Senza il Natale, ma Progressisti…

Una notizia clamorosa. Che lascia sgomenti. Che pone interrogativi sulle nostre tradizioni e sulla difesa degli stessi. Al prestigioso Istituto Universitario Europeo di Fiesole, meraviglioso centro ad un passo da Firenze, il presidente ha deciso che, per ottemperare agli obblighi del “Piano per l’uguaglianza etnica e razziale dell’Eui”, la festa più importante del cattolicesimo verrà depennata. Secondo l’indiscrezione raccolta da Sir, l’agenzia che fa capo alla Cei, la Conferenza Episcopale Italiana, “l’ex festa Natale verrà rinominata, per eliminare il riferimento cristiano”. Così si legge in una corrispondenza interna.
Le regole per l’uguaglianza etnica nell’Eui prevedono infatti che, se da un lato le feste religiose vanno inserite nel calendario, dall’altro il linguaggio con cui le si comunica deve essere “inclusivo”. Quindi ora è partita la “caccia” ad una denominazione alternativa. I fan del politicamente corretto però sono disposti, bontà loro, a tollerare “gli aspetti tradizionali e folcloristici possono rimanere parte dell’evento”. Una proposta circolata è “Festa d’Inverno”, ma non convince granché. All’interno dell’Istituto non mancano ovviamente le perplessità e c’è chi ritiene che Natale sia un nome legato alla cultura dell’Italia, alle comuni radici, ovvero una festa che va “oltre la religione”. Una notizia che, come era prevedibile, ha sollevato un vespaio di polemiche.
“È sconcertante che un istituto accademico, ospitato all’interno di un luogo di culto cattolico, decida di rimuovere il riferimento cristiano dalla celebrazione del Natale. Ed è ancora più inquietante considerando che questa istituzione ha la propria sede nella ‘badia fiesolana’, un luogo dove nel passato sorgeva l’oratorio dedicato ai santi Pietro e Romolo (patrono di Fiesole). Questa decisione sembra completamente fuori luogo e dimostra una mancanza di rispetto per le tradizioni italiane e per il significato profondo che il Natale ha per tantissime persone – ha dichiarato il consigliere metropolitano di Fratelli d’Italia, Alessandra Gallego -. Annullare queste tradizioni e sottrarre il Natale dalla sua autentica essenza religiosa significa svilire il suo significato profondo e minare le radici culturali della nostra società”.

Christian Campigli, IL TEMPO

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Ambientaliste che confondono il verde della bandiera di Hamas col green…

 

donne di Gaza

La condizione delle donne nella Striscia di Gaza è lontanissima da quella delle civiltà occidentali, ma questo non sembra avere un peso in chi sostiene la causa di Gaza

Ma precisamente che cosa attira tutte queste Grete alla causa di Gaza? Le ambientaliste confondono il verde della bandiera di Hamas col verde dei prati svizzeri, dei boschi svedesi? Le attira forse l’aspetto bucolico-zootecnico della Sura della Vacca, quella che recita “Le vostre spose per voi sono un campo da arare”? O l’obbligo di velo che consente di risparmiare sullo shampoo inquinante? Oppure la comune centralità del venerdì, per i maomettani giorno di preghiera collettiva e per loro dei raduni Fridays for Future? Dubito che siano affascinate dalla poligamia, forma di matrimonio che nella Striscia pur non essendo maggioritaria è perfettamente legale e praticata. Sarà magari l’obbligo, recentemente imposto da Hamas alle donne che intendono viaggiare, di avere il permesso ufficiale del padre o del marito? In effetti i viaggi hanno un impatto ambientale negativo, osteggiarli ha il suo perché, starsene tutto il giorno in casa fra talamo e fornelli è molto più green.

