’operaio tutta la vita. Ora che è in pensione mi dice: “Sono stati quarant’anni di galera”.

I ragazzi pensano al futuro?

Nella società del boom erano tutti proiettati al futuro. Oggi si vive in un presente continuo e ci sono solo vaghe, ma alte aspettative sul domani. Non tutti faranno i soldi come youtuber e questo genererà frustrazione, perciò bisogna attrezzarsi a comprendere che la ricchezza non è la felicità.

Servono le buone letture?

Se la lettura è vista come “cosa della scuola” diventa antipatica. Dovrebbe essere una consuetudine familiare, però i genitori non possono invitarti a leggere e poi smanettare sullo smartphone senza aprire un libro.

Cosa fa leggere ai suoi alunni?

L’anno scorso ‘Il Milione’ di Marco Polo. Superata l’osticità della lingua, hanno scoperto che l’uomo medievale abitava il mondo con una presenza concreta, analitica, attenta alle altre culture. Che era molto più moderno di quanto non si creda. Quest’anno vorrei leggere brani da ‘La Gerusalemme liberata’ per far capire tante cose sulla guerra.

Com’è recepita la poesia?

È messa male. Il congelamento della parola la uccide e l’amore è visto più come possesso che con romanticismo. I maschi controllano i profili social delle fidanzatine e guai a sgarrare, e le ragazze si assoggettano. È come se si fosse interrotta la comunicazione anche con certe conquiste del passato. Come se la Generazione Alpha ricominciasse da zero. Bisogna riaprire i ponti con tutta la storia. Far sapere che in Afghanistan e in Iran prima del burqa e del velo c’è stata la minigonna, e i musulmani che combattevano per Francesco Giuseppe avevano per slogan: niente rum, niente battaglia.

Un altro fenomeno sommerso dai luoghi comuni è il bullismo.

Se ne parla in occasione di episodi eclatanti, ma nelle forme più striscianti è quotidiano, un altro frutto delle frustrazioni di chi vive una vita che non ritiene sua. La prevenzione è ancora nel dialogo. Torniamo sempre a Socrate.

Francesco Palmieri

 

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Per ogni anno che passa, togli qualcosa…

 

