Condivido questo articolo di Marcello Veneziani. Perchè scrivere di un argomento, quando c’è chi l’ha scritto meglio di quanto potrei fare ?

La guerra civile dei pregiudizi

Il mondo al contrario e i suoi nemici. Proviamo a leggere la contesa tra i due mondi come se fossimo osservatori esterni. Da una parte vige la dominazione woke, sintesi del politically correct, della cancel culture e del bigottismo progressista e dall’altra vive il mondo reale, naturale, normale cioè comune. Come spiegare il conflitto uscendo dalle polemiche e dalle invettive? È la guerra tra nuovi e vecchi pregiudizi: questi derivano dall’esperienza e dal senso comune, consolidato nel tempo, quelli derivano dai cambiamenti e dall’ideologia del cambiamento che reputa positivo ciò che muta. I pregiudizi del primo tipo si possono definire conservatori o tradizionali, e attengono a un patrimonio di pratiche, sentimenti, culture, il cui uso consolidato e universale ci fa percepire come naturali, giusti, normali. I pregiudizi del nuovo tipo invece reputano negativo ciò che persiste nella propria identità e difende le tradizioni e giudicano positiva ogni emancipazione da quei contesti, ogni rovesciamento e fluidità.
I pregiudizi del primo tipo sono prevalentemente popolari, attengono a un comune sentire tramandato, che s’intreccia alla vita reale dei popoli e ai loro legami famigliari, civili e religiosi da più generazioni. E tutto questo si pone come “naturale”. I pregiudizi del secondo tipo, invece, sono minoritari, se non elitari, attengono a minoranze, ideologie e scelte che contrastano o dissolvono i rapporti  pre-stabiliti e tutto ciò che viene definito naturale.
La mistificazione corrente è ritenere che i primi siano pregiudizi, derivati da superstizioni, ottusità, rigidità, oscurantismi, mentre i secondi siano giudizi maturi, critici, evoluti. E invece no, sono pregiudizi ambedue, e non solo nella connotazione negativa che solitamente diamo alla parola pregiudizio, ma in un’accezione più ampia e asettica: i pregiudizi sono giudizi che non si formano nella nostra mente  , ma  che  precedono i ragionamenti e che ereditiamo dall’ambiente circostante, dalle generazioni precedenti, dalla vita dei popoli o da alcune minoranze egemoni – élite, oligarchie, sette, fazioni – o sono prefabbricati dalle agenzie ideologiche e comunicative dominanti in questo tempo. Che i pregiudizi siano necessari alla società non lo dicono solo autori conservatori, come Burke o de Maistre, o conservatori più recenti come Roger Scruton, ma anche filosofi ermeneutici come Hans George Gadamer. Ma primo tra tutti lo diceva Giambattista Vico quando sottolineava l’importanza del verosimile e del senso comune : quando non si possiede il vero, attenetevi al certo. Le superstizioni, per Vico, non sono nocive idiozie oscurantiste, ma come dice la parola stessa, sono tranci superstiti di antiche certezze. E citando Plutarco, il filosofo napoletano diceva che con la superstizione sorsero luminose nazioni, mentre dall’ateismo – oggi diremmo dal nichilismo cinico – non ne è sorta mai nessuna.
Come sopravvivere a una società divisa tra pregiudizi opposti e insormontabili, c’è una possibile mediazione o perlomeno un patto, una tregua per garantire la convivenza senza rinunciare ciascuno alle proprie convinzioni? Il problema è doppio: distinguere da una parte tra i pregiudizi e i giudizi, che necessitano di senso critico; e dall’altro distinguere tra i pregiudizi e la realtà evidente e storicamente radicata. Faccio due esempi calzanti nei nostri giorni.
Riconosciuta la libertà di vivere nella sfera privata secondo le proprie scelte purché non danneggiano gli altri, si possono poi avere valutazioni e priorità diverse nella sfera pubblica. Ma non si può pretendere di imporre i propri pregiudizi agli altri e condannare i pregiudizi altrui all’infamia, alla gogna e all’espulsione. Si può discutere se una società debba tutelare o no prima la famiglia naturale o tradizionale rispetto alle altre nuove unioni, o se debba equipararle in tutto e per tutto, e ci si può dividere su queste divergenze; ma non si può capovolgere la realtà al punto di ritenere quasi un reato, comunque un’infamia, definire per esempio normali le coppie naturali e tradizionali e diverse le coppie omosessuali. Lo sono rispetto alla procrezione, ai millenni precedenti, alla civiltà di cui siamo figli, alla maggioranza delle persone. Salvo poi garantire anche i diritti dei diversi.
Altro esempio: larga parte della società considera chi entra in un paese senza permesso, come un clandestino, come d’altronde ha sempre sancito il diritto internazionale e ogni ordinamento nazionale: poi si può discutere tra chi avversa gli ingressi abusivi di massa e chi invece tende a giustificarli nel nome della solidarietà. Ma non si può capovolgere la realtà al punto da ritenere un reato non la clandestinità ma il chiamare clandestini coloro che effettivamente lo sono. Noi siamo ormai in questa fase e questo spiega il divorzio clamoroso tra le opinioni delle élite e della gente (vedi il boom del libro di Vannacci o il successo di Trump sotto processo).
Lo sforzo che si richiede ad ambo i versanti è di riconoscere che viviamo in una società conflittuale ed esistono almeno due visioni contrapposte, che dobbiamo sforzarci di riconoscere, pur continuando legittimamente ciascuno a sostenere la propria. E stabilire un perimetro di contesa, dove è lecito nutrire tesi diverse, senza arrivare alla scomunica dell’avversario. Ma partendo dalla realtà, tenendo conto dell’esperienza dei popoli, della natura come dei mutamenti sociali. Si possono avere interpretazioni diverse, adottare diversi comportamenti e preferire soluzioni divergenti. Possono differire i giudizi, ma non si può negare l’evidenza della realtà; si può criticare l’avversario ma non lo si può offendere o negargli il diritto di esprimere le sue opinioni e le sue preferenze.
So che a dirlo è più facile che a farlo. Ma partire almeno da un atto di reciproco riconoscimento, senza rinunciare alle proprie convinzioni e quel che riteniamo essere il bene comune, è il fondamento di una civiltà prima che di una libera democrazia. Parole al vento, ma vanno dette e sparse…

