L’Italia di Vannacci e quella della Murgia…

L’estate che finisce lascia in eredità due foto di gruppo contrastanti, anzi contrapposte: il selfie assai affollato di gente comune intorno al generale della Folgore Roberto Vannacci e al suo libro, il mondo al contrario; e il selfie di una famiglia allargata che potrebbe essere anche un collettivo, un club, un gruppo di pressione, raccolta intorno alla figura di Michela Murgia, scomparsa poche settimane fa. Sono due mondi agli antipodi, che in Italia hanno assunto i volti del generale e della scrittrice, ma che si contrappongono in quasi tutto l’occidente, e non solo.
I primi sono considerati conservatori, e comunque si reputano realisti, difensori della normalità, della natura e di come è sempre stato, e si reputano vittime di ostracismo, pubblico disprezzo e supremazia ideologica a loro avversa. I secondi sono considerati progressisti, e comunque si reputano fautori della liberazione, dell’emancipazione e della lotta contro l’eterno fascismo e il tornante spirito reazionario. Si considerano a vicenda bacchettoni: perché ormai è acclarato che oltre il bigottismo tradizionalista c’è pure un bigottismo progressista, come scriveva già trent’anni fa Robert Hughes ne La cultura del piagnisteo.
Le due Italie hanno scelto come terreno di competizione le classifiche librarie, un territorio che dovrebbe essere più agevole per la scrittrice e per la sinistra; e dove invece il libro del militare, del paracadutista Vannacci ha doppiato quello della Murgia, nonostante sia considerato quasi ai limiti della legalità, e fuori da ogni credito intellettuale. In realtà, il mondo a contrario lo hanno comprato anche tanti che non sono lettori abituali, trattandosi di un libro-manifesto, di appartenenza e di denuncia, già nel titolo. Nelle due figure del generale e della scrittrice-queer si sono contrapposti due mondi reali e ideali: uno, forse maggioritario, vasto e popolare, si è riconosciuto nel realismo del generale, nel desiderio di chiamare le cose col loro vero nome, di sfuggire alla retorica dei diritti gender, all’ipocrisia del linguaggio e dei divieti politically correct e all’egemonia dell’ideologia, richiamandosi alla normalità, al senso comune, alla natura e alla vita come è sempre stata. L’altro, espressione invece di una minoranza che però conta e pesa assai più della “trascurabile maggioranza degli italiani” (Flaiano), schierata a difesa di lgbtq+, del femminismo radicale, dei migranti clandestini, dell’antifascismo permanente e militante.
Sono due Italie che si detestano, si delegittimano e contrappongono nuovi pregiudizi a pregiudizi antichi. I pregiudizi, ricordiamolo, sono giudizi a priori, non filtrati dal senso critico ma accolti come postulati, precetti, canoni di vita e rappresentazioni della realtà tramite moduli prefissati.
Sono le due Italie del nostro presente, anche se non coprono l’intero arco della popolazione: nel mezzo c’è un’area abbastanza vasta, disorientata e refrattaria ad assumere posizioni nette e radicali. Riaffiora l’eterno dualismo nazionale, che appare da secoli, e poi a volte scompare, va sotto traccia, per lasciare spazio ai compromessi moderati e alle pragmatiche, opportunistiche convergenze al centro. Ma è sempre in agguato e polarizza gli italiani.
Vi sono tuttavia alcuni paradossi che vanno sottolineati. Primo paradosso: le idee espresse dal generale Vannacci sono le stesse che hanno portato molti italiani a votare per la Meloni e per il centro-destra; ma il generale è stato subito sconfessato, attaccato e infine rimosso dal governo di centro-destra, in particolare dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Una scelta che ha ferito molti elettori della Meloni e ne ha spiazzati altri.
Secondo paradosso: benché minoritaria e benché si presenti con i toni e i tratti di una cultura ribelle, antagonista e denunci le discriminazioni subite da alcune minoranze, l’opinione radicale di Michela Murgia coincide col mainstream, è sovrarappresentata e sovratutelata dai media, dalla cultura e dalle istituzioni. I suoi temi sono dominanti, se non obbligati; ogni opinione difforme viene stigmatizzata, denunciata, penalizzata. Come dimostra la stessa vicenda del gen.Vannacci. Nessuno invece viene vituperato se condivide le opinioni della Murgia.
Terzo paradosso: il gen. Vannacci è uomo d’azione, con una carriera di riguardo alle spalle; Michela Murgia era invece un’intellettuale, una scrittrice, anche di culto, ma alla fine si rovesciano i ruoli: il primo manifesta le sue idee solo tramite i libri e le opinioni personali; mentre la seconda, benché intellettuale, può inserirsi nell’alveo di movimenti, mobilitazioni e associazioni di vario tipo.
La politica insegue con un certo affanno le due platee, con molta prudenza e tanti distinguo, a volte tirandosi indietro, anche perché teme di compromettere la propria agibilità politica e la possibilità di allargare i consensi anche a chi non sposa le posizioni “radicali” di Vannacci o di Murgia. Elly Schlein sembra abbastanza vicina alle posizioni murgiane, ma il suo partito, il Pd, è profondamente diviso e complessivamente prudente verso quelle posizioni. Fratelli d’Italia è stato invece decisamente sulle posizioni di Vannacci ma da quando è al governo rallenta, ammorbidisce, assopisce. E ai suoi margini, la Lega di Salvini cerca di riprendere consensi e agibilità politica strizzando l’occhio al generale.
Intanto l’Italia è chiamata alle armi: stai col generale o con la queer? Spaccaitalia.