Camillo  Langone   ,  IL FOGLIO

L’Occidente è il peggior nemico di se stesso…

I massacri di Hamas in Israele e l’invasione dell’Ucraina sono stati letti come un attacco all’occidente che impone agli occidentali di schierarsi. Si tratta in realtà di due casi diversi: se l’attacco di Hamas ha una valenza ostile anche nei confronti dell’Occidente, l’invasione russa dell’Ucraina non era rivolta contro l’Europa ma mirava al più a ripristinare l’area d’influenza russa, come ai tempi degli Zar e dell’Urss ed evitare basi Nato ai confini russi.
Ma in entrambi i casi sale l’appello a difendere l’Occidente e a schierarsi di conseguenza.
È inutile negarlo ma nel mondo “conservatore” riaffiora un bivio ineludibile tra chi si schiera sempre e comunque dalla parte dell’Occidente, in primis degli Usa, e chi non si riconosce in un Occidente che rinnega le sue identità e le sue stesse matrici; la sua storia, il suo pensiero, la sua tradizione, la sua fede, le sue comunità naturali e corre verso una deriva postumana e nichilista. Si gira intorno a questa divaricazione ma non possiamo eluderla. È facile schierarsi con l’Occidente e con tutto ciò che esso esprime, se si riconosce senza indugi il suo modello economico e sociale come il non plus ultra; i suoi interessi, il suoi fluidi stili di vita e la sua prevalente ideologia, come la rappresentazione del bene, della libertà, della democrazia, dei diritti, del progresso e del benessere. E viceversa, è facile schierarsi contro l’Occidente se si è nemici del modello capitalista, del consumismo sfrenato, del colonialismo passato oppure se si vive con vergogna e senso di colpa l’eredità storica, civile e religiosa dell’Occidente e del suo “imperialismo”.
Ma diventa più difficile schierarsi di qua o di là se da un verso si ama la civiltà da cui proveniamo e dall’altro si detesta la sua decadenza e il suo rinnegamento; e il primato dell’individualismo, dell’economia, della tecnica, l’assenza di valori salvo i codici ideologici woke, black o politicamente corretti. Se sei sempre e comunque dalla parte dell’Occidente, ti appiattisci nella difesa di questo Occidente che rinnega la sua civiltà, le sua identità e le sue radici greche, romane e cristiane. Alla fine difendi solo il suo livello di benessere e la sua potenza, rinunciando a tutto il resto, mettendo a rischio pure la libertà e la democrazia. Se viceversa ti opponi all’Occidente, rischi di lavorare per i carnefici o per i nemici, dal fanatismo islamico alla dittatura cinese e di sostenere regimi e paesi che negano la libertà, i diritti e la democrazia. Non ci piace questo Occidente, e la supremazia americana, ma potremmo mai schierarci con i paesi del Brics e i loro nuovi alleati, ben sapendo stiamo comunque nel campo avverso? Ci si può schierare dalla parte di Putin, degli ayatollah o di Xi jinping perché si detesta questo Occidente? Bisogna andare oltre gli apocalittici e gli integrati.
Sul piano culturale o dei principi, si può trovare un punto di coerenza, abbracciando la civiltà e criticando alcuni aspetti della civilizzazione, amando e sostenendo la nostra identità nazionale, europea e mediterranea, civile e religiosa, e rigettando il modello globale uniforme e alienante promosso dal tecnocapitalismo. Attivando la capacità di distinguere sul piano internazionale (es. l’India è un interlocutore preferibile rispetto alla Cina).
