Il vittimismo è l’ideologia dominante…

 

 

Quando non è accusata di fascismo, Giorgia Meloni e il suo mondo sono accusati di vittimismo. Appena denuncia un attacco, una manovra, una campagna contro di lei o sua sorella, contro Fratelli d’Italia o il governo, scatta l’accusa di atteggiarsi a vittima. Il sottinteso è la sindrome del complotto, con la sua dietrologia; o in chiave puerile, la sindrome di Calimero: ce l’hanno tutti con me solo perché sono piccolo e nero, diceva il pulcino di una pubblicità ignota ai minori di cinquant’anni, che oggi sarebbe vietata per apologia di fascismo…
Per i più navigati nella storia della destra e della sua cultura la Meloni non usa solo un repertorio propagandistico per mantenere i consensi e giustificare le difficoltà ma il vittimismo sarebbe una malattia endemica nel mondo politico e culturale della destra nazionale, sociale e radicale nostrana. Il solito, lagnoso vittimismo, che denuncia da decenni discriminazioni, ghettizzazioni, esclusioni e censure nei confronti di chi “non è allineato” o è fuori dalla cerchia e dal Palazzo.
Riconosco che questa tendenza al vittimismo è in effetti presente nella mentalità politica e culturale della “destra” (lasciate che metta tra virgolette una definizione sempre più irreale); arrivo a dire che forse è quella l’unica, vera indole che accomuna politici e intellettuali della cosiddetta “destra”.
Ma appena si allarga lo sguardo al mondo circostante, si fanno i paragoni e si osserva la realtà in cui viviamo, il responso assume un’altra, sorprendente valenza. A ben pensarci, il vittimismo è l’ideologia implicita e sottostante del nostro tempo; sorregge le più importanti giustificazioni culturali e morali, nonché il senso di superiorità della cultura egemone e fonda l’antifascismo.
Da dove nascono l’ideologia woke, il politically correct e la cancel culture se non dalla tutela dei diritti e dal risarcimento dei popoli, generi, minoranze, culture, scelte, reputate vittime di discriminazioni, fobie, intolleranze, violenze? Tutelare le minoranze omosessuali o transgender, vittime dell’omofobia; tutelare i migranti dalla xenofobia o dall’islamofobia; tutelare i neri, vittime del razzismo; tutelare i rom, vittime della zingarofobia. La stessa battaglia per la parità delle donne sorge perché vittime del maschilismo, del patriarcato, delle violenze misogine e dalle discriminazioni sessuali.
Il vittimismo trova la sua legittimazione storica e ideale in rapporto al Male Assoluto, il nazismo e i suoi parenti: la prima Vittima per antonomasia, è l’Ebreo. Tutto il giudizio storico contemporaneo parte dall’ossequio alla Vittima della Shoah. La destra ne fece il verso con i martiri delle foibe.
Sul piano storico la memoria, le strade, le rievocazioni riguardano solo le vittime; ogni evento, ogni protagonista, ogni eroe, re e conquistatore, cede il posto alla vittima, anche nella toponomastica. E l’anticolonialismo cos’è se non un’apoteosi del vittimismo?
Ma anche la vita sociale e civile esige una speciale protezione della vittima; la scuola deve prima di tutto tutelare chi non ce la fa, vittima del sistema meritocratico e dell’impietoso darwinismo sociale; nello sport le pararlimpiadi assumono pari rilevanza delle olimpiadi, per la speciale tutela che si deve alle vittime della sorte (peraltro ammirevoli). E persino nelle gare olimpioniche, la stupida, demagogica idea di premiare i quarti, rispetto alla terna che sale sul podio – un’idea che mortifica e sovverte lo spirito dello sport e il suo legittimo e leale agonismo (vinca il migliore) – è un ulteriore frutto del vittimismo.
Risalendo alle origini del vittimismo c’è una distorsione della morale cristiana, la difesa dei martiri, dei deboli, dei poveri, degli umili, degli oppressi. L’impianto vittimario e sacrificale della storia, notava René Girard, ha una derivazione cristiana, in parte giudeo-cristiana.
Ma la carica di rivalsa che accompagna il vittimismo, in realtà, è una derivazione della lotta di classe di matrice comunista: vittime di tutto il mondo unitevi, sovvertite l’ordine che finora vi ha relegato fuori, sotto, in basso nella scala sociale; gli ultimi saranno i primi, diceva il Vangelo, ma il marxismo corregge, la dittatura degli ultimi (o meglio di coloro che parlano in loro vece) sarà necessaria per rovesciare le leggi infami della realtà, della natura e del mondo. Il vittimismo è l’ideologia dominante del nostro tempo, anzi, meglio, è l’ideologia su cui si fonda la dominazione del nostro tempo. Non è certo appannaggio esclusivo della Meloni.
Ma torniamo al mondo da cui proviene la Meloni. Il vittimismo della “destra” è una ritorsione, una reazione, al dominio vittimista che s’impone dappertutto. In realtà la vera indole della destra, più che il vittimismo è il “vintimismo”, ossia la passione per i vinti, la propensione scandalosa per tutti coloro che persero, con onore, nella storia: dagli esuli di Coblenza al tempo della rivoluzione francese ai nostalgici dei Borbone e degli Asburgo, dai sudisti agli indiani d’America ai fascisti che combatterono sapendo di perdere. L’archetipo, per così dire, è Ettore nel canto di Omero, o Leonida alle Termopili coi suoi trecento spartani. O i samurai, i tibetani, coloro che difesero città assediate e civiltà perdute.
L’adozione delle vittime al posto dei vinti segna un cambio di passo: dagli eroi ai martiri, così la destra risponde allo spirito del nostro tempo. Poi, nella prassi quotidiana, diventa a volte alibi furbo per mascherare le proprie sconfitte o le proprie incapacità e insufficienze. Il vittimismo viene usato per generare solidarietà e dissimulare i propri insuccessi.
Ma dopo aver compiuto una lunga navigazione nel vittimismo, nelle sue matrici, declinazioni ed espressioni odierne, torniamo alla realtà. Resta il fatto che davvero la destra è stata per decenni il mondo escluso, definito non a caso il ghetto; la sua cultura è stata ed è ancora interdetta e malvista, esclusa o mal sopportata dal potere culturale dominante. Ed è innegabile che certe cose consentite agli altri, e soprattutto alla sinistra, sono vietate alla destra; se prova a farlo, si grida allo scandalo. Lo si vede nelle leggi, nelle nomine, nei criteri usati. Per non dire delle campagne e delle manovre mediatiche e giudiziarie per far cadere il governo di destra o per impedire in tutti i modi che altrove vada al potere.
Alla fine ci troviamo davanti a un duplice paradosso: il vittimismo non è la consolazione di chi sta sotto ma è l’ideologia di chi sta sopra: è usata dai ceti dominanti per affermare e consolidare la loro supremazia. Altro che religione degli oppressi… La stessa cosa succede a rovescio al governo: Meloni si dice vittima eppure sta al governo. Evidentemente il governo è una cosa e il potere è un’altra… Quel doppio esito è il paradosso cornuto del vittimismo.

Marcello Veneziani  

Niente novità, non aspettiamo nessuno…

 

Non aspettiamo nessuno. Se dovessi riassumere in una frase il sentimento prevalente nel nostro Paese, il tratto comune e per certi versi la novità del momento, direi proprio così: non aspettiamo nessuno.

