Sulla sinistra piovono Meloni.

È toccante lo spettacolo dell’esodo, la carovana di giornalisti e presentatori Rai, intellettuali e docenti costretti a lasciare le loro case, i loro uffici e le loro cattedre, sotto i bombardamenti del governo Meloni. Fuggono con carretti di fortuna dove hanno caricato le loro povere masserizie e si incamminano senza una meta, tra grida straziate, temendo imboscate e rastrellamenti delle truppe melonate. Commovente il loro arrembaggio per accaparrarsi i pacchi piovuti dal cielo, lanciati ad opera delle forze alleate, che mosse a pietà per l’esodo del popolo paleosinistrese, cercano di fornire loro soccorso sanitario e beni di prima necessità. L’ultima vittima della M. è il povero Antonio Scurati, biografo di M., inteso come Mussolini, oscurato per un suo monologo sul 25 aprile che era un eroico pistolotto antimeloniano in piena campagna elettorale. (Detto tra noi, ha fatto bene la Meloni a rendere pubblico il testo, anche per togliere ogni pretesto al martire presunto e ai suoi innumerevoli sponsor, con sciacalli a strascico. E per lasciare a ciascuno di giudicare liberamente il tono e il senso del monologo).
Come denunciano da mesi la Repubblica, l’Usigrai, l’Anpi e le ultime, rare voci di opposizione, il governo Meloni ha imposto il burqa tricolore alle donne che appaiono in video e il fez agli uomini. Chi conduce il tg o i programmi ha l’obbligo di esordire col saluto romano, battere i tacchi e mandare un deferente saluto alla Premier.
Non c’è più libertà di pensiero da quando impera la ducetta sgarbatella a Palazzo Chigi; fascista fuori e nazista dentro, minacciosi occhi mussoliniani fuori dalle orbite e turpe anima hitleriana nella sua intimità malvagia. Il regime meloniano ha preso di mira un antichissimo professore col bastone, Luciano Canfora, gli ha attribuito frasi deliranti sul ritorno del nazismo in Italia e per screditarlo dicono che addirittura si professi ancora comunista; così lo ha trascinato in ceppi in tribunale, per poi deportarlo in Ungheria.
Un altro vecchissimo reperto dell’antica Rai assiro-babilonese, Corrado Augias, è stato costretto ad abbandonare nottetempo la sua Torre di Babele perché volevano internarlo in un campo di concentramento, spacciato da Rsa e costringerlo ai lavori forzati, nonostante abbia ormai superato perfino l’età della pensione.
Amadeus è scappato dalla Rai perché gli avevano imposto di condurre i pacchi in camicia nera e gli avevano affibbiato per il prossimo Sanremo la Santanché al posto di Fiorello. Fuggito dalla Rai meloniana con la giacca laminata ma senza un euro in tasca, si accamperà presso una rete semiclandestina che gli passerà il pane e un posto letto in un dormitorio riscaldato. Analogo ricovero ha trovato Fabio Fazio, riuscito a evadere dalle segrete della Rai dove il regime meloniano l’aveva deportato, e ha chiesto asilo politico alla stessa emittente straniera, accontentandosi di una modesta paghetta da dividere per giunta con la Littizzetto e Filippa Lagerback. Dopo abbondanti dosi di olio di ricino, l’ormai smagrito Sigfrido Ranucci si è deciso a cambiare format al suo programma; anziché Report si chiamerà Resort e parlerà solo di turismo, creme abbronzanti e percorsi di salute. Bianca Berlinguer, invece, è sfuggita alle purghe meloniane e ha cercato rifugio in un’emittente comunista clandestina, fondata dal compagno Berlusconi, dove potrà continuare la lotta di famiglia contro il capitalismo. Si è dovuta arrangiare con mezzi di fortuna nella suddetta rete per trasmettere gratis