Ma quando la storia ti costringe a scegliere di qua o di là del campo, e in tempi rapidi e cruenti; quando c’è una guerra in corso, o uno sterminio, che fai, resti nel mezzo, ti chiudi nella torre, scegli l’uno o l’altro sapendo comunque di tradire una parte essenziale del tuo essere europeo? C’è chi risolve tutto agitando senza indugi le bandierine del momento, quella ucraina, quella israeliana, come fa il presente governo; accetta l’elementare manicheismo dei media e dei soggetti più forti d’Occidente, non si pone domande critiche, non riconosce i precedenti e i presupposti, non vede le cose da più punti d’osservazione, non calcola gli effetti a lungo raggio, i dolori e i risentimenti di rivalsa che suscita. Divide in assoluto tra vittime e carnefici, senza porsi il problema se i carnefici di oggi sono le vittime di ieri e viceversa; è più facile il messaggio e magari è più vantaggioso, anche sul piano personale. Ma per chi ama la realtà e la verità e ha a cuore alcuni principi, non c’è una soluzione così semplice e unilaterale. Non resta che attenersi al senso della realtà, al primato del bene o dove non è possibile, alla preferenza del male minore, alla distinzione dei piani, dei tempi e delle priorità, all’equilibrio, nella considerazione dei diversi punti di interesse e di osservazione. Per fare un esempio a caldo sul presente, sconfiggere il terrorismo di Hamas è una priorità da condividere, ma il programma non può essere solo la salvaguardia di Israele, sacrosanta, senza considerare la necessità di garantire la vita al popolo palestinese e dar loro uno stato e un territorio. Le frustrazioni e i diritti elementari negati armano gli estremismi e minano il futuro assai più delle trattative e dei negoziati.
Enormi questioni premono sullo sfondo e richiamano il tema della cristianità al tramonto, la questione della tecnica che tutto pervade, l’accettazione o meno del capitalismo come orizzonte insuperabile, correggibile o superabile. E poi il rapporto tra Europa e Stati Uniti, e tra l’Europa e il resto del mondo. L’Occidente non è un blocco compatto, dire occidente significa designare almeno tre mondi irriducibili tra loro, anzi spesso divergenti: gli Stati Uniti, l’America latina e l’Europa. Una ragione in più per accantonare l’idea di Occidente come un corpo unico e parlare da un verso di Europa o di arcipelago delle patrie, e dall’altro di Multiverso, cioè di un mondo plurale con più aree di coesione.
Proprio il realismo dovrebbe imporci di partire da una considerazione: l’Occidente non è il mondo intero né il paradigma dell’universo ma è ormai una realtà minoritaria, destinata ad essere sempre meno centrale, se non soccombente, in molte sfide e tanti ambiti. Un Occidente che per giunta si vergogna di sé stesso, della sua identità, della sua storia e della sua cultura, tradizione e religione. All’interno dell’Occidente le priorità e gli interessi europei non coincidono con quelli atlantici. La conseguenza è accettare l’idea di un mondo multipolare, considerare l’Europa una di queste aree e superare la pretesa che gli Usa possano continuare ad essere gli arbitri supremi del pianeta. Quanto questa posizione si allontani o si incontri con si tratta di destra o di sinistra. Si tratta di difendere la realtà, il buon senso, l’eququella del presente governo ci interessa poco: qui non ilibrio, cercare pezzi di verità nel poligono della vita, difendere la civiltà e l’umanità, a partire da chi ti è più vicino.

