Nello Studio di Jan Vermeer___L’allegoria della pittura-

Se la pittura di Vermer è tutta qui, mi pare che quel “qui” sia una vastità” (G. Ungaretti)

Ormai è una superstar. Dopo un’esistenza riservata e tutta dedicata al lavoro, dopo due secoli d’oblio e la riscoperta ottocentesca, oggi basta esporre anche uno solo dei suoi dipinti per attirare migliaia di visitatori.
A rischio quasi di farlo passare per un’icona pop.
Per ritrovare la sua magia, però, bastano il silenzio e l’incanto di un dipinto come questo: una tela, datata tra il 1666 e il ’68 e ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna.

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La porta è aperta e la pensante tenda di broccato sembra scostata apposta per noi.  Non ci resta che oltrepassarla per entrare nello studio di Vermeer (1632-1675).  Tutto è in ordine: non c’è nulla del caos che ci saremmo aspettati nell’atélier di un pittore. Le comodità, invece, non mancano: mobili di pregio, una scultura, qualche stoffa preziosa  e perfino una carta geografica appesa alla parete, come usava, allora, nelle case dei più ricchi. La stanza, ampia e luminosa, col pavimento a grandi riquadri bianchi e neri, è quella abitualmente utilizzata al primo piano della casa della suocera. Un’agiata dimora borghese nel quartiere “papista” di Delft, dove è andato ad abitare dopo il matrimonio e la conversione al cattolicesimo. Con venti stanze e tre piani, la casa è grande, ma la famiglia è aumentata così rapidamente (quindici figli) che sembra  quasi diventata angusta. Non è facile per lui, così lento e meticoloso, isolarsi per dedicarsi alla pittura. Il suo lavoro lo occupa giorno e notte e, come al solito, fa tutto da solo: mantenere un collaboratore gli costerebbe troppo.

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Ed eccolo, al centro della scena, mentre sta ritraendo una giovane donna, che tiene in mano un libro e una tromba e ha in testa una corona di alloro. Con gli occhi pudicamente abbassati e l’aria gracile da ragazzina, sembra una delle servette di casa, travestita apposta per mettersi in posa.Un pittore e una modella: sembrerebbe un momento come tanti nella vita di un artista. Eppure, come spesso succede con Vermeer, si ha l’impressione che non sia tutto qui e che qualcosa ci sfugga.  A cominciare dall’aspetto del protagonista che, invece di mostrarsi in bella vista, ci volta le spalle, mentre siede al cavalletto, vestito con un abito fin troppo elaborato ,completamente  inadatto al lavoro.  E poi le vesti che indossa, dal giubbotto traforato sulla camicia bianca, alle calze portate arrotolate alle caviglie, sono sorpassate: andavano di moda, in Olanda, più di un decennio prima.

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Se si guarda ancora meglio, ci si accorge, poi, che Vermeer, di solito così preciso, ha mescolato parti di verità a piccole incongruenze. Intanto, la grande carta geografica alla parete rappresenta una situazione vecchia di mezzo secolo, prima della creazione del nuovo Stato olandese. Poi, per esempio,  ha tracciato sulla tela dove lavora lo schema iniziale di una composizione, però sta usando un poggia-mano, un bastoncino col pomo d’avorio, che dovrebbe essere riservato solo alla rifinitura finale.
Viene, allora, il dubbio che quella a cui assistiamo sia una messa in scena e che Vermeer abbia trasformato il suo studio nella scenografia di un teatro, in cui sia lui che la modella recitano una parte. Ma quale? La chiave sta tutta nell’abbigliamento della donna: secondo l'”Iconologia” di Cesare Ripa, un testo fondamentale per gli artisti dell’epoca, la tromba e l’alloro sono gli attributi della fama, mentre il libro allude alla storiografia.
Si tratta, dunque, di una rappresentazione di Clio, la musa della storia e dell’ispirazione artistica. Ed ecco che la scena assume tutt’altro significato: non è un autoritratto di pittore nello studio- all’epoca piuttosto frequente- ma un’allegoria della pittura.  Vermeer non è di quelli che scrivono trattati, o elaborano teorie.  Se vuole celebrare la sua arte, proprio negli anni del suo riconoscimento ufficiale e della sua nomina a Sindaco della Gilda dei pittori di Delft, preferisce farlo nel modo che conosce meglio: dipingendo.  E lo fa, senza retorica e senza enfasi, evitando di usare i soliti riferimenti mitologici o alla storia antica.  Sceglie di raffigurare una stanza di casa sua, con la luce, che entra da una finestra fuori-campo e rende vero ogni dettaglio, dalla stoffa della tenda in primo piano, al pavimento che ha l’aria di essere appena pulito, ai bagliori del bronzo scintillante del lampadario.  In questa scenografia casalinga, con un  semplice pezzo di stoffa azzurra e una trombetta di latta, trasforma una servetta timida nella musa Clio.
Poi fa sì che l’artista al cavalletto, abbigliato con un vestito fuori moda, scovato nel fondo di qualche armadio, diventi il simbolo, senza tempo, di tutti i pittori.  E ci fa capire che la pittura, più ancora della scultura, simboleggiata dalla testa di gesso posata sul tavolo, è in grado di ricreare una realtà fuori dal tempo e di rendere eterno ogni minimo frammento di vita  Vermeer sa di essere un grande pittore e ne va fiero: per questo terrà questa tela nel suo studio, senza mai venderla e, alla sua morte, la moglie rifiuterà di cederla per pagare i debiti.
Rappresenta il suo omaggio all’arte che ha sempre praticato, con orgoglio e senza mai venire meno, malgrado le difficoltà e i problemi economici.Sa che gli bastano colori e pennelli e, in quella stanza  al primo piano di una casa affollata e rumorosa di voci infantili, potrà trasfigurare, nella serena perfezione delle sue tele, anche i più modesti particolari quotidiani.
Grazie al suo modo di usare la luce e il colore, la rappresentazione di un artista al lavoro, quella di una domestica che versa il latte , di una piccola via di Delft o di una ragazza con l’orecchino di perla potranno assumere un significato universale e  diventare opere in grado di attraversare i secoli.

All’interno di quella nitida dimora olandese la pittura avrà compiuto, ancora una volta, la sua magia.