Le ragazze dell’Iliade, quelle che combattono con le parole…

Le ragazze dell’Iliade

L’Iliade è il poema della forza, scriveva Simone Weil. Un’opera che canta la bellezza della guerra, ma anche la sottomissione alla sua necessità, all’inevitabile destino di uccidere e di essere uccisi, di finire vincitori o vinti. Del resto la Grecia di Omero, come sarà la Grecia di Pericle prima e di Alessandro Magno poi, è una società fondata sulla guerra, composta da un’umanità combattente che non teme di spiegare le vele e di sguainare la spada di fronte all’altro, al nemico, contrapposizione identitaria che garantisce la sua stessa esistenza.

Se da quasi tremila anni l’Iliade non è la storia di una guerra qualsiasi tra le migliaia che hanno insanguinato ogni epoca, bensì è la storia di tutte le guerre, un canto eterno di dolore e di gloria su come è stato e sempre sarà lo scontro armato tra uomini, è solamente grazie alle donne. Senza i suoi personaggi femminili, l’Iliade sarebbe una storia fra molte, dimenticabile e senz’altro già dimenticata: i suoi quindicimila e più versi costituiscono per l’Occidente l’immaginario di ogni guerra perché le protagoniste del poema, con la loro saggezza, profondità e dignità, trasformano un’accozzaglia di corpi schierati in due eserciti opposti in indimenticabile letteratura.

Achille, Ettore, Agamennone e gli altri sono personaggi che si muovono e passano; Elena, Ecuba, Andromaca sono epica destinata a permanere. Nel poema è sempre la donna a trasformare l’eroe in essere umano, il nemico in uomo, il cantore in poeta immortale: e proprio con un’invocazione a una donna, anzi a una Musa, che si apre l’Iliade, senza la quale Omero non avrebbe posseduto il materiale narrativo da cantare e mai il suo talento sarebbe sopravvissuto al buio dell’anonimato.

A partire dal suo stesso autore, gli uomini dell’Iliade incarnano sì la forza, ma una forza bruta, rozza, comunque insufficiente a risolvere il conflitto e a meritare la gloria: la loro mascolinità è certo possente ma lacunosa, intensa ma piccola se paragonata all’ambizione epica del poema. Se togliessimo al racconto gli episodi della trama di cui le donne sono le artefici dirette o indirette, non resterebbero che scene di battaglia secche, dure, certo poco gloriose, ripetitive e senza via d’uscita.

Gli uomini di Omero sono esseri umani in tutta la loro debolezza e la loro finitezza: Agamennone è un capo inadatto, Achille un guerriero capriccioso ed egoista, Paride un rampollo viziato, Ettore un eroe ipersensibile, Enea nemmeno lo si vede. Senza il potere drammatico femminile, l’Iliade sarebbe il pietoso canto della fragilità umana e non quest’irrimediabile poema della forza di cui parlavamo all’inizio.

Le donne di Omero non sono però supereroine grandiose né intrepide avventuriere secondo i moderni cliché dei videogiochi e dei film americani: nessuna delle protagoniste tocca un’arma e uccide il nemico, la donna è anzi del tutto assente dal settore della forza e dei giochi di potere. La variante del mito tramandatoci dal “cieco di Chio” non contempla nemmeno la presenza delle Amazzoni, il popolo femminile e guerriero che invece compare in altre versioni della storia, nelle quali la regina Pentesilea si scontra direttamente con Achille.

Il lato femminile dell’Iliade è fatto di discorsi e di voci che pretendono di essere ascoltati: sul campo di battaglia gli uomini gemono come fanatici, ai margini del combattimento sono invece capaci di articolare pensieri ed esprimere emozioni grazie alle donne con cui si confrontano. In questo senso, gli uomini e le donne di Omero sembrano appartenere a due diverse fasi della civiltà: i primi si esprimono a gesti, le seconde a parole; i primi distruggono, le seconde riparano, curano, ricostruiscono. E tramandano. Se al poema di Omero dovessimo togliere l’audio e dunque zittire i dialoghi innescati dai vari personaggi femminili, non resterebbe che un calderone di armi e di soldati muti e privi di senso.La storia stessa non inizia nel pieno della guerra, ma con il rifiuto di essa da parte del protagonista, Achille, che racconta – a parole, senza armi – la sua volontà di lasciare la battaglia offeso per la perdita della sua schiava Briseide.Comincia allora tutta una serie di contrattazioni e di colloqui tra le parti in causa, mentre l’eroe non tornerà a combattere se non al canto XX (sui ventiquattro di cui l’Iliade è composta), quando ritroverà le armi solo per vendicare la morte di Patroclo.

Senza la Musa non ci sarebbe Omero, senza Briseide non ci sarebbe Achille, così come non ci sarebbero Menelao e Paride senza Elena né Ettore senza Andromaca. O forse ci sarebbero, ma sarebbero soltanto delle comparse su cui passare oltre, da dimenticare. Del resto senza una donna la guerra di Troia non sarebbe nemmeno mai iniziata. Ciò che le donne apportano al poema non sono soluzioni o colpi di scena, ma letteratura. Le donne sono il motore narrativo dell’Iliade, coloro che trasformano la cronaca di un inutile massacro in capolavoro letterario. Gli uomini combattono, uccidono, spesso piangono; le donne tessono, disfano e rammendano la storia fino a formare il più potente canto bellico del Mediterraneo.

Il ruolo femminile di tessitrici di storie non esiste soltanto nell’Iliade, che pure è considerata il primo poema della letteratura occidentale. Chiunque sia stato Omero, uno, nessuno o centomila (o una donna, come credeva fortemente Samuel Butler), la capacità delle donne di farsi sarte dell’epica e ricamatrici di storie è nota fin dall’antichità in molte società dall’Africa all’Asia passando per l’Europa: il talento femminile di raccontare storie attraverso drappi decorati e ricamati con scene tratte dalle grandi saghe del repertorio mitico è oggi riconosciuto come una forma di letteratura non scritta degna di essere ricordata e tramandata. Dopo millenni di assenza di nomi femminili nei manuali di filologia, sembra che sia proprio qui, in questa forma di saggezza domestica e intima, fatta di storie ricamate con ago e filo e di versi affidati al ritmo del telaio (il cui simbolo letterario è Penelope, la protagonista dell’Odissea, che insieme all’attesa del marito tesse tutta la storia del secondo poema omerico), che debba ricercarsi l’origine della letteratura femminile. Canti non scritti ma intessuti, poesie affidate alla stoffa e non al papiro, che per secoli hanno trasmesso nei ginecei e nelle stanze riservate alle donne i grandi capitoli della letteratura antica.

La prova è fornita dall’etimologia della parola “rapsodo”, ossia il ruolo stesso di Omero, il cantore che viaggiava di villaggio in villaggio per narrare le gesta dei grandi eroi di Troia: deriva dal greco rapsodós, composto da rápto, “cucire”, e odé, “canto”. È grazie al lavoro minuzioso e paziente di questi sarti, e soprattutto di queste sarte di poesia, se i poemi di Omero hanno assunto la loro forma definitiva, quella che leggiamo tutt’oggi, a partire da un patrimonio orale di miti sovrapposti e spesso confusi tra loro.

L’Iliade è diventata dunque la storia di tutte le guerre, sì, ma cucita e tramandata attraverso la parola femminile

 Andrea Marcolongo, LA STAMPA