Marcello  Veneziani     

Non è guerra ma sterminio ..

No, non chiamatela guerra. Non è una guerra quella che è in corso in Israele. Guerre ne abbiamo viste tante, una è in corso in Ucraina. Ma questa non è una guerra. Questo è uno sterminio. Iniziato o esploso una settimana fa, covava da decenni e affiorava periodicamente ma episodicamente. Poi qualche giorno fa, è diventato uno sterminio, esteso alle popolazioni civili.
Non mi infilo nella spirale astiosa delle accuse su chi ha cominciato, nella matrioska delle persecuzioni, un popolo assediato e circondato da paesi ostili che ne assedia e ne circonda un altro. Anzi, uso il meno possibile il riferimento ai due popoli, israeliani o palestinesi. Chi uccide un bambino uccide un bambino; non un israeliano, non un palestinese, un ebreo. Un bambino, solo un bambino.
Se per punire uno Stato tu colpisci un popolo e sgozzi innocenti, tu non fai la guerra, ma compi uno sterminio. Se per punire un terrorista tu uccidi la sua famiglia, tu non fai la guerra né fai giustizia, compi uno sterminio. Se uccidi gente nelle case, mentre dorme, mangia, inerme e spaventata, tu non fai la guerra, fai uno sterminio. Se li fai morire come topi in gabbia, per asfissia o togliendo loro tutto ciò di cui vivono, costringendoli ad uscire per poi massacrarli, tu non stai combattendo una guerra, tu li stai sterminando. Lo sterminio è il grado peggiore dell’odio e della violenza, più della guerra, perché non combatte contro un nemico ma elimina tutta l’umanità che si muove all’interno dell’obbiettivo. Non vuole batterlo, ma cancellarlo. Col sottinteso che il nemico faccia altrettanto. E se elimina pure i bambini vuol dire che vuole sradicarlo, ne vuole impedire la ripopolazione futura. La guerra ha le sue regole, qui l’unica regola è portare al massimo livello di estensione e crudeltà il male che si vuol fare.
L’idea stessa che spinge gli sterminatori non è vincere la guerra, ma espiantare ed eliminare un popolo. Nello sterminio o nella fuga, disperdendolo altrove.
Il peggio, si sa, è il terrorismo, che è guerra ad personam senza confini né regole, col paradosso che le persone non contano, solo solo bersagli, simboli, categorie; ma non lo chiamerei male assoluto, come fanno in tanti, perché neanche nel male l’uomo può farsi assoluto. Il terrorismo è male radicale, forse il male peggiore che ci possa essere. Anche se la guerra, muovendo stati e armamenti poderosi può fare assai più devastazioni di un atto terroristico pur cruento. Poi resta da stabilire fin dove e a chi si possa estendere la definizione di terrorista, e se possa riguardare anche stati ed eserciti, come si sostiene da qualche tempo. Sul piano umano e personale anche il peggior male ha magari alle sue origini una giustificazione umana, il dolore e la disperazione per i tuoi cari sterminati davanti ai tuoi occhi. Nell’inferno dello sterminio, la vendetta è l’ultima traccia di umanità che resta, perché muove da una motivazione in origine comprensibile; la vendetta segna il passaggio dall’umanità alla ferocia, è il sentimento che precede e motiva quel diventare disumani.
Quanto al pericolo che si scateni una nuova guerra mondiale, e al fatto che ci stiamo andando assai vicini, la penso diversamente.
Ci siamo andati vicini nei primi anni novanta, ai tempi della Guerra del Golfo e poi dell’attacco all’Iraq. Ci arrivammo ancora più vicini al tempo delle due torri e di quel che ne seguì tra guerre e terrore. Abbiamo sfiorato il conflitto mondiale pochi mesi fa, tra la Russia e l’Occidente. Anche in questo caso, ci stiamo avvicinando a una guerra mondiale per quel che succede in Medio Oriente, che resta comunque la prima polveriera del mondo da più di mezzo secolo.
Ma la guerra sarà guerra mondiale, catastrofe globale, quando coinvolgerà direttamente i giganti della terra. E’ una minaccia che serpeggia; la vera sorpresa non è che ora siamo alle porte di una guerra, ma che lo siamo periodicamente da svariati decenni e non varchiamo mai quella soglia terribile; grazie a Dio, alla fortuna, agli uomini o agli eventi.
Ma lasciamo sullo sfondo il pericolo della guerra e vediamo quel che c’è davanti a noi, lo sterminio. A volte ti capita per un momento di sentirti lì dentro l’incubo, per le strade d’Israele o di Gaza, senza avere alcuna colpa se non quella di appartenere a quel popolo, di essere nato là e di abitarvi. Appena ti cali in quel luogo ti manca il respiro, ti senti soffocare, vorresti scappare e non si sa da dove verso dove. Poi ti sorge quel filo di umanissima viltà, e ti senti graziato o fortunato perché abiti in un’altra parte della terra, piena di problemi, ma un paradiso rispetto a quell’inferno. Ma non ti basta scamparla, ti insorge comunque il dubbio che possa capitare anche a te e ai tuoi cari, e comunque c’è qualcosa che è dentro di te che ti fa sentire partecipe, consorte, solidale a quel destino, da cui non puoi chiamarti del tutto fuori. E sorge un sentimento doloroso d’impotenza, in cui l’unico alibi per uscirne è che siamo troppo piccoli, fragili e passeggeri per caricarci di tutte le tragedie del mondo. Non servirebbe a nulla, sprofonderebbe solo noi stessi.
Ma l’orrore c’è, resta negli occhi e pure dentro, basta affacciarsi alla finestra, in forma di video, per rendercene conto. Poi pensi ad altro, capisci che nel mondo ci sono mille altre cose e noi abitiamo tanti mondi, con la memoria, con la fantasia, con la natura, con la speranza, con l’amore per la vita e per l’eterno. C’è vita oltre lo sterminio ed è più grande del male.