i suoi programmi cancellati dall’Eiar meloniana. Stessa sorte per tanti altri sfortunati che hanno preferito fare programmi di tasca loro piuttosto che sottomettersi al Feccia club della Meloni. Così la povera Lucia Annunziata, espatriata dal penitenziario della Rai coi barconi degli scafisti pidini, ha chiesto asilo politico all’Unione europea. Correva l’anno, il programma di storia condotto da Paolo Mieli, è stato affidato allo storico revisionista Trucidide, e il suo nome promette cose truci. Marco Damilano è stato sostituito con Benito Dapredappio. Sono in tanti ormai estromessi dalla Rai e dalla cultura a vivere di espedienti ed elemosina.
Il prossimo festival di Sanremo sarà condotto direttamente da Ignazio La Russa che farà l’imitazione di Fiorello e sarà circondato da un trittico di procaci vallette patriottiche, chiamate le Trecce tricolori. Il dopofestival sarà condotto dal Cognato in versione agrofloreale e farà collegamenti con la sezione di Colle Oppio e con Salò. Saranno ammessi solo cantanti che accetteranno il nuovo corso: i Maneskin saranno ribattezzati italianamente I Maneschi, Dolcenera si chiamerà Ducenera, I Neri per caso diventeranno Neri per scelta, al posto della figlia di Mango premieranno la nipote di Manganello.
Anche le fiction subiranno drastici cambiamenti: si vocifera di una fiction omofoba dedicata a Ulisse, Penelope e i 40 froci, che insidiavano loro figlio Telemaco e verranno perciò giustiziati dai suoi genitori. Altre fiction inquietanti si annunciano contro i migranti, i rom e i vegani, confusi con i verdi.
In effetti bisogna capire lo sconcerto che regna in Rai, si trovano a vivere per la prima volta in vita loro un’esperienza inedita, senza precedenti: l’intrusione della politica nelle nomine, nei tg, nei palinsesti, con fenomeni mai conosciuti, come la lottizzazione (che fino a ieri, nell’età beata, indicava solo il gioco del lotto e delle lotterie e ora indica la turpe spartizione di potere). Erano abituati alla libertà, scorrazzavano felici a piede libero, e ora invece devono rispondere alla politica e al governo. Cose mai viste in Rai.
La Meloni, che nella precedente vita ha fatto assassinare Matteotti, ha rifondato i Battaglioni M che cantano il loro inno storico aggiornato: “Per vincere ci vogliono i Meloni/ di Mussolini armati di valor”. Dopo aver proibito alle donne di abortire, la ducetta ha costretto alla maternità coatta tutte le donne in età fertile, lesbiche incluse. Corsi gratuiti di rieducazione alla normalità e alla cristianità si annunciano per i gay, i trans e gli islamici; incentivazioni e superbonus per chi riesce a bonificare i quartieri e rispedire gli immigrati a casa loro. “La destra vuole gestire il corpo delle donne” e manda il mullah Brunovespa a prenderle porta a porta, per poi seviziarle e segregarle; così denunciano le martiri Dacia Maraini e Chiara Valerio, vittime attive e passive della caccia allo Strega.
Il tutto però è avvolto in un’atmosfera kafkiana: perché a occhio nudo sembra il contrario. Il paese non si è nemmeno accorto del cambio di regime e se la gente rimprovera qualcosa al governo Meloni è proprio il contrario, di rimangiarsi il loro passato all’opposizione e di essersi allineati a Draghi, Mattarella, Biden, von der Leyen, Zelenskij, Netanyau. E invece l’apparenza inganna, è solo uno specchietto per le allodole e per gli allocchi. Alla Schlein non l’hanno vista arrivare, al Duce non l’hanno visto tornare. Occhio al fascismo trans: il Duce si è coperto la pelata con una parrucca bionda…