Ferragosto è il vero spartiacque tra l’anno vecchio e l’anno nuovo. Si spezza la sequenza dei giorni, finisce un periodo, un ciclo e ne comincia un altro. E nel giorno in cui si cominciano a riaprire gli occhi fino a risalire all’incipit di settembre, ci accorgiamo di questa novità: che non ci sono novità, non si aspettano arrivi, non attendiamo qualcuno o qualcosa che da qualche parte porterà cambiamenti, svolte, ad ogni livello. Sul piano politico, che è poi il più vistoso, non cova nessuna novità nella pancia del Paese: tutti i soggetti in campo, dico tutti, sono stati al governo negli ultimi cinque anni, ogni partito ha avuto un ruolo di governo e di coabitazione, oltre quello periferico delle amministrazioni locali. E non c’è nessuna forza nuova, intonsa, che si profili in qualche angolo della realtà. Il leader più giovane guida il partito più vecchio, con una consuetudine di potere e di egemonia ormai proverbiali: dico Elly Schlein e il Pd. Antico sembra ormai il movimento 5 Stelle, che pure era il più giovane e radicale movimento di contropotere; oggi ha la conformazione di un camaleonte coi reumatismi, che si muove a scatti, anchilosato e mutante; ma non rappresenta la novità, semmai il più recente passato da cui vogliamo fuggire. Novità furono Grillo e Casaleggio, e poi Di Maio e Di Battista, ma Conte è tutto meno che una novità. Frattaglie sclerotizzate vegetano ormai da anni ai bordi della politica, da Calenda a Renzi, dai rossoverdi ai residui radicali. Centrini che non ce l’hanno fatta, movimentini da passeggio; tutto risaputo da tanti, troppi anni. L’ultima novità, seppure non assoluta, era Giorgia Meloni, che veniva dall’opposizione al tempo delle ultime ammucchiate. Nel paragone con gli altri leader è ancora la più verace, non dirò genuina o sincera ma con una sua autenticità, proviene dalla vita politica anche sul territorio; usa un gergo politico ancora legato alla realtà e alle passioni, anche quando è fatto di slogan, non è un prodotto “artificiale” come la Schlein o Conte. Ma è al governo da due anni, ci abbiamo fatto l’abitudine a vederla nei vertici interni e nei consessi internazionali, non c’è più l’effetto novità, e la sua prima preoccupazione per restare in sella è rassicurare, fugare ogni possibile segno di frattura e di novità.  I suoi alleati sono ormai stagionati, i loro partiti sono vecchie conoscenze da almeno trent’anni. L’ultima novità risale ai loro fondatori, più di trent’anni fa. E minestre riscaldate sono ormai i tecnici al governo che periodicamente ricicciano in un paese eurodipendente e sbilanciato, sempre in bilico tra guerre bipolari e tregue inciuciose, tra scontentezza e rassegnazione. Che dovrebbero ogni volta trarci in salvo ma fanno solo manutenzione per conto di poteri sovrastanti.A confermare al massimo livello il girare a vuoto della politica, i suoi circoli viziosi, è la presenza di un replicante al Quirinale: per la prima volta nella storia della repubblica abbiamo lo stesso Presidente del Consiglio per ben due mandati, quattordici anni. Il Mattarella bis è la prova più altolocata e schiacciante che il Pd non ha mai lasciato il Palazzo ed è nelle sedi istituzionali, anche internazionali. Il ritornello si è incantato, dopo il vecchio non arriva il nuovo ma lo stravecchio, ossia il vecchio che continua. Insomma non ci sono novità all’orizzonte, quel che può succedere è solo qualche avvicendamento di routine, cambi della guardia al Palazzo, staffette, turnazioni e rotazioni, non svolte o progetti innovativi. Non aspettiamo che arrivi nessuno da nessuna parte: da sinistra o da destra, dal centro o dall’Europa, dai tecnici o dall’antipolitica, dai verdi o da ogni altro colore.

C’è chi dice che una democrazia matura sia proprio questo, tutto avviene dentro il range prescritto, senza salti o fratture; la mano passa tra soggetti ben noti e collaudati, usato sicuro, senza mai fuoruscire dal programma, dalle direttive internazionali e dal pacchetto prestabilito. Però un paese si spegne quando non aspetta niente e nessuno, né da chi c’è già, né da chi vorrebbe subentrare al suo posto, semplicemente perché nel giro precedente era già lì, e dunque già sappiamo quanto valgono, cosa fanno e come si muovono.  Le ultime novità o new entry della politica, non possono produrre alcun tipo di svolta, rappresentavano solo curiosità d’assortimento delle offerte in catalogo: dico la Salis, Mimmo Lucano, Vannacci. Sono single senza voce in capitolo, che si perdono tra settecento e rotti europarlamentari, non possono incidere su nulla, non ne avrebbero la forza, prima ancora di chiederci se ne hanno il proposito e la capacità. Un nuovo movimento politico, con un minimo di prospettive, non si vede ormai da non so quanti anni.     Ma la politica è solo la punta dell’iceberg di un più profondo malessere sociale e civile, morale e psicologico che tocca l’animo e la vita degli italiani, o degli europei. Perché quel “non aspettiamo niente e nessuno” in realtà investe la cittadinanza anche in ambiti privati o nelle relazioni sociali e non risparmia le comunità a tutti i livelli. Questo stato d’animo potremmo riassumerlo in una espressione: demotivati. Siamo demotivati, perché delusi e in precedenza illusi da troppe aspettative, perché anziani, con una popolazione di pensionati ormai debordante; ma soprattutto abbiamo perso la vitalità e la vivacità che denotano le società giovani, intraprendenti, dinamiche.  Viviamo però nell’agiatezza e nella longevità, non ci mancano i conforti e i surrogati, non viviamo male e in modo così infelice. E poi vale sempre il proverbio “niente nuove buone nuove”. Però quel tarlo ci corrode, quell’assenza di aspettative, quella demotivazione che si legge nelle facce e nelle parole è il malessere maggiore che cova nella società del benessere. Dovrebbe essere quella domanda il punto di ripartenza: perché non aspettiamo nessuno che bussi alla porta, cosa è successo?

  Marcello Veneziani    

Giardino d’infanzia …

 

 

Ma com’erano i bambini quando nascevano in branchi e non in campioni unici e irripetibili, e in casa anziché in ospedale? Provo a rinfrescarvi la memoria con graffiti di preistoria ripescati dall’infanzia. Piccoli quadretti di scarso valore rubati all’oblio, per raccontare, tramite storie minime, la dolce fatuità del passato.

*Passa l’angelo e dice amen. Da bambino appena facevi una smorfia, una boccaccia o peggio imitavi uno storpio, genitori e adulti ti ammonivano: non farlo, sennò passa l’angelo e dice amen; ti fa rimanere per sempre così. C’è pure una canzone di De Gregori sul tema. Ho sempre pensato con apprensione a quest’angelo feroce, veloce e privo di senso dell’ironia che ti faceva restare per sempre con la boccaccia, il viso mostruoso e la gamba zoppicante. La faccia d’angelo, i modi celestiali, e poi, con quella purezza divina, con una parolina ti rovina per sempre…Amen, così sia. Ma perché questa tempestiva ed esagerata punizione per uno scherzo da bambini? Rovesciai la teologia che considerava i diavoli come angeli decaduti, convincendomi al contrario che gli angeli fossero diavoli progrediti, dalle buone maniere e dalla carnagione bianca, ma terribili quanto i loro più abbronzati colleghi del piano inferiore. E mi convinsi che gli handicappati fossero in origine bambini dispettosi che erano stati puniti per la loro disobbedienza. Cave signatos, si diceva crudelmente allora, altro che inclusione per i diversamente abili. (Risvolto da non rimpiangere).

*Perché le figurine dei calciatori, associate nella memoria infantile agli album Panini, ebbero grande successo da noi? Si, perché il calcio era lo sport più popolare, perché ogni bambino sognava di essere campione in erba e si giocava dappertutto. Ma c’è una ragione in più, e più profonda, che sfugge: perché il nostro era il paese dei santi e dei santini, la figura del santo era il passepartout del paradiso, lo scudo di protezione, la carta d’indentità patronale di un paese, l’eredità degli dei pagani lasciata alla civiltà cristiana. Non divinità discese dal cielo, non angeli venuti a soccorrerci e a custodirci, ma umanità salita al cielo, gente come noi che aveva compiuto il cammino di fede, opere e dedizione ed era diventata intermediaria col divino. La nostra era la civiltà dei santi e le figurine erano la continuazione dell’agiografia in ambito sportivo; così come i santini dei candidati erano la promessa elettorale, lo scambio tra voto e protezione, preferenza e raccomandazione, tra credenti e potenti. Ogni bambino aveva il suo patrono nel calcio, il suo santino preferito, il suo modello. Santi, santini e figurine erano le icone degli influencer di quel tempo.

