Se l’Intelligenza artificiale abolisce la storia,la realtà e la poesia…

 

 

Grazie all’Intelligenza artificiale la realtà è stata abolita, la creatività è stata sostituita. Se non ci credete ascoltate queste due storie.
Dunque, c’era una volta la fotografia, che documentava la realtà. Non potevi negare la verità, c’è la foto che attesta il vero.
Ma un bel giorno un fotografo di New York, Philip Toledano, ha commissionato un miracolo all’Intelligenza artificiale. Ha fatto realizzare per un festival intitolato We are at war, a Deauville, in Normandia i provini favolosi in cui Robert Capa, il famoso fotografo, documentava il D day, il giorno del mitico sbarco in Normandia. Sembrava tutto vero, le immagini, le facce, i telegrammi. E invece niente era vero, tutto era frutto di una ricostruzione fittizia di situazioni e materiali. Puro illusionismo, opera di digitazione sullo smartphone, col supporto dell’IA, anzi prestidigitazione, come fanno appunto i maghi, i prestigiatori. Toledano annuncia: l’idea della fotografia come verità è perduta per sempre. Novità assoluta o ritorno indietro, all’epoca che precede la fotografia quando il racconto, la raffigurazione mitica, pittorica, la testimonianza orale tramandata dovevano comprovare un avvenimento, senza nessuna certificazione inconfutabile. Siamo al surrealismo storico, dice il fotografo creativo. D’ora in poi le immagini non attesteranno più la realtà delle cose, sono malleabili. D’altra parte sono tristemente note le manipolazioni che avvengono sul web, nei social, di volti e corpi, spesso di minorenni, che vengono usati in scene erotiche false.
Diventa difficile anche il compito di vigilanza della polizia postale, perché le immagini passano di mano in mano e possono essere rimodificate, stravolte strada facendo, fino a perdere le tracce a cui risalire.
Ma tornando alle foto falsamente storiche: un altro colpo letale alla memoria storica, alla verità dei fatti. Come già accadeva nei regimi totalitari – Stalin faceva sparire dalle foto personaggi del regime caduti in disgrazia ed eliminati fisicamente – o come accade nelle manipolazioni odierne dei servizi segreti e della disinformazia cinetelevisiva, oggi chiunque può manipolare la realtà storica e mescolare eventi accaduti con falsificazioni. Il fotografo si esalta per questa possibilità di cancellare la realtà o modificarla a proprio piacimento. Si può rovesciare la realtà, dice Toledano, entrare in luoghi inaccessibili, vedere cose che nessuno ha mai visto e mai avrebbe potuto vedere. “L’Intelligenza Artificiale è incredibilmente flessibile, può essere come un sogno o una poesia”. Si, bello, ma la realtà non lo è, la verità nemmeno. Dovremmo esultare perché la realtà viene cancellata?
A proposito di poesia, l’Intelligenza Artificiale riesce pure a simulare l’ispirazione lirica, il genio poetico. La rivista Scientific Report ha reso noto una ricerca compiuta da un team di ricercatori dell’Universo di Pittsburgh: è stato sottoposto a un vasto campione di 1600 persone un repertorio mescolato di cinque poesie scritte da grandi poeti, da Shakespeare in giù, a cinque poesie scritte da ChatGpt. Lo scopo era dimostrare che i lettori non si accorgono della differenza, non sanno distinguere il vero dal falso. E naturalmente l’esperimento è riuscito. Ma l’inganno è doppio. Non solo quello dichiarato di versi scritti dal poeta e di versi scritti dall’IA. Ma il vero inganno è la falsa creatività della macchina: ChatGpt genera tramite algoritmi testi che assemblano brani provenienti da un immenso magazzino dati. Pescano versi nel mare magnum dell’universo poetico, non c’è alcuna ispirazione creativa.
Operazione matematica priva di intelligenza, assemblaggio di alta precisione tecnologica, non ispirato da vena lirica e creativa. Non c’è nessun poeta commosso dietro quei versi, anche se non si può escludere che possano produrre emozione e commozione in chi li legge.
Abbiamo raccontato due storie parallele o forse convergenti, in cui avviene una cosa e accadono tre conseguenze. La premessa è che si perdono i confini tra il vero e il falso, tra l’autentico e il finto, tra il reale e l’inventato. L’utente non sa più distinguere tra i due ambiti, è tutto in balia dell’Intelligenza Artificiale. Le conseguenze che ne derivano sono di tre tipi. La prima: la realtà, la storia, i fatti possono essere sostituiti. La seconda: la creatività, l’ispirazione poetica, il genio, possono essere sostituiti. La terza: l’uomo, come la storia e come la poesia, è superfluo, può essere sostituito. Dobbiamo gioire o preoccuparci di tutto questo, festeggiare o spaventarci, esaltarci o deprimerci? È un progresso per l’umanità o una catastrofe?
Lasciate che io lo consideri d’istinto o di primo acchito più una sconfitta che una conquista, più un fallimento che un progresso. Poi mi ricompongo, metto da parte lo spirito apocalittico e provo a ragionare. L’Intelligenza Artificiale è preziosa in molti campi, a volte ci fa vivere meglio, espande le nostre possibilità di vita e di conoscenza. Però, a tre condizioni. La prima è che si possa distinguere il vero dal falso, la poesia dal tarocco, il poeta dal robot; ovvero che ci siano ancora i mezzi per separare gli uni dagli altri fino a renderli riconoscibili. La seconda è che si possa controbilanciare la potenza della tecnologia con un sapere critico, un’intelligenza a misura d’uomo, una cultura in grado di compensare la crescita della IA e l’uomo possa orientare, filtrare, governare, dirigere la Tecnica senza esserne diretto. La terza è che l’espansione dell’IA artificiale si possa fermare quando diventa inquietante e pericolosa per l’umanità e per il mondo. L’uomo cavalchi la tigre se non vuol esserne trascinato e infine travolto

 

Cosa resta del futurismo? Annunci e reperti .

 

 

 

Ma cosa è stato il futurismo che mise a soqquadro il mondo? Il 2 dicembre nell’ottantesimo anniversario della morte del suo fondatore, Filippo Tommaso Marinetti, si è aperta alla galleria nazionale d’arte moderna di Roma una grande mostra, con tanto di convegno e catalogo sul futurismo. Proviamo a rimettere insieme i cocci sparsi del futurismo.

Per cominciare, audacia è la parola d’ordine del Manifesto futurista. L’entusiasmo per l’infinito, l’ebbrezza delle velocità che corre verso la luce e l’assoluto. Anche i verbi nel futurismo vanno all’infinito, mentre le parolibere nuotano nel cielo e la punteggiatura va a farsi benedire. È guerra alla forza di gravità. A capitanarli è il loro galvanizzatore, FTM, erotico, giocoso, bellicoso.