 Marcello Veneziani     

Nausea da overdose di Sanremo…

Mi dice un amico: non vedrò il festival di Sanremo per nausea, come se l’avessi già visto, con tutte le anticipazioni e i programmi dedicati da mesi. In effetti arriviamo al fatidico Festival e non lo sopportiamo più dopo cento giorni di bombardamento televisivo quotidiano. Dovevano servire a promuovere l’evento e a generare l’attesa e invece hanno creato overdose, indigestione, intolleranza, rigetto verso Sanremo e la faccia, il becco, la voce di Amadeus. Poi magari i numeri ci saranno perché è ormai un riflesso condizionato e non vuoi sentirti escluso dalla festa ufficiale della nostra Repubblica; ma l’effetto nausea c’è tutto. Non c’era telegiornale della Rai che non avesse ogni giorno tra i titoli e poi in coda, un annuncio su Sanremo, un collegamento col solito Amadeus, che evoca Fiorello. E’ stato un vero e proprio stolkeraggio quotidiano, che ha superato ogni limite di sopportabilità e di decenza promozionale. Mille interviste su Sanremo e un solo concetto, una sola parola che tutti pronunciano nelle domande come nelle risposte: emozione. Ma che noia, ma che monotonia…A me Sanremo non fa né caldo né freddo, è un programma come altri che ha una sua storia e una sua ragion d’essere. Ma quando un evento d’intrattenimento, una gara canora diventa in assoluto l’evento più citato, più evocato, più annunciato della nostra vita pubblica, persino più della giornata della memoria, vuol dire che siamo in una fase patologica e in una distorsione della realtà e delle sue priorità. Affidare a Sanremo l’identità collettiva degli italiani, la festa nazionale più lunga, più larga, più sentita, nel senso di ascoltata, dell’anno, ha qualcosa di malato, di noioso, di banale, che ci squalifica agli occhi del mondo. E riduce uno dei popoli più creativi e vivaci del mondo, a figurare come uno dei più idioti e pappagalleschi…  Sanremo è diventata l’unica tradizione ancora vigente, difesa e promossa dalla “principale azienda culturale del Paese”, dalla radiotelevisione di Stato. Una somministrazione di massa con richiami all’inverosimile, un video-stupro del nostro senso critico. Sanremo è poi il coagulo di tutti i luoghi comuni, le tendenze, a partire dalle peggiori, i vizi e le storture del paese; i soliti messaggi politically correct, il solito woke, e tutte le menate ,sfuse e profuse lungo tutti i giorni, qui si concentrano e si danno appuntamento in riviera. Il nero, il migrante, il gay, la lesbica, la femminista e il femminicidio, il pacifista, tutto il presepe si ripete ogni anno, mutano solo i dosaggi e i testimonial, secondo il vento. Nessun governo osa interferire, può star lì Conte, Draghi o la Meloni, ma Amadeus e il suo minestrone (detto anche mainstream) non si discutono. Peraltro è un presentatore come tanti altri, non più bravo e nemmeno più autorevole di altri, come fu per anni Pippo Baudo. Ma sembra che non esistano altri in grado di condurre questa kermesse; la sua voce risuona di continuo sugli schermi e nei programmi tv… Perciò capisco l’obiezione di coscienza su Sanremo, la diserzione, il servizio civile alternativo, il cambio di programma, la fuga sui monti di Netflix o di altre reti, o meglio ancora la lettura di un bel libro, un bell’ascolto di altra musica, un film, un’opera teatrale o una conversazione tra amici e famigliari.  Sanremo è il nulla in abito da sera. Al di là delle solite polemiche “esantematiche” che come il morbillo e la varicella accompagnano e guarniscono da sempre Sanremo e servono a generare curiosità e finta animazione intorno all’evento, perché una fiera così trombona  ha una platea così larga e duratura? Vero è che la metà degli spettatori vede Sanremo per disprezzarlo, e dunque l’indice d’ascolto è ben altra cosa dall’indice di gradimento; ma un fenomeno pop, trash e pulp come il Festival non può essere ignorato. In Italia un fenomeno  dicesi popolare quando i suoi numeri sono pari ai voti della Dc di un tempo: ovvero quando sono oltre i dieci milioni. Anche la Dc era disprezzata ma poi la votavano.  Non è merito del modesto presentatore o delle stupide menate sul festival inclusivo e nemmeno dei pur bravi Fiorello, Incursori o Portatrici di Messaggio. Sanremo è una formula tautologica. Si vede Sanremo perché la domenica si fa la passeggiata al corso e in piazza, e non si può essere impreparati; se ne parla al telefono, rientra nei riti domestici, civici e tribali; vediamolo, sennò di che parliamo dal bar, a cena, al telefonino? E con il Sanremo parallelo che è sui social, c’è la possibilità di rendere interattivo e critico il festival: ciascuno fa il controcanto e il controsghignazzo in tempo reale. Ed è forse la cosa più spiritosa prodotta da Sanremo, contro Sanremo.  Ho però l’impressione che Sanremo non sia più l’autobiografia della nazione, come ai tempi del regno sa-Baudo, ma l’autopsia della nazione, questo cadavere sovrappeso che ci ostiniamo a chiamare Italia. Se proviamo l’arduo esercizio dello psicofestival, per capire le molle che spingono gli italiani a “guardare Sanremo” non basterà nemmeno dire che è la coazione a ripetere, lo specchio futile del futile presente, la civetteria del pettegolezzo collettivo, il voler far parte di un racconto collettivo, la mania d’inclusione nel dire c’ero anch’io… ma c’è qualcosa in più: Sanremo è il surrogato estremo di un’identità collettiva e di una tradizione perduta e smarrita. Non andiamo più a messa, non abbiamo più vive tradizioni domestiche, cittadine, patriottiche, religiose. E allora cerchiamo in Sanremo il fantoccio rassicurante delle cose durevoli. Un placebo, una canna del gas, un gioco illusionista. E un fuoco fatuo, molto fatuo…