*La mia play station dell’infanzia fu un agnello vero, adottato per capriccio in casa. Fui accontentato fino a quando pretesi di mangiare con lui sul pavimento, a quattro zampe, dalla stessa scodella. Non volevo umanizzare l’agnello ma ovinizzarmi io, in una fraternità evangelico-zoologica. Mi tolsero l’agnello per non farmi aderire al gregge. Dissero che se n’era voluto andare lui, per tornare da sua madre. Anche tu avresti fatto la stessa cosa.

*In quel tempo ero buono e volevo alleviare le fatiche domestiche di mia madre. E siccome era uscita, come quasi mai faceva, mi intrufolai in cucina e vidi un cartoccio traboccante di merluzzi che mia madre avrebbe pulito al suo rientro. Pensai di fare cosa utile lavando i merluzzi con il detersivo. Salii sulla sedia e li lavai nel lavandino con Olà, confezione blu con strisce bianche e rosse. Diventarono brillanti le squame dei merluzzi nella schiuma, sembravano pezzi d’argenteria. Sapevano di bucato. Mostrai orgoglioso la mia opera a mia madre. Notai però, con sorpresa, un segno d’ingratitudine in lei. Quel giorno, stranamente, mangiammo per secondo uova al tegamino. Che fine avranno fatto i pesci?

*A casa mia non avevamo ancora la tv e il frigorifero, per l’acqua fresca bastava farla scorrere dal rubinetto; primo segno di novità, era appeso al muro un topone nero a due teste, dotato di coda e guscio, che squittiva, chiamato telefono. 921585, il primo numero non si scorda mai. Era nel corridoio perché la telefonata aveva una valenza corale, famigliare e doveva essere breve, comunicare l’essenziale, come un ricetrasmittente militare. Passo e chiudo. In teleselezione, poi, ancora più brevi e si alza la voce, perché parla da remoto.

Una sera scoprì la modernità. Andai a trovare un mio amico, Maurizio, che aveva i genitori più giovani dei miei, era nato a Roma, aveva il televisore in casa, e pure il frigorifero e il termosifone. Coetaneo, abitante di fronte a casa mia, ma mille anni più avanti. A casa sua scoprì che c’era l’acqua minerale frizzante in bottiglie di plastica, c’erano le bustine di idrolitina e si poteva tracannare a cannella, prelevandola direttamente dal frigo, previo schiacciata di pedale del bestione bianco; senza miscelarla, come invece raccomandavano i miei genitori, con acqua a temperatura ambiente per evitare sicure morti per congestione. E alla fine della bevuta, visto il gas, era giustificato anche un rutto di adulta mondanità. C’era un riassunto epocale in quella bevuta, quante libertà in un solo gesto: acqua ghiacciata del frigo, gassata, bottiglia in plastica, bevuta a cannella, rutto incontenibile… Ammazza che modernità.

*A quattro anni sniffavo e cadevo in ecstasy olfattiva con turbe pseudoerotiche puerili. Lo spacciatore era il barbiere. Dopo lo spruzzo di un orrendo, bruciante profumo sulla nuca arrossata, donava sottobanco calendari profumati con donne dalle tette esagerate su vitini di vespa. Il calendario emanava un odore inebriante: il primo erotismo fu per via inalatoria, in sinestesia con la vista. Ma a 4 anni, le confondevo con le figurine Mira Lanza, quella eccessiva gibbosità anteriore e posteriore era ai miei occhi di bambino solo una monelleria del disegnatore e una caricatura femminile.

*Una di quelle sere di fine autunno in cui ti aspetti che dalla cucina ti chiami tua madre o tuo padre a mangiare castagne arrostite. Tu stai facendo i compiti e senti il profumo delle caldarroste impregnare la stanza e salire dalle narici. Felicità è quella pausa odorosa e quelle mani che liberano il frutto giallo e nero dalla buccia arrostita, quel goloso mangiare insieme, tra mani di carbone e punte fredde delle dita che frugano tra caldi frutti…Nostalgia delle castagne di casa. Dal tegame bucato entrano fiamme ed escono ricordi brucianti. La fiamma dei ricordi.

 Marcello Veneziani            

Camilleri e De Crescenzo scrittori pop, non giganti..

Nella stessa settimana di mezza estate, un luglio di cinque anni fa, il Sud, l’editoria italiana e la letteratura popolare persero due grandi pop-writer e due figure pubbliche con grande seguito: Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo. Entrambi hanno reso più accattivante il sud, i suoi linguaggi, il suo modo di vivere e di pensare, la Sicilia di Camilleri e la Napoli di De Crescenzo. La sorte ha dato a Camilleri il privilegio di vivere una lucida e riverita vecchiaia, ha recitato per vent’anni il ruolo di Grande Vecchio e di Oracolo Siculo della Tv e delle Lettere. Invece ha dato a De Crescenzo un ventennio di declino e di ritiro dalle scene pubbliche per ragioni di salute. Ricordo vent’anni fa a una cena De Crescenzo si presentò esibendo un biglietto preventivo di scuse perché non riconosceva i volti delle persone, anche a lui note o addirittura amiche. I primi tempi si pensò a una spiritosa trovata dello scrittore, che conoscendo molte persone non ricordava i loro nomi e dunque era un modo gentile e simpatico per scusarsi in partenza della distrazione e non passare per superbo e scostante. In realtà soffriva di prosoagnosia, una malattia seria.

Entrambi sono stati scrittori assai popolari, e l’uno deve molto alla traduzione televisiva dei suoi romanzi, l’altro al cinema e alla partecipazione attiva nella simpatica scuola meridionale di Renzo Arbore. De Crescenzo si tenne sempre lontano dalla politica e dalle ideologie, si definì monarchico, indole di destra ma votante a sinistra, un po’ ateo e un po’ cristiano, ma preferì non mischiarsi nelle vicende della politica. Camilleri invece da anni ormai aveva assunto il ruolo di testimonial della sinistra, si era schierato apertamente in modo radicale, con qualche nostalgia del comunismo e un’antipatia viscerale che tracimava nell’odio verso Berlusconi ieri e verso Salvini di recente, fino alla famosa dichiarazione del vomito. Ma per giudicare un autore si deve avere l’onestà intellettuale e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nella letteratura. A questo criterio ci sforziamo di attenerci, ma l’aperto schierarsi di Camilleri gli è valso da morto una glorificazione veramente esagerata. Mentre De Crescenzo ha avuto un trattamento sottotono.  Eppure De Crescenzo, oltre a riabilitare con arguzia il sud, aveva avuto il merito non secondario di aver reso simpatica e popolare la filosofia a tanti, e soprattutto la filosofia antica. Aveva reso famigliare la figura di Socrate, i presocratici, lo Zarathustra nietzschiano, stabilendo un ponte con la Magna Grecia. I professori di filosofia trattavano con sussiego De Crescenzo, come se fosse un abusivo del pensiero e un profanatore della filosofia: ma lui non ha trascinato in basso la filosofia, ha innalzato il lettore comune facendogli scoprire e amare la saggezza dei filosofi. Lui è stato un campione amabile di filosofia pop. Quanti accademici contemporanei hanno allontanato i lettori dalla filosofia, coi loro linguaggi involuti che nascondevano scarsa originalità e più scarso acume. Allontanavano la gente senza avvicinarsi alle vette del pensiero. Meglio De Crescenzo a questo punto…