Marcello Veneziani       

New York Times: la caduta di Draghi? Un trionfo della democrazia.

Dal New York Times arriva una lezione di democrazia alle élite culturali italiane rimaste orfane dopo la caduta del governo Draghi, essendo la sua caduta un vulnus insanabile e i responsabili della sua caduta degli irresponsabili, se non addirittura criminali (tale l’implicito nell’accusa di “draghicidio”).

Questo il titolo dell’articolo di Christopher Caldwell: “La caduta di Mario Draghi è un trionfo della democrazia, non una minaccia per essa”.

Nella nota, Caldwell richiama appunto come la dismissione di Draghi sia stata definita una “catastrofe”, con la JP Morgan che è arrivata addirittura  a parlare di “un colpo di stato populista” (sic) e ricorda come i suoi oppositori siano bollati come “filo-putiniani”. Secondo Caldwell è arduo identificare il Governatore d’Italia come “simbolo della democrazia”, in quanto non è stato eletto, ma scelto dal presidente Mattarella per presiedere un governo tecnico. E, “per quanto onorabile e capace possa essere Draghi, le sue dimissioni sono un trionfo della democrazia, almeno per come è stata tradizionalmente intesa la parola democrazia”.

“Il problema dell’Italia – continua Caldwell – è che i suoi governi ormai servono due padroni: l’elettorato e i mercati finanziari globali. Forse questo è vero per tutti i paesi dell’economia globale. Ma non è così che dovrebbe funzionare la democrazia, e l’Italia è in una situazione particolare” che aggrava tale dipendenza a motivo dall’elevato debito pubblico e di altre criticità.“Più volte negli ultimi decenni la politica ordinaria in Italia è stata sospesa e governi ‘tecnici’ come quello Draghi sono stati chiamati a realizzare misure di emergenza. Ciò significa che il governo italiano ascolta meno i cittadini, anche se li invita a fare grandi sacrifici”. Quindi, dopo una digressione sul populismo di alcune forze politiche italiane che hanno di fatto sfiduciato il governo, ricorda come Draghi sia andato al potere per stabilizzare una situazione difficile, in quanto si diceva che il banchiere centrale “aveva la ‘credibilità’ per calmare i mercati”. “Ma in cosa consiste la credibilità di Draghi? – si chiede Caldwell nel passaggio più importante della nota -. In una democrazia la credibilità deriva da un mandato popolare. In un ‘governo tecnico’, la credibilità deriva dai collegamenti con banchieri, autorità di regolamentazione [finanziaria] e altri addetti ai lavori. Quando una persona nella posizione di Draghi prende il potere, può non essere chiaro se la democrazia stia cercando l’aiuto delle istituzioni finanziarie o se le istituzioni finanziarie abbiano messo la democrazia in un angolo”.