Marcello Veneziani   

Ieri commemorazione speciale,ma…A che serve la Rai.

 

La televisione compie oggi settant’anni ma nel celebrare il suo compleanno si omettono due dettagli storici non da poco. Il primo è che l’anniversario più importante di quest’anno, almeno come data, non è il settantennale della tv ma il centenario della radio, da cui nacque la Rai. La radio è la madre della tv, è l’incipit delle trasmissioni nell’etere. Il battesimo ufficiale della radio fu il 6 ottobre del 1924, in epoca fascista, l’emittente fu l’unione radiofonica italiana che poi assunse il nome famoso dell’Eiar. Che fu, si, altoparlante del regime fascista e della sua propaganda ma fu anche mezzo formidabile di informazione, istruzione e modernizzazione di massa. Arrivò perfino nelle campagne, fu il primo massiccio tentativo di includere i contadini nell’informazione, il loro passaggio dalla natura alla cronaca, dal tempo meteo al tempo storico.  Il secondo dettaglio trascurato dai tele-celebratori è che il 3 gennaio del 1954, andarono in onda i segnali e gli annunci ufficiali della Rai-tv ma le prime trasmissioni televisive risalgono in realtà al 1939, dopo un decennio di esperimenti. La Tv nacque in seno all’Eiar, sotto il regime fascista. Se non ci fosse stata la guerra, la tv si sarebbe diffusa un decennio prima, magari con l’esposizione universale del 1942 e avrebbe presumibilmente seguito nel tono e nell’ispirazione il modello di nazionalizzazione e mobilitazione delle masse che aveva assunto la sua sorella maggiore, la radio, nata e cresciuta sotto il regime fascista. Ma non solo: a inaugurare la televisione, nel 1939, non fu un ministro della cultura, dell’educazione o della pubblica istruzione, un Bottai, un Gentile o un Biggini, ma addirittura Achille Starace, il segretario del Partito nazionale fascista. Proprio lui, l’inventore delle veline, ma in un senso assai diverso da quello televisivo recente, famoso per i suoi ginnici salti nel cerchio di fuoco e per la devozione cieca e assoluta nei confronti del Duce, fino alla morte. Fu lui che compì il primo salto nel quadrato magico della scatola luminosa e tenne a battesimo il mezzo televisivo alle soglie del conflitto mondiale. Fu pure allestita una sala a Villa Torlonia, residenza del duce e della sua famiglia, per  seguire i primi programmi sperimentali. Mussolini vedeva la tv prima che apparisse Mike Bongiorno. Le cose non nascono mai dal nulla, ma sono figlie di altre situazioni e di altri contesti.