Qualche giorno fa conversavo con un’amica, la quale mi ha raccontato un colloquio con il suo medico. Una raccomandazione del dottore mi ha colpito. «Signora – ha detto lo specialista – si ricordi: per ogni anno che passa lei deve dire addio a qualcosa». Il consiglio era quello di una rinuncia progressiva, graduale, inversamente proporzionale all’età.
Più invecchi, più devi alleggerirti.
Più si accumulano gli anni, più devi eliminare cose alla tua vita.
Clic Per una come me che da anni affina l’esercizio della sottrazione (con risultati altalenanti), quella raccomandazione è immediatamente suonata naturale, oltre che molto sana. Ma per buona parte della serata ho continuato a riflettere su quel bizzarro movimento a correnti alternate e contrarie: cresce l’età, diminuisce il peso (dell’anima e della mente). E ho concluso che nella vita che conduciamo spesso avviene l’esatto opposto.Più invecchiamo e più ci arrocchiamo sull’accumulo, ci attacchiamo alle certezze e restiamo appesi, impotenti, alla paura di perdere qualcosa. L’età (non sempre ma spesso) porta dei benefici e delle posizioni conquistate che innescano un meccanismo di sopravvivenza: per mantenere quello che ho non posso fermarmi, ma devo andare avanti e ottenere sempre qualcosa di più. Non parlo solo del lavoro: mantenere il basso continuo di una relazione sentimentale, per esempio, impone un incessante «allungo», un inesauribile orizzonte di progresso. E allora, mi sono chiesta, come si fa a togliere una cosa per ogni anno che passa? Intanto è utile riconoscere l’accumulo. Perché è un rumore sottile, qualche volta si confonde con la necessità. Quel «sì» detto nonostante una vita piena di impegni, è davvero necessario? Ho veramente bisogno di dispiegare tempo ed energia in questa cosa, oppure è solo la paura di vedere crollato un castello inesistente? Perché, sia chiaro, ogni costruzione che crediamo di avere edificato è fatta di sabbia: basta un imprevisto, anche invisibile, a demolire ogni cosa. Allenarsi alla precarietà, allora, può essere un ottimo esercizio. C’è un bel libro che spiega bene questo meccanismo ed è «Niente di speciale», scritto da Charlotte Joko Beck (in Italia tradotto dall’editore Ubaldini e oggi pressoché introvabile). Beck è stata un’insegnante di meditazione Zen e in questa guida, molto semplicemente, invita a guardare le cose come sono. Quello che ci capita senza che noi facciamo nulla per farlo accadere, è ogni volta un piccolo miracolo: la pura vita, l’essenza di quello che ci succede ogni giorno, la bellezza della quiete. Togliere ogni sforzo, come in un asana dello yoga fatto bene, sentire il sostegno della terra e fidarsi di quello che ci sta davanti agli occhi. Restare eleganti e pieni di grazia anche nella tempesta, perché come affermava Pema Chödrön, una famosa monaca buddista, «tu sei il cielo, il resto è solo il tempo che fa». Sembra facile, ma per molti è difficile, per alcuni impossibile. Allenarsi alla precarietà vuol dire lasciare andare e osservare momento per momento la nostra vita. Diventare pura osservazione. Allora ho pensato che questo allenamento alla lenta purificazione, eliminando quello che non serve, possa essere un lenitivo. Come lo sciroppo per la tosse grassa, può sciogliere quei nodi che ci lasciano appesi alle passioni, ai desideri inutili, alla rabbia priva di senso. Cose che con il tempo, come rifletteva Gabriel García Márquez, assumono una sgradevole sfumatura triste. Notarle, dare loro un nome, equivale a stabilizzarle. Un po’ come quando ci mettiamo a osservare con calma e insistenza gli occhi della tigre: ci troviamo un lampo di arrendevolezza.

Roberta Scorranese
Salvatore lamberti

Illustrazione Salvatore Lamberti

L’ascesa delle donne nel mondo del lavoro paga, oppure …?

Un’amica con una professione superimpegnante mi dice: “Non è possibile fare un lavoro importante e allo stesso tempo fare la madre o la moglie o l’amante. Non lo dice nessuno ma è così”. Non lo dice nessuno? Io lo dico

Il femminismo, ossia l’ascesa femminile nelle professioni, è una forma di sacrificio umano. E l’umano sacrificato non è il maschio ma la femmina. “Per fare questo lavoro ho sacrificato davvero tutto, a partire dalla vita privata” dice Giorgia Meloni, e non ne dubito (eviterei di vantarmene però). Io intanto sono al bar con un’amica che fa un lavoro importante e superimpegnante, non tipo Meloni ma quasi, e davanti a un trancio di Sachertorte consolatoria guarda caso se ne esce così: “Non è possibile fare un lavoro importante e allo stesso tempo fare la madre o la moglie o l’amante. Non lo dice nessuno ma è così: non è possibile”. Nemmeno l’amante? “Nemmeno l’amante”. Ecco perché tante donne in carriera si riducono a congelare ovuli, in attesa di tempi migliori, magari di amori travolgenti che non arriveranno mai. Poi leggo Ursula von der Leyen che si gloria di aver sacrificato altri individui di sesso femminile sull’altare di questa ideologia: “Più che raddoppiate le commissarie donne. Senza la mia lettera ne avremmo avute solo 4 su 25”. Tutte donne che per arrivare lassù hanno sacrificato tutto e se putacaso avessero salvato qualcosa lo perderanno durante il nuovo incarico. Non lo dice nessuno? Non è vero: io lo dico.

Camillo Langone__da__IL FOGLIO

 

donna potente

Sangiuliano martire o marpione?

