Uno dei tanti articoli su Sanremo festival…

Sanremo, questo è l’ombelico del nonno
La prima serata del Festival è già dimenticata, tra gag un po’ fiacche e rapper molto addomesticati. Nella noia, ci siamo ritrovati a parlare tutti delle stesse cose: zio Gerry e Jovanotti.

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L’inizio, si può dire, non è ideale: Carlo Conti saluta, ricicla la stessa battuta scadente di mesi fa quando annunciò al Tg1 il suo ritorno alla conduzione («i conti tornano, e io sono tornato»), e salta subito l’audio per qualche secondo. L’errore tecnico è risolto in fretta, ma c’è poca verve. Il normalizzatore Conti, conduttore ragioniere, osa poco: ecco il ricordo di Ezio Bosso, poi quello di Fabrizio Frizzi, le battutine rompighiaccio di Gerry Scotti e Antonella Clerici, affidabili co-conduttori della prima serata, le frasi da Smemoranda sull’amicizia, i cantanti emozionati, le continue rassicurazioni: «Non vi preoccupate, andremo a letto presto». In questo panorama dimesso si prende la scena Gerry Scotti, al debutto all’Ariston. Zio Gerry rompe la scaletta, prova lo scialle di Irama, rimbrotta i più scostumati, canticchia, si fa toccare, ha una buona parola per tutti. Carlo Conti un po’ lo soffre. Quando Gerry si incarica di consegnare i fiori a Elodie, Conti sbotta con il suo Fiorello per la prima volta: «E allora fallo tu».

“Però Conti ha ritmo, sa condurre”, ci assicuravano nei giorni scorsi gli esperti di televisione. In effetti si procede di fretta, con parecchi minuti di anticipo sulle previsioni. Conti, nel pomeriggio, aveva promesso una grossa sorpresa: starà mica creando lo spazio per accogliere un super ospite? Il normalizzatore ci stupirà? Falso allarme. In mezzo alle esibizioni di Achille Lauro e Giorgia, Conti introduce sul palco una cantante israeliana e una palestinese, Noa e Mira Awad, per cantare una innocua versione trilingue di “Imagine”. Qua Conti rompe la quarta parete e annuncia con trasporto un’introduzione speciale, ricordandoci che nel mondo ci sono «tante, troppe guerre». È chiaro subito dove si va a parare: arriva l’ennesimo breve videomessaggio televisivo di pace del Papa, registrato da casa sua, circondato da una luce bianchissima. Pubblicità.

A un certo punto fra il Papa, la mamma di Cristicchi, le battute retrò di Gerry Scotti, le canzoni tutte scritte da Blanco, Abbate o Petrella e gli abbracci forzati del Fantasanremo ci si inizia un po’ a deprimere. Che noia. Si notano anche dei vuoti fra il pubblico. Per risollevare l’atmosfera arriva Jovanotti, il vero super ospite, in total look oro con i capelli leccati all’indietro. Dopo l’incidente in bici, che l’ha tenuto lontano dalle scene per un bel pezzo, è ancora più gasato del solito. Canta “L’ombelico del mondo” circondato da centomila batterie fuori dall’Ariston, poi entra nel teatro accompagnato da ballerine e un suonatore di sitar, si fa toccare dal pubblico adorante, bacia sua figlia, arriva finalmente sul palco dopo un quarto d’ora, non ha più voce ma parte lo stesso “A te” in un tripudio di telefonini accesi, il pubblico lo aiuta sul ritornello. Apoteosi, standing ovation, bentornato. Benignesco, si concede alle domande. «Chi era quel suonatore di sitar che ti ha accompagnato?» E Jova: «Non lo so, ma ha un nome indiano». Jovanotti, mattatore, chiama sul palco anche Tamberi, forse in sostituzione di Sinner, e gli fa annunciare la partecipazione alle prossime Olimpiadi estive. Ci si rivede in spiaggia.