Dal canto suo Camilleri è stato uno scrittore di talento, ha inventato un suo linguaggio gustoso e simil-siciliano, ha scalato le classifiche librarie quanto e più di De Crescenzo, anche perché la narrativa tira più della saggistica, le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo, aiutato dal successo televisivo di Montalbano che è una delle fiction più vendute nel mondo.  Ma i necrologi agiografici, gli infiniti servizi dedicati dai tg, i paragoni con Pirandello e Verga, e perfino con i classici, non gli hanno reso un buon servizio.   Quando muore un personaggio pubblico bisogna rispettare la memoria e difenderlo dai suoi detrattori come dai suoi esagerati incensatori. Camilleri intrigava con le sue trame, sapeva gigioneggiare in video e sul palco, col suo tono da cassandra sicula e l’aura istrionica del vegliardo, assumendo un ruolo ironico-profetico. Grande affabulatore. Sul piano civile, sbandierava l’antifascismo, seppure molto postumo, ieri antiberlusconiano, poi antisalviniano. Una polizza per farsi incensare, come era già avvenuto in vita, e come è avvenuto in morte. Era uno scrittore bravo, un giallista e un autore di polizieschi di successo, non un Gigante, non il Grande Scrittore che entra nella storia della grande letteratura. Non esagerate, Camilleri rimane nella bestselleria corrente e nella personaggeria di scena del nostro tempo. Non rendetelo ridicolo, paragonandolo a Pirandello e Verga e pure a Sciascia. E’ come se negli anni trenta avessero paragonato Guido da Verona e Pitigrilli, autori di successo e di talento, a D’Annunzio e Pirandello. Via, abbiate senso della misura e delle proporzioni. Non mettetegli pennacchi e aureole, abbiate rispetto di un morto; lo scrissi allora sui social e oltre a una marea di consensi ricevetti insulti isterici dai suoi fan, che sono spesso lettori di un solo autore, non hanno termini di confronto, e credono che leggere Omero o Camilleri, Proust o Saviano sia la stessa cosa. La mia polemica non era rivolta contro Camilleri ma contro chi lo usa per scopi politici e lo innalza a tal punto da rendergli un cattivo servizio. Sappiate distinguere il successo dalla gloria, il cantastorie dalla storia, il “colore” dal pensiero. Pirandello descrisse a teatro la condizione dell’uomo contemporaneo, la perdita delle verità, l’avvento del relativismo; Camilleri seppe intrattenere, piacevolmente, migliaia di lettori e milioni di spettatori. Sono due cose diverse. Camilleri non è Pirandello, e De Crescenzo non è Benedetto Croce. Lo dico per difendere la verità e la memoria di ambedue, De Crescenzo e Camilleri.

Marcello Veneziani                                                                                      

La sposa faidate, lui non lo sa..

Viva la sposa autarchica di Martina Franca. Una ragazza di quarant’anni si sposa in chiesa, nella bella chiesa di San Martino del bellissimo borgo pugliese, nei giorni del festival della Valle d’Itria; fa addobbare la chiesa di fiori, spende una cifra per il ricevimento nuziale, arriva in auto vestita da sposa e aspetta invano il suo sposo; ha deciso di convolare a nozze all’insaputa del suo prescelto o nonostante il suo parere contrario. Poi quando il parroco la invita a lasciare la Chiesa per evidente vizio di procedura, non può celebrare con lo sposo contumace, lei decide di sfogare nel mare di Puglia la sua solitudine di sposa faidate, autoreferenziale, solitaria. E il naufragar è salato in questo mare… Una storia surreale, per certi versi romantica, che colpisce in modo particolare me che scrissi anni fa La sposa invisibile. Stavolta invisibile è lo sposo, che esiste ma non ha mai detto di si alla sposa, si dice anzi che sia già impegnato.
La storia si può interpretare in tre modi diversi. Il primo è che l’amore di coppia è fondato su un elementare principio: la reciprocità. Mancando quella prima condizione, manca di conseguenza tutto il resto. Certo, l’amore è asimmetrico, a volte si ama senza essere (del tutto) ricambiati ma non si può prescindere dal consenso, almeno iniziale. Ci sono persone rimaste sole tutta la vita perché non sono riuscite a dimenticare o rimpiazzare il loro amore perduto. Esistono poi gli amori ideali, all’insaputa dell’amato o senza il suo consenso. Ma gli amori ideali non pretendono di convertirsi in realtà ad ogni costo. Restano nella sfera ideale, come l’amore di Dante per Beatrice e di Leopardi per Silvia, e si sublimano in ispirazione poetica. Diventano invece persecutori, paranoici e anche aggressivi quando pretendono amore anche se non sono ricambiati. I casi peggiori viaggiano tra lo stalking e la violenza, fino a uccidere la persona amata.
In questo caso pugliese l’amore autarchico non infierisce sulla persona amata; si limita alla scena virtuale, alle nozze unilaterali e incompiute.
Qui si accede a un secondo livello. Ed è quel fenomeno sociale, ormai diffuso da più di trent’anni, tra il Giappone e gli Stati Uniti, che è la sologamia. A differenza della sposa pugliese, le nozze qui non prevedono la presenza neppure virtuale – in cartonato o in ologramma – di uno sposo reale; è un consapevole matrimonio solo con se stessi. Una pratica più diffusa tra le donne, in misura minore dagli uomini; di chi sente il bisogno di celebrare il suo statuto di singolo, sposandosi con se stesso. Un amore narcisistico che nel mio libro dedicato all’Amore necessario ho catalogato attraverso la formula Io amo Io. Certo, un matrimonio così non ha bisogno di una chiesa e di un sacerdote, e nemmeno di un ricevimento, ma è in totale autarchia, è solipsismo nuziale, autosufficienza amorosa, una forma nuova di onanismo nuziale. È il sintomo più vistoso della solitudine contemporanea, la perdita dei confini tra il virtuale e il reale, l’individuo assoluto che non ha bisogno di nessuno e si marita con se stesso, in selfie, pur sapendo che la scelta non produce autogravidanza, al più ricorre a uteri in affitto e fecondazioni artificiali. Del resto, la nostra società prevede l’esistenza della famiglia mononucleare, che non allude alla mononucleosi ma vuol dire che il singolo fa famiglia da solo; da non confondere con la famiglia monoparentale, dove c’è un solo genitore ma ci sono figli, magari frutto di precedenti unioni. A me sembra assurdo e del tutto improprio definire famiglia qualcosa che ne è la negazione, perché priva di un noi. Chiamatelo come sempre è stato, celibato; la donna che non si sposa, da noi in Puglia, è chiamata vacantina, alludendo alla vacatio maritale; non si è sposata, è rimasta signorina.
A proposito, qui si accede al terzo livello, si lascia il nostro tempo e si entra invece nel nostro luogo. Il matrimonio resta nel sud, anche in tempi di single e di matrimoni di breve durata, il culmine della vita personale e sociale, il principale investimento famigliare e la principale industria, con un indotto pazzesco. Nozze che costano un occhio della testa, ricevimenti che dissanguano famiglie, feste che durano tantissimo, in proporzione più dei matrimoni che celebrano. Non a caso, in Puglia vengono a sposarsi anche pascià e sultani, perché la festa nuziale da loro dura a lungo, per giorni. Dodici ore filate tra attese, messa, lancio del riso, servizio fotografico, pranzo infinito, ballo, trenino, presepe familiare e amicale al completo; sfibrano anche i più volenterosi sposi e i più eroici invitati. E li conducono già durante il ricevimento a delineare separazioni e rotture tra i clan familiari. Il matrimonio al sud, in Puglia, è un test psico-attitudinale di convivenza nella lunga durata che comporta pazienza, resistenza, recita ad oltranza, capacità di sopportare il caldo e altre avversità: è davvero una scuola di alta formazione al sacrificio per mettere su famiglia.
In passato ho raccontato che in una interminabile festa nuziale, corse come una invocazione diffusa, il paragone tra nozze e funerali e la preferenza per questi ultimi: le celebrazioni funebri durano meno, non devi farti l’abito per la cerimonia, non devi dissanguarti coi regali e i ricevimenti; il morto non dà bomboniere e muore una volta sola, invece gli sposi a volte si risposano; ai funerali puoi partecipare anche restando in disparte, dopo la messa devi solo sobbarcati una breve passeggiata detta corteo funebre; e non c’è il disc jockey. Insomma, capite, se si arriva a rivalutare perfino i funerali, c’è qualcosa di perverso e di insopportabile in quelle cerimonie nuziali. Nozze, voce imperfetta del verbo nuocere. Si aggiunga che in Puglia il lancio del riso è considerato troppo lieve, da noi il riso va di solito con patate e cozze; ma il lancio di riso patate e cozze colpirebbe molto più pesantemente gli sposi e i loro accoliti, detti testimoni, lasciandoli felici e contusi.
Invece la sposa autarchica di Martina Franca ha sognato di sposarsi anche senza sposo e senza invitati, pur prevedendo in astratto entrambi. Si è sobbarcata gli oneri nuziali e ha risparmiato al mondo e allo sposo presunto quella terribile giornata nuziale nel caldo torrido di luglio. Dite quel che volete, ma considero questa scelta il più grande dono d’amore che la sposa ha fatto al suo sposo riluttante e ai suoi cari…

Marcello Veneziani.         