 

 

Sono amico di Gennaro Sangiuliano, attuale ministro della cultura, e perciò non mi sembra elegante difenderlo o attaccarlo per la vicenda che riguarda Maria Rosaria Boccia. Se fossero in ballo questioni importanti o risvolti penali il criterio sarebbe diverso; ma fino a prova contraria, si tratta di una questione di (in)opportunità e di (mal)costume. Non entrerò dunque nel merito della vicenda. Su quel che ha scritto l’altro giorno su La Verità Mario Giordano si può essere d’accordo o in disaccordo ma si deve oggettivamente riconoscere la libertà di giudizio di Giordano e de la Verità: niente sconti, indulgenze e compiacenze nel valutare l’operato di un ministro del governo Meloni. Io vorrei invece fare alcune notazioni di ordine generale.

L’osservazione preliminare è che il potere è da sempre assediato e insidiato da arrampicatrici e arrampicatori. Sarebbe facile poi ricordare casi gravi ma sottaciuti di familismi o di favoritismi da parte di ministri e politici del centro-sinistra; carriere nel segno e nel nome della parentela e dei legami affettivi, oltre che dell’affiliazione e dell’appartenenza ideologica e politica. Non è una novità, anzi: la novità semmai è il rilievo dato a questa vicenda e la morbosa attenzione.  Ma quando gli accusatori di Sangiuliano sollecitano l’intervento e le indagini di magistrati e Corte dei conti, oltre le interrogazioni parlamentari in merito, a me sovviene un capitolo ministeriale passato indenne e inosservato perché investiva direttamente governi, ministri ed esponenti del centro-sinistra. Riguarda il cinema, visto che ci troviamo nei giorni del Festival del Cinema di Venezia.  Prima che arrivasse il governo Meloni correvano lauti finanziamenti pubblici e sostanziose agevolazioni fiscali a film, autori, registi e produttori di nessun valore culturale e di vistoso fallimento commerciale. Finanziamenti a pioggia, milionari, su film flop, e agevolazioni disinvolte in virtù della cosiddetta tax credit. Solo nel 2022 sono stati erogati circa 850 milioni di euro, e sulla stessa lunghezza d’onda stavano procedendo nel 2023, fino a che c’è stato il cambio di governo. Tra i vari casi ne vorrei ricordare uno, particolarmente assurdo e particolarmente dimenticato dalla grande stampa e dai media. Mi riferisco ai film Te l’avevo detto e Magari di Ginevra Elkann, sorella di John (e di Lapo) e figlia di Margherita Agnelli. Quando era ministro della cultura Dario Franceschini lo Stato ha buttato via quasi tre milioni di euro per finanziare due opere che furono un assoluto flop e che non avevano alcun particolare pregio culturale. La regista della famiglia Agnelli-Elkann, ex Fiat, ricevette per la precisione 2.828, 044, 32 euro tra crediti d’imposta e contributi a fondo perduto. Un film incassò appena 117 mila euro nelle sale. L’altro, precedente, era andato ancora peggio: aveva beneficiato di oltre un milione di euro ma aveva incassato in sala appena 12 mila euro, con l’attenuante in quel caso che era uscito al tempo del covid. Non vi parlo della preistoria ma di ieri, risalgono agli ultimi tempi della lunga gestione Franceschini del Ministero della Cultura. Lo stesso ministero che non aveva ritenuto di sostenere il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, poi esploso nelle sale e nei media.   Ma in questo caso, oltre l’ispirazione “progressista” del film e dell’autrice, c’è da sottolineare che i soldi pubblici sono andati a sostenere l’opera di una persona proveniente dalla dinastia degli Agnelli-Elkann e dell’impero Fiat, azienda già nota per aver scaricato sul pubblico le perdite private e aver beneficiato di incentivi e ammortizzatori statali; mentre si statalizzavano le perdite si continuavano a privatizzare i profitti; fino al paradosso di un’azienda-simbolo dell’Italia che batte bandiera straniera, anche sul piano fiscale, salvo usare ancora il marchio italiano.

