Una statua tatuata in Santa Maria dei Miracoli, a Roma…

Una statua tatuata in Santa Maria dei Miracoli, a Roma. Ma le profonazioni corporee sono espressamente proibite: credere in Dio e nei santi, non ai preti..

La biopazzia al potere…

 

In concomitanza con il convegno internazionale sulla maternità surrogata , a Roma in questi giorni, mentre cercavo documentazione al riguardo , mi è capitato sotto gli occhi un articolo del 1917 di Marcello Veneziani, che mi è parso molto attuale. Anche se da allora pure le menti più ottuse e bigotte si sono assuefatte a queste abitudini quasi correnti, anche se nessuna delle nuove regole viene ancora imposta per legge, e per fortuna, anche se ognuno ha diritto di vivere la proprio vita come meglio preferisce,da quando l’uomo vive secondo certe regole, che regole non sono, ma sono eventi naturali, seguendo principi che nel corso dei secoli si sono mantenute, mi pare normale,che rimangano apertissime molte questioni etiche e morali e di queste si possa discutere, nonostante il mainstream.

Ma che razza di società sta sorgendo? È un tam tam quotidiano che colpisce la vita, la morte, la nascita, la famiglia. C’è una Grande Fabbrica dell’Opinione che   marcia a senso unico, in un corso accelerato di demolizione dell’umanità come l’abbiamo finora conosciuta. E impone a tappe forzate la corsa verso un mondo capovolto.La mamma diventa un ente superfluo, da sopprimere o da ridurre a utero in affitto per la gioia delle coppie omosessuali che vogliono comprarsi un figlio. E i magistrati, smentendo la legge, confermano la piena legittimità dei loro desideri e aggiungono che non c’è bisogno di geni per chiamarsi genitori. Ma la parola genitori, guarda un po’, deriva proprio dalla parola geni. Si può accettare la dizione “genitori adottivi” perché un padre e una madre suppliscono ai genitori biologici; ma due uomini dello stesso sesso che per un loro desiderio decidono di farsi il loro figlio non sono genitori in alcun senso. Al più sono tutori. La madre non è un accessorio sostituibile. L’abolizione della mamma segue a ruota la soppressione del papà, ente inutile in una società senza padre. La società parricida e matricida è una società senza figli, salvo quelli nati in provetta. Si deplora la politica che non segue subito l’onda emotiva e non legifera in materia come ordina l’Onda, coi suoi artefici e i suoi magistrati. E invece passa inosservato il silenzio assordante e imbarazzante, di Papa Bergoglio che di fronte allo stravolgimento della vita e della famiglia, dagli uteri in affitto ai suicidi assistiti, parla d’altro, fa finta di niente… Una generazione sta demolendo in poco tempo l’esperienza di tante generazioni che l’hanno preceduta, con una presunzione assoluta. E il Santo Padre tace. Cosa c’è alle origini di questa follia? C’è la perdita dei confini, del senso della misura, della natura e del limite. Sono io, solo io, a decidere quando morire e come; sono io a decidere, senza il concorso di una donna, di avere un figlio, affittando un utero o facendo shopping oltreoceano. Sono io a decidere se interrompere o meno una gravidanza non desiderata, anche se va di mezzo la vita di una persona.  La libertà e la modernità si riducono a non porre limiti ai miei desideri. Non conta nulla il resto, gli altri, i legami affettivi, la paternità, la maternità, la responsabilità di essere al mondo e di mettere al mondo.Non conta altro che la mia volontà. Questa è la follia del nostro tempo, il potere smisurato dei propri desideri che viene presentato come Diritto, Libertà e Autonomia. E chi si oppone viene accusato di vivere nel medioevo. Dimenticando che anche noi, nati in famiglie da padri e madri, siamo nati e cresciuti in quel medioevo. Se difendere la maternità, la paternità, la famiglia e la vita sono segni di medioevo, allora cos’è la modernità, il trionfo del disumano, la perdita del limite, la dittatura dell’Ego, l’abolizione della natura? No, signori, questo non è il futuro, questa è la fine della civiltà e la fuoruscita dall’umanità nel nome di un transumano geneticamente modificato, dove l’identità è sostituita dal desiderio, l’umano dal mutante e il noi siamo dall’Io voglio.