In questa gazzarra nazional-popolare, si conferma una tendenza: l’addomesticamento dei rapper, accorsi di nuovo in massa a questo Sanremo, però quasi tutti con esibizioni innocue e canzoni pop, anche quelli che sembravano ingestibili come Tony Effe (che si copre pure i tatuaggi su faccia e collo). Pochissima trasgressione. Da un pezzo il Festival non è più tabù per loro, ormai nei podcast di settore alla domanda “parteciperesti a Sanremo?” rispondono tutti quanti, sempre, “con il pezzo giusto, sì”. Sono lontanissimi i tempi dell’underground, delle polemiche per l’ospitata di Eminem e la litigata dei Sottotono con Valerio Staffelli, entrambe a Sanremo 2001, edizione resa leggendaria dallo sbrocco dei Placebo. Ma anche le partecipazioni di Ghali e Dargen dell’anno scorso sembrano rivoluzionarie rispetto al clima sdolcinato di quest’anno. Analizzando le scelte di Carlo Conti, incuriosiva la quantità di rapper in gara. Svolta rap? No, si sono adeguati al contesto, forse per far contenta la mamma. Un gruppo di labradoroni mansueti con i tatuaggi da duri (coperti).

Bresh l’anno scorso era a Sanremo per fare casino agli afterparty e adesso fa il tenero cantautore erede della scuola ligure, perfetto fidanzato d’Italia; Tony Effe fino a pochi mesi fa era il crackomane più bello d’Italia, un misogino da boicottare, e ieri ha presentato una potabilissima canzonaccia romanesca; il povero Rkomi, seminudo, si fa prendere in giro da Gerry Scotti, che gli consiglia di indossare una maglietta della salute, e prova a buttarsi nel pop di denuncia sociale, con risultati deludenti; Achille Lauro ne ha fatta di strada da quando dormiva in macchina; Emis Killa si è ritirato prima della competizione per non intralciare il lavoro della magistratura; Fedez, lo si può capire, è assorbito dal suo angolo rosa, e la canzone in gara ne risente.

Insomma, non esattamente una scena di cattivoni, altro che dissing. L’unico coerente è Gue, vincitore morale. Arriva in team con Shablo, Joshua e Tormento (quest’ultimo protagonista dei tafferugli con Staffelli un quarto di secolo fa), occhiali scuri, rappa, swagga, ama la sua mamy e ‘sti money, fa le doppie, si ritrae quando Conti gli dice di venire qua. Fedele alla linea. In un’intervista di qualche giorno fa ha detto di non sentirsi in gara al Festival, sta solo facendo un favore a un amico, parteciperà nei prossimi anni se troverà una canzone giusta. «Come ho convinto Gue a venire al Festival?», ha rivelato Shablo: «Semplice, lui è il maestro della bella vita. Gli ho detto: vieni che nel weekend ti portiamo a Nizza, Montecarlo…gli abbiamo promesso le ostriche, un po’ di champagne, facile». Due ore prima di salire sul palco, Gue sponsorizzava nelle storie di Instagram il suo brand di tequila.

Ah, poi ci sarebbero le canzoni in concorso, e la loro battaglia verso platini e palazzetti. Si conferma il podio previsto alla vigilia: Giorgia, Achille Lauro e Brunori Sas, decidete voi l’ordine. Menzione speciale per Simone Cristicchi, Joan Thiele e Lucio Corsi, le loro canzoni brillano in un mare di tentativi smarmellati di tormentone. Si è fatta una certa, Achille Lauro e Fedez non si sono picchiati nel backstage, gestire l’eredità di Amadeus non è stato poi così complicato. Il trio di conduttori è ormai stanchissimo, Carlo Conti sembra quasi scocciato, accoglie sul palco un carrello con qualche fondina di trofie al pesto. Conti, Scotti e Clerici provano a distribuirle fra il pubblico, che risponde tiepidamente. La prima serata è andata, senza colpi di scena. «W le trofie», urla la Clerici, e parte la sigla di chiusura, “Tutta l’Italia”, con cassa dritta firmata Gabry Ponte.

Lorenzo Camerini__da__RIvista Studio

Morgan sia messo in condizione di non nuocere, ma non impeditegli di lavorare ….