Il cardinale, lo scienziato e l’aldilà…

 

 

Che sarà di noi? Alla fine è questa la domanda che rivolgiamo al religioso, al filosofo e allo scienziato. Ci giriamo intorno e parliamo di tante altre cose che ruotano intorno a quell’interrogativo ma quando si va a stringere è quella la domanda delle domande a cui vogliamo una risposta o anche solo un conforto quando ci sporgiamo oltre la vita.
C’è un dopo? è il titolo del libro scritto dal cardinale Camillo Ruini, alla veneranda età di 93 anni, dedicato all’Aldilà. Parallelamente leggevo un nuovo libro del fisico e inventore Federico Faggin, Oltre l’invisibile. Dove scienza e spiritualità si uniscono (entrambi editi da Mondadori). Alla stretta finale, quando devono affrontare il tema cruciale, l’appuntamento con la morte, sia l’uomo di fede che l’uomo di scienza fondano la loro fiducia e la loro convinzione non sulle certezze religiose né sulle verità scientifiche, ma sui racconti di esperienze vissute al confine tra la vita e la morte.
“La verità è che non lo sappiamo” confessa il cardinal Ruini che poi si affida alle testimonianze di persone, oggetto di studi scientifici, a un passo dalla morte e poi tornate alla vita. Scrive il cardinale: “L’ammalato può udire il medico che lo dichiara morto, poi ha la sensazione di entrare in un tunnel lungo e oscuro; quindi improvvisamente si ritrova fuori dal proprio corpo, che ora può vedere dall’esterno e dall’alto, insieme ai medici e infermieri che lavorano su di esso. Scopre così di possedere un altro corpo, molto diverso da quello fisico che ha abbandonato, e dotato di facoltà nuove. Gli si fanno incontro altri defunti, in particolare parenti e amici che lo aiutano, e soprattutto gli appare un essere di luce, uno spirito d’amore che gli fa rivivere gli avvenimenti più importanti della sua esistenza. A un tratto si trova vicino a un confine che sembra essere quello tra la vita terrena e l’altra vita. Sente di dover tornare sulla terra perché non è ancora arrivato per lui il momento della morte, tenta di opporsi perché è ormai affascinato dall’altra vita, ma si riunisce in qualche modo al proprio corpo fisico e torna in questo mondo”. Questi racconti, dice il prelato, somigliano a quelli di grandi mistiche come Caterina da Siena o anche al mito di Er narrato da Platone, l’uomo risuscitato che aveva poi narrato il suo viaggio ultraterreno. Pure lo scrittore cattolico Antonio Socci lo raccontò in Tornati dall’aldilà (Rizzoli).
Anche lo scienziato Faggin fonda la sua convinzione di una vita invisibile oltre la morte richiamandosi alle “esperienze di premorte sperimentate da centinaia di migliaia di persone”. E accoglie come possibile benché inspiegabile la testimonianza di una donna che diceva di aver visto una persona appena deceduta in ospedale entrare dalla finestra per congedarsi da sua moglie sofferente in un lettino dello stesso ospedale nel piano inferiore. Un racconto che lascia turbati ma ancor più sorprende se a riferirlo è uno scienziato.
Faggin, fisico e inventore del microprocessore e del touchscreen, entra da scienziato in territori lontani dalla scienza e dalla fisica, riguardanti la metafisica e la filosofia dell’essere ma anche l’etica e la religione. Per Faggin la scienza si occupa del come, la spiritualità del perché; la loro correlazione è necessaria. La coscienza, per lui, viene prima del cervello e della materia, “è fondamentale e irriducibile”. Contrariamente a ogni riduzionismo evoluzionista,”dal più può derivare il meno, ma non viceversa”. Ovvero dal superiore discende l’inferiore, non il contrario; è possibile il degrado, l’involuzione, la decadenza; mentre si può pensare il progresso, l’evoluzione, lo sviluppo solo tramite l’intervento di forze superiori. Faggin respinge sia il caso che il creazionismo, e quando parla di spiritualità va oltre le religioni e abbraccia idee (come la reincarnazione e l’unità delle religioni) che vanno oltre il cristianesimo. In tema di reincarnazione Faggin si spinge a sostenere: “E’ quasi certo che ci sia la reincarnazione. C’è anche evidenza scientifica in bambini che si ricordano della vita precedente e che riportano fatti salienti di una vita che non hanno alcuna ragione di conoscere. Fatti che sono stati poi verificati”. E conclude che “la reincarnazione è sensata” perché non avrebbe senso vivere una sola vita. Tesi suggestiva, argomentazione un po’ fragile.
Lo scienziato ci fa sapere che dopo un’adolescenza di credente e osservante, secondo una rigida educazione cattolica (si faceva la comunione tutti i giorni) e una gioventù-maturità da materialista e scientista, è infine approdato, attraverso una vera e propria illuminazione, a una visione spiritualista integrale che espone con argomenti scientifici, citazioni di filosofi e passione di missionario. A volte cede a qualche venatura new age, o a quella “pappa del cuore” che copre come una glassa umanitaria il cinismo del nostro tempo. Torna più lucido quando parla con realismo dell’intelligenza artificiale, delle sue possibilità e dei suoi limiti. A differenza del robot noi abbiamo coscienza, comprensione dei fenomeni, siamo creativi; ma soprattutto la forza che ci muove è l’amore, mentre nessuna I.A. è mossa da amore, è in grado di amare né di generare amore. Faggin chiama Nousym il ponte tra scienza e spiritualità, sintesi di mente e simbolo.
Torniamo alla domanda iniziale: non troveremo mai una risposta certa e definitiva. Però sappiamo che per trovare il cammino e per dare un senso alla ricerca, dobbiamo rimettere insieme le sette vie: il mito, la religione, il pensiero, l’arte, la scienza, la storia e la biologia, senza saltarne nessuna.

 Marcello Veneziani

Temendo la brace, la Francia resta in padella…

 

