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La speranza nell’attesa del CAOS - Siamo anelli aperti o chiusi di catene mai costruite. IinA_M@

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I sogni infranti fra le macerie - Terremoto dell'Aquila.

I sogni infranti fra le macerie

Sono passati due anni dal terremoto che all’Aquila e dintorni ha cancellato la vita di 309 persone. Fra loro i figli — Domenico e Maria Paola — e il padre — Domenico — del caporedattore del Centro Giustino Parisse che per il secondo anno consecutivo li ricorda con una lettera       di Giustino Parisse

Due anni come due mesi, come due giorni, come due ore, come due minuti, come quei maledetti 23 secondi. Vorrei chiedervi anche oggi come è andata a scuola, pregarvi di non rientrare troppo tardi, rotolarmi con voi nell’erba del giardino, guardarvi mentre salutate il nonno e nonna, aiutarvi a immaginare il vostro futuro. E invece no. Ecco di nuovo il sei aprile, 24 mesi dopo. 

È passato giusto un anno dall’ultima lettera che vi ho scritto. Ho niente e tante cose da raccontarvi. Niente perché senza di voi ogni giorno è una scatola vuota, ogni minuto una sofferenza che si aggiunge a sofferenza. Tante cose perché il mondo va avanti e anche io, che lo voglia o no, continuo a navigare in questo mare tempestoso che è la vita. Con una piccola differenza: non sopporto più i finti lagnoni, i furbi che si riconoscono a cento metri di distanza, i profittatori di tragedie, i politici che guardano a quella torta sempre più grossa e ci si fiondano sopra come bambini affamati. Ma tanto anche loro si individuano facilmente, perché hanno sempre la bocca piena e le labbra sporche di cioccolato. 

C’è poi tanta brava gente, che si alza presto al mattino e dà un senso alla propria vita guardando i figli negli occhi e si mette in moto sognando almeno per loro un futuro migliore. 

Con questa lettera vorrei raccontarvi la mia seconda stazione di una Via Crucis che avrà termine quando tornerò con voi, per sempre, in quella cappellina che abbiamo costruito al cimitero di Paganica che è piena di fiori, di pupazzetti, di messaggi, di luce. Quando vengo a trovarvi non ho la forza nemmeno di una preghiera. Sto lì un attimo, accarezzo le vostre foto, a volte sbatto un pugno leggero sulla lastra di marmo, lancio un’occhiata alla foto di papà, lì a fianco a voi, e vado via cercando di convincermi che quella sarà una giornata normale, sapendo già che non lo sarà affatto. 

 Con mamma Dina siamo sempre nella casetta al numero 86 nel nuovo villaggio di Onna. Vi ricordate le passeggiate in bicicletta lungo via Properzi fra i prati della tenuta Pica Alfieri? E’ lì che oggi stanno gli onnesi. Nonna Maria è a fianco a noi, zio Renzo poco al di là. E poi i “vecchi” vicini di casa: Paolo, Gianfranco, zio Umberto, Rodolfo e Anita, Vincenzo con Stefania e Gloria. E naturalmente Stefano. Ricordate quel piccolo paffutello che aveva solo pochi mesi? Beh ora è cresciuto, scorrazza sul prato davanti alle casette, a volte ci viene a trovare. Anche adesso, mentre vi scrivo, sento le voci stridule dei bambini del villaggio e ricordo le vostre quando “starnazzavate” — come diceva nonno Domenico — davanti a quella casa che oggi non c’è più spazzata via nei pochi attimi in cui la terra ha ruggito. 