           Non confondete la fine con un inizio

Marcello Veneziani

Non c’è nulla di più surreale dell’ambientalismo…

Nel “Manualetto per la prossima vita”, Ermanno Cavazzoni scrive contro questa assurda idea della possibilità di cambiare il clima con i comportamenti

Il surreale non mi è mai piaciuto molto eppure “Manualetto per la prossima vita” di Ermanno Cavazzoni (Quodlibet) mi è piaciuto eccome. Perché non c’è nulla di più surreale dell’ambientalismo, dell’idea di cambiare il clima coi comportamenti, di salvare la Terra dicendo cento volte al giorno “sostenibile”, e lo scrittore emiliano, nel capitolo intitolato “E’ da sempre in atto una crisi che non finirà mai”, surrealmente scrive contro questa surrealtà: “Finiremo come il pianeta Venere che è arrivato a una temperatura di 470 gradi al suolo. Può darsi che la colpa sia dei vesuviani, che hanno continuato allegramente a andare in macchina con motori inquinanti, euro 1, euro 2, a usare combustibili fossili, la plastica non riciclabile, a non fare la raccolta differenziata”. Forse davvero il simile si cura col simile, forse, non potendo farli ragionare, gli ambientalisti vanno neutralizzati con la loro stessa follia, raddoppiandola e facendola scoppiare. Forse agli ambientalisti bisogna dare ragione come si fa con i pazzi, dichiarandosi contrari all’attuale “sistema procreativo fondato” – ricorda Cavazzoni – “sullo strofinamento dei sessi, che come è noto produce calore, contribuendo allo scioglimento dei poli”.

Camillo Langone___da IL FOGLIO

ambiente

Sei poeta e ami il tuo paesino? Sei violento.

 