 

Nessuno che riesca a distinguere il peccato dal peccatore. Far perdere al musicista contratti e concerti non è giustizia, è vendetta. Visto anche il numero di infervorati, somiglia a una lapidazione. Il duro mestiere del genio. Ieri Busi e Bene, oggi Morgan e Sgarbi.
Sono tutti pagani (Calcutta con quel nome magari sarà induista) e quindi non riescono a distinguere il peccato dal peccatore. Preziosissimo insegnamento di Santa Madre Chiesa. Pio XII disse che “bisogna essere risoluti contro l’errore e pieni di riguardo verso gli erranti”. Che Morgan sia un errante non ho difficoltà a crederlo, per un articolo di blanda critica mi scrisse messaggi vaneggianti per ore (quanto tempo da perdere ha quest’uomo?). Se il musicista è davvero pericoloso sia messo in condizione di non nuocere: arresti domiciliari, braccialetto elettronico, non so. Ma non gli si impedisca di lavorare. Fargli perdere contratti e concerti non è giustizia, è vendetta. Visto anche il numero di infervorati, somiglia a una lapidazione. E sono tutti senza peccato? Urge inoltre distinguere l’arte dall’artista. Qui oltre che cristiano sono proustiano: Marcel invitava a separare l’opera dalla biografia, altrimenti si riduce tutto a pettegolezzo (o linciaggio). Sid Vicious ha forse accoltellato la fidanzata ma che spettacolo la sua “My way”. Gesualdo da Venosa ha ammazzato la moglie fedifraga e il di lei amante eppure nessuno si presenta alla Decca col presuntuosissimo, prepotentissimo “O lui o io”. Battiato lo spiegò alla perfezione: “Musicista assassino della sposa / cosa importa? / scocca la sua nota / dolce come rosa”.

Camillo Langone__da __IL FOGLIO

 

morgan

Se gli spot superano la realtà. La parità di genere nelle nuove pubblicità dei detetersivi…

In un periodo in cui, da ogni parte, sembra sgretolarsi la certezza di diritti conquistati da parte di noi donne, finalmente una buona notizia.

Stavo guardando la televisione, ieri, e sono rimasta piacevolmente sorpresa alla vista di due spot pubblicitari. Si tratta di un famosissimo detersivo per il bucato. Ebbene, nel primo spot, una giovane donna si appresta ad uscire di sera, tutta in ghingheri. Si avvicina al marito che tiene in braccio un bambino piccolo. L’uomo dà per un attimo il bimbo in braccio alla madre dicendo “saluta la mamma” e il piccolo fa un rigurgito che compromette il vestito di lei. La donna si cambia e comunque esce. Il marito fa il bucato di corsa, asciuga a e stira il vestito. Quando, a fine serata, la donna rientra a casa, trova l’uomo appisolato sul lettone con il bambino sulla pancia e il vestito appeso e pulito.

Nel secondo spot, c’è invece un uomo anziano che prepara con cura le divise di una squadra sportiva. Anche lui lava, stira e con orgoglio ripone questi abiti negli spogliatoi. Quando finalmente entra la squadra, scopriamo che si tratta di atlete donne: tante ragazze accudite da un uomo.

Io ho trovato questi spot un passo avanti enorme. Sono lo specchio della realtà? Sicuramente no. Non credo, ad esempio, sia così diffusa una coppia paritaria come quella mostrata, ed è proprio il motivo per cui c’è bisogno di esempi come questi, che, in modo subliminale, propongono un modello nuovo. La strada è in salita, ma almeno abbiamo iniziato a camminare

Barbara Gubellini.                                                                                                             imagespapà

Marchesi tra il futile e il dilettevole…

Marcello Marchesi è l’anello di congiunzione tra la letteratura e lo spettacolo, tra satira e comicità tramite l’umorismo. Marchesi è il ponte tra Flaiano e Totò, tra Achille Campanile e Walter Chiari, tra Leo Longanesi e Paolo Villaggio. Dopo decenni di silenzio dalla sua morte, nel 1978, ora riaffiora perché sono stati ripubblicati due suoi libri da La Nave di Teseo: la raccolta di boutade Il dottor Divago e il romanzo Il Malloppo. 