Curioso il futurismo, è il primo movimento d’arte totale proteso nell’universo, senza confini, fenomeno globale dall’America alla Russia, ma al tempo stesso è legato all’amor patrio e alla nazione. La famiglia è vista dai futuristi come una prigione da scardinare nel nome della liberazione del sesso; Dio deve liberarsi delle chiese, mettersi al passo della velocità futurista e accettare che alla natura da lui creata si aggiunga la creazione della tecnica, opera del suo sostituto procreatore, l’uomo. Ma la patria, no, la patria non si tocca per i futuristi, è il perno del loro credo, nonostante la portata globale del movimento e degli ambiti che persegue. Il futurismo fiorisce tra Milano e Parigi, che lo amplifica a evento mondiale, con sosta artistico-letteraria a Firenze, ma poi dilaga a Mosca e New York: è il primo movimento davvero globale. Il futurismo non si limita all’arte, si dilata all’architettura, alla letteratura, alla cucina, al costume, al teatro, al cinema, alla radio, alla musica, alla tecnologia, alla guerra, alla politica, insomma alla vita e alla morte. Uno stil novo tecnologico fondato sul mito della macchina, delle officine e della velocità. Una forma di delirio dionisiaco, non più indotto dal vino e da eros ma dall’ebbrezza della velocità, congiunta al mito della macchina che mette le ali alla condizione umana. Il futurismo diventa il canto della società industriale, l’arte applicata all’epoca del capitalismo. La velocità per Marinetti è la nuova religione della modernità. La macchina unita alla velocità delinea anche una nuova grafica e una nuova estetica, nuovi costumi e più slanciati design; anche i corpi tendono quasi a fendere l’aria, a farsi aerodinamici, appuntiti. La magrezza diventa sinonimo di bellezza, la grassezza evoca la lentezza, la viltà borghese, il panciafichismo goffo. La velocità delle macchine, a cominciare dalle automobili, è segno di esuberanza e di vitalità, insomma di felicità. Il culto della velocità si unì nel futurismo al mito della giovinezza di cui fu impregnato il Novecento. La gioventù futurista diventa col fascismo «giovinezza primavera di bellezza». La gioventù futurista è una gioventù bruciante; mezzo secolo dopo la parabola giovanilista declinerà nella gioventù bruciata, per finire poi nel ’68. Attivismo assoluto, agito ergo sum. C’è la modernità alla massima potenza e c’è il germe del fascismo come attivismo e volontà di potenza. Il culto della velocità si fece poi maniera, così come il futurismo ebbe il suo rococò ed entrò perfino nelle detestate accademie. Al punto che si può azzardare un’archeologia della velocità, qualcosa che evoca la Vittoria di Samotracia, esaltata da Marinetti (e superata dall’automobile). Anche la velocità finì in museo, imbalsamata come una tentazione ardita del passato. Restò la velocità dei rapporti telematici, che si fece anzi simultaneità; ma si perse il suo mito, applicato alla vita e alla macchina.

L’ideologia di Marinetti riverbera nei nomi dati alle sue tre figlie: Ala, Luce e Vittoria. La parola chiave per intendere l’epoca e la punta acuminata del futurismo è fiamma, cioè fuoco, ardere/ardire. «Allegri incendiari dalle dita carbonizzate» li definisce il Manifesto futurista, e vari poeti futuristi, perfino Palazzeschi, dedicano versi al fuoco; dietro quel fiammeggiante universo c’è il Fuoco, dall’omonima opera di Gabriele D’Annunzio allo scoccare del Novecento e tutto il richiamo di fiamme, faville, scintille, fiaccole e arditi che incendia il primo ventennio del secolo scorso. Prima fenomeno artistico, poi interventismo bellicoso, il futurismo si fa movimento politico, alleato al nascente fascismo. Quando il futurismo assunse connotati politico-rivoluzionari, si presentò come una promessa integrale di svecchiamento; via il senato, via il papato, via la monarchia, via i parassiti, via il matrimonio. Democrazia economica, parità dei diritti, espropri. Al centro del Novecento come del futurismo è l’uomo nuovo, il mondo nuovo, l’ordine nuovo che per i futuristi è in realtà un disordine nuovo, ma creativo. Marinetti è definito dal “passatista” Prezzolini un «formidabile disorganizzatore». Fascista e sfascista. Del futurismo restano molti annunci di rivoluzione senza seguito: come i bozzetti di architettura futurista di Sant’Elia, l’indigeribile ma stravagante cucina futurista, l’assurda e non indossabile moda futurista, la rumorosa inascoltato musica futurista, il teatro, il cinema futurista e via dicendo. Resta invece, e smagliante, la pittura futurista, la scultura, un po’ meno la poesia.

Un’avanguardia inconclusa, che perciò resta sempre giovane promessa, come Boccioni e Sant’Elia, che morirono giovani. Del futurismo restarono molte promesse, tante opere, briosi reperti di una paradossale archeologia.

Marcello Veneziani      

Jannik, il figlio che vorremmo…

 

 

Jannik Sinner è il figlio che vorremmo avere. Non perché è un campione straordinario che colleziona vittorie di cui andare fieri; sarebbe troppo facile. Non perché porta a casa una valanga di soldi; son buoni tutti a volere un figlio che porta milionate in famiglia, non siate venali, scontati o spiritosi. E non perché gioca divinamente e fa godere gli appassionati di tennis, a cui personalmente non appartengo. Ma Jannik Sinner è il figlio che vorremmo avere per quel che è sul piano umano, per quel che dice, per come lo dice, e per come si comporta di conseguenza.
Subito dopo la sua vittoria al torneo dei Maestri ha detto con grazia naturale: “I miei genitori vengono prima di tutto, di qualsiasi trofeo o successo; non solo la lacrima di mia mamma quando mi hanno premiato come numero uno; anche mio padre, mio fratello, tutti. I miei sono l’emozione più bella che mi porto via di qui, solo loro conoscono i sacrifici che abbiamo fatto: è bello poter restituire qualcosina”. Alla faccia del qualcosina…
Ricordo pure l’altra volta che dopo una vittoria, espresse la sua riconoscenza a sua zia che lo accompagnava ad allenarsi e che non stava bene (poco dopo il suo grato ricordo sua zia morì). Parlando del suo impegno sportivo ha detto: “Sono uno a cui piace lavorare tanto, che indago: cosa faccio, cosa sbaglio, cosa posso fare meglio”. E i suoi allenatori confermano che Jannik è così, pronto a rimettersi in discussione, a provare altre strade, a imparare subito.
Infine in tv ha aggiunto, anzi ha ripetuto: “Sono fiero di essere italiano”; ci voleva un ragazzo che sembra così poco italiano, dal nome e cognome tedesco, che parla tedesco, per esprimere il sentimento semplice e bello, la fierezza di essere italiano. Lo ricordo a quelle agenzie di stampa italiane e a quei giornali che hanno parlato della sfida tra l’altoatesino Sinner e lo statunitense Taylor Fritz. Non capisco perché dell’americano si ricordi non lo stato di provenienza ma la nazionalità statunitense, e di Sinner si ricordi la sua regione e non la sua nazionalità… Eppure Jannik non ha dichiarato la sua fierezza di essere altoatesino (di cui sarà certamente fiero, ma sa che la sua nazionalità è italiana).
Rimettete in fila le cose che ha detto e ripensatele una per una e poi tutte insieme: l’amore per la famiglia, la sensibilità verso sua madre e suo padre, la gratitudine verso di loro, lo spirito di sacrificio, la condivisione del sacrificio come della vittoria (“i sacrifici che abbiamo fatto”); l’umiltà di lavorare, rimettersi in gioco e di correggersi in corso d’opera, il sano esercizio sportivo, non sentirsi una star ma ancora un ragazzo che deve imparare. Infine la fierezza di avere una patria, un’appartenenza nazionale, di sentirsi italiano. E l’emozione più bella che si porta della vittoria in un luogo lontano da casa sua, è la gioia dei suoi famigliari.
Cose semplici, belle, prive di retorica, sentimenti sani, elementari, realmente provati, come dimostra ogni giorno. E aggiungeremmo: senza montarsi la testa, se la frase non fosse già diventata un manierismo venato di ipocrisia.
Provate a riportare su strada quelle parole, quei sentimenti dichiarati; provate cioè a calare le dichiarazioni di Sinner nel contesto dell’Italia contemporanea, nelle più note pose e frasi dei giovani della sua generazione; o peggio, paragonate quelle parole, quei comportamenti del campione alle notizie tristi se non feroci della cronaca quotidiana.
Possiamo dire che Jannik Sinner è un esempio finalmente positivo per i suoi coetanei e per i suoi connazionali e contemporanei? Possiamo dire che sarebbe infinitamente migliore il nostro paese se si sentissero con più attenzione le parole di Jannik rispetto a quelle degli influencer, dei piccoli guru dei social o dei mass media, dal cinema alla tv, passando per la musica e per la moda?
Chi insegna più l’amore per la famiglia, il senso del sacrificio, la condivisione comunitaria, l’umiltà e la voglia di lavorare, l’amor patrio, la bellezza dello sport, la gratitudine verso i propri genitori? Perciò dico senza troppi giri mentali, che Jannik è il figlio che ci manca, il figlio che vorremmo, e so di non parlare solo a titolo personale. Certo, poniamoci anche la questione dal punto di vista opposto: quanti genitori meritano di essere così riconosciuti e amati dai loro figli, quanti hanno saputo amarli in modo sano, giusto, fecondo e condividere le loro gioie? Quante volte i figli restituiscono con l’ingratitudine, l’indifferenza e l’anaffettività quel che hanno ricevuto, o amori distorti, nocivi, possessivi e apprensivi? Vero anche questo.
Ma quando poi ci troviamo davanti a un esempio ben riuscito, a un legame felicemente reciproco, portiamolo a modello, non ritiriamoci nel nostro scettico, cinico disincanto generale, ma facciamo tesoro di un’esperienza di segno opposto, che smentisce lo spirito del tempo.
Da un figlio non ci aspettiamo trionfi e trofei, pacchi di soldi e successo, siamo pronti a caricarci sulle spalle, senza rinfacciarli, i loro errori e i loro fallimenti, le delusioni che ci danno e le divergenze anche dolorose; ma vorremmo almeno sentire una volta il briciolo di quell’attenzione, quel semplice esercizio di gratitudine, un granello di quell’affetto che abbiamo dato loro per una vita intera e che magari vorremmo che semplicemente si riflettesse in uno sguardo, in una parola.
Non a caso, di recente ho pubblicato un libro intitolato Senza eredi, dedicato ai Maestri che non hanno più discepoli. Sinner che ha vinto il torneo dei Maestri, è l’erede che vorremmo avere, anzi è la dimostrazione che anche un fuoriclasse che potrebbe puntare sulla sua eccellenza, ha invece la modestia e la sensibilità di sentirsi e dichiararsi figlio, erede grato dei suoi genitori e del suo Paese. Ad avercene come lui, non di campioni – che ne nascono uno ogni tanto – ma di ragazzi così, che ti fanno guardare con più fiducia all’avvenire e con più rispetto al passato.