Ed è anche di quel piccolo nido infranto che adesso voglio parlarvi. Per più di un anno e mezzo mi sono quasi rifiutato di tornarci. L’ho fatto solo quando qualche collega giornalista mi chiedeva di vedere Onna, la vecchia Onna. So che per loro è un lavoro. Per me è dolore che si rinnova. Ma fin quando si può è meglio non far abbassare l’attenzione: se non possiamo riavere le perle della nostra vita — mi sono sempre detto — cerchiamo almeno di dare una speranza a chi è rimasto e ha tutta una esistenza davanti a cui guardare. Poi, a fine gennaio di quest’anno, è accaduta una cosa strana. I vigili del fuoco hanno demolito tutto. Le vostre camerette, che sono state la vostra culla e la vostra tomba, sono confuse nella montagna di macerie che troneggia dove una volta si svolgeva la nostra esistenza serena. Certo, con i problemi di tutti i giorni: le ansie, i dubbi, i piccoli dolori. Ma sapete, oggi ho quasi la consapevolezza che in fondo anche quando si vede tutto nero basta fermarsi un attimo, guardarsi intorno, abbracciare chi ti è vicino in quel momento e tutto svanirà e il sole tornerà a sorgere come sempre.

Il mio sole purtroppo è tramontato definitivamente la sera del 5 aprile, una bella giornata come quella di oggi, domenica 3 aprile 2011. Se guardo un attimo fuori dalla finestra del map (modulo abitativo provvisorio) ricordo quelle feste di primavera quando al mattino vi “caricavo” in macchina e ce ne andavamo un po’ in giro per questa splendida valle aquilana, curiosando fra i ruscelli, gli alberi, i fiori appena sbocciati e infilandoci per i borghi allora intatti e brulicanti di persone. Voi mi facevate domande e io cercavo di darvi qualche risposta con l’obiettivo di farvi amare quegli angoli di paradiso oggi feriti, piegati, desolati, bagnati dalle lacrime di chi è sempre più consapevole che forse non farà in tempo a tornare nella propria casa frutto di una vita di lavoro, di cambiali da pagare, di mutui che non ti facevano dormire la notte.

Casa nostra, fra via Oppieti 30 e via dei Calzolai 26 non c’è più. Quando l’ho vista demolita ho come avuto, chissà perché, un segnale: adesso si può ricominciare. Da allora sono tornato spesso, da solo, la mattina (non prestissimo), anche quando il vento freddo gelava il volto e una fastidiosa pioggerellina rendeva ancora più triste lo scenario. Nell’unico pezzetto di abitazione rimasta in piedi (quella che aveva le colonne di cemento armato) i vigili del fuoco avevano portato tutto quello che erano riusciti a recuperare: vestiti, oggetti, libri, quaderni. Pezzi di una storia familiare svanita alle 3.32 del sei aprile del 2009. Come un barbone affamato mi sono messo a frugare e ho ritrovato un po’ di voi. 

Domenico, ricordi la prima macchina fotografica digitale che ti avevo regalato? Era finita in fondo a un sacco nero. L’ho portata alla casetta di legno e funzionava ancora. Sulla scheda le ultime immagini che avevi scattato e che ti avevano scattato. Sorridevi, come quel 5 aprile quando ci siamo visti per l’ultima volta. Prima dell’orrendo scossone e del tunnel senza ritorno.

Quei sacchi scuri sono come il nero della notte. Cercare all’i nterno assomiglia a gironzolare al buio, in un bosco, con una lanterna. Riesci solo a illuminare piccole parti del tutto ma, pian piano, memorizzando quei flash, è come ricomporre il quadro. Ogni oggetto è una storia, un ricordo, una scossa elettrica al cervello. Quando una lacrima ti scende a fianco al naso capisci che lì dentro ci sei tu, finito in pezzi, trattato come spazzatura. Perché è quella la tua condizione, le macerie materiali sono le macerie dell’ anima e non puoi farci nulla se non attendere che tutto torni polvere. Prima o poi. Ragazzi, voglio farvi una piccola confessione, soprattutto a te, Maria Paola. So che tu eri gelosa delle tue cose, per questo le conservavi sempre con cura. E nemmeno i sassi e la polvere hanno avuto la meglio. 