Ma torniamo al cinema. Quanti autori magari di qualità ma senza mezzi economici adeguati, sono stati dimenticati per destinare invece il sostegno pubblico a chi potrebbe farne a meno? I soldi vanno ai ricchi, ai figli o amici dei potenti, anche se i loro film sono dei clamorosi flop non solo in sala: una logica che ben si sposa con l’universo radical chic e col mondo editoriale controllato dalla famiglia suddetta. E quando i media nostrani o della Casa sono costretti a occuparsi del capitolo scabroso e imbarazzante dei finanziamenti pubblici sbagliati, riescono a fare l’esempio di Saverio Costanzo, figlio di Maurizio Costanzo, che pure ha fatto qualche film di qualità, ma non “osano” nemmeno citare il caso Elkann.

Allora io dico: ma come, stiamo cercando di vedere se da qualche parte, magari in un pernottamento o in un viaggio siano stati spesi soldi pubblici per una vera o presunta consigliera del ministro Sangiuliano, senza titoli adeguati per coprire questo incarico, mentre si tace di vistosi, enormi sperperi e di veri favoritismi e familismi. S’invocano magistrati e corte dei conti su eventuali “spiccioli” pubblici spesi in modo improprio e passano inosservati milioni di euro sperperati, per giunta neanche per sostenere il cinema povero e alternativo; ma aiutando la rampolla di una dinastia potente che ha imperato per decenni nel nostro Paese. A Sangiuliano non si perdona, tra l’altro, di aver fermato questo sperpero, aver imposto un tetto ai finanziamenti statali e aver agganciato i sostegni pubblici ai risultati effettivi di mercato, limitando ai film di elevata qualità artistica la corsia preferenziale degli aiuti governativi. Una scelta di buon senso che deve aver ulteriormente acuito l’odio nei suoi confronti. Naturalmente ogni storia va giudicata in sé e per sé, una vicenda non lava l’altra, e va riportata alle sue reali proporzioni; e non interferisce con un giudizio complessivo sull’operato e l’esposizione mediatica di Sangiuliano e sul profilo culturale. Ma la disparità vistosa e disgustosa nei giudizi e nel rilievo dato ai fatti e alla loro gravità dimostra ancora una volta il retrobottega del potere culturale in Italia, l’intolleranza faziosa e l’omertà mafiosa quando si tratta di robe di “cosa nostra”. Malignità finale sul malcelato bigottismo che aleggia su questa vicenda: ma se Sangiuliano avesse avuto come suo consigliere e accompagnatore un transgender, un gay o un migrante, i bigotti indignati avrebbero chiuso almeno un occhio?

Marcello Veneziani

Elegia nostrana in un paese smemorato…

 

 