Marcello Veneziani            

Alla ricerca dei maestri e degli eredi perduti.

 

 

Senza eredi è il titolo del mio nuovo libro, edito da Marsilio, e viaggia tra maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella.

È un’impresa temeraria parlare di maestri in un’epoca che non conosce eredi e non si riconosce erede di niente e di nessuno. Non siamo eredi, non lasciamo eredi. Non ereditiamo niente, non lasceremo alcuna eredità. È questa, per dirla in modo diretto e brutale, la condizione odierna. Riguarda, in varia misura e a diversi livelli di coscienza, ciascuno di noi, nella vita personale e in quella pubblica e sociale. Ma non risparmia nessun ambito. Viviamo in un’epoca di contemporanei senza antenati né posteri, uniti solo dal vago domicilio nello stesso tempo; non consorti, al più coinquilini. Nella storia dell’umanità questa è la prima epoca senza eredi, o quantomeno è la prima a non riconoscere eredità da custodire e da trasmettere. È la prima ad avvertire, come Luigi xv, che dopo di noi verrà il diluvio, che finirà con noi il mondo in cui viviamo. Nessuno continuerà la nostra opera, nessuno salverà quel che poteva, doveva essere salvato di ogni eredità. Non lasceremo tracce, tutto sarà portato via dall’acqua e dal vento: l’acqua dell’oblio che cancella ogni orma e il vento della rimozione che spazza via ogni cosa. Il tempo non renderà giustizia, e nemmeno i posteri: il tempo non è galantuomo ma smemorato, scorre e scorda. E i posteri, di questo passo, saranno privi di memoria storica e letteraria, e di coscienza critica. È l’epilogo coerente di una società senza padre, poi diventata società senza figli, società parricida e infanticida, all’insegna delle orfanità elettive. La società dei mutanti e dei no-nati, nel senso della denatalità e dell’aborto. Il nichilismo alla fine mantiene la promessa: di tutto resterà niente, dopo di noi il nulla. A chi lasci i tuoi beni, il tuo patrimonio di vita, spirituale e reale, la tua biblioteca, la tua opera, il tuo archivio di ricordi, oggetti e pensieri? Ai topi e agli inceneritori. Da quel patrimonio verrà estratto al più il valore venale e mercantile, sarà quantificato e svenduto. Se privo di valore commerciale, vorranno disfarsene nel modo più rapido e indolore, roba da svuotacantine o da wc chimico. Dovrà svanire senza lasciare traccia di sé.

Anche in politica, leader e movimenti si presentano come il nuovo che avanza, effettuano radicali restyling che sono un periodico disfarsi delle eredità per apparire più adeguati al presente e meno gravati da ingombranti macerie. Altre app ci attendono, non è tempo di mantenere le vecchie. La storia in sé è un peso insopportabile. Figuriamoci la tradizione, che non è solo memoria, ma è pure connessione. Sono disconosciuti i maestri, la loro opera e la loro lezione. Non hanno nulla da insegnare, perché provengono da un tempo arretrato rispetto al nostro, con tecnologie e modi di pensare e di vedere superati, per il tribunale supremo del presente. Nessun abitatore del passato può guidarci nel futuro, le sue chiavi di lettura non aprono le serrature del tempo che verrà. L’erede universale dei saperi è l’Intelligenza Artificiale; ma è erede anaffettiva del patrimonio accumulato: né anima né sangue, solo magazzino di dati. Per reagire a questa amnesia, cancellazione ed emorragia, e salvare il salvabile, nasce questa raccolta di ritratti di maestri, che segue ai cento profili raccolti nel volume Imperdonabili. In gran parte si tratta di altri autori, ma ritornano alcuni imperdonabili esplorati sotto aspetti diversi. Sono miniature di saggi, succinte biografie, in cui c’è in nuce l’autore, l’opera e un pensiero su di loro. Sono una settantina di ritratti non convenzionali, in vari casi sconvenienti. Da Pascal a Kant, da Burke a de Maistre, da Manzoni a Baudelaire, da Verga a Proust, da Kafka a Buzzati, alcuni grandi autori e altri contemporanei, anzi viventi. Non mancano i pensatori contrari al mainstream. L’assenza di eredi riguarda anche loro, ma non solo loro: senza eredi sono prima di tutto i classici, i grandi del passato, gli imperdonabili di cui scrissi in un precedente saggio.

Gli autori affrontati non appartengono a uno stesso orizzonte. Sono diversi nei generi, tra letterati, pensatori, scrittori del giornalismo; differenti sono le loro sensibilità, le loro stature e i loro esiti. Il filo che li unisce è l’intelligenza della scrittura, la forza della loro testimonianza, pur disuguale. Non tutti ammirevoli, non tutti amabili. Ma in modi diversi rappresentano il variegato poliedro della cultura e della civiltà letteraria. Sono ritratti in gruppo eterogeneo, nei campi e nei tempi, come nella Scuola di Atene dipinta da Raffaello. Ma di loro, come di ogni autore, grande e piccino, si può dire una sola cosa che davvero li unisce in un comune, avverso destino: non hanno più eredi. Speciale oblio dei maestri investe l’Italia che più di tutti poteva nutrirsi di prestigiose eredità nell’arte, nella lingua, nella letteratura, nel pensiero. Piccola nazione, grande civiltà; grande cultura, piccolo Stato; magnifica nelle arti, nella storia e nella civiltà, malfamata nella politica, nei servizi e nella vita pubblica. Non ci sono maestri, nemmeno cattivi. Tutt’al più maestrini e funzionari intolleranti al servizio del pensiero vuoto e della visione cieca. Non maestri in grado d’insegnare qualcosa e orientare il pensiero verso una prospettiva realmente divergente rispetto allo status quo. Se c’è qualcuno, si colloca ai margini, inavvertito, nascosto, non pervenuto, disconosciuto, borderline, anzi oltre la linea. Mancando un pensiero, dispersi gli intellettuali, sparito ogni orizzonte di attesa, finiscono pure i cattivi maestri.