Voi non potete immaginare a che punto sta arrivando il regime di sorveglianza che si sta imponendo giorno dopo giorno nella nostra vita quotidiana, a cominciare dalle pieghe più marginali dei social. Devo raccontarvi un’esperienza, personale e non solo, che ci dice dove porta la demenza dell’Idiozia Artificiale (chiamata stupidamente Intelligenza Artificiale) ibridata all’ideologia woke. Dunque, è stato ripreso sulla mia pagina Facebook e sugli altri social (Instagram, Telegram, Tweet) un mio articolo uscito mercoledì scorso su Panorama, La poesia dei paesini perduti, in cui raccontavo l’impegno del poeta Franco Arminio in difesa dei piccoli paesini in via d’estinzione. Un piccolo atto d’amore verso le minuscole comunità locali, scritto con tenerezza e nostalgia verso quel piccolo mondo antico che rischia di scomparire. Ma il blog è stato censurato su Facebook e dintorni perché, leggo testualmente: “La nostra tecnologia ha mostrato che questo post è simile ad altri che violano i nostri Standard della community in materia di contenuti forti e violenti. Non consentiamo alle persone di condividere contenuti che mostrano violenza esplicita”.
Se c’è un mio scritto dolce e disarmato, dedicato a un poeta e all’amore per il proprio paesino, senza nemici, che non polemizza con nessuno, è questo.
Dopo essermi scervellato a capire cosa il demente sotto falso nome che si fa chiamare algoritmo può aver ravvisato come violento, sono arrivato a questa conclusione. Ad un certo punto, condividendo l’appello accorato del poeta Arminio a non abbandonare i paesini d’origine ma anzi a ripopolarli, ho scritto: “Tornate al vostro paese…cominciate la migrazione al contrario”. Questa frase, estrapolata dal contesto dei piccoli paesi del sud abbandonati dai suoi abitanti, è stata letta presumibilmente come un appello, anzi un avvertimento, ai migranti a tornare a casa loro. Tesi e opinione che reputo peraltro legittima, ma che non c’entra affatto con quello che scrivevo e sostenevo.
Vedete a che punto arriva l’automatismo della tecnica, combinato con l’input ideologico e intollerante di chi ne dovrebbe controllare i contenuti?
Da che parte sta la violenza se non nella censura e nel definire violento ciò che è esattamente il contrario, un atto d’amore verso le origini di ciascuno di noi?
Peccato, peccato pasquale. Devo dirvi che avevo in mente di scrivere per stamattina un articolo pasquale di fiducia e di speranza nella resurrezione civile e spirituale, nonostante tutto. Pensavo di scrivere una riflessione sulla necessità di predisporsi in modo positivo e propositivo, di non abbandonarsi all’accidia e allo scontento generale, non sentirsi alla fine del mondo o dell’umanità; ma di preparare il terreno alla fiducia che altre pasque verranno, non sarà l’apocalisse. Una riflessione che avrebbe cercato di vedere i lati buoni nel nostro tempo, confidando nella forza della realtà, della natura, delle cose che sono, rispetto alla tentazione di consegnarsi a tutto ciò che li nega.
Ma questa inquietante intrusione, cieca e ottusa, ha avvelenato il proposito pasquale, e mi ha fatto desistere. La spirito di negazione, ancora una volta, ha prevalso, con la forza dell’anatema, sull’amore per la realtà, per la vita vera, per i sentimenti più genuini.
Non è la prima volta che succede, e mi succede. Basta una parolina, un contenuto appena non allineato al mainstream, e subito bloccano, frenano, nascondono i tuoi liberi pensieri anche se sono ponderati, rispettosi, mai offensivi verso nessuno. Da tempo ha più difficoltà la circolazione dei blog.
Aggiungo tre cose che rendono questo pur piccolo episodio ancora più amaro. La prima è che non puoi nemmeno protestare con qualcuno, non sai a chi e come rivolgerti: nel regno dei social e dei gestori tutto si svolge in modo anonimo, impersonale, automatico, non puoi ricorrere a nessuno che ti ascolti, che riconosca l’errore e il danno e che ponga rimedio e faccia pubblica ammissione di aver sbagliato. La seconda è che probabilmente, anche questa mia reazione di protesta, stavolta energica, alla stupida, vergognosa censura sarà a sua volta censurata dai tecno-aguzzini automatici che veicolano i social.
La terza, più generale, è che da tempo denunciamo sulle colonne de la Verità e non solo, la deriva della dittatura woke e le quotidiane violazioni e limitazioni alla libertà di opinione, molti condividono la nostra denuncia (anche in questo caso molti mi hanno scritto riferendomi della censura); ma non succede niente, non cambia niente, la marcia della faziosa stupidità prosegue imperterrita, dagli Usa a casa nostra. E ogni giorno si aggiunge un piccolo tassello alla grande muraglia del Divieto Ideologico Globale.
Pensate infine che con la minore diffusione dei giornali, la crisi spaventosa delle edicole, rischiamo di non avere più un’informazione controbilanciata, ovvero la possibilità di denunciare questi abusi e avvertire il pubblico di questo progressivo scivolamento nel conformismo coatto. Tendono a eclissarsi le fonti alternative d’informazione, critica e cultura; esattamente come la chiusura o la sorveglianza punitiva dei social rischia di tappare la bocca a tanta gente che si rifugia nei social per ripararsi dagli altri media, espressioni di poteri e fonti di opinioni prefabbricate. Stiamo tra l’incudine e il martello, insomma. E con questo ho chiuso. Buona colomba a tutti, se l’augurio non configura un contenuto violento nei confronti dei volatili e del gender, con eventuali allusioni erotiche di tipo sessista.

 Marcello Veneziani                                                                                                         

Aspettiamo sempre,perchè?