A sentire i telegiornali, a leggere i giornali, in Francia e in Europa, c’è un sollievo generale. Tutti contenti, finito l’incubo, pericolo scampato, rompete le righe. Vince il Fronte popolare, siamo liberi e felici. Il quotidiano L’Unità, organo di retroguardia della sinistra condensa le sciocchezze del mainstream in un titolo a tutta pagina: Siamo tutti antifascisti, inneggiando alle piazze di Parigi e d’Europa che hanno sconfitto Le Pen dimostrando che la sinistra è viva. Senti i tg della Rai, i famosi melones, che dicono: che sollievo, sono stati i giovani, le piazze, le donne a far vincere la sinistra…
Un cumulo di sciocchezze e ipocrisie. Per cominciare, astensionisti a parte, il primo partito che raccolse il 34 per cento dei voti è stato il Rassemblement di Le Pen. Voto popolare, nazionale, giovanile, operaio, femminile. Come ci può essere sollievo generale in Francia per la sconfitta di chi avevano votato più di tutti? Al primo turno gli altri partiti furono sconfitti. Ma siccome il sistema elettorale consente di sommare gli sconfitti in un Fronte fondato sulla desistenza nelle candidature, la somma degli sconfitti ha sconfitto il vincitore. Il risultato non rispecchia la volontà degli elettori, perché ogni singolo addendo, almeno a livello popolare, non aveva nulla a che spartire con gli altri. In quella somma la sinistra ha la sua quota divisa in tre forze; il resto sono centristi, macroniani e liberali.
La sinistra non ha vinto un bel niente; è stato Macron il Furbo che dal primo momento – e lo scrivemmo già quando annunciò di voler sciogliere il Parlamento- ha scommesso sulla partita Le Pen contro il resto del mondo, giocando cioè sul fatto che lei non aveva possibilità di trovare alleati al secondo turno. E avrei scommesso da subito che sarebbe finita così. Lui, l’Impopolare, viene salvato dal Fronte Popolare degli Sconfitti. La loro unione, lo vedono tutti, è fondata solo sull’impedire a Le Pen di andare al governo. Non è un’unione per la Francia ma una conventio ad excludendum. Non è pro ma anti. Ecco perché tengono in piedi quel fantasma putrefatto che è l’antifascismo, ottant’anni dopo che il fascismo è morto. Perché con quella formula surreale impediscono il cambiamento, salvo poi dividersi nel dopo, e proseguire nella miseria di governi impopolari. Macron campa su questo da anni, ma non solo lui.
In Italia quella formula la invocano sempre e tuttora è l’unico collante, l’unica prospettiva, l’unica strategia che sanno mettere in piedi. Di fronte alla chiamata antifascista non ti puoi tirare indietro. Cos’è poi la chiamata antifascista, in che cosa consiste a parte la seduta spiritica di far rinascere il fascismo? Consiste nel rifiuto della sovranità popolare e nazionale nel nome dell’unione europea, cioè delle élite che governano l’Europa e dei poteri annessi; rifiuto che viene tradotto in antirazzismo. Poi consiste nel rifiuto della famiglia naturale, dei legami comunitari, della civiltà e delle tradizioni nel nome dei diritti civili tipo aborto e nei diritti gender riassunti in quel codice fiscale mezzo algebrico diventato mantra, lgtbq+ a cui aggiungerei l’asterisco, che sostituisce ogni fine parola con o e con a (beati i sardi che finiscono molte parole in u, e così scampano la militante idiozia del neutro). E consiste infine nell’accoglienza dei migranti, la cancellazione della propria civiltà e delle radici civili e religiose per far posto a chi viene da fuori; e nel richiamo retorico alla pace (salvo guerre a getto continuo, corsa ad armarsi, ma sempre per scopi democratici, umanitari, anzi pacifisti). Il tutto incipriato nel verde; ma se lo fa la destra è ecofascismo.
La formula politica dell’antifascismo, che da noi si chiamò arco costituzionale, è la stessa da più di sessant’anni: centro-sinistra.
Il centro-sinistra globale, che esclude ogni destra che non voglia diventare reggicoda del medesimo centro-sinistra globale (nome in codice: Ursula). Detto in breve: o la Meloni si taianizza, o finisce ai vannacci.
Sul piano dei sistemi l’antifascismo nasconde il tradimento della sinistra nei confronti della lotta al capitalismo: il capitale diventa alleato perché il nemico supremo da abbattere è sempre e solo il fascismo (che non esiste). Così Mélenchon fa patti con Macron, la sinistra diventa ovunque la guardia bianca del capitale. Cosa riceve in cambio? L’adozione del proprio manuale ideologico antifascista, filo-migranti e filo-transgender. Al di là di una spruzzatina pop sui temi sindacali e sociali, la sinistra di fatto non sogna alcun superamento del capitalismo, è dentro il suo mondo e la sua tabula rasa, concorre a cancellare la civiltà ereditata; il suo nemico non è più il Padrone, i ricchi, i giganti della finanza e i potenti, che sono invece suoi alleati, ma la famiglia, la civiltà tradizionale, la sovranità nazionale e popolare, riassunti nella formula diabolica del fascismo, con aggravante obbligata del razzismo. A dir la verità anche le destre, pur ai margini, sono dentro lo stesso acquario capital-occidentale, salvo comizi.
La formula viene applicata ovunque. Se tu per esempio denunci, come è capitato a me, che un treno ad alta velocità e lungo percorso non può abbandonare a metà corsa sui binari, per sciopero, i viaggiatori, tra cui donne, bambini, disabili, trovi sempre quattro coglioni di sinistra (non trovo definizione migliore, le altre sono peggiori) che ti attaccano: ah, il solito fascista, vuole abolire il diritto di sciopero. I problemi concreti del presente, il disagio reale dei cittadini, cancellati dal solito mantra ideologico di un secolo fa. A questo serve l’antifascismo, usato dai cinici furbi e dai cretini acidi.
L’Eliseo per Marine Le Pen è il supplizio di Tantalo, potrà anche prendere il 40% ma con quel sistema elettorale al secondo turno sarà sempre sconfitta. Le occorrerà al primo turno la maggioranza assoluta. Altrimenti ci sarà sempre un Mélenchon a fare l’antisistema ma poi ad accettare il patto col diavolo pur di non far vincere il super-diavolo (inesistente), il Fascismo. Su queste pantomime regge il potere.
Trasferite ora la vittoria degli sconfitti che si apprestano a non governare la Francia nel caso italiano e nell’euforia della sinistra nostrana. Ci sono due differenze con la Francia: il sistema elettorale qui non è di doppio turno e la destra, grazie a Berlusconi (va detto), ha la possibilità di coalizzarsi e governare. Non c’è nulla da imparare dalla Francia, è roba vecchia anche da noi, nulla di nuovo: è Fritto Misto nelle urne e Aria fritta per il Paese. Temendo la brace inesistente del fascismo, l’Unione ciechi di Francia ha scelto di restare in padella. Friggetevi.

Marcello Veneziani   

E il vertice lasciò solo voglia di Puglia…

 