Al loro posto ci sono gli influencer, i manipolatori dei desideri, sull’onda delle tendenze, col loro potere di suggestione e di emulazione, tra mode e consumi; gli agenti pubblicitari, che veicolano e indirizzano la brama di merci usando modelli e tabù prescritti; i top model dello star system, gli impresari della comunicazione che non insegnano ma seducono e conformano, agendo sul linguaggio, sull’immaginario globale e sul narcisismo individuale di massa.

Tuttavia non ci rassegniamo e ripetiamo con il drammaturgo austriaco Franz Grillparzer: «Se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io sono venuto da altri tempi e in altri tempi spero di andare». Nonostante tutto, continueremo a sentirci eredi di autori e tradizioni e a onorare i maestri, i padri, i fratelli maggiori. E, se saremo soli, vuol dire che saremo in compagnia degli dei, degli assenti, degli invisibili.

Marcello Veneziani    

Quando è finita la civiltà contadina?

 

 

“Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini e di pescatori. Per questa civiltà che è ancora la civiltà presente nel Mezzogiorno, l’illuminazione di Dio era reale e importante; la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini erano importanti; gli alberi, la terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti”. Queste parole non provengono da un nostalgico sudista ma da un imprenditore del nord proiettato nell’avvenire: le pronunciò Adriano Olivetti a Pozzuoli nel 1959. Poco dopo, quella millenaria civiltà sarebbe sparita. Ma in quel tempo i contadini erano ancora la maggioranza della popolazione al sud. Chi è nato negli anni cinquanta ancora ricorda, come il sogno di un bambino, quel mondo popolato di contadini, di traini, di braccianti che vanno in piazza per essere ingaggiati; ricorda le loro case, i loro corpi piegati dalla fatica, le loro mani segnate dal duro lavoro. E poi il loro modo ruvido di essere, di parlare, di tacere, di camminare. Che fine ha fatto la civiltà contadina, ci sono ancora tracce, qualcosa riaffiora col declino della modernità industriale che ne aveva preso il posto? No, siamo passati dalla preistoria contadina alla poststoria tecno-globale; di quel mondo ora è scomparsa pure l’impronta mentale e culturale.

“Un mondo serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; quella terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive nella sua miseria e nella sua lontananza, la sua immobile civiltà su un suolo arido, alla presenza della morte”. Così scriveva un altro piemontese costretto a sud, Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli. Un ritratto tutt’altro che idilliaco di quel mondo, di cui veniva evocata la miseria. Forse i suoi occhi di confinato rendevano più triste quel mondo; ma la nostalgia a volte edulcora ricordi di una vita aspra, intrisa di amarezza e rassegnazione.

Eppure, evocando agli inizi del novecento la fine della civiltà contadina, Charles Péguy la definì “il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo”. Una rivoluzione copernicana, dove la terra non era il pianeta ma il suolo, i suoi frutti, la sua coltivazione e i suoi abitanti col loro modo di vivere. Quel vivere comunitario in sintonia con la natura, le stagioni, i suoi ritmi, le sue benedizioni e le sue sciagure, che a volte sono assai simili, differiscono solo per quantità o per tempismo… La pioggia e il sole, benedetti e maledetti…

Nel pieno della modernità industriale ci fu chi confessò di preferire quel mondo antico che precedeva la mutazione antropologica degli anni sessanta e settanta. “È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango” -scriveva PierPaolo Pasolini a Italo Calvino – “Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni primari, necessari alla loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita…”. Resta però da spiegare perché la rimpianta civiltà contadina sia stata così velocemente e così facilmente cancellata e i suoi stessi abitatori si siano così docilmente e avidamente consegnati alla società dei consumi.

L’età del pane è una bellissima espressione che si riferisce all’infanzia ma anche a quel mondo antico, ancora fermo all’età della fame. Il pane indica il bisogno elementare di una società povera e semplice, com’era quella fiorita intorno alla civiltà contadina. Chi è nato negli anni cinquanta al sud ricorda i bambini per strada, a volte scalzi, che stringevano in mano un tozzo di pane, con la mollica inumidita dalla loro saliva. Quel nutrimento basilare, quella dotazione delle madri ai loro piccoli raccontava una condizione di miseria appena sedata dai morsi più urgenti.

Parlando della civiltà contadina, ci siamo riferiti al sud ma abbiamo citato solo autori settentrionali. Bisogna leggere Corrado Alvaro, Elio Vittorini, Rocco Scotellaro, Tommaso Fiore e altri, per farsi raccontare da uomini del sud cos’era la civiltà contadina. Il calabrese Alvaro, per esempio, così commenta la fine della civiltà contadina: ”Non avrei mai pensato che ci sarebbe toccato vivere al tramonto di un mondo. Proprio ti chiedo scusa. Certo, é ridicolo che io ti chieda scusa del tempo, del secolo, dell’epoca, del mondo come va. Ma ognuno è responsabile del suo tempo”. Ma per Vittorini quella cultura contadina Sopravviveva sotto traccia. Scotellaro narrava lo strano impasto di schiavitù e libertà nella vita dei campi: “Ho perduto la schiavitù contadina,/ non mi farò più un bicchiere contento,/ ho perduto la mia libertà”. Per Scotellaro la cultura ufficiale “sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso” nel suo formarsi e modificarsi. Egli paragona i contadini all’uva puttanella che ha acini maturi ma piccoli che devono lottare con l’altra uva dagli acini più grandi per sopravvivere. Dove è finito quel “popolo di formiche” e di “cafoni all’inferno”, per dirla con Fiore? È come svanito, si è rifugiato nei ricordi. “Dopo l’imbrunire ci sediamo a cena, scodella tra le gambe, intorno al rosso focolare. Appena, poco prima, qualche lieve campano di vacche…gli operai si godono in silenzio il fuoco. Subito m’addormento come un bambino, per svegliarmi il domani, fra lo stesso suono di campani, come una carezza”. Il sogno della civiltà contadina.

Marcello Veneziani     

Il silenzio degli storici davanti allo storicidio…

 

 