Marcello Veneziani, Panorama

Termofilosofia e tirannia del Meteo .

 

Insomma, questo caldo bruciante a sud, queste tempeste devastanti a nord, sono gli eccessi di un’estate come altre in passato o sono il segno di un drastico cambiamento climatico? Sono frutti bizzosi del caso e del maltempo o derivano da errori, disattenzioni e colpe umane? In altri tempi, mistici e messianici, avrebbero discusso se siamo alle soglie della fine del mondo oppure è uno di quei feroci ruggiti del solleone che periodicamente si affacciano nella storia climatica del mondo. Anche in quel caso, le catastrofi sarebbero state attribuite da alcuni ai peccati degli uomini, alla loro tracotanza, che i greci chiamavano hybris. E da altri agli imprevedibili capricci della natura. Stavolta, ad aggravare la scena si è messo il primo governo “di destra” della nostra repubblica, subito accusato di grave complicità nelle catastrofi, anzi di concorso esterno in calamità ambientali.
Proviamo a ragionare, non su basi scientifiche e nemmeno statistiche, dopo aver letto esaurienti spiegazioni e dettagliati paragoni col passato che conducevano a opposte conclusioni con dati alla mano.
Siamo in presenza di una termofilosofia, ovvero una filosofia del caldo, che s’intreccia a una specie di tirannia del meteo, altrimenti definibile come meteocrazia. Il precedente filosofico e teologico fu il terremoto che distrusse Lisbona nel 1755: c’è chi vide in quel terremoto una punizione divina (es. de Caussade) e chi trovò in quel sisma la prova dell’inesistenza di Dio (es. Voltaire). I primi furono detti oscurantisti, i secondi illuministi.
Ma torniamo al presente. Lasciamo fuori dal ragionamento le due ipotesi estreme, che sconfinano in due reati, non solo d’opinione: da una parte il negazionismo di chi nega il cambiamento climatico, e dall’altra il meteoterrorismo, di chi specula sul terrore meteo per trarre profitto politico, mediatico, industriale, commerciale.
Quel che possiamo constatare in partenza è che viviamo ormai da alcuni anni sotto la Cappa dell’Emergenza: si passa senza soluzione di continuità da un’emergenza a un’altra, sanitaria e farmaceutica, bellica e militare, poi ecologica da inquinamento, ora la bolla meteocatastrofica, più altre sottoemergenze che accompagnano le macro-priorità.
Terrorismo mediatico quotidiano, psicosi di massa indotta dai media, anche per vendere l’informazione: impresa sempre più difficile, necessita di dosi emotive sempre più forti. Emergenza vuol dire sospendere alcune libertà e tanta spensieratezza, vuol dire accettare sacrifici e restrizioni sempre per il nostro bene, controllare e sorvegliare, produrre campagne massicce, prescrizioni e proscrizioni di massa, più investimenti adeguati. E si tratta di additare alla popolazione un capro espiatorio su cui scaricare la colpa della situazione col relativo carico di paure, invettive e rancori.
Concorre a questo mutato “clima”, in ogni senso, la nostra mutata percezione e la nostra mutata soglia di sopportazione, molto più ridotta nel tempo, non solo a causa dell’uso massiccio di aria condizionata. La stoica sopportazione del caldo o delle intemperie nelle società antiche si è assai assottigliata in una società fisicamente e psichicamente fragile, delicata, benestante, un po’ nevrotica, fin troppo accessoriata e foderata di mediazioni. Ogni evento fuori controllo diventa estremo, biblico. E in una società di vecchi soffriamo di più gli eccessi climatici.
Ciò detto, è innegabile che qualcosa di diverso stia accadendo nel clima: non si tratta più di citare Plinio che già duemila anni fa diceva che sono finite le mezze stagioni. C’è qualcosa che nella nostra esperienza di vita, non avevamo vissuto: o per dir meglio, ricordiamo tanti eventi atmosferici avversi, di ogni tipo; ma si è intensificata la frequenza, è aumentata e accelerata. Per fare un paragone filosofico e umanistico, il clima sta mutando con la stessa velocità con cui ci stiamo disumanizzando, in vari ambiti, perdendo la consuetudine di mondi, visioni, morali, religioni e culture con una velocità impressionante. Qui fa capolino una visione metafisica della decadenza, ma in questa sede atteniamoci alla realtà.