A vederlo vestito in bianco e nero, coi baffi e gli occhiali neri, come Flaiano, più l’ombrello e il cappello, sembrava uno di quei borghesi di Magritte, con bombetta, cravatta e abito scuro, piovuti dal cielo. Marchesi era un logo vivente della tv in bianco e nero, incompatibile con la tv a colori; difatti se ne andò all’altro mondo con l’avvento del colore. Me lo ricordo da bambino questo signore di mezza età che mi sembrava fuori posto in tv, troppo serio per essere comico, troppo scanzonato per essere serio. Autore di cinema, famoso soprattutto per i film di Totò, autore in tv di memorabili programmi, autore di tanti indimenticabili motti di Carosello, scopritore di talenti. E autore di testi, di libri che raccolgono i suoi calembour, i suoi giochi di parole, i suoi versi surreali. Si definì futile e spiegò la parola in senso figurato: “Mi fa venire in mente un fucile che spara a borotalco. A pensarci bene, un fucile così non ammazza nessuno e fa sorridere. Sì, sì, sono futile”. Ma dilettevole.  Veniva dal Bertoldo, risposta milanese al romano Marc’Aurelio, con Giovanni Mosca e Cesare Zavattini, Giovannino Guareschi e Vittorio Metz, suo amico e coautore di una vita; vi scrivevano pure Campanile, Longanesi, Maccari, Carletto Manzoni e il giovane Federico Fellini. Collaborò a lungo con la Rai sin da quando si chiamava Eiar. Fu il primo “copyrighter italiano” e le sue trovate, i suoi detti, ebbero successo anche da morto, a molti anni di distanza: pensate al titolo del best-seller di Gino e Michele, Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano: era suo. Coniò slogan virali per la pubblicità ma sotto sotto era un moralista contro il consumismo: si pentì di aver venduto il cervello alla pubblicità e di essere diventato “stratega del desiderio, colonizzatore di anime, uomo al neon”. Per lui il consumismo era una religione a rovescio fondata sullo spreco e sul superfluo, l’avidità e i desideri insaziabili: “diventeremo tutti Buttisti/seguaci del dio Butta/divinità dello spreco/Motto di chi l’adora/Butta via e compra ancora”. Per dirla in breve, rovesciava un noto proverbio: “La pubblicità è il commercio dell’anima”. Come Penelope, Marchesi disfaceva di notte la tela della pubblicità che tesseva di giorno. Ridendo “castigat mores”, quei costumi che lui stesso aveva invogliato a imitare coi suoi caroselli. Amava il non-sense sin dalla nascita: “quando nacqui in casa c’era solo mio padre. Mia madre era uscita”. Andò in tv perché “era l’unico modo per non vederla”. Dedicò il suo Diario futile a tutte le lettere dell’alfabeto, rendendo divertente la consueta formula di rito “Senza di loro non avrei mai potuto scrivere questo diario”.  Si definì attraverso sei aggettivi preceduti dal più: l’uomo più allegro, più malinconico, più funereo, più bugiardo, più aperto, più provvisorio. E malinconico fu sul serio, come Flaiano e Longanesi. Abissale è la mestizia di alcuni suoi versi, come questi: “quando penso che non m’innamorerò, ormai più/che non soffrirò, ormai, più per amore/ mi sento un morto a cui batte il cuore”.  Scrisse, a suo modo, il necrologio più onesto del fascismo: “Il fascismo: l’Italia del periodo Paleopolitico. Il periodo in cui eravamo tutti fidenti, fidentissimi e c’era uno più fidente di tutti. Il fascismo sembrava il sogno di un popolo povero che faceva tenerezza anche agli americani. Ohè! La traversata atlantica! Vuoi vedere che l’ingenuità è la strada giusta? Vogliono l’imperetto, birichini. Alè, diamogli lo scappellotto delle sanzioni. Poi arrivò il compagno cattivo e tutto si guastò irrimediabilmente”.Sono celebri e folgoranti le sue definizioni che giocano sui luoghi comuni e il suo dizionario delle celebrità; ma sono più significative le sue osservazioni da u-moralista, ossia moralista umorista e umorale. Per apprezzare Marchesi bisogna tuttavia avere un retroterra colto o almeno liceale, conoscere un po’ di storia, di latino e di cultura generale.Irriverente verso tutti: quel devoto ipocrita che assisteva tutte le domeniche alle “Sacre Finzioni”; quel poeta, la cui figura “naneggia in tutta la sua pochezza nel panorama della poesia contemporanea”. O quella volta che disse di aver sfregiato una tela d’arte informale alla galleria d’arte moderna:“con quel taglio il suo valore è salito di un milione”. Criticò il progresso: “Bella la vita di adesso. Si vive più a lungo, si muore più spesso”. Poi la sua tenera poesia a “l’unico amico” (Vittorio Metz) “Vieni a trovarmi finché son vivo… scambiamoci un sacco d’idee sbagliate/invecchiamo un’ora insieme”. Quando era demoralizzato si sentiva “un brufolo devitalizzato”. Tendeva a dimenticare i torti subiti ma non per generosità, confessò, ma perché non gli andava di soffrire. Anche la sua vita finì in modo assurdo, tragicamente buffo, a 66 anni: fu nel mare in Sardegna per un’audace capriola nell’acqua. E dire che pochi anni prima in Essere o benessere aveva scritto della strana sorte di un supertimido: “Affogò perché si vergognava a gridare aiuto”. Disse di sé: “Sono un mediocre pieno di genialità, sono un genio che non ce la fa”. Ad avercene di mediocri come lui.