È possibile immaginare un’elegia italiana o nostrana, come J.D. Vance ha imbastito un’ Elegia americana? Il libro scritto dall’attuale candidato a vice di Trump era dedicato alla memoria, all’infanzia, alla profonda provincia dell’America; da noi sarebbe un viaggio nostalgico nella provincia italiana, quel che ha rappresentato nella vita e nell’immaginario nostrano. Ieri, nel mio paese natio, Bisceglie, a conclusione del festival “I libri nel borgo antico”, cercherò – nella brevità di un incontro – di ricamare un’elegia paesana, aiutandomi con le immagini del passato, nel tempo in cui la memoria e i paesi tendono a svanire, con una velocità impensabile alla luce della proverbiale lentezza della vita di paese, al sud in particolare. I festival del libro hanno il merito di portare la cultura in provincia, i libri e gli autori del momento. Tenterò l’operazione inversa, di portare il paese, la provincia nel cuore della cultura, della memoria e della riflessione del presente. In fondo la grande letteratura nasce provinciale prima di diventare universale. Ogni volta che parli di un paese parli di ogni paese, tutto ciò che è profondamente intimo, locale, nostrano è ciò che è più universale, più sentito, comune a tutti. Anche chi vive in città ha un paese d’origine nel cuore; magari non è il suo ma dei suoi nonni; tanti ricordano memorabili giorni vissuti nella carezza del paese e nel suo pigro avvolgersi intorno a noi.
Contrariamente a quel che si dice, il mondo locale era molto più ricco, vario e universale del mondo globale nel quale viviamo. In paese conosci mille persone, ti fermi a parlare con cento, sai vita, morte e miracoli di tanta gente; nella grande città ne conosci e ne saluti assai meno, ti fermi a parlare con pochissimi.
Il bambino cresciuto nel mio paese, come in molti altri paesi, abitava in tre mondi reali: conosceva il paese, la piazza, il corso, le case, i negozi, la vita paesana ma conosceva pure la campagna, gli animali, la civiltà contadina che era fino a pochi decenni fa prevalente e contigua al paese; e conosceva il mare a due passi da casa, i pesci e i pescatori, le reti, le barche, i ricci, le cozze, i bagni; un altro mondo.
Ma non solo. Le famiglie numerose di una volta – allargate, allungate, aperte ad amici, comari e conoscenti – ti mettevano in confronto permanente con mondi diversi dal tuo per età, ceto, esperienza. Oggi, le famiglie sono piccole, introverse e colonizzate dal mondo parallelo dei media; i giovani stanno coi giovani, i vecchi coi vecchi (quando non sono soli). C’è una specie di razzismo generazionale, di ristrettezza dello sguardo, di apartheid anagrafica che ci separa e ci isola; non conosciamo più dal vivo il passato, e gli anziani non conoscono i giovani che abiteranno il futuro. Vivono tempi, mezzi, linguaggi diversi. Accanto al mondo naturale e reale, si viveva in un mondo magico e religioso popolato di miti, folletti, favole e superstizioni, preghiere e processioni; capivi che il mondo non ruota intorno a te o dentro quella teca onnisciente chiamata smartphone, ma esiste nella realtà visibile e invisibile e tu sei solo un puntino dentro quell’universo.
Poi l’esperienza nel paese era multisensoriale. Non c’era solo la parola e la vista, c’era anche l’olfatto, tra odori e puzze, il gusto forte dei sapori veraci, il tatto, cioè il contatto di prossimità, toccarsi oltre a parlarsi, fiatarsi accanto; la prossimità era tangibile. Oggi conosciamo di più il lontano, ieri conoscevamo di più il vicino, la prossimità.
Le case in paese erano centri fiorenti di vita; la gente entrava e usciva di continuo, si chiamavano dai balconi e dalle finestre, avevi continue visite all’improvviso. Famiglie numerose comportavano sciami generazionali in transito continuo nelle proprie case. Società aperte, altro che chiuse, ma nella prossimità. Conviviali, a volte litigiose.
Insomma, contrariamente a quel che oggi si pensa, il mondo del paese era più ricco, vario e movimentato di quello telematico, virtuale e internettaro di oggi. C’era più umanità anche se di rado si vedevano le masse, le folle, le file. La vita nella sua semplicità sembrava nascere, crescere e finire spontanea; è la vita gratis, che vuol dire per grazia, senza prezzo e senza pretese, dove i beni primari sono accessibili gratuitamente.
Sto parlando al passato perché quel paese non c’è più. Si è svuotato, i figli lavorano lontano, le coppie non fanno figli, i vecchi sono aumentati, le strade hanno più extracomunitari che paesani. La vita biologica si allunga, la vita comunitaria si accorcia, la gente sta più in casa o in auto, ha meno natura intorno. Spariti gli asini, i muli, le galline e gli altri animali di cortile, i cani sotto i carretti o traini; le capre e le pecore, munte direttamente a domicilio per avere il latte fresco. Ora ci sono più cani e gatti in casa, umanizzati, trattati meglio, sostituiscono figli e amici.
Chi si aspetta a questo punto il rimpianto per quel tempo, resterà deluso. Primo, perché quel mondo era anche duro, aspro, povero, crudo, affamato, scalzo, ingiusto, ignorante e manesco.
Secondo, perché ogni epoca ha i suoi progressi e i suoi regressi, le sue conquiste e le sue perdite, e non ha senso rimpiangere le une senza considerare le altre.
Terzo, perché anche a volerlo quel mondo non torna più; è impossibile e patetico immaginare di ripristinarlo o rimetterlo artificialmente in vita. E non riusciremmo più a vivere in quel modo, in quel mondo, in quelle condizioni. Non era più bello quel mondo ma gli occhi che lo osservavano, i nostri occhi di bambino e poi di ragazzo, ancora pieni di vita e di aspettative. Era la nostra infanzia ma ci pareva l’infanzia del mondo, quando principiavano tutte le cose.
Allora perché ne parli e con tanta passione? Perché è bello farsi cacciatori di ricordi, è bello aver memoria di un mondo diverso, è bello ritornare a coloro che non ci sono più e alle cose che non ci sono più. Abitare più mondi è una ricchezza, abitare il passato oltre il presente è una preziosa risorsa e un termine di paragone, un buon esercizio che affina il nostro senso critico, la nostra libertà e la nostra coscienza di essere al mondo. La nostalgia è un bellissimo sentimento che fa bene all’anima, umanizza i rapporti, riporta la vita all’essenziale. Diventa una malattia se si capovolge in odio verso il presente, pretesa di abolirlo o almeno di maledirlo. Allora da sentimento si fa risentimento.
Ci vorrebbe un’elegia nostrana, senza pretese restauratrici e velleità revansciste. Un sentimento che prende il cuore, rende più lievi i giorni, ci fa vivere in più mondi e non solo in quello presente, che da vecchi ci piace sempre meno. E che ci rimette in pace con i morti e col passato.
Perciò è bello una domenica sera di fine estate riprendere, mano nella mano, la danza dei ricordi, l’elegia per un mondo che non c’è più.