I temi che avevi scritto dalla quinta elementare alla terza media li avevi posti dentro cartelline di plastica infilate poi in un raccoglitore. Quando li ho trovati li ho semplicemente poggiati sul tavolo di legno che era stato dei tuoi bisnonni e che io avevo fatto restaurare. Si è salvato, è ferito perché una pietra caduta da chissà dove l’ha bucato in un angolo. Una mattina, di quelle in cui vorrei chiudere la porta al mondo e scappare via, sono tornato in quella stanza, fredda e umida, in cui i termosifoni ancora appesi alle pareti ti sembrano l’ennesima beffa. 

Mi sono seduto su una sedia, di quelle che stavano nella nostra cucina, e ho cominciato a sfogliare. Non li avevo letti prima, quei temi. Sai che delle questioni di scuola si occupava soprattutto mamma e comunque tu non avevi mai avuto problemi con maestre e professori. Le pagelle che mi facevi firmare ogni tanto — soprattutto per strapparmi un «brava » — stavano lì a dimostrarlo. Mi aspettavo le solite cose che si fanno alle elementari e alle medie. Magari un po’ scontate e ripetitive. Persino scopiazzate da libri e giornali. E invece no. In fondo ti piaceva raccontare te stessa, lo facevi con entusiasmo e, quando serviva, anche con un pizzico di autoironia. Lì, su quei fogli, hai scritto — con una calligrafia ordinata e leggibile — dei tuoi amici, dei nonni, di mamma e papà, di Domenico e soprattutto dei tuoi sogni. Non me lo avevi mai detto che ti sarebbe piaciuto fare la giornalista e in uno dei temi sottolinei perché pensavi al mestiere che io ho iniziato trenta anni fa, quasi per caso, e che è diventata una delle ragioni della mia vita: sono curiosa — scrivi — e mi piace parlare con la gente e raccontare le loro storie. Adesso già immagino come stai reagendo.

Quando parlavamo e io ti provocavo un po’ per cercare di conoscere quali erano le tue aspirazioni e magari carpirti qualche segretuccio, tu replicavi un po’ seccata: «Basta, papà, non mi prendere in giro se no mi arrabbio». E mi guardavi un po’ di traverso ma dopo un secondo sorridevi e lì capivo che avevo colto nel segno e che su di te avrei potuto contare. Dopo averli letti tutti, ne ho scelti una cinquantina e ho deciso di farne una piccola pubblicazione che sarà pronta fra poco più di un mese. Il 10 maggio è il giorno, anzi la notte — era l’una e mezza circa — in cui sei venuta al mondo. Il 10 maggio prossimo avresti compiuto 18 anni. Non sarà una festa come l’avresti voluta tu, e come l’avremmo voluta noi. Ma ci saremo e quel giorno sarà tutto per te. Il libricino che ne verrà fuori l’ho voluto intitolare “Sogni infranti” .

I tuoi sogni infranti, quelli di Domenico e di tanti ragazzi che come voi sono stati travolti mentre, quella notte maledetta, il sonno aveva preso il sopravvento, rassicurati e certi che il nuovo giorno sarebbe arrivato e che la strada della vita sarebbe stata ancora lunga, felice e perché no, faticosa. Avrei ancora tante cose da dirvi. Parlarvi per esempio dell’Aquila, di Monticchio (il paese in cui avevate tanti amici), di San Gregorio, di Paganica. Oggi fareste fatica persino a riconoscerli. Onna vecchia è sparita. Avrei voluto ricostruire subito la nostra biblioteca davanti al giardino dove su un cumulo di sassi ho ri-messo Biancaneve e due nani. Sì due. Perchè gli altri cinque li ho trovati in frantumi. Ma lì per ora non è possibile riportare i libri e l’archivio. Però ve lo prometto: entro Natale la nostra biblioteca rinascerà a Onna. Anche a costo di indebitarmi per tutti gli anni che mi restano. Ve lo devo. So che mi darete la forza necessaria. In fondo siamo sempre una bella famiglia. Ciao, al prossimo 6 aprile. Vi voglio bene. Papà.
Fonte:
http://ilcentro.gelocal.it/laquila/cronaca/2011/04/06/news/i-sogni-infranti-fra-le-macerie-3873055/2
 

 
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