Marcello Veneziani,

 

Le barriere architettoniche disturbano tutti quanti.

Le barriere architettoniche non ostacolano solo chi è costretto in carrozzina, ostacolano le mamme coi passeggini, ostacolano coloro che hanno, per età, malattia, incidente, difficoltà di deambulazione anche modeste

“I disabili sono la nostra avanguardia”. Non avrei mai partorito un simile pensiero se Paola Severini Melograni non mi avesse intervistato nel suo programma televisivo (“O anche no”, RaiTre) e non mi avesse regalato il suo libro dallo stesso titolo (Castelvecchi Editore). Al contrario di lei, pasionaria della disabilità, più che all’altruismo io tendo all’egoismo. Ma avversare i disabili non è da egoisti, è da scemi. In una società che avanza verso la senilità, poi… Le barriere architettoniche non ostacolano solo chi è costretto in carrozzina, ostacolano le mamme coi passeggini, ostacolano coloro che hanno, per età, malattia, incidente, difficoltà di deambulazione anche modeste. I tavolini per spritzomani ,che occupano come metastasi marciapiedi e carreggiate dei centri storici ,ostacolano tutti, compresi gli addetti alle consegne e i guidatori delle ambulanze. E mentre ascensori e scivoli sono a volte difficili da inserire, tavolini e gazebi si potrebbero eliminare facilmente. Leggendo Paola e parlando con Paola ho capito che i disabili sono la prima linea della civiltà, la trincea dell’umanità. Se cade il rispetto per loro l’oltraggio deborda ovunque e può colpire anche i sani (che comunque non esistono, essendo l’uomo, come insegna De Maistre, “tutto una malattia”).

Camillo Langone      ____da IL FOGLIO     

     

disabili                                                                                               

Non resta che privatizzare la Rai..

Al decimo programma televisivo che denuncia in coro la nascita di un regime televisivo meloniano, al decimo annuncio in video del sindacato giornalisti Rai, Usigrai, che lo sciopero ha raccolto quasi l’ottanta per cento di adesioni contro la deriva autoritaria della Rai, e al decimo militante telesovietico che denuncia la Rai di regime perché nonostante lo sciopero ha trasmesso i tg, mi chiedo: ma siamo alla demenza bilaterale, sono cretini e/o ci prendono per cretini?   Ragioniamo. Se ci fosse davvero un regime non ci sarebbero così affollati programmi, giornalisti e conduttori che ripetono all’unisono la menata del regime di destra; se fosse tale, un vero regime non lo permetterebbe. Se poi ci fosse davvero un regime non ci sarebbe l’adesione libera e massiccia, come quella che viene propagata, allo sciopero contro la Rai di regime; ci sarebbero pressioni e intimidazioni a impedirlo. E ancora: tra persone normali, di comune buon senso, lo sciopero è un diritto, non è mica un obbligo; sicché se tu hai la possibilità di astenerti dal lavoro e di far leggere un comunicato in tutti i tg in cui spieghi le tue ragioni, ci dev’essere pure da parte di chi non si riconosce nelle ragioni dello sciopero e nel sindacato storicamente di sinistra della Rai, il diritto di poter invece lavorare. Così come un’azienda, qualunque azienda, non deve impedire lo sciopero ma ha il diritto e il dovere, trattandosi di un servizio pubblico, di mandare in onda l’informazione e cercare di garantire la continuità del servizio. In base a quale legge mafiosa la dichiarazione di uno sciopero deve comportare l’allineamento forzoso e silenzioso di tutti i dipendenti, di tutti i sindacati, dell’azienda al diktat promosso dal soviet dei giornalisti Rai sulla base di una sua lettura unilaterale e partigiana?  Ma ora siamo arrivati a un punto in cui bisogna mettere insieme tutti i pezzi e arrivare a coerenti conclusioni.