Marcello Veneziani

Ci si abitua.

Ci si abitua.  Sì, tante volte sentiamo dire, o lo diciamo noi stessi.

Ci si abitua, lo diciamo, o lo dicono, con una serenità che sembra autentica, perché in realtà non esiste, o ancora non si è scoperto, altro modo di manifestare all’esterno con tutta la dignità possibile le nostre rassegnazioni.   Quello che invece nessuno domanda è a costo di cosa, ci si abitua.

José Saramago

bella

Tante conquiste, ma mai come oggi le donne sono impotenti…

Sono avverso alle donne di potere, ma non misogino: oggi le donne sono impotenti.  Le Sodomiadi di Parigi hanno sancito il sorpasso di omosessualismo e genderismo nei confronti del femminismo. E del femminile, tristemente passato di moda. Se aggiungiamo immigrazionismo e islamismo, la donna risulta indifesa.

Prego di riuscire a smettere di definirmi misogino. Non perché debba sfuggire alla nuova severissima censura inglese (non frequento la perfida Albione). Ma perché oggi la mia avversione riguarda soltanto le donne di potere. E se il mio problema si riduce al potere femminile la definizione di misogino, che tanto mi piaceva, che ancora un po’ mi piace, non mi descrive più: quasi tutte le donne sono impotenti. Le Sodomiadi di Parigi – “un salto di qualità nell’attacco alle donne” (Eugenia Roccella) – hanno sancito il sorpasso di omosessualismo e genderismo nei confronti del femminismo. E del femminile, apparso tristemente passato di moda… Se a ciò aggiungiamo immigrazionismo e islamismo ecco uno spaventoso ircocervo ideologico davanti al quale la donna, peggio se giovane donna, peggissimo se giovane donna bianca, risulta indifesa. Oggi una ragazza non può vestirsi liberamente, non può frequentare tranquillamente stazioni e metropolitane. Può accedere a tutti i mestieri? Sì, ma non a tutti i quartieri. Se è bella viene criticata. Se non lo è viene criticata. Se è famosa può essere lapidata in qualsiasi momento per qualsiasi minimo disallineamento. Se è ignota è una sfigata. Ovvio che in un mondo così disgraziato al posto della misoginia serva cavalleria ossia gentilezza e rispetto nei confronti della donna.