Il rischio insito in tale situazione è che ciò che “i gestori del rischio tecnocratici stanno gestendo potrebbe essere la democrazia stessa”.

Quindi, dopo aver richiamato alcune riforme del governo Draghi che avrebbero irritato gli italiani, spiega come l’irritazione di fondo più che altro era per “l’affronto” portato alla stessa democrazia dalle istituzione finanziarie e dagli ambiti internazionali a esse correlate.

E conclude: “Agli italiani è stato essenzialmente detto: puoi avere i soldi per salvare il tuo paese solo se il tuo primo ministro è Draghi, altrimenti non ne avrai. Date le circostanze, non c’è nulla di ‘populista’ né di filo-putiniano o di irragionevole nel preoccuparsi delle conseguenze per la democrazia”.

Articolo lucido e intelligente, mentre registriamo con qualche sconcerto le parole del leader del partito democratico, Enrico Letta: ““Vogliamo la verità e sapere se è stato Putin a far cadere Governo Draghi”. Dichiarazione che nasce da un documento più o meno tossico pubblicato su un giornaletto italiano.

In politica, anche quella con la p minuscola, servirebbe un po’ di igiene verbale. Questa, in particolare, indulge ad aggiungere anche l’igiene mentale.

Il poveretto, evidentemente, si vuole accreditare presso Washington come atlantista di vaglia, riecheggiando polemiche che hanno dilaniato la politica americana. Ma ciò che oltre Atlantico è tragedia lacerante, qui risuona come grottesco teatro dell’assurdo. Una teatro del quale il nipote del più noto Gianni appare prigioniero, condizione che indulge alla compassione.

Chiediamo scusa ai lettori per la digressione, era solo per accennare alle prospettive che si sono aperte dopo la caduta del Drago: se la campagna elettorale inizia così, ne vedremo delle belle. Per fortuna sarà breve e balneare.

In un momento in cui il Covid è molto utile a chiunque abbia in mente la parola “dittatura”, confrontiamo alcuni pensieri illustri sull’argomento.

In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore, quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: “Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?”.
INDRO MONTANELLI

“L’ignoranza è un’erba cattiva, che i dittatori possono coltivare tra i loro simili, ma che nessuna democrazia può permettere tra i propri cittadini.”
WILLIAM HENRY BEVERIDGE.

La dittatura, qualsiasi nome abbia, si fonda sulla dottrina che il singolo non conta nulla; che lo Stato è l’unico che conta; e che gli uomini e le donne e i bambini sono venuti sulla terra al solo scopo di servire lo Stato.
HARRY S.TRUMAN

In realtà, la vera essenza di una dittatura non sta nella regolarità, ma nell’imprevedibilità e nel capriccio; coloro che vivono sotto il suo tallone non debbono mai potersi rilassare, non debbono mai essere del tutto sicuri di aver rispettato correttamente, o meno, le regole (l’unica regola pratica è: tutto ciò che non è obbligatorio è proibito). Dunque i sudditi possono sempre essere scoperti in torto.
CHRISTOPHER  HITCHENS

Non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia.
MONTESQUIEU

Non appena qualcuno si rende conto che obbedire a leggi ingiuste è contrario alla dignità dell’uomo, nessuna tirannia può dominarlo.
MAHATMA GANDHI

L’accumulazione di tutti i poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario, nelle stesse mani, di uno solo o di tanti soggetti, ereditari, autonominati o elettivi, si può considerare effettivamente la definizione stessa di tirannia. JAMES MADISON

Lo Stato totalitario fa di tutto per controllare i pensieri e le emozioni dei propri sudditi in modo persino più completo di come ne controlla le  azioni .GEORGE ORWELL

Una multinazionale è più vicina al totalitarismo di qualunque altra istituzione umana.
NOAM COMSKY

Ci sarà in una delle prossime generazioni un metodo farmacologico per far amare alle persone la loro condizione di servi e quindi produrre dittature, come dire, senza lacrime; una sorta di campo di concentramento indolore per intere società in cui le persone saranno private di fatto delle loro libertà, ma ne saranno piuttosto felici.
ALDUS LEONARD  HUXLEY

 

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