Marcello Veneziani 

Quanto durerà la tregua tra governo ed establishment?

Cos’è lo spread? No, non è il differenziale di rendimento ecc. Spread vuol dire in sigla Scusa Per Rovesciare Esecutivi Antipatici Destrorsi. Lo spread è un fantasma che si manifesta solo in presenza di governi eletti dal popolo ma disprezzati dalla Cappa. E poi sparisce. Un tempo investì Berlusconi, e lo mandò fuori strada, propiziando l’avvento dei tecnici col protettorato della sinistra; ora accenna a investire la Meloni e il suo governo ma chi lo dice è complottista e si inventa nemici a scopo preventivo. Il razzismo dello spread si chiama rating, e il tribunale della razza che decreta l’espulsione per indegnità sono le agenzie apposite chiamate a valutare la purezza del sangue, che nell’era mercantile coincide coi flussi finanziari. Nell’era finanziaria il colpo di stato coincide col colpo di spread. Il motivo è sempre lo stesso ma pesa solo su alcuni governi: il debito sovrano.
La variante principale allo spread è giudiziaria: quando non puoi inguaiarli con l’economia, li incrimini sul piano giudiziario. C’è un’internazionale giudiziaria che colpisce puntualmente su basi pregiudiziali e ideologiche, chi nel proprio Paese non sia allineato alla cordata radical-liberal-progressista. Non c’è governo Antipatico Destrorso che non sia passato da queste forche caudine, dall’una o dall’altra, meglio se da ambedue. Lo stiamo vedendo da noi, e non solo, sulla questione migranti.
Ora, si possono arguire due teorie opposte: in ogni parte del mondo, dagli Usa al Brasile, dall’Europa all’Oriente, la destra è sempre guidata da incapaci, criminali o demagoghi; oppure a giudicarli in questo modo sono alcune sette finanziarie, giudiziarie, mediatiche che non accettano i loro governi anche se votati in libere e democratiche elezioni dalla maggioranza del popolo sovrano. Se è valida la prima ipotesi, si può dedurre una teoria razzista che decreta l’inferiorità etnica della destra, ovunque guidata da gente inferiore per moralità, intelligenza, senso della legalità. Se è valida invece la seconda ipotesi, si può dedurre che c’è una pregiudiziale ideologica che diventa antropologica contro di loro, e si scatena ogni volta che vanno al governo. A voi la scelta.
Naturalmente essere nel mirino finanziario-giudiziario non può fungere da alibi per i propri errori e le proprie incapacità. E restarne vittime non è necessariamente una decorazione al merito, ma può esserci anche demerito.
Però resta l’anomalia di questa legge politico-giudiziaria-finanziaria che perverte le democrazie e sovverte governi ed esiti elettorali. Vari sono gli esempi di questa clamorosa divergenza tra i due piani. È il caso di Donald Trump, incriminato come se fosse il più Grande Delinquente d’America, e allo stesso tempo il più gradito dal popolo sovrano alla guida degli Stati Uniti. Come spiegare questa divergenza? Anche qui due tesi opposte: 1) il popolo preferisce i peggiori, chi promette soluzioni semplificate; dunque va guidato e corretto, la democrazia così com’è non funziona, va messa sotto tutela. 2) le oligarchie mediatico-politico-giudiziarie, e vasti settori della finanza hanno interessi divergenti anzi opposti rispetto a quelli popolari e vogliono imporre la loro volontà, servendosi anche di alibi ideologico-umanitari.
Il meccanismo avviene più o meno così in tutto il mondo. Nei rari casi in cui si verifica un cortocircuito in campo avverso, la riabilitazione avviene senza colpo ferire: prendete il caso del pregiudicato Lula in Brasile. Per lui dopo le gravi condanne, c’è stata assoluzione senza ombre; ha piena legittimità a governare, le accuse e condanne passate vengono smacchiate in modo indelebile.
Ma la questione assume anche altri risvolti. Per esempio nel nostro Paese Giorgio Napolitano è stato celebrato in modo unanime dalle Istituzioni, i media, papi e politici, come uno statista d’eccezione e un Grande Padre della patria (non sovietica o ungherese ma proprio italiana). Sui social, invece, lo stesso Napolitano è stato vituperato e criticato in modo radicale, offensivo. Funerali di Stato, non di popolo; tanti vip, poca gente; beatificato dal mondo di sopra, condannato dal mondo di sotto. Anche qui una clamorosa divaricazione tra i due piani. Da una parte la Cappa (in questo caso si è aggiunto anche il governo Meloni), dall’altra il popolo. Gli scontenti. Buon senso vorrebbe che si cercasse perlomeno una via di equilibrio tra gli opposti, senza panegirici né contumelie, con realismo e senso storico.
Il meccanismo è sempre lo stesso. Rivince in Slovacchia Robert Fico (non è parente dell’omonimo neo-melodico grillino napoletano), e viene massacrato dai media perché non è allineato alla Cappa euro-atlantica; però, piccolo particolare trascurabile, la gente lo preferisce ai suoi avversari, lo vota. Si voterà in Polonia e poi in Ungheria? E tu vedi già schierati i media sinistri (per es. il tg3) con i loro peana trionfali per le opposizioni di sinistra che dai loro reportage, sembrano lì finalmente a un passo dalla vittoria, pronte a liberare il paese dall’oppressione e dalla depressione. Poi leggi le intenzioni di voto del popolo sovrano polacco o ungherese, e noti che è l’opposto, stravincono i governi di destra; evidentemente non si sentono né oppressi né depressi da Morawiecki, Duda e Orban. Un divorzio totale, vistoso, tra la rappresentazione e la realtà, e sempre nello stesso senso: la rappresentazione va a sinistra e paraggi, la rappresentanza del reale va a destra e dintorni…
C’è chi fa notare che la Rai e in buona parte Mediaset sono oggi filo-governativi. Dunque non c’è questa egemonia radical nell’informazione. È vero nei tg, nelle nomine e negli spazi politici lottizzati. Ma l’orientamento, le inchieste, la fattura e l’ispirazione di fondo sono in realtà allineati al mainstream e ai suoi santuari. E tali restano oltre l’ossequio ai governanti di turno.
Quanto potrà durare questa biforcazione così drastica? Si arriverà a una resa dei conti, con l’eliminazione o la sconfitta di uno dei due antagonisti, o si arriverà infine a un compromesso, a una tregua?
Nel mezzo veleggia la barchetta Italia, e ancora non sappiamo se si andrà allo showdown o se è rinviato a una prossima occasione per avverse condizioni atmosferiche. In ogni caso è solo questione di tempo…

Marcello Veneziani 

Una perla di saggezza non ha tempo…

 

Quando tutto il mondo fu cittadino romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto.

-Giacomo Leopardi, Zibaldone, 24 dicembre 1820

 

leopardi

 