Camillo Langone __da__IL FOGLIO

 

misoginia

Il vittimismo è l’ideologia dominante…

 

 

Quando non è accusata di fascismo, Giorgia Meloni e il suo mondo sono accusati di vittimismo. Appena denuncia un attacco, una manovra, una campagna contro di lei o sua sorella, contro Fratelli d’Italia o il governo, scatta l’accusa di atteggiarsi a vittima. Il sottinteso è la sindrome del complotto, con la sua dietrologia; o in chiave puerile, la sindrome di Calimero: ce l’hanno tutti con me solo perché sono piccolo e nero, diceva il pulcino di una pubblicità ignota ai minori di cinquant’anni, che oggi sarebbe vietata per apologia di fascismo…
Per i più navigati nella storia della destra e della sua cultura la Meloni non usa solo un repertorio propagandistico per mantenere i consensi e giustificare le difficoltà ma il vittimismo sarebbe una malattia endemica nel mondo politico e culturale della destra nazionale, sociale e radicale nostrana. Il solito, lagnoso vittimismo, che denuncia da decenni discriminazioni, ghettizzazioni, esclusioni e censure nei confronti di chi “non è allineato” o è fuori dalla cerchia e dal Palazzo.
Riconosco che questa tendenza al vittimismo è in effetti presente nella mentalità politica e culturale della “destra” (lasciate che metta tra virgolette una definizione sempre più irreale); arrivo a dire che forse è quella l’unica, vera indole che accomuna politici e intellettuali della cosiddetta “destra”.
Ma appena si allarga lo sguardo al mondo circostante, si fanno i paragoni e si osserva la realtà in cui viviamo, il responso assume un’altra, sorprendente valenza. A ben pensarci, il vittimismo è l’ideologia implicita e sottostante del nostro tempo; sorregge le più importanti giustificazioni culturali e morali, nonché il senso di superiorità della cultura egemone e fonda l’antifascismo.
Da dove nascono l’ideologia woke, il politically correct e la cancel culture se non dalla tutela dei diritti e dal risarcimento dei popoli, generi, minoranze, culture, scelte, reputate vittime di discriminazioni, fobie, intolleranze, violenze? Tutelare le minoranze omosessuali o transgender, vittime dell’omofobia; tutelare i migranti dalla xenofobia o dall’islamofobia; tutelare i neri, vittime del razzismo; tutelare i rom, vittime della zingarofobia. La stessa battaglia per la parità delle donne sorge perché vittime del maschilismo, del patriarcato, delle violenze misogine e dalle discriminazioni sessuali.
Il vittimismo trova la sua legittimazione storica e ideale in rapporto al Male Assoluto, il nazismo e i suoi parenti: la prima Vittima per antonomasia, è l’Ebreo. Tutto il giudizio storico contemporaneo parte dall’ossequio alla Vittima della Shoah. La destra ne fece il verso con i martiri delle foibe.
Sul piano storico la memoria, le strade, le rievocazioni riguardano solo le vittime; ogni evento, ogni protagonista, ogni eroe, re e conquistatore, cede il posto alla vittima, anche nella toponomastica. E l’anticolonialismo cos’è se non un’apoteosi del vittimismo?
Ma anche la vita sociale e civile esige una speciale protezione della vittima; la scuola deve prima di tutto tutelare chi non ce la fa, vittima del sistema meritocratico e dell’impietoso darwinismo sociale; nello sport le pararlimpiadi assumono pari rilevanza delle olimpiadi, per la speciale tutela che si deve alle vittime della sorte (peraltro ammirevoli). E persino nelle gare olimpioniche, la stupida, demagogica idea di premiare i quarti, rispetto alla terna che sale sul podio – un’idea che mortifica e sovverte lo spirito dello sport e il suo legittimo e leale agonismo (vinca il migliore) – è un ulteriore frutto del vittimismo.
Risalendo alle origini del vittimismo c’è una distorsione della morale cristiana, la difesa dei martiri, dei deboli, dei poveri, degli umili, degli oppressi. L’impianto vittimario e sacrificale della storia, notava René Girard, ha una derivazione cristiana, in parte giudeo-cristiana.