Detto questo, è doveroso e urgente cercare di far qualcosa per prevenire, arginare, salvare il salvabile. Dunque non si tratta di abbandonarsi al liberismo teologico e climatico, e lasciar fare il corso della Natura; qualcosa bisogna fare per frenare le emissioni di gas nocivi, inquinamento, la moria di vegetazione e animali, e così via. E bisogna essere il più possibile tempestivi e incisivi. Riconosciuta la necessità di interventi, aggiungerei però due considerazioni intrecciate. La prima è che le possibilità che ha l’uomo di modificare l’ecosistema, l’equilibrio geotermico e il clima sono assai relative, ridotte; la nostra incidenza non va esagerata, siamo dentro processi più grandi che dipendono da fattori più vasti. E anche i fattori umani, a cominciare dal sovraffollamento del pianeta come mai era accaduto, sono quasi insormontabile, non possono essere risolti in modo efficace e razionale. Dunque non attribuiamo troppi poteri all’uomo. E qui torniamo alla filosofia del nostro tempo, anche in senso meteo: da anni rifiutiamo l’idea di evento catastrofico, di incidente, di calamità naturale. Cerchiamo dietro ogni evento una responsabilità, dei colpevoli per dolo, incuria o malvagità; sembra quasi che ogni morte sia causata da un incidente, un disguido, una mancanza di precauzione e prevenzione, insomma sia sempre responsabile qualcuno. Convinciamoci di una cosa: la prima causa, assoluta, di decessi è che siamo mortali. La morte non è un errore ma un destino. Non è colpa tua, mia, loro, della Meloni. Il fatto è che siamo mortali.

Da Panorama, di Marcello Veneziani

La guerra della realtà contro le parole..un assurdo contro il buon senso e il buon gusto-

 

Asterisco, schwa, presidenta, e altre sconcezze. La tempesta in un bicchiere d’acqua. La ventata ideologica sulla parità di genere si è abbattuta sulla lingua e fa strage di buon senso, realtà ed evidenza, ma deturpa anche sul piano estetico parole, cose e concetti. Per dirimere le controversie è stata interpellata dai magistrati di Cassazione che si occupano delle pari opportunità, l’Accademia della Crusca: come scrivere gli atti giudiziari rispettando la parità di genere? Se è per questo, da rispettare non c’è solo la parità di genere, ma anche la consuetudine e la tradizione, la realtà e la verità, e pure la bellezza rispetto alle brutture lessicali imposte per ragioni ideologiche. La Crusca saggiamente respinge asterischi e schwa con cui si vorrebbe deturpare la lingua e deflorare i nomi. Poi, forzando la consuetudine nel nome della correttezza, rifiuta l’articolo davanti al cognome (la Meloni, la Schlein), che viene spontanea in molti casi e che viene usata solo al femminile e non al maschile (il Draghi, il Mattarella). E con assoluto buon senso, boccia le ridondanze ideologiche definite “reduplicazioni retoriche” ovvero la tendenza a ripetere: i cittadini e le cittadine, le lavoratrici e i lavoratori, le figlie e i figli, anche se è d’uso dire signore e signori. La questione si fa più controversa a proposito dei nomi di professione in versione femminile: l’Accademia dei cruscanti manda in soffitta quel suffisso “essa” (dottoressa, sindachessa, professoressa, avvocatessa; anche leonessa?) e non prende in considerazione di lasciare la qualifica nel termine maschile (ad esempio la rivendicazione di Beatrice Venezi di farsi chiamare direttore d’Orchestra) e propende per la declinazione al femminile: direttora, prefetta, questora – che sembra indicare l’ora in corso. Ma poi, se ho ben capito, ridà ragione a Beatrice (stavo per dire alla Venezi), quando avalla “il maschile non marcato” di alcune definizioni come il Presidente del Consiglio. Insomma direttora o direttore? A me sfugge un nostalgico direttrice…