La pesca di beneficienza. Quante chiacchiere e quanti spropositi…

La pesca di beneficenza

La settimana che si è appena conclusa ha girato intorno a una pesca; il frutto che la bambina offre con un’angelica bugia a suo padre separato, dicendogli che gliela manda la mamma, allo scopo di riavvicinarli. Quando ho visto per la prima volta quello spot, non era ancora scoppiata la polemica, e in un primo tempo ho pensato, o forse sperato, che fosse uno di quei messaggi ministeriali, tipo pubblicità progresso, per promuovere la famiglia nonostante i divorzi e gli strappi e farlo dal punto di vista dei bambini.
E invece, l’unico vero messaggio d’amore famigliare che la tv ha lanciato non proveniva dal governo, ma era uno spot pubblicitario di Esselunga. Però, se permettete, è una piccola, promettente rivoluzione che nasce dalla società, dal costume, dalla percezione delle vere sensibilità della gente; non dalle istituzioni, dalla politica, e dai suoi assetti mutati. Dopo gli anni della famiglia felice del Mulino Bianco e affini, da anni domina nella pubblicità il messaggio woke, a cui ha dedicato un’analisi l’australiano Carl Rhodes (Il capitalismo woke, edito da Fazi), denunciando “come la moralità aziendale minaccia la democrazia”. In pochi secondi di spot devi sorbirti le solite allusioni al mondo migliore, alla società multietnica, alla fluidità, al globalismo; ci dev’essere come ingrediente d’obbligo tra i protagonisti dello spot un amore gay o lesbico, un nero o una nera, a volte pure un giallo asiatico, e magari un disabile e un riferimento verde, ecosostenibile. Ma la pubblicità prevalente è incentrata sul culto di sé stessi, star bene con sé stessi, la mitizzazione di sé stessi, grazie ai prodotti miracolosi, creme, auto, pillole e integratori.
Poi, d’improvviso, ti imbatti in uno spot diverso; che non torna indietro al mondo dorato dei mulini finti della nonna, alle valli degli orti e alla stucchevole italianità o alla famiglia di una volta. Ma fotografa una famiglia reale d’oggi, con i genitori separati, la bambina un po’ triste ma reattiva, che vuol riannodare i ponti tra il papà e la mamma e lo fa servendosi di una pesca. La benedetta pesca ha la funzione inversa della mela del peccato; riporta in paradiso, nel piccolo paradiso della vita familiare quotidiana, almeno vista con gli occhi di una bambina.
Tenero, toccante spot, ha ragione Giorgia Meloni che elogiando lo spot e il suo messaggio, ha scatenato la reazione opposta dei cani pavloviani: appena dice una cosa la Meloni loro abbaiano e azzannano il bersaglio. Ma anche gli esegeti ufficiali dei giornali ufficiali hanno fatto i pesci in barile, parlando bene e male dello spot ed eludendo il messaggio più forte. Ma se fosse questo modo di pensare positivo, questo amore piccolo per la realtà, questo impulso all’unione, un punto di svolta mentre imperversa il catechismo woke e i suoi santuari?
Intendiamoci: chi fa una pubblicità non è mosso da ideali o spinte etiche, morali: sia i seguaci del woke sia gli artefici dello spot di Esselunga vogliono vendere i loro prodotti. Ma venderli in un modo anziché in un altro è una scelta significativa. E poi, c’è una specie di eterogenesi dei fini, per cui le intenzioni del committente o degli stessi autori a volte sono deviate, intercettano altri percorsi e raggiungono esiti involontari e impensati in partenza.
La bambina dice una bugia a fin di bene; quella che in chiesa si chiamava pia fraus, pia frode, o che Platone definiva salutari menzogne. Lei non lo sa, lo fa d’istinto, ma quella naturale propensione al bene, quella pesca d’amore e di beneficenza, è un messaggio finalmente positivo, nella sua disarmante naturalezza. E’ un continuo, martellante elogio della liberazione e della ritrovata libertà di singoli, i figli sono spariti dal racconto pubblico nel loro legame affettivo, se non come aspirazione di chi non può averli, soprattutto coppie omosessuali o chi pensa a uteri in affitto, fecondazioni artificiali. Qui siamo di fronte a una bambina nata dall’unione di un uomo e di una donna, che ha nostalgia della sua famiglia unita; vorrebbe ritrovare insieme le persone che più ama e che più amano lei; non sarebbero questi i messaggi migliori da lanciare dai video e da tutte le agenzia pubbliche, dalle scuole al web, passando per gli altri media, le associazioni, le istituzioni?
E’ proprio stomachevole, insopportabile fare coming out dei sentimenti più intimi, più veri, più inermi e più teneri, come quelli di una bambina verso i suoi genitori e viceversa? Ma dobbiamo aspettare un supermercato, una campagna promozionale del suo marketing, per veder circolare questi racconti e veder rappresentare questi sentimenti peraltro diffusi? Conosco famiglie giovani che pur con le loro imperfezioni, senza quadretti idilliaci o edulcorati, vivono bene la loro unità famigliare, l’amore ricambiato con i figli. E conosco famiglie di separati che potenzialmente potrebbero trovare in una pesca della provvidenza l’occasione per ripensare alla loro separazione e per riannodare rapporti lacerati. Perché invece la rappresentazione pubblica, cinematografica, pubblicitaria e mediatica ci racconta solo le famiglie in cui avvengono abusi, delitti, litigi e violenze o ci mostra solo modelli opposti a quelli della famiglia naturale e tradizionale? Esistono, e nessuno può negarli, anche altri tipi di unione ma perché devono diventare queste il paradigma delle famiglie e delle coppie?
Mi piace pensare che nel mutato clima, altri frutti spontanei di questo ripensamento della realtà possano sorgere qui e là e raggiungere ambiti finora refrattari, come il cinema, la fiction, il teatro, l’arte. Non si può escludere che in questo riposizionamento dei messaggi, vi sia anche la considerazione astuta, opportunistica, di cavalcare il mutamento politico, l’ondata destrorsa, di solito semplificata con la triade Dio, patria e famiglia. L’astuzia della storia, la mano della provvidenza, il cortocircuito di certe ideologie e il loro contraccolpo; pensatela come volete, ma è lecito pensare che il finale della storia non sia stato già scritto e nel modo che voi dite. I miracoli di una pesca fuori stagione.