Dunque, se come voi dite, la Rai sta scivolando in regime, se la Rai, come voi ripetete, sta andando male, se molti personaggi della tv lasciano la Rai e vanno nelle tv private, viste le offerte vantaggiose e l’impossibilità della Rai di essere competitiva sul piano delle contro proposte, allora la soluzione conseguente che taglia la testa al toro è una sola: privatizzate la Rai, cedetela sul mercato. Si, a questo punto è l’unica ragionevole soluzione per impedire che il potere politico la utilizzi come megafono di regime asservita al governo in carica (un tempo la Rai rispondeva al parlamento, poi mi pare con Renzi, che mi pare fosse allora il leader del Pd, passò a rispondere direttamente al governo); per evitare questa caduta costante di qualità e di ascolti che denunciate; e per mettere fine a questa agonia e fuga di celebrità che lasciano l’azienda pubblica e vanno nelle tv private, nonostante molti di loro fossero storici fautori e testimonial della Tv pubblica contro le tv commerciali. Chi scrive è stato per anni un difensore del ruolo pubblico della Rai, credeva ancora alla bella storia della principale azienda culturale italiana e riteneva che davvero fosse necessario avere un’azienda che si ponesse come missione la crescita culturale e civile del paese. Ero memore del ruolo educativo della Rai e sappiamo quanto la radiotelevisione pubblica abbia contribuito all’istruzione di massa, all’unificazione nazionale e all’uso popolare della lingua italiana. Ho sempre pensato all’utilità di un sistema misto, non solo nell’informazione, con una sfera pubblica e una privata; e ho sempre temuto la privatizzazione generale, la mercatizzazione globale dell’informazione.  Ma a questo punto, visto il pappone velenoso che si è via via stratificato nell’azienda pubblica, e vista la deriva della Rai, penso che sia meglio metterla sul mercato. Naturalmente non si potranno più garantire endemiche rendite di posizione, pletoriche redazioni, giganteschi parchi collaboratori a spese della Rai, migliaia di stipendi e così via. Sarà il mercato a decidere.  Bisogna avere il coraggio di rimetterla sul mercato, mettendo così subito a tacere chiunque dica o voglia effettivamente asservire la Rai al potere. Finalmente avremmo una Rai alla stessa stregua degli attuali gruppi editoriali, reti padronali, network transnazionali, cartelli imprenditoriali, come tutte le altre fonti d’informazione e intrattenimento che ci sono in giro. E ci libereremmo definitivamente dall’assillo sul canone televisivo. Che dite, facciamo un piccolo sforzo? Si immettono sul mercato e gli stessi soggetti che sul mercato si sono accaparrati format, autori e conduttori di provenienza Rai, potranno direttamente accaparrarsi le reti e le testate giornalistiche. Non potete dire infatti che se finisce ai privati viene stuprata e sottomessa a chissà quali oscuri progetti; se i vostri colleghi hanno preferito Cairo, Discovery, Sky, Mediaset alla Rai, perché non si potrebbe scorporare direttamente la Rai e dividerla tra gli stessi o tra altri soggetti che decideranno di partecipare allo smembramento del carrozzone più chiacchierato del nostro Paese? E se siete così bene organizzati, voi del soviet interno alla Rai, potrete concorrere all’asta e magari accaparrarvi una rete, una testata, in cui magari vi sforzerete di stipare tutto il personale eccedente della Rai, oggi spalmato su reti e testate.  In certe cose non si può essere più signori né fessi e tantomeno illusi sulla missione pubblica della Rai, che a vostro parere esiste solo se risponde al potere della sinistra o paraggi. Dite che è una Rai di regime? Eliminatela, abolitela. Un piccolo sforzo, presidente Meloni, per dimostrare la sua buona volontà e per smentire chi la vuole fondatrice di TeleMeloni: sia lei ad avviare questo processo di privatizzazione. E buona notte al secchio. Diranno che pure il passaggio al libero mercato sarà un segno di regime? Certo che lo diranno, e si copriranno di ridicolo, anche perché se si facesse un referendum sulla Rai gli italiani darebbero loro torto marcio e chiederebbero a gran voce di liberalizzarla. Non avrei mai pensato di arrivare a queste conclusioni ma se questa è la realtà, se questa è la deriva…

Marcello Veneziani