Aspettare è una imposizione. Eppure è l’unica cosa che ci fa percepire fisicamente il logorio del tempo e ce ne fa conoscere le promesse. Esistono infinite forme di attesa: in amore, dal medico, alla stazione o nel traffico. Aspettiamo: l’altro, la primavera, i numeri del lotto, un’offerta, il pranzo, la persona giusta, e aspettiamo Godot. I compleanni, i giorni di festa, la felicità, i risultati sportivi, un referto. Una telefonata, il rumore della chiave nella toppa, il prossimo atto e la risata dopo il finale di una barzelletta. Aspettiamo che un dolore smetta e che ci colga il sonno o che il vento si plachi. Inerzia, distrazioni o noia: nel registro delle ore programmate, l’attesa è la pagina vuota da riempire. Che nel migliore dei casi ci ricompensa con la libertà.

Andrea Köhler L’arte dell’attesa

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La poesia dei paesini perduti…

 

Nei giorni di Pasqua vi consiglio un fioretto civile e sentimentale: andate a ritrovare un paesino del vostro passato. Fate visita a quel piccolo, vecchio, parente delle vostre origini; tutti abbiamo un piccolo paese nel cuore, nativo o adottivo, o sfiorato solo in un giorno d’infanzia o di gioventù. Portatevi come compagno di viaggio un libro di Franco Arminio, poeta e paesologo, come lui si definisce. O paesofilo, direi. Un geopoeta, che non è un poeta geometra ma un poeta della terra, dei luoghi, dei piccoli comuni. “Vorrei essere ricordato con una sola frase, l’uomo che amava i paesi”, dice Arminio, nativo a Bisaccia, nell’Irpinia d’Oriente.
Vi parlerò dei paesi con le parole sue, tratte dai suoi libri. Tornate al vostro paese, esorta il poeta, non c’è luogo più vasto. Cominciate la migrazione al contrario, anche se non è conveniente. Avete una casa vuota che vi aspetta; lì se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto. Una volta, dice il poeta, i paesi erano fatti dei vivi e dei morti. Chi moriva veniva evocato in continuazione. Oggi seppelliamo assai presto anche la memoria. Eppure il paese è una fabbrica dove si producono sentimenti, attese tradite, indifferenze inusuali, presenze mute, sostegni di cui neppure ti accorgi. Avere un paese significa avere più mondo.
Per fare comunità ci vuole un luogo. Il luogo ha una poetica, oltre che un paesaggio. Ci vuole una tensione intellettuale e sentimentale insieme, avverte il poeta. La poesia ha il compito di legarci di più alla Terra, ci radica nella vita. Poesia per fare comunità, per dare coraggio al bene, per ingentilire il mondo più che biasimarloLa poesia è di chi sta al mondo per cantarlo. Amore per l’essere e la realtà, aggiungo io, realismo fisico e metafisico. Il consiglio del poeta è portare la poesia ovunque, in ogni contesto, scolastico, istituzionale, civile. Il nero dell’Italia di oggi, dice bene il poeta, non è il fascismo ma la depressione. C’è gente che finisce la giornata prima di cominciarla. La depressione non è avversata perché non dà fastidio, è remissiva, al più nuoce a se stessi. Ma la scontentezza fa danni, dice il poeta (lo scrissi anch’io in un saggio dedicato agli Scontenti). Si parla tanto di narrazione ma nessuno sa narrare niente; e ci si ammala anche per questo, c’è come un ristagno delle emozioni. Occorre riprendere la cura dello sguardo, la passione di vedere il mondo; e piantare la vostra inquietudine in mezzo al salotto, e ovunque.
Il poeta rivolge il messaggio ai ragazzi di paese e dice loro: prendetevi le albe, non solo il far tardi, contestate con durezza i ladri del vostro futuro, siete la prua del mondo, davanti a voi non c’è nessuno. Ma ricordatevi, aggiungerei io, di quanti c’erano e ci sono dietro di voi, fate pace con la storia, le eredità, le radici, la memoria.
Un paese, avverte il poeta, per sua natura fa resistenza al nuovo, è conservatore. Ma i paesani d’oggi sono inzuppati di sfiducia, sono rami senza radici…Bisogna arieggiare i paesi, agitare le acque, ci vuole una comunità ruscello più che una comunità pozzanghera. Riabitare i paesi non è questione di soldi, dice il poeta. I soldi servono a farli più brutti, mentre per riabitare i paesi servono piccoli miracoli, una nuova religione dei luoghi; la questione non è economica ma teologica. Siate inattuali.