Marcello Veneziani

Le parole vanno comprese nel loro vero significato…

 

Le parole sono importanti (cit.)
La frase detta così è da sinistri, cioè non vuol dire nulla: valori “assoluti” di per se le parole come gli atti non hanno.

Importante delle parole è comprenderne e condividerne il SIGNIFICATO (da signum fero: porto un segnale, un emblema). I cultori delle NEOLINGUE vorrebbero invece imporre significati artificiali cangianti, “più corretti”, “adatti ai tempi che cambiano”, al fine di influenzare i comportamenti mediante mutamenti del senso (tipo cartelli stradali).

 Cerchiamo invece radici e significati autentici.

GLEBA: in latino è la zolla di terra, per traslazione é il campo, il fondo da coltivare. La SERVITU’ DELLA GLEBA già in epoca tardo romana (“colonato” regolamentato da Diocleziano) e nel Medioevo era una figura giuridica diffusa che legava l’abitante del contado a una determinata area, a un terreno che NON possedeva. Era una figura formalmente libera ma con obblighi da schiavo: indissolubilmente connesso alla zolla di cui era servo, al punto da esser venduto, con famiglia, assieme ad essa.  Il proprietario poteva multare il colono che uscisse dalla sua “gleba” senza permesso e anche stabilire in quali modi potesse utilizzare i compensi per i suoi servigi extra (la paga base era in natura).

SERVO DELLA GLEBA NELLA NEOLINGUA DIVIENE: “LA CITTA’ IN 15 MINUTI”.

Non avrete nulla – nemmeno figli – e sarete felici!

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Com’è triste vedere Francesco inerte davanti alla morte. Esultano gli ex Pci.

Una volta si segnavano tutti, ora non lo fa neppure Bergoglio a Palazzo Madama per non urtare una cerimonia laica. E per Veltroni e compagni il gesto suona ormai come un’offesa

Com'è triste vedere Francesco inerte davanti alla morte. Esultano gli ex Pci

Un fatto straordinario, ha detto Walter Veltroni commentando il Papa entrato e uscito dalla camera ardente di Napolitano senza nemmeno un segno della croce. Lo dico anch’io: è proprio un fatto straordinario. E però in senso opposto: a differenza del Veltroni gongolante su RaiTre lo giudico un fatto straordinariamente negativo. Un tempo il segno della croce lo facevano tutti e in tante occasioni. Mia nonna, la ricordo come se fosse ora, lo faceva anche quando sentiva la sirena di un’ambulanza. Io che pure non sono né nonno né Papa lo faccio ogni volta che entro in un cimitero. È un gesto per me naturale che significa almeno due cose: pietà verso i morti e preghiera verso chi ha promesso di farli risorgere. E figuriamoci se non lo faccio in una camera mortuaria, un posto dove non mi metto certo ad analizzare la fede o la non fede del defunto: lo faccio e basta. Del resto se i famigliari fossero infastiditi da simili visioni potrebbero sempre affiggere un cartello: «Ingresso vietato ai cristiani» In tal caso girerei i tacchi e me ne tornerei a casa, siccome non entro dove non posso essere me stesso. E per un cristiano il segno della croce è per l’appunto cruciale. Un tempo lo facevano tutti e adesso non lo fa nemmeno il Papa. Non mi piace fare la parte dell’apocalittico, è un ruolo ingrato, ma se quanto accaduto nella camera ardente del Senato non evidenzia lo stato agonico del cattolicesimo romano ditemi voi. Per Veltroni la fissità bergogliana testimonia il «grande rispetto del pontefice nei confronti delle istituzioni di questo Paese». L’ex capo del partito democratico sembra dunque confondere il segno della croce con la pernacchia. Ma se davvero i segni cristiani sono considerati ormai alla stregua di insulti, perché non andare oltre? Perché non avvicinarsi ancor più alla sensibilità del mondo incredulo? Nel corso della loro storia i gesuiti lo hanno fatto molte volte: andarono in Cina per evangelizzare e a forza di avvicinamenti finirono cinesizzati, andarono verso il comunismo per cristianizzarlo e a forza di avvicinamenti finirono comunistizzati… Il Papa gesuita che ha fatto trenta al prossimo funerale potrebbe fare trentuno: presentarsi in clergyman, senza quell’assurdo, anacronistico abito bianco e soprattutto senza quell’impressionante croce sul petto, indelicata verso atei, buddisti, maomettani, zoroastriani