 Cosa ha lasciato di buono il summit del g7 in Puglia? La Puglia. Il vertice coi grandi del pianeta non sembra aver lasciato importanti eredità, svolte o grandi risultati. Di quell’affollata concentrazione di potenti in quella fettina di terra contesa col mare e baciata dal sole, resta lei, la Puglia, una regione scoperta solo col terzo millennio. Prima era nel lato d’ombra della storia e della geografia. Parlavi d’Italia e ti venivano fuori, dopo Roma, le città d’arte o d’affari. Parlavi di regioni e ti spuntava la Toscana, l’Umbria o se scendevi a sud i nomi sulla bocca di tutti erano Napoli e la Sicilia. Anche la storia d’Italia è stata fatta sul versante tirrenico; pure i Mille di Garibaldi mica pensarono di passare dal versante adriatico. Così la filosofia, la letteratura, l’arte, in Magna Grecia, hanno nomi grandi e pensieri illustri su quel versante, non in Puglia.    Fino agli anni novanta Bari era Beri, caricatura malevola di tanti comici e caratteristi locali, elevati a potenza da Lino Banfi. Fece impressione trent’anni fa un film del grande Clint Eastwood, I ponti di Madison County, in cui la protagonista, la grande Meryl Streep, confessava di essere originaria di Bari. Che stravaganza, e che miracolo quando pure Clint nel film confessava di conoscere Bari, era stato per imbarcarsi per la Grecia (ecco, cos’era la Puglia, il trampolino di lancio per la Grecia); aveva visto Barivecchia e gli era piaciuta nonostante all’epoca fosse considerata zona pericolosa, in mano a malavita e scippatori.  Certo, c’erano Renzo Arbore e Domenico Modugno, ma uno passava per napoletano (come il molfettese Riccardo Muti, del resto) e l’altro si spacciava per siciliano. Sul piano politico, c’era stato Aldo Moro, ma la sua identità, come la sua inflessione, appariva così flebile e vaga, anzi ondivaga, tra Roma e Bisanzio, tra la Dc, l’Ateneo e un generico Levante; Moro era pugliese solo per i pugliesi, non per tutti gli altri. Si veniva in Puglia magari per Padre Pio, ma lui era di Pietrelcina e parlava con inflessione napoletana-sannita. Al più c’era il Gargano. Insomma la Puglia passava inosservata. Poi, verso la fine dello scorso millennio qualcosa è accaduto. Il declino di Napoli e del resto del sud, bollato col marchio mondiale di mafia, ‘ndrangheta e camorra, rispetto a cui la malavita pugliese era poca cosa nonostante il nome fastoso di Sacra corona unita. Poi la scoperta di piatti e prodotti della natura pugliese: fave e cicorie, lampascioni e cime di rape, riso, patate e cozze. Madò, che goduria… Quindi l’exploit del cinema e delle fiction in tv, che trovarono la loro location naturale in Puglia e dintorni. La masseria pugliese, i paesi bianchi, i trulli, la controra, le meraviglie barocche di Lecce, le vecchie baresi che fanno le strascinate – le orecchiette- su strada, il pesce crudo, di casa a Bari e Taranto prima del sushi giapponese; una scia di folclore, la scoperta del Salento… Su quella scia il successo pazzesco di Checco Zalone, la pizzica e la taranta, l’arrivo dei vip nelle campagne pugliesi. Com’è bello far l’amore da Vieste in giù…È stata un’escalation, che stava cominciando a incrinarsi per eccesso di turismo, overdose di film e pugliofilia; quando è arrivato il vertice del G7 a Borgo Egnazia e dintorni. Migliaia di giornalisti, non solo telefonini ma telecamere puntate sulla Puglia, trulli in mondovisione. Prima la contesa tra i castelli svevi per ospitarli, quello di Federico a Castel del Monte o a Barletta, alla fine si è scelto quello di Brindisi; i Grandi portati in giro, in ogni senso, a vedere le ceramiche di Grottaglie come una qualunque comitiva di crocieristi, tipo laboratorio di tappeti alla casbah. Poi i Big tra gli Ulivi, la voce di Bocelli, le mangiate, e che mangiate. Si, il pescato del giorno, taralli e focacce, le lasagne e varie prelibatezze non solo locali. Ma la scoperta principale della tavola è stata una, venuta dalla cucina povera e verace della Puglia più profonda: pane e pomodoro. La cena dei poveri, lo spuntino dei ricchi, la variante del pranzo a mare, senza portarsi come una volta la cofana di pasta al forno. Per pane s’intendeva pan raffermo; esiste pure una versione primitiva invernale, da noi detta caldello, pane tosto su cui si versa generosamente acqua calda, possibilmente marina, più pomodori, aglio, olio, sedano e vari altri ortaggi. Oltre la versione invernale, gli ingredienti classici di base sono i pomodori, l’olio e l’origano, tutti pugliesi, più un pizzico di sale marino, magari delle saline pugliesi, e qualche foglia di basilico. Gli esagerati c’inzaccano altra roba, pure cipolle e uova sode. Ci sono versioni innumerevoli, tra varianti locali e famigliari ma la base di partenza era la povertà creativa, il riciclaggio del pane avanzato più l’odore del mare riscaldato sul fuoco, almeno l’ombra dei pomodori e il resto è fantasia; ossia altri ingredienti per chi può permettersi o solo immaginazione per chi non poteva altro.   Il pane e pomodoro, che dà il nome anche alla più famosa spiaggia di Bari, ha spopolato tra i big del pianeta, la povertà fantasiosa locale ha sedotto la ricchezza potente globale. Il sud del mondo in una frisella integrale.   Scrivendo della Puglia da lontano, ho sentito un formicolio nostalgico, un desiderio irresistibile di tornarci, una fame di Puglia, pane e pomodoro; e un libro che mi è giunto a fagiolo, Ritorno in Puglia di Marco Ferrante, fa da didascalia al mio desiderio. Che voglia di tornarci, di tuffarsi nell’infanzia; ora che sono andati via i Grandi, che voglia di tornare piccoli…

Marcello Veneziani             

Cosa fu la Dc..

 

Rieccola, la Dc, un pezzo della vita nostra, di noi seniores. Torna per i suoi ottant’anni, ma a dir la verità, già quarant’anni fa ne dimostrava ottanta. O quantomeno così la percepivamo noi italiani, tanto ci pareva eterna, inossidabile, antica. Andreotti ci sembrava un reperto della preistoria già quando aveva solo sessant’anni; si sprecavano ironie sulla sua, sulla loro longevità politica. Essendo poi per indole e ragione sociale moderati, sobri e morigerati, i democristiani sembravano vecchi anche da giovani. Ma quella percepita antichità della Democrazia Cristiana indicava anche un’altra cosa: aderiva così profondamente alle fibre del nostro paese da essere considerata un elemento naturale della nostra vita pubblica e privata. Avevamo per così dire somatizzato la Dc o la Dc aveva somatizzato l’Italia, pur senza alcuna enfasi di italianità e di identità nazionale. Apparve quasi l’autobiografia degli italiani, come si disse pure del fascismo: il fascismo-Stato pretese di essere la versione paterna mentre la Dc-Stato fu la versione materna.

L’occasione per celebrare gli ottant’anni della sua nascita è un convegno  a Roma, introdotto da Ortensio Zecchino, moderato da Paolo Mieli, con alcuni storici, che dà il via a una serie di incontri e seminari triennali sulla storia della Dc nella storia d’Italia: Anima e corpo della Dc.

Cosa è stata la Dc per l’Italia in relazione al suo tempo? Fu in primo luogo il più grande ammortizzatore di conflitti e guerre civili, di tensioni sociali, di passioni ideali. Venivamo da un’Italia divisa in due e la Dc fu la tregua sine die, il disarmo e l’oblio dell’Italia venuta dal passato, dal Risorgimento, dalle Guerre, dal fascismo e dall’antifascismo. Riportò l’Italia dalla storia a casa, anzi non pensò all’Italia ma si prese cura degli italiani e li riportò in famiglia, alla vita di ogni giorno. Quando si spaccia il voto alle donne come una vittoria progressista si dimentica che furono le donne a far vincere la Dc contro il fronte progressista. Votarono il partito della Madonna e della famiglia, mica l’emancipazione femminista.

La Dc non pretese di raddrizzare le gambe storte degli italiani, come i rivoluzionari e i riformatori; non ebbe pretese correttive, etiche, non sognava l’uomo nuovo; assecondò il suo popolo e la sua indole, nel nome della libertà, ma di fatto della comodità, del quieto vivere, mettendo ciascuno a proprio agio. Fu indulgente la Dc, mai punitiva, mai vendicativa e di fronte a ogni massimalismo rispondeva col minimalismo rassicurante; gli estremisti li avversava in campagna elettorale, poi tentava di ammansirli e assorbirli. Se la destra coltivava la fiamma del passato e la sinistra si crogiolava nel sol dell’avvenire, lo scudo crociato si curava del presente. Era la realtà concreta, senza cedere al neo-realismo. Se la destra si appellava alla nazione e la sinistra si richiamava al socialismo sovietico, la Dc si piazzò a Occidente, tra la Chiesa e gli Stati Uniti, sotto la protezione delle vecchie zie. Non promosse crociate ma dighe per arginare il comunismo o il nazionalismo; era il partito delle piccole, solide certezze, rispetto alle avventure temerarie e ai focosi ideali. Il suo modello sociale era la versione soft dello statalismo fascista e socialista: un compromesso tra pubblico e privato, tra libertà e assistenza, mercato e stato. Alle forti convinzioni oppose le pratiche convenienze; trasferì l’invocazione dei santi nel campo delle raccomandazioni. Allevò clientele e spostò le aspettative sul piano personale e famigliare. Se l’Italia fu quella lungo il mezzo secolo democristiano, i meriti e le colpe della Dc furono sempre indiretti, mediati; fu sempre concausa, sia di sviluppo che di decadenza. Ovvero, non si può attribuire direttamente alla Dc il boom dell’Italia dal dopoguerra al miracolo economico; la Dc non ostacolò questo processo che avvenne più per dinamismo sociale, voglia e capacità di migliorare degli italiani nella loro vita; per certi versi lo assecondò, quantomeno garantendo un clima e sopendo le forti contrapposizioni. Allo stesso modo non si può attribuire direttamente alla Dc la decadenza della società, il caos, la perdita di valori, la scristianizzazione galoppante, la crisi di identità, appartenenza e cultura. La Dc non arginò queste derive, non si oppose, non pretese nemmeno di orientare culturalmente o ideologicamente gli italiani. Ma sarebbe ingeneroso attribuire il declino di una civiltà alla Dc, esattamente come sarebbe ingiusto attribuire alla Dc il merito dello sviluppo. Dopo De Gasperi non ebbe statisti, i suoi “cavalli di razza” furono politici navigati, a volte cinici, come Andreotti, a volte fumosi anche se di maggior respiro, come Moro. Forse Fanfani ebbe l’ambizione di essere uno statista e fare politica oltre la gestione dell’esistente. La duttilità della Dc, la pluralità di sensibilità e tendenze fu la sua forza e la ragione della sua durata.  Cominciò a declinare quando De Mita pretese di modificare l’indole della Dc, prima abbracciando l’Arco costituzionale con cui perse l’egemonia, poi cercando un’intesa col Pci e le forze laiche opponendosi al fronte avverso che univa a sua volta una parte della Dc di sempre con l’emergente leadership di Craxi (il mitico CAF). E sullo sfondo le ombre del dopo-terremoto (Irpiniagate).