Ristabilita la verità storica, di solito omessa per ridicoli motivi di omertà storica e ottusa partigianeria, poniamoci la domanda per eccellenza: qual è il bilancio complessivo che si può fare della televisione, ovvero qual è il segno dell’influenza che ha esercitato sugli italiani, come singoli e come popolo, e sulle istituzioni? Si potrebbe dire che la storia della televisione sia divisa in due parti, che in linea di massima coincidono con le due metà del suo secolo di vita: nella prima parte la radio-televisione è stata soprattutto un mezzo di promozione popolare e di elevazione di massa, nella seconda parte è stata soprattutto un mezzo di peggioramento e involgarimento dei gusti di massa e dei modelli di vita. Da mezzo evolutivo a industria per il peggioramento della specie… Il punto di svolta coincise con due fattori emersi negli anni settanta: da una parte l’avvento della tv commerciale e dunque della concorrenza, che pure di solito migliora i prodotti ma nel caso della tv ha prodotto una gara al ribasso della qualità e della mission; dall’altra parte la tv controllata dal potere politico si fa lottizzazione, e questo da un verso garantisce un maggior pluralismo dell’informazione ma dall’altro abbassa il livello della televisione all’interesse dei partiti e della loro propaganda, dei loro impresari e dei loro emissari. La gara della quantità ha ucciso la qualità, la gara dei consumi si è abbattuta sui costumi.  Si può davvero sostenere che per cinquant’anni almeno la tv ha, si, uniformato gusti, conformato stili di vita, banalizzato saperi, ma ha alfabetizzato il paese in modo capillare e massiccio, ha unificato davvero l’Italia, ha consentito il passaggio alla lingua italiana di larghe aree del sapere, ha dato istruzione primaria più della scuola, ha intrattenuto, divertito, avvicinato la gente alla cultura e ai fatti del giorno. E dunque la sua impronta può dirsi complessivamente positiva.  Ma dalla fine degli anni settanta, la tv ha cominciato a invertire il suo ruolo, la propaganda e la promozione pubblicitaria hanno prevalso sulla tv che informa, traduce la cultura in visione popolare e fa crescere il livello del paese. L’imperativo degli ascolti, dello share e dell’audience, ha ulteriormente abbassato la soglia della qualità e il senso della sua missione. Detto questo, non si vuol concludere alla Pasolini che la tv vada abolita o spenta; resta una struttura primaria per un paese, uno spazio pubblico, una piazza essenziale di confronto, connessione e integrazione. Ed esercita una funzione comunque utile, se non insostituibile, anche nell’equilibrio delle fonti d’informazione, tra media, social, carta stampata. L’abbrutimento avviene quando la tv diventa il solo mezzo d’informazione e di intrattenimento, la sola finestra sul mondo, e sostituisce la lettura, l’incontro di persona e altre forme di in/formazione. Bisogna saperla dosare, e usare spirito critico. Il suo limite rispetto a internet è noto: non è interattiva, l’utente è spettatore e non attore. Ma la tv, soprattutto se è pubblica, ha il dovere di aiutare un paese e un popolo a crescere sul piano civile e culturale. Chi sostiene che la tv non debba coltivare propositi educativi o comunitari perché altrimenti diventa una tv etica e pedagogica, sottilmente autoritaria e prescrittiva, non si rende conto che senza un progetto educativo e comunitario, gli utenti e soprattutto i minori non vengono lasciati liberi ma in balia di altre agenzie diseducative. Peraltro ognuno è libero di fare zapping nel vasto arcipelago delle offerte televisive. Se la gara è solo tra chi fa più ascolti coi giochini, il trash, le tele-risse denominate talk show, si ritiri lo Stato e si lascino in campo i privati. Ne guadagnerebbero la dignità, l’intelligenza e il mercato. Alla Rai spetta il compito di sfatare il pregiudizio che culturale e popolare, formativo e ricreativo, siano incompatibili. Ma quel pregiudizio si è insediato da decenni nella testa della signora che oggi compie settant’anni, e sua madre cento.

Marcello Veneziani