La legge si scontra con la diversità acquisita nel linguaggio, la cacofonia, il disagio nel pronunciarla: perché magistrata e avvocata può anche andare, ma colonnella, architetta (con sciame di allusioni pettorali), addirittura “pubblica ministero”, suonano oggettivamente maluccio e non vengono poi spontanee. Detesto la giustificazione cripto-ideologica che si tratterebbe di definizioni “inclusive”; credo che abbia pari valore anche l’istanza opposta di riconoscere e rispettare le differenze, che non devono essere disparità di giudizio e di pregiudizio, o di rispetto. Ma che sono riconoscimento della differenza tra il femminile e il maschile senza stabilire gerarchie tra l’uno e l’altra. Timidamente la Crusca avverte di non sopravvalutare i principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzione delle presunte storture della lingua tradizionale. D’altra parte – aggiunge con salomonico cerchiobottismo la Crusca – queste mode hanno “un’innegabile valenza internazionale, legata allo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata». In medio stat virtus, o forse in medio stat virus, perché alla fine non si dirime la controversia ma si ondeggia tra le due sponde. Ci rincuora sapere invece la netta bocciatura di quel delirio ideologico che sono gli asterischi o schwa: «È da escludere – dice la Crusca, riferendosi almeno alla lingua giuridica – l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi” di cui però riconosce il beneficio delle buone intenzioni. E la precisazione è ancora più pertinente per una lingua come l’italiano che non ha il neutro, ma solo due generi grammaticali, il maschile e il femminile. Come è noto, la questione è esplosa al massimo livello quando la premier Meloni (e qui non riusciamo a fare a meno di metterci quel “la” davanti) ha disposto di farsi chiamare il presidente del Consiglio. Una definizione che spacca il fronte femminista e gender, ma anche il mondo conservatore, legato alla tradizione. Definizione al maschile, anche se la Crusca ne attenua l’impatto definendolo “maschile non marcato”, che può andar bene se è il riferimento generico, astratto, all’impersonalità del ruolo; ma quando poi devi declinarlo ad personam, viene spontaneo e più verace aggiungere quell’articolo determinativo, la Presidente, o la Meloni. Tornando sull’articolo determinativo, la Crusca, pur consigliandone la dismissione, ritiene che il suo uso non abbia un significato discriminatorio, ma nasce da un senso comune. Più insidioso, invece – ne convengo – è chiamare le donne solo per nome e chiamare invece gli uomini per cognome o titolo professionale. E’ d’uso ma non è un buon uso; senza crociate, è giusto auspicarne il disuso. Infine per superare quei richiami reduplicati al maschile e al femminile (impiegate e impiegati) la Crusca consiglia di usare forme neutre o generiche come la persona, anziché l’uomo, e il personale anziché i dipendenti al maschile.

Nel complesso, indicazioni sagge, abbastanza equilibrate (anche troppo, fino a sfiorare l’equilibrismo), e un invito a usare la testa prima della lingua. Ma, se permettete, continuate pure ad usare gli occhi, e non a chiuderli per sposare regole “inclusive” o cedere a “mode ideologiche”. La realtà vista con gli occhi, magari poi vagliata dagli “occhi della mente” di cui parlava Platone, aiuta molto a definire la realtà.

da Panorama        MV