Ma davanti allo scempio della storia, cancellata, distorta e maledetta, cosa dicono gli storici di professione? Tacciono, al più sussurrano sotto voce, si immergono nei loro libri e nelle letture. Eccolo, il tradimento degli storici, con la loro ignavia. Ma è possibile che nessuno storico italiano, nessun cattedratico abbia il coraggio di dire, con parole chiare e forti, che l’onda lunga di criminalizzazioni degli avvenimenti storici del passato è un’infamia che uccide la verità storica e pure la ricerca? Possibile che nel paese di grandi storici, fino ai più recenti Renzo De Felice e Rosario Romeo, non si levi una voce, non sorga un gruppo o un’iniziativa per deprecare l’uso politico e giudiziario della storia, la condanna retroattiva del passato e le cerimonie istituzionali fondate su verità di comodo, mezze, false o unilaterali? La memoria storica rinnegata o demonizzata e i film storici settari e manichei, monotoni e allineati al mainstream. Solo qualche apprezzabile parentesi come Rai storia, poi il nulla. La storia si cancella e gli storici non hanno nulla da dire?
In Italia e in Occidente assistono inermi al linciaggio permanente dei fatti e al massacro retroattivo degli avvenimenti e dei protagonisti del passato. Una società che uccide e rinnega la sua storia ha smesso di essere una civiltà; si è dimessa dalle sue radici, dalla sua identità, dalla sua dignità, dalla sua tradizione, dalle sue memorie, divise e condivise, unitarie e controverse.
In Francia sorse anni fa un’associazione di storici, Liberté pour l’histoire, per denunciare questo bavaglio ideologico-penale alla storia che in Francia è cominciato prima che da noi. Traccia di quella denuncia resta in due testi, uno di Pierre Nora e l’altro di Francoise Chandernagor, che furono pubblicati in Italia da Medusa (con un’introduzione di Franco Cardini) col titolo “Libertà per la storia”. Vi si denunciava la vigliaccheria politica e la riduzione del passato a una collezione di orrori; “la retroattività senza limiti e la vittimizzazione generalizzata del passato”. Un impianto accusatorio e moralistico che di fatto distrugge la ricerca storica, ne impedisce gli scavi e le revisioni, impone pregiudizi e scomuniche… La storia risulta davvero, come notava Nora, “un lungo susseguirsi di crimini contro l’umanità”.
Ma il problema si aggrava se si considerano le varie, ulteriori complicazioni e aberrazioni che ne discendono. La prima è che la pretesa di giudicare il passato con gli occhi, i pregiudizi, le ideologie del presente, ci porta a condannare ogni evento o personaggio che si discosti dal nostro modo di vivere e di giudicare le cose. Poi l’interdizione ricade sui viventi, serve per colpire da una parte i movimenti e la gente comune che ha opinioni differenti sulla storia e dall’altra colpisce e inibisce gli stessi storici, la loro ricerca, i loro giudizi e le loro interpretazioni. E ancora: le storie negate o travisate riguardano alcune e ne risparmiano altre: ci sono processi postumi contro la Chiesa e la fede cristiana, contro la storia nazionale, i suoi eroi e condottieri, sono criminalizzati i nazionalismi, i veri e presunti razzisti, e naturalmente i fascismi; ma non c’è la stessa condanna per ciò che accadde ad esempio nella Rivoluzione francese, la ghigliottina e il genocidio della Vandea, nelle Rivoluzioni comuniste, nei gulag e nei regimi comunisti, negli eccidi partigiani, nei bombardamenti e nei massacri compiuti nel nome della libertà e della democrazia, dalle potenze occidentali (condannate invece per quel che concerne il colonialismo). E infine, l’ultimo effetto di quest’abuso giudiziario e politico della storia è legittimare quell’ondata di demenza militante che è la cancel culture, la furia distruttrice che soprattutto in America, ma non solo, colpisce Cristoforo Colombo e l’Impero romano, i grandi del passato e i monumenti storici. In un susseguirsi di assalti, che investono dai classici ai cartoons…
A supporto di quest’ondata storicida, è sorta una legislazione abnorme in Europa e in Italia ma non si sente la voce di dissenso degli storici, a partire da quelli di grande autorevolezza o visibilità. Conosciamo bene le difficoltà che incontrerebbero: metterebbero a rischio l’accesso a ruoli di prestigio o perfino le loro cattedre, la loro visibilità in tv e nei giornaloni, le loro collaborazioni e i loro incarichi se sollevassero il velo di ipocrisia e gli anatemi dell’historically correct. Subirebbero ostracismi e linciaggi. E dunque per quieto vivere, per salvaguardare il proprio particulare, sono disposti a veder massacrata la storia, la verità e la ricerca.
Ma la storia così perde interesse e valore, diventa solo un tunnel oscuro di infamie e di orrori, da rimuovere e condannare. Accettando quell’impianto giudiziario e moralistico si firma la capitolazione della storia al presente, la sottomissione della ricerca storica alle leggi speciali e ai loro vigilanti inquisitori, la perdita della memoria storica nel nome di una “pulizia etica” subordinata alle verità dominanti, somministrate dall’egemonia ideologica vigente.
Si può dunque parlare di tradimento degli storici per viltà e omertà. Ogni tradimento della verità, dei fatti e dei giudizi saggi si avvale della complicità o quantomeno del silenzio-assenso di quanti dovrebbero obiettare, denunciare, dissociarsi e non lo fanno. Troppi storici appartengono a questa vil razza dannata, anzi d’annata, per restare nella materia.

 Marcello Veneziani                

Pensiamo al futuro, ma senza esagerare…

 

Lungotermismo. La parola è brutta ma il significato è promettente, forse esaltante, comunque liberatorio. Finalmente in un’epoca tutta risolta nella fretta, nel presente, nel cortotermine senti che sta nascendo una corrente filosofica, addirittura, che ci riporta al pensare in grande e in lungo, visionaria e lungimirante. Il fatto che il pensare a lungo termine abbia attecchito in particolare a Silicon Valley e che abbia conquistato i miliardari della valle tecnologica, lo rende forse più promettente, ma già sorgono i primi sospetti. Capisci subito che non di visione del mondo e concezione della vita si tratta, non di filosofia, ma del tema solito della sopravvivenza del pianeta e quindi delle generazioni che verranno. Senti odor di Greta Thunberg, di green, di chi vuol salvare il pianeta mentre va in rovina l’uomo; anzi chi vuol salvare il pianeta dall’uomo. Aria pura senza gli umani.

Ho letto la circostanziata inchiesta di Milena Gabanelli sul Corriere.it e non ripeterò i nomi, sconosciuti a voi quanto a me, di questi veri o presunti filosofi, ricercatori e impresari. Ma sono già impressionato dai numeri: si dice che l’Homo sapiens abbia solo 300 mila anni (conosco una girandola di dati assai divergenti in merito) mentre i suddetti lungotermisti si occupano dei prossimi 700mila anni che sarebbe la prospettiva normale o naturale di sopravvivenza di una specie di mammiferi. Trovo lungimirante chi si occupa dei nostri figli e dei nostri nipoti, o della nostra civiltà misurata a millenni; ma tutto ciò che si prospetta oltre i duemila anni, che sono un po’ l’unità di misura indotta dall’avvento del cristianesimo, mi sembra perdersi nell’indeterminato. Anzi, a dirla tutta, chi pretende di occuparsi dei prossimi settecentomila anni non è previdente e premuroso ma velleitario e presuntuoso. Ma davvero noi viventi in transito siamo in grado di tutelare migliaia di generazioni che verranno dopo di noi e che secondo gli schemi tecno-progressisti saranno molto più evoluti e tecnologicamente più potenti di noi? Giù la testa, limitatevi a fare la vostra parte, accontentatevi di parlare di tempo futuro o di scommettere sull’eternità; ma non pensate di programmare l’avvenire per una milionata d’anni o poco meno. Non è cosa nostra.

Il discorso si fa più ragionevole quando viene indicato un periodo di riferimento più circoscritto: quando si dice, per esempio, che corriamo il serio rischio nei prossimi cinquant’anni di un’espansione incontrollata dell’intelligenza artificiale col rischio di espugnare, esautorare l’umano. A cui viene aggiunto il rischio di nuove pandemie e guerre nucleari. Sono pericoli reali perché non riguardano tempi per noi impensabili ma li stiamo già vivendo, si sono già manifestati. Dunque, ce ne possiamo occupare.La fine della vita intelligente sulla terra è un pericolo tutt’altro che remoto o indefinito: se deleghiamo tutto agli algoritmi, e a quella che chiamiamo erroneamente Intelligenza Artificiale mentre è un Cervello Elettronico (l’Intelligenza non è un fatto solo fisico, neurocerebrale, come invece è il cervello), rischiamo davvero di trovarci un giorno, senza rendercene conto, con la mente atrofizzata e il cervello infilato dentro una selva oscura di procedure, stimoli esterni, controlli e indirizzi venuti dalla Macchina. Torna la vena megalomane, anzi la pazzia, quando il discorso riprende la via lattea, ovvero quando i lungotermisti progettano di colonizzare altri pianeti perché qui c’è sovraffollamento: l’idea non è del tutto folle e utopistica, qualcosa si sta già muovendo, ma è così complesso programmare migrazioni planetarie di massa, traslochi popolari interstellari, che un po’ di sano e ironico realismo ci vuole per stabilire la differenza tra ciò che si può fare e ciò che si può solo immaginare. Sfamate chi oggi ha fame piuttosto che puntare tutto sulle tecnologie innovative, dice uno scienziato che tocca le corde della Gabanelli; e anche questo è bello a dirsi, più difficile a farsi ma qualcosa di concreto si può fare.

