Dicono: la generazione Z è malata di ansia. Dicono: i ragazzi e le ragazze hanno il buio dentro. Dicono: sono sempre più numerosi coloro che si perdono. Dicono: è ribellione o allontanamento dal dolore, è moda o ricerca del piacere. Dicono tante cose, gli esperti, commentando i dati sulle dipendenze adolescenti, che sono oggettivamente spaventosi, visto che, nell’ultimo anno, il consumo di droghe tra le ragazze e i ragazzi è aumentato in maniera esponenziale, e che la percentuale degli adolescenti dipendenti sfiora oggi il 30%. Ma quand’è che dicono che la dipendenza è solo un sintomo, che oltre al consumo delle droghe ci sono i disturbi del comportamento alimentare e ci sono i suicidi, e che il vero problema, per tanti giovani, è la disperazione che hanno dentro e l’impotenza e la rabbia e il senso di abbandono e la certezza di non valere nulla? Quand’è che noi adulti faremo davvero un esame di coscienza e ci chiederemo come mai i nostri figli e i nostri studenti vivono come se fossero tutti orfani? «Quando li incontri, questi ragazzini, sembrano orfani», ha detto recentemente Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini, una delle principali strutture italiane che si occupano di dipendenze giovanili. «Sono orfani della famiglia», ha continuato Barra commentando l’ultima relazione sul malessere adolescente presentata in Parlamento.«Orfani di entusiasmo, orfani di rapporti significativi e di cose positive, cani perduti senza collare che hanno bisogno di parlare, di fare, di persone non patologiche». Orfani. Come se noi adulti non fossimo più in grado non solo di prenderci cura di loro, ma anche, e forse soprattutto, di vederli. Ci raccontiamo che sono misteriosi, impenetrabili, distanti anni luce da com’eravamo noi alla loro età. Ci rassicuriamo dando la colpa ai tablet e agli smartphone, ai social e ai videogiochi, come se dovessimo assolverci, mentre la colpa è interamente nostra: siamo noi che non riusciamo più ad ascoltarli; siamo noi che abbiamo sempre fretta e non abbiamo tempo da dedicare loro; siamo noi i primi a fuggire da noi stessi e dalle nostre responsabilità. Ma forse è troppo doloroso, pure per noi, fare i conti con le nostre difficoltà e le nostre fratture. È più facile puntare il dito sulla tecnologia o sull’assenza di valori che ripartire da noi stessi, e da tutte le volte che abbiamo trattati i nostri figli come oggetti, semplici cose di cui avevamo bisogno per colmare i nostri vuoti. Siamo noi che siamo incapaci di nominare le nostre frustrazioni, e di riconoscere che i like che cerchiamo anche noi sui social ci hanno fatto perdere di vista l’essenziale, forse perché anche noi avremmo avuto bisogno di essere visti e ascoltati dai nostri genitori. Ci sono dolori che passano di generazione in generazione e che, prima o poi, vengono allo scoperto. Ma forse è giunto il momento di mettere fine alla spirale infernale e provare a nominare le cose per come stanno. Forse, invece di spedire in comunità o dallo psicologo le nostre ragazze e i nostri ragazzi, dovremmo essere noi a farci accompagnare e curare. E solo poi concentrarci sul malessere adolescente, e commentarlo, e dare buoni consigli. Poi. Una volta che i conti con le nostre fratture li avremo fatti sul serio.