Il poeta vede ovunque l’impronta del sacro, il sacro minore, che si annida tra gli uomini, la terra, gli animali, le cose, i gesti. E scrive un libro dove la prima parola di ogni poesia è Sacro. Sacra è la poesia, ma solo quando è ladra, quando ruba un poco di miseria al mondo. Sacro era mio padre, dice il poeta, che non amava andarsene a dormire, gli era caro il sonno sul tavolino. Prosegue il poeta, abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Ogni albero è un pensatore, uno storico locale. E invece da troppi anni non arriva un anno nuovo, il mondo è simbolicamente morto.
Poi torni dalla poesia alla realtà e vedi che vanno via tutti dai piccoli comuni; chi resta è vecchio, sordo, disabile, rassegnato o eroico, fedele ad oltranza all’abitudine di un’origine e di mondo ereditato. I provinciali al quadrato, anzi alla terza potenza, per quelli che abitano nei paesini del sud, vivono quest’assedio; ogni giorno si arrende qualcuno e si consegna alla città. Nessuno si cura di loro, non c’è un Corriere dei piccoli che li racconti e li rappresenti, se non un poeta disarmato. Tanti sono i disagi, gli abbandoni, le lunghe noie, di chi vive nei paesini. Eppure nei piccoli comuni conosci più persone che nelle grandi città: nel paesino ti fermi a parlare con cento persone e ne saluti mille, nella metropoli ti fermi a parlare con sei persone e ne saluti venti. Vedi meno folle ma incontri più persone. Il paesano ha più mondo, più vita, più natura. Il paesano non va in farmacia, in caserma, in salumeria, in chiesa ma va dal farmacista, dal brigadiere, dal salumiere, dal parroco. Figure al singolare, non intercambiabili; di tutti sai vita, morte e miracoli. Forse perché sono piccoli comuni fanno più comunella; perché, non so ancora per quanto, sono comunità. Il piccolo comune è come un giardino d’infanzia, anche se abitato da vecchi, lo dovremmo tutelare come un bambino, con premura e tenerezza. Dovremmo aiutarlo ad attraversare la strada della modernità ed estendere ai piccoli comuni la legge a tutela dei minori. Col poeta riconosciamo la letizia senza scampo di vivere sotto la luce del sole; specialmente in un paese piccolo, inerme, ricco della sua piccola immensità.

Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com’è.

 

Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com’è.

Mettersi vicino a coloro per i quali questo mondo è diventato intollerabile e ascoltarli.

L’unico sogno che vale la pena di vivere è vivere finché si è vivi e morire solo quando si è morti.

Cosa significa esattamente?

Amare. Essere amati.

Non dimenticare mai la propria insignificanza.

Non abituarsi mai alla violenza indicibile e alla volgare disparità della vita che ci circonda.

Cercare la gioia nei luoghi più tristi,  inseguire la bellezza là dove si nasconde.

Non semplificare mai quello che è complicato  e non complicare quello che è semplice.

Rispettare la forza, mai il potere.

Soprattutto osservare. Sforzarsi di capire.

Non distogliere mai lo sguardo.

E mai, mai dimenticare.