Resta inquietante la prospettiva che il destino dell’umanità sia affidato ai giganti della Big Tech, che non so fino a che punto si faranno guidare da sapienti e benefattori dell’umanità e non da aspiranti padroni del mondo. Musk è già tra i migliori, ma resta inquietante la sua pretesa di guidarci nel futuro, fin dentro il cervello; mi accontenterei che desse un supporto costruttivo a Trump per andare alla Casa Bianca e fare qualcosa di buono. Alcuni leader politici, intanto, si lasciano tentare dal lungotermismo; non vorrei malignare, ma sono tutti ex premier che una volta fuori gioco, se non diventano consulenti e conferenzieri come Billy Clinton, Tony Blair e Matteo Renzi, si mettono a giocare al Futuro e al Globale interplanetario. Alla fine mi pare che sia più saggio lo scienziato Federico Faggin, citato nell’inchiesta del Corriere, scettico sul lungotermismo, che considera “materialista” e impegnato ad accrescere il potere e il profitto dei Signori del Big Tech; e frena sull’intelligenza artificiale, di cui riconosce i grandi vantaggi ma li circoscrive in un ambito che non potrà mai sostituire l’autocoscienza, il libero arbitrio e il progetto umano. La macchina non ha etica, non ha cuore, non ha sensibilità, non ha anima e non può amare né suscitare amore né generare amando. Alla fine il pallino torna al punto di partenza, all’uomo, con la sua ricerca, la sua grandezza e i suoi limiti. E torna al nostro tempo, al nostro mondo, a noi viventi.

State contenti umana gente al quia, dice Dante, non pretendiamo di sostituirci al divino o al mistero e alle migliaia di generazioni che verranno; limitiamoci a provare la difficile impresa di salvare la nostra civiltà, l’umanità presente, con la sua cultura e la sua natura, l’intelligenza e il pensiero dai pericoli di oggi e di domani, e non tra cinquecentomila anni. Consegnamo degnamente il mondo ai nostri successori secondo tradizione; tra diecimila generazioni non è compito nostro, eccede dalle nostre competenze e facoltà. Pensare lungo, vedere ampio, ma senza pretese milionaristiche, esagerazione iperbolica del millenarismo. Quando vedo la terra nello spazio come una briciola dispersa nel cosmo, mi casca il mondo; e a nostra volta siamo briciole disperse dentro quella briciola di pianeta, non possiamo pretendere di guidare l’universo e fare programmi per il prossimo milione d’anni. Facciamo la nostra parte, fino in fondo, lasciamo le nostre tracce, preoccupiamoci del mondo che lasceremo ai nostri figli e nipoti. Al resto, se ci credi, ci pensa Dio. Il destino è più grande della nostra volontà.

Marcello Veneziani      

L’Occidente, le armi e il nulla…

 

 

L’Occidente ha distrutto le basi su cui è poggiato: la cristianità, lo Stato sovrano, la civiltà del diritto, il pensiero critico e la storia. Non è più la guida del mondo, è disfattista al suo interno e bellicoso all’esterno, crede di salvarsi con la forza delle armi e l’uso intermittente dei diritti dei popoli e delle nazioni. Ha perso l’intelligenza del reale, la capacità di capire il mondo e la vita, abdicando in favore di un individualismo radicale asservito alla tecnica e alla finanza. Ha perduto il pensiero critico che sa distinguere e il pensiero fondativo che sa generare.
Ho letto e condiviso La sconfitta dell’Occidente di Emmanuel Todd, edito da Fazi, e ricaverò dalla sua impietosa analisi alcuni spunti decisivi per comprendere lo stato delle cose. Todd è uno storico, antropologo e sociologo francese, autore di libri importanti.
Infilarsi nel conflitto russo-ucraino e anzi favorirlo, appoggiarlo, parteciparvi è stato per Todd l’errore fatale dell’Occidente; la Russia è rimasta stabile, non cederà sull’Ucraina, che sta perdendo, come ha avuto il coraggio di dire Viktor Orban al Parlamento europeo. Appiattita sulla Nato e sugli Stati Uniti l’Europa sta offrendo lo spettacolo di “un suicidio assistito”. Mentre il resto del mondo preferisce sempre più chiaramente la Russia all’Occidente ai piedi degli Usa. Todd fa un paragone storico interessante: “la Russia comunista aveva trovato un alleato nel proletariato occidentale, quella divenuta oggi conservatrice troverebbe ancora i propri alleati nelle classi operaie dell’Occidente, divenute anch’esse conservatrici (più che populiste o di estrema destra)”. L’asse Washington-Londra-Varsavia-Kiev è oggi la direttrice principale del potere americano in Europa. Inoltre, a suo parere, l’opera di macelleria compiuta a Gaza dallo Stato d’Israele, soprattutto con armi americane, e accettata dall’Europa, ha spinto l’intero mondo islamico, Turchia e Iran inclusi, dalla parte dei russi. Per non dire degli altri fronti aperti. Todd sottolinea che “l’immoralità dell’Occidente di fronte alla questione palestinese non ha fatto altro che rafforzare l’ostilità del Resto del mondo”.
L’Ucraina che l’Occidente vorrebbe adottare, con la sua indipendenza nel 1991 – dopo secoli di appartenenza alla Russia prima zarista e poi sovietica- aveva perduto già prima della guerra milioni di abitanti per via dell’emigrazione, dominata dagli oligarchi e dalla corruzione, al punto da sembrare un paese in vendita con un potere che elimina il dissenso, la stampa non allineata e i gerarchi caduti in disgrazia con metodi non migliori di quelli russi. La scomparsa della nostra capacità di concepire la diversità del mondo, nota, ci impedisce di avere una visione realistica della Russia.
Osserva Todd che l’ipotesi di una ripresa militare-industriale degli Stati Uniti è da escludersi in forza della scarsità di ingegneri a loro disposizione, rispetto ai russi (e ai cinesi) e per la loro predilezione per la produzione di denaro anziché di macchinari.
Il collasso morale e sociale deriva a suo dire dal collasso del protestantesimo, che rende irreversibile il declino americano e apre gli Usa e l’intero occidente al destino del nichilismo. Da allievo di Max Weber osserva che se il protestantesimo è stato la matrice del decollo dell’occidente e del capitalismo, ora è la sua morte a causarne la dissoluzione.
Intanto lo stato-nazione si dissolve e trionfa la globalizzazione; gli individui sono ormai privi di qualsiasi credenza collettiva. Il collasso della religione ha spazzato via il sentimento nazionale, l’etica del lavoro, il concetto di una morale sociale vincolante, la capacità di sacrificarsi per la comunità. Todd distingue altre fasi prima di giungere allo “stadio zero” della religione dove i valori non contano più e ne attesta l’avvento attraverso l’osservazione di pratiche cadute velocemente in disuso nei battesimi, nei decessi, nella partecipazione alle funzioni domenicali, ma soprattutto con l’equiparazione tra i matrimoni omosessuali e quelli tra uomo e donna.
Ci era stato prospettato che l’individuo sarebbe stato più grande una volta liberato dal collettivo e dai legami sociali; invece è accaduto il contrario: l’individuo, dice Todd, può essere grande solo all’interno e attraverso una comunità. “Stiamo diventando una moltitudine di nani mimetici che non osano più pensare con la propria testa ma che si dimostrano capaci di intolleranza tanto quanto i credenti di un tempo”. Ci è rimasto il bigottismo intollerante, non l’uso dell’intelligenza critica.
Attualmente, rileva Todd, l’Europa si trova impegnata in una guerra contraria ai suoi interessi e autodistruttiva; l’Unione Europea è scomparsa dietro la Nato, oggi più che mai asservita agli Stati Uniti, con un tasso di ubbidienza prossimo al 100%, in un clima totalitario. La Russia, nota, non rappresenta alcuna minaccia per l’Europa occidentale: in quanto potenza conservatrice, oggi come ai tempi del Congresso di Vienna, nel 1815, il suo desiderio è di creare una partnership economica con l’Europa, in particolare con la Germania. È nel suo interesse avere una sponda europea.
L’Unione appare a Todd un sistema pesante e complesso, ingestibile e letteralmente irreparabile; “il lato oscuro del desiderio sarebbe che la guerra liberasse l’Europa da se stessa”. Del resto, una nazione è un popolo reso cosciente da un credo collettivo e una élite che lo governa in base a tali convinzioni. Restano solo i popoli. E conclude notando che nell’era della religione zero, cresce un bisogno primario di violenza. Da qui la diagnosi che ho inevitabilmente riassunto: l’Occidente è affetto da nichilismo che è rifiuto della realtà, bisogno di distruzione di sé e degli altri, negazione della verità e di ogni comprensione ragionevole del mondo. L’analisi è tranchant, forse troppo, anche se supportata da molti dati e da argomentazioni convincenti.
A mio giudizio non si tratta di tornare indietro, impresa impossibile, e nemmeno di arrendersi ai regimi autocratici, teocratici e dispotici, e adattarsi ai loro inaccettabili modelli. Si tratta, invece, di pensare il nuovo, il sacro, la sovranità, il legame sociale, a partire dal rapporto tra élite e popolo, con le prime ormai ridotte a oligarchie autoreferenziali e i secondi a massa globale.
E di darsi una missione, compatibile con la realtà e le eredità della civiltà.
“La sconfitta dell’occidente” di Todd rischia di rientrare nel fiorente filone apocalittico che da un secolo a questa parte annuncia il tramonto dell’Occidente. Ma aiuta al risveglio brusco dal sonno della ragione, che genera mostri e spinge l’avanzata del nulla in Occidente. Il nulla armato.