Il primo crollo elettorale fu proprio con lui nel 1983, a cui seguì l’anno dopo il sorpasso dei comunisti alle elezioni europee, freschi orfani di Berlinguer. Poi la caduta del Muro, Mani Pulite, l’incapacità di rifondarsi e di accettare le conseguenze del bipolarismo; vano fu il tentativo in extremis di tornare partito popolare, senza l’ispirazione sturziana, in un mondo ormai mutato. Infine la disseminazione dei democristiani nei due schieramenti e il formarsi di alcuni partiti coriandolo. La Dc non morì del tutto, ma non si ricompose più per intero. Restò un flebile rimpianto, fino a che la tirannia del presente cancellò la sua impronta. Quel presente che era stata l’àncora di salvezza democristiana dalla storia, dai nostalgismi e dai progressismi, si ritorse contro di lei e la tumulò nel passato. L’Italia ci mise una croce sopra, non in segno di voto o di memoria dello scudo crociato; ma per seppellirla insieme all’Italia di ieri con le sue vecchie mappe e le sue vecchie mamme.

 Marcello Veneziani 

Uniti contro la Bestia…

 

 

Vedo il G7 in Puglia e mi si stringe il cuore. Non perché si faccia dalle mie parti, vicino a casa mia, ma perché vedo lì raccolto e concentrato intorno a un tavolo l’Occidente euro-atlantico, più l’ospite giapponese. E allora penso tante cose. Per mettere ordine la prendo alla lontana e parto dall’inizio: l’Europa, o meglio l’Euro-Usa, è solo una fetta del mondo, minoritaria per popolo, territorio, religione e commercio. All’interno di questo mondo che si definisce democratico, la metà del popolo sovrano non va a votare, per dissenso, disinteresse, disgusto.  Nella mezza popolazione Euro-Usa che va a votare, la maggioranza vota  A est è Putin, a Ovest è Trump, nell’Europa dell’Ovest è Le Pen, nel mezzo, almeno fino a ieri, era la Meloni più contorno di Salvini, nell’Europa dell’est è Orban e altri meno in vista (A sud-est c’è l’Ayatollah).  Ma ogni Paese ha la sua bestia interna, dalla Francia alla Spagna alla Germania, ma la bestia in questione di bestiale poi fa solo una cosa: cresce nei consensi, vince democraticamente le elezioni. Un successo bestiale. Per restare in Europa, i due presidenti più scarsi della storia di Francia e di Germania, Flic & Floc, hanno preso appena il 14 per cento dei voti della metà d’elettorato che è andato a votare; praticamente niente. Ma decidono loro le sorti dei loro paesi, dell’Europa e sono tra i grandi decisori del mondo. Schulz è di imbarazzante mediocrità, ogni cosa che fa, che dice, che esprime con lo sguardo è la vacuità, la miseria del nulla, la disgrazia del niente. Macron, invece, è di massima furbizia e minima intelligenza, ha un moralismo transgenico e intermittente, sconfinato, pari solo al suo cinismo. Sanno, i due, di non essere amati nel mondo, in Europa e soprattutto nei loro Paesi, dal loro Sovrano, il popolo francese, tedesco, europeo. Eppure stanno lì come se nulla fosse accaduto e decretano, decidono, tramano. C’è da fermare la Bestia, non possiamo scendere. In America nei confronti di Trump è in atto il più schifoso e clamoroso tradimento della democrazia, del diritto, del rispetto della libertà e della diversità di opinioni, stanno cercando di impedire di farlo candidare in tutti i modi, a colpi di sentenze, multe, colpi bassi, inguinali; mignottate, in ogni senso. L’argomento principe che motiva questa guerra preventiva per impedire l’accesso al voto è che lui porterebbe l’America fuori dalla democrazia, dai diritti, dalla libertà, dalla civiltà. E per impedire che questo avvenga sospendono la democrazia, i diritti, la libertà, la civiltà… Ma la cosa più ridicola in questa sceneggiata, è che quel signore col ciuffo alla Casa Bianca c’è già stato, abbiamo le prove di cosa succede quando va al potere; e non è successo niente di quel che oggi profetizzano in caso sciagurato di sua vittoria. Non solo, ma non ci furono guerre con lui, a differenza di chi lo precedette e di chi lo ha sostituito; non ci fu tracollo economico ma crescita e benessere; tanto è vero che quattro anni dopo, i cittadini sovrani lo rivogliono al governo. Perché la Bestia andò a casa, dopo aver perso democraticamente le precedenti elezioni (e non consideriamo l’ombra di brogli).  In Europa la Bestia è Marine Le Pen, mentre la Meloni, anche lei confermata a pieni voti al governo, sta a bagnomaria, o a bagnomarine, sotto osservazione, per vedere come si comporta, se è in o out, se si normalizza, cioè si ursulizza o si lepenizza. La Bestia in questione non ha mai compiuto nessuna bestialità, ha solo il torto grave di combattere per le sue idee da decenni; e il torto più grave di essere la più votata di Francia, più del doppio di quel che prende il giovanotto scarso e scaltro dell’Eliseo.  In Europa siamo un tantino più evoluti rispetto all’America: rilasciamo, seppure a malincuore, la patente di voto alla Bestia. Ma appena prende più voti del dovuto, revochiamo il diritto di circolazione. E se i voti sono troppi per impedire la circolazione allora imponiamo la Ztl: al centro del potere la Bestia non può accedere, sono sbarrate tutte le vie d’accesso, le alleanze, i repubblicani. L’ultimo caso è dei gollisti che da decenni sono diventati autogollisti, perché si rovinano con le loro stesse mani e anziché fare maggioranza di centro-destra e governare seppure in condominio con la Bestia, preferiscono finire in terza fila, da comparse, nel trenino di Macron.  Eppure ci sarebbe da fare un discorso semplice: se la Bestia raccoglie i voti della maggioranza del popolo sovrano non può essere più considerata bestia se non a condizione di definire bestiale il popolo sovrano e la democrazia. Quando la Bestia prende i voti che ieri erano dei gollisti, dei centristi, dei moderati, non possiamo più giudicarla come espressione di frange estremiste. C’è il vostro popolo là, non potete ignorarlo, dovete fare i conti…Nel frattempo al G7 volano stracci, aborti, follie, sanzioni e ancora soldi per Zelenskij. Ed è curiosa la rappresentazione dei fatti che viene fornita nell’EuroUsa zone, Italia inclusa, dall’informazione d’apparato: se un’incursione russa uccide nove ucraini si fa titolo sulla strage; poi passi alla Palestina e apprendi con euforia che sono stati liberati quattro ostaggi, e tutti siamo felici; piccolo particolare fatto cadere con disattenzione, nell’operazione sono stati uccisi 275 palestinesi. In Ucraina nove morti fanno, giustamente, orrore e notizia; a Gaza 274 palestinesi uccisi per liberare 4 ostaggi no, capita, normali incidenti sul lavoro. Ma in che mondo viviamo? Ma si, nel mondo, anzi nella porzione di mondo, che ritiene di essere campione dei diritti, del libero pensiero, della verità e della pace. Il mondo che si oppone alla Bestia. Siamo ridotti così male che il migliore degli ospiti della Meloni al g7 è addirittura Papa Francesco…

Marcello Veneziani