Ma la carica di rivalsa che accompagna il vittimismo, in realtà, è una derivazione della lotta di classe di matrice comunista: vittime di tutto il mondo unitevi, sovvertite l’ordine che finora vi ha relegato fuori, sotto, in basso nella scala sociale; gli ultimi saranno i primi, diceva il Vangelo, ma il marxismo corregge, la dittatura degli ultimi (o meglio di coloro che parlano in loro vece) sarà necessaria per rovesciare le leggi infami della realtà, della natura e del mondo. Il vittimismo è l’ideologia dominante del nostro tempo, anzi, meglio, è l’ideologia su cui si fonda la dominazione del nostro tempo. Non è certo appannaggio esclusivo della Meloni.
Ma torniamo al mondo da cui proviene la Meloni. Il vittimismo della “destra” è una ritorsione, una reazione, al dominio vittimista che s’impone dappertutto. In realtà la vera indole della destra, più che il vittimismo è il “vintimismo”, ossia la passione per i vinti, la propensione scandalosa per tutti coloro che persero, con onore, nella storia: dagli esuli di Coblenza al tempo della rivoluzione francese ai nostalgici dei Borbone e degli Asburgo, dai sudisti agli indiani d’America ai fascisti che combatterono sapendo di perdere. L’archetipo, per così dire, è Ettore nel canto di Omero, o Leonida alle Termopili coi suoi trecento spartani. O i samurai, i tibetani, coloro che difesero città assediate e civiltà perdute.
L’adozione delle vittime al posto dei vinti segna un cambio di passo: dagli eroi ai martiri, così la destra risponde allo spirito del nostro tempo. Poi, nella prassi quotidiana, diventa a volte alibi furbo per mascherare le proprie sconfitte o le proprie incapacità e insufficienze. Il vittimismo viene usato per generare solidarietà e dissimulare i propri insuccessi.
Ma dopo aver compiuto una lunga navigazione nel vittimismo, nelle sue matrici, declinazioni ed espressioni odierne, torniamo alla realtà. Resta il fatto che davvero la destra è stata per decenni il mondo escluso, definito non a caso il ghetto; la sua cultura è stata ed è ancora interdetta e malvista, esclusa o mal sopportata dal potere culturale dominante. Ed è innegabile che certe cose consentite agli altri, e soprattutto alla sinistra, sono vietate alla destra; se prova a farlo, si grida allo scandalo. Lo si vede nelle leggi, nelle nomine, nei criteri usati. Per non dire delle campagne e delle manovre mediatiche e giudiziarie per far cadere il governo di destra o per impedire in tutti i modi che altrove vada al potere.
Alla fine ci troviamo davanti a un duplice paradosso: il vittimismo non è la consolazione di chi sta sotto ma è l’ideologia di chi sta sopra: è usata dai ceti dominanti per affermare e consolidare la loro supremazia. Altro che religione degli oppressi… La stessa cosa succede a rovescio al governo: Meloni si dice vittima eppure sta al governo. Evidentemente il governo è una cosa e il potere è un’altra… Quel doppio esito è il paradosso cornuto del vittimismo.

Marcello Veneziani  

Trovare la strada,quella giusta poi…

Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada.  Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi lì, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada?  Sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto.

Alessandro Baricco __“City”

 

dove sto

I veri abiti della tradizione orientali. Donne bellissime, abiti straordinari.

  Tornerà mai un mondo in cui le donne del Medioriente potranno tornare ad indossare i loro abiti tradizionali, se e quando lo vorranno, dismettendo i loro abiti quotidiani, qualunque essi siano , come siamo abituate noi, da sempre? Penso che sarebbe una grande  conquista, la dimostrazione che al mondo non devono esistere donne senza diritti e libertà. Se esistono questi costumi, prima dei burka , significa che gli uomini di un tempo, prima dei maschi fanatici di oggi, forse meritavano molto di più  il rispetto e la devozione delle loro donne.