Veltroni su RaiTre ha parlato ovviamente anche di politica. Argomento su cui sembrava più ferrato. Sembrava. Secondo lui Napolitano ha sempre «fatto ciò che andava fatto, agendo nell’interesse nazionale». Secondo me nell’elogio veltroniano mancava un «sovra»: in almeno due occasioni (guerra di Libia e cacciata di Berlusconi) il cosiddetto Re Giorgio agì nell’interesse sovranazionale. Ma non è questo il momento e non è questo l’articolo, non vorrei andare fuori tema e torno al nocciolo della questione che è squisitamente religiosa.

Un Papa così inerte è sconfortante per tutti i fedeli. Starsene impalato davanti a una bara è un venir meno alla propria missione, assegnata da Gesù a Pietro (e dunque ai suoi successori) durante l’Ultima Cena: «Conferma i tuoi fratelli». Un Papa che davanti alla morte si mostra senza parole né gesti non conferma: smentisce. Forse è stato ultra rispettoso verso l’ateo morto, di sicuro è stato poco riguardoso verso i cristiani vivi, in primis quelli che nei paesi islamici hanno pagato e pagano la manifestazione esteriore del proprio cristianesimo con persecuzioni e carcere, a volte col patibolo. In ogni tempo i grandi pensatori cristiani hanno assegnato grande valore al segno della croce. Per Tertulliano bisognerebbe farselo «ad ogni passo, quando si entra e quando si esce, nell’indossare i vestiti, a tavola, nell’andare a letto…». Per Ratzinger è nientemeno che «la sintesi della nostra fede». Invece il video del Papa immoto e silenzioso al Senato mi è sembrato una sintesi dell’agnosticismo costituzionale. E mi ha fatto venire in mente una poesia poco allegra di Cesare Pavese, quella che finisce così: «Scenderemo nel gorgo muti». Vade retro! Gesù nel Vangelo di Matteo ci esorta a fare l’esatto contrario: «Gridatelo sui tetti!». Lui che da quindici secoli fa il segno della croce nel mosaico di Sant’Apollinare in Classe.

Camillo Langone   

Com’era avanti col pensiero Oriana Fallaci…

Io non sono un Conservatore. Non simpatizzo con la Destra più di quanto non simpatizzi con la Sinistra. Sebbene rifiuti ogni classificazione politica, mi considero una rivoluzionaria. Perché la Rivoluzione non significa necessariamente la Presa della Bastiglia o del Palais d’Hiver. E certamente per me non significa i capestri, le ghigliottine, i plotoni di esecuzione, il sangue nelle strade. Per me la Rivoluzione significa dire “No”. Significa lottare per quel “No” Attraverso quel “No”, cambiare le cose.

E di sicuro io dico molti”No”. Li ho sempre detti. Di sicuro vi sono molte cose che vorrei cambiare. Cioè non mantenere, non conservare. Una è l’uso e l’abuso della libertà non vista come Libertà ma come licenza, capriccio, vizio. Egoismo, arroganza, irresponsabilità. Un’altra è l’uso e l’abuso della democrazia non vista come il matrimonio giuridico dell’Uguaglianza e della Libertà ma come rozzo e demagogico egualitarismo, insensato diniego del merito, tirannia della maggioranza. (Di nuovo, Alexis de Tocqueville…). Un’altra ancora, la mancanza di autodisciplina, della disciplina senza la quale qualsiasi matrimonio dell’uguaglianza con la libertà si sfascia. Un’altra ancora, il cinico sfruttamento delle parole Fratellanza-Giustizia-Progresso. Un’altra ancora, la nescienza di onore e il tripudio di pusillanimità in cui viviamo ed educhiamo i nostri figli. Tutte miserie che caratterizzano la Destra quanto la Sinistra.

Cari miei: se coi suoi spocchiosi tradimenti e le sue smargiassate alla squadrista e i suoi snobismi alla Muscadin e le sue borie alla Nouvel Riche la Sinistra ha disonorato e disonora le grandi battaglie che combatté nel Passato, con le sue nullità e le sue ambiguità e le sue incapacità la Destra non onora certo il ruolo che si vanta di avere. Ergo, i termini Destra e Sinistra sono per me due viete e antiquate espressioni alle quali ricorro solo per abitudine o convenienza verbale. E, come dico ne La Forza della Ragione, in entrambe vedo solo due squadre di calcio che si distinguono per il colore delle magliette indossate dai loro giocatori ma che in sostanza giocano lo stesso gioco. Il gioco di arraffare la palla del Potere. E non il Potere di cui v’è bisogno per governare: il Potere che serve sé stesso. Che esaurisce sé stesso in sé stesso.

Oriana Fallaci

oriana fallaci