Marcello Veneziani  

C’è posto per Battiato in Chiesa?

 

È bene, è giusto accogliere in chiesa eventi che esulano dalla liturgia cattolica e dalla vita cristiana? Lo chiedo nel giorno di San Francesco, il santo più amato dai laici e dai non credenti. Non mi riferisco alle chiese sconsacrate ormai aperte a eventi musicali, teatrali, culturali, mostre di ogni genere o trasformate in locande e resort per la ristorazione e l’albergo. Dico invece di chiese, cattedrali, dove si celebrano messe, eucarestia e sacramenti.
Sabato scorso sono stato a un suggestivo concerto della musica mistica di Franco Battiato nel duomo di Ibla dedicato a san Giorgio. Il concerto era nell’ambito della rassegna Oltre il sipario a cura di Vicky e Costanza Di Quattro. Canti di forte intensità spirituale, di un cantautore da me prediletto, eseguite in modo appropriato, alla presenza dell’arcivescovo di Ragusa, entusiasta, del parroco riluttante e di un vasto uditorio. Battiato non era un cattolico e un credente, la sua “mistica leggera” attinge a tradizioni esoteriche e religiose e repertori spirituali assai diversi: dall’Islam all’Induismo, da René Guénon a Georges Ivanovič Gurdjieff, dagli sciamani ai dervisci, ai Sufi, fino alle teorie della reincarnazione, come nella sua ultima canzone E torneremo ancora. In più aggiunge una venatura gnostica e l’influenza di un pensatore siciliano compiutamente e dichiaratamente ateo, “empio” e nichilista, Manlio Sgalambro, legato da forti vincoli di amicizia e di collaborazione canora con Battiato.
Il concerto di Battiato in cattedrale ha suscitato la comprensibile perplessità di qualche osservante della tradizione: si può ammettere in chiesa il canto di Giuni Russo, la cantante precocemente scomparsa che si unì in sodalizio canoro con Battiato, seguì la sua linea spirituale ed esoterica, ma poi si convertì alla fede cristiana, nel nome di Santa Teresa d’Avila e incontrò in convento la mistica cristiana. Ma Battiato resta estraneo alla fede cristiana…
Non è la prima volta che la musica leggera entra in chiesa, in cattedrale, in convento. È accaduto tante volte. Anzi, a dir la verità, è entrato ogni genere musicale: mi è capitato di sentire in chiesa o’Sole mio, e di riascoltarla in un rito nuziale nel duomo di Cuzco in Perù. Quando fu liquidato l’austero ordo missae in latino, fu come diffuso un tacito “rompete le righe”. Ricorderete le schitarrate, i capelloni, la musica pop e ogni altro genere di incontro in chiesa col mondo beat, hippie, sessantottino… Si svuotavano le chiese ma si aprivano alla musica alternativa.
Qualcuno potrà ancora obiettare che la musica leggera in fondo è innocua, non scalfisce minimamente la fede; più insidiosa è invece la spiritualità, in forma new age, esoterica, gnostica, i surrogati di religione o di altre religioni. Comprendo l’apprensione e apprezzo il rigore.
Ma non dimentichiamo che la cristianità, ai suoi albori e poi anche dopo, convisse con altri culti e altri riti, le chiese furono spesso erette su templi pagani e la sacralità precristiana dette linfa alla santità cristiana. Molti culti pagani, molte divinità furono trasfigurati nella cristianità, nelle icone, nelle devozioni e nelle leggende dei santi e della Madonna.
Se agli albori vi fu questo innesto e questa trasfusione, forse non è infondato che analoghi innesti, analoghe trasfusioni, o quantomeno incontri, aperture, vi possano essere nell’epoca del suo tramonto, o nel tempo della scristianizzazione. Certo, i pericoli ci sono, le ambiguità e i malintesi sono possibili, ma la cristianità – che vive tra ricorrenti contaminazioni col mondo secolarizzato e profano e con le esperienze odierne – può ritrarsi davanti a espressioni reali di spiritualità e di attenzione al sacro? Non si tratta di irenismo o di sincretismo, ma della capacità di confrontarsi e in una certa misura di trarre spunto, alimento e ispirazione da altre esperienze del sacro senza rinunciare alla propria. Questa mia convinzione discende dagli studi di Mircea Eliade ma anche di Frithjof Schuon che parlava dell’unità trascendente delle religioni, come Guénon: le religioni, diceva, sono come raggi di una ruota che tendono tutti verso lo stesso centro metafisico. Ciascuno percorre il raggio a lui più consono, quello in cui è nato e cresciuto, e che più rappresenta la tradizione della sua famiglia, del suo popolo, della sua civiltà, il suo lessico, la sua sensibilità. Certo, questa visione non si sposa facilmente col rigore della dottrina cristiana, con l’incontro con Gesù Cristo, “Io sono la via, la verità, la vita” (Giovanni, 14, 6). Ma la verità, spiegava Vincenzo Gioberti, filosofo e sacerdote, è un poligono, ciascuno conosce solo un lato; la verità suprema e integra la conosce solo Dio. Un modo per accettare con umiltà i propri limiti, e non ergersi a depositari esclusivi della verità, detentori di un monopolio che poi diventa prevaricazione: la verità esiste ma non ne possediamo le chiavi, piuttosto siamo abbracciati dalla verità, che ci trascende.
Anche l’esperienza musicale e spirituale di Battiato è un modo per avvicinarsi al Divino, per aprirsi all’Essere, per lodare l’Uno o l’Inviolato, come dice una sua canzone. Non è fede, dottrina, pratica religiosa, ma ci avvicina, per certi versi può preparare, comunque fa bene alla nostra anima. Lo stesso vale per i conventi che ospitano gli incontri con il poeta Franco Arminio e la sua idea del sacro “quotidiano”, “paesano”, “rupestre”.
La vera differenza tra l’ecumenismo filantropico che si è insinuato nella Chiesa dai tempi del Concilio Vaticano II e l’unità trascendente delle religioni è quella che corre tra il dissolversi orizzontale della cristianità nei precetti sociali, umanitari, cosmopoliti, etici o vagamente morali; o intraprendere la salita, il cammino in verticale, trovando conforto anche in altre esperienze religiose o spirituali.
E’ un discorso delicato, difficile, che non può essere sbrigato nell’arco di un articolo; ma importante nell’epoca dell’irreligione e della desacralizzazione.
L’avversario primario del cristianesimo non è la religione altrui ma la negazione di ogni fede e di ogni trascendenza o la loro sottomissione a un disegno predominio e di annientamento altrui nel nome di un dio, un demone o un idolo sterminatore. Detto in altre parole: il pericolo per i cristiani non è la diversa esperienza del sacro o la diversa espressione del cammino spirituale ma è il nichilismo o il fanatismo, e la mescolanza tra i due, anche travestita in “pappa del cuore”.

Marcello Veneziani   

Il vittimismo è l’ideologia dominante…

 

 

Quando non è accusata di fascismo, Giorgia Meloni e il suo mondo sono accusati di vittimismo. Appena denuncia un attacco, una manovra, una campagna contro di lei o sua sorella, contro Fratelli d’Italia o il governo, scatta l’accusa di atteggiarsi a vittima. Il sottinteso è la sindrome del complotto, con la sua dietrologia; o in chiave puerile, la sindrome di Calimero: ce l’hanno tutti con me solo perché sono piccolo e nero, diceva il pulcino di una pubblicità ignota ai minori di cinquant’anni, che oggi sarebbe vietata per apologia di fascismo…
Per i più navigati nella storia della destra e della sua cultura la Meloni non usa solo un repertorio propagandistico per mantenere i consensi e giustificare le difficoltà ma il vittimismo sarebbe una malattia endemica nel mondo politico e culturale della destra nazionale, sociale e radicale nostrana. Il solito, lagnoso vittimismo, che denuncia da decenni discriminazioni, ghettizzazioni, esclusioni e censure nei confronti di chi “non è allineato” o è fuori dalla cerchia e dal Palazzo.
Riconosco che questa tendenza al vittimismo è in effetti presente nella mentalità politica e culturale della “destra” (lasciate che metta tra virgolette una definizione sempre più irreale); arrivo a dire che forse è quella l’unica, vera indole che accomuna politici e intellettuali della cosiddetta “destra”.
Ma appena si allarga lo sguardo al mondo circostante, si fanno i paragoni e si osserva la realtà in cui viviamo, il responso assume un’altra, sorprendente valenza. A ben pensarci, il vittimismo è l’ideologia implicita e sottostante del nostro tempo; sorregge le più importanti giustificazioni culturali e morali, nonché il senso di superiorità della cultura egemone e fonda l’antifascismo.
Da dove nascono l’ideologia woke, il politically correct e la cancel culture se non dalla tutela dei diritti e dal risarcimento dei popoli, generi, minoranze, culture, scelte, reputate vittime di discriminazioni, fobie, intolleranze, violenze? Tutelare le minoranze omosessuali o transgender, vittime dell’omofobia; tutelare i migranti dalla xenofobia o dall’islamofobia; tutelare i neri, vittime del razzismo; tutelare i rom, vittime della zingarofobia. La stessa battaglia per la parità delle donne sorge perché vittime del maschilismo, del patriarcato, delle violenze misogine e dalle discriminazioni sessuali.
Il vittimismo trova la sua legittimazione storica e ideale in rapporto al Male Assoluto, il nazismo e i suoi parenti: la prima Vittima per antonomasia, è l’Ebreo. Tutto il giudizio storico contemporaneo parte dall’ossequio alla Vittima della Shoah. La destra ne fece il verso con i martiri delle foibe.
Sul piano storico la memoria, le strade, le rievocazioni riguardano solo le vittime; ogni evento, ogni protagonista, ogni eroe, re e conquistatore, cede il posto alla vittima, anche nella toponomastica. E l’anticolonialismo cos’è se non un’apoteosi del vittimismo?
Ma anche la vita sociale e civile esige una speciale protezione della vittima; la scuola deve prima di tutto tutelare chi non ce la fa, vittima del sistema meritocratico e dell’impietoso darwinismo sociale; nello sport le pararlimpiadi assumono pari rilevanza delle olimpiadi, per la speciale tutela che si deve alle vittime della sorte (peraltro ammirevoli). E persino nelle gare olimpioniche, la stupida, demagogica idea di premiare i quarti, rispetto alla terna che sale sul podio – un’idea che mortifica e sovverte lo spirito dello sport e il suo legittimo e leale agonismo (vinca il migliore) – è un ulteriore frutto del vittimismo.
Risalendo alle origini del vittimismo c’è una distorsione della morale cristiana, la difesa dei martiri, dei deboli, dei poveri, degli umili, degli oppressi. L’impianto vittimario e sacrificale della storia, notava René Girard, ha una derivazione cristiana, in parte giudeo-cristiana.
Ma la carica di rivalsa che accompagna il vittimismo, in realtà, è una derivazione della lotta di classe di matrice comunista: vittime di tutto il mondo unitevi, sovvertite l’ordine che finora vi ha relegato fuori, sotto, in basso nella scala sociale; gli ultimi saranno i primi, diceva il Vangelo, ma il marxismo corregge, la dittatura degli ultimi (o meglio di coloro che parlano in loro vece) sarà necessaria per rovesciare le leggi infami della realtà, della natura e del mondo. Il vittimismo è l’ideologia dominante del nostro tempo, anzi, meglio, è l’ideologia su cui si fonda la dominazione del nostro tempo. Non è certo appannaggio esclusivo della Meloni.
Ma torniamo al mondo da cui proviene la Meloni. Il vittimismo della “destra” è una ritorsione, una reazione, al dominio vittimista che s’impone dappertutto. In realtà la vera indole della destra, più che il vittimismo è il “vintimismo”, ossia la passione per i vinti, la propensione scandalosa per tutti coloro che persero, con onore, nella storia: dagli esuli di Coblenza al tempo della rivoluzione francese ai nostalgici dei Borbone e degli Asburgo, dai sudisti agli indiani d’America ai fascisti che combatterono sapendo di perdere. L’archetipo, per così dire, è Ettore nel canto di Omero, o Leonida alle Termopili coi suoi trecento spartani. O i samurai, i tibetani, coloro che difesero città assediate e civiltà perdute.
L’adozione delle vittime al posto dei vinti segna un cambio di passo: dagli eroi ai martiri, così la destra risponde allo spirito del nostro tempo. Poi, nella prassi quotidiana, diventa a volte alibi furbo per mascherare le proprie sconfitte o le proprie incapacità e insufficienze. Il vittimismo viene usato per generare solidarietà e dissimulare i propri insuccessi.
Ma dopo aver compiuto una lunga navigazione nel vittimismo, nelle sue matrici, declinazioni ed espressioni odierne, torniamo alla realtà. Resta il fatto che davvero la destra è stata per decenni il mondo escluso, definito non a caso il ghetto; la sua cultura è stata ed è ancora interdetta e malvista, esclusa o mal sopportata dal potere culturale dominante. Ed è innegabile che certe cose consentite agli altri, e soprattutto alla sinistra, sono vietate alla destra; se prova a farlo, si grida allo scandalo. Lo si vede nelle leggi, nelle nomine, nei criteri usati. Per non dire delle campagne e delle manovre mediatiche e giudiziarie per far cadere il governo di destra o per impedire in tutti i modi che altrove vada al potere.
Alla fine ci troviamo davanti a un duplice paradosso: il vittimismo non è la consolazione di chi sta sotto ma è l’ideologia di chi sta sopra: è usata dai ceti dominanti per affermare e consolidare la loro supremazia. Altro che religione degli oppressi… La stessa cosa succede a rovescio al governo: Meloni si dice vittima eppure sta al governo. Evidentemente il governo è una cosa e il potere è un’altra… Quel doppio esito è il paradosso cornuto del vittimismo.

Marcello Veneziani