John Berger – da  Modi di vedere

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Gli schiavi del cobalto…

Shinyanga,tanzania,-,Circa,March,2010:,Child,Gold,Miners,,Aziz,And

«Lascia allibiti e turbati il fatto che nelle economie contemporanee, le cui attività produttive si avvalgono delle innovazioni tecnologiche, tanto che si parla di “quarta rivoluzione industriale”, persista in ogni parte del globo l’impiego dei bambini in attività lavorative». Queste erano le parole che Papa Francesco pronunciava durante l’udienza ai partecipanti a un convegno internazionale. Abbiamo connessioni sempre più veloci, smartphone sempre più potenti ma c’è un prezzo da pagare per la tecnologia. Quale? E soprattutto alle spese di chi?

Il cobalto è un minerale prezioso, utilizzato per la produzione di numerosi dispositivi elettronici, tra cui smartphone, tablet e computer, ma anche per la produzione di batterie agli ioni di litio che alimentano automobili e biciclette elettriche. Il metallo del futuro. Ecco come viene definito, insieme al litio, nell’ultimo studio sulle materie prime condotto dall’economista di Intesa Sanpaolo Daniela Corsini. Un componente essenziale per la transizione energetica quindi, utilizzato da tutti i principali produttori di apparecchiature elettroniche. Ma è dalla Repubblica Democratica del Congo che proviene più della metà della fornitura mondiale di cobalto, il 50 o 70% si concentra nelle miniere del sud-est del Paese. E sono perlopiù i bambini a lavorare in queste miniere e a pagare le terribili condizioni dello sfruttamento. Secondo i dati Unicef del 2014, infatti, sono circa 40.000 i minori sfruttati nelle miniere di cobalto del sud della Repubblica Democratica del Congo e non ci sono dati attendibili più recenti. Secondo le stime del governo, il 20% del cobalto esportato dal Paese proviene da minatori artigianali. Chiamati creuseurs, questi piccoli minatori estraggono a mani nude, utilizzando strumenti di fortuna per scavare le rocce e creare profonde gallerie sotterranee. Molti bambini lavorano 12 ore al giorno se non di più, senza protezioni, in condizioni estreme, tra suolo tossico e acqua acida e con un salario misero, di circa 1.000-2.000 franchi congolesi al giorno, cioè solamente per 1 o 2 euro. Spaccano pietre per poi venderle alle società minerarie. Hanno tra i 7 e i 16 anni, senza contare i neonati fasciati sulla schiena delle madri. Lavorano dopo aver frequentato la scuola e nel fine settimana o, più spesso, dopo averla abbandonata se i loro genitori non possono permettersi le tasse scolastiche. Infatti, nonostante il codice di protezione dei minori della Repubblica Democratica del Congo preveda l’obbligo e la gratuità dell’educazione primaria, i genitori, per la mancanza di finanziamenti statali, devono pagare tasse piuttosto alte. A causa dei carichi troppo pesanti, sacchi che arrivano a pesare anche 20 o 40 kg, addirittura più del peso del bambino stesso, i bambini che lavorano si ammalano più frequentemente dei loro coetanei e subiscono lesioni muscolari o della colonna vertebrale, deformazioni ossee e articolari o ancora sono esposti a tubercolosi, febbre tifoidea e infezioni cutanee. Oltre ad essere picchiati e maltrattati i minori sono spesso vittime di incidenti mortali sul lavoro, a causa dei frequenti crolli che si verificano nei tunnel sotterranei. Amnesty International dichiara che non ci sono dati attendibili disponibili sul numero di minori vittime di incidenti poiché non vengono registrati e i corpi vengono sepolti sottoterra.Gli smartphone e le batterie delle automobili di tutto il mondo sono sulle spalle di questi bambini e negar e il diritto alla salute dei minori, il loro benessere fisico e psicologico, i loro bisogni educativi ed economici per estrarre un metallo centrale per la transizione energetica non è più possibile. La sfida per il futuro dovrà essere quella di migliorare gli strumenti e le regole per riciclarlo e arrivare alla produzione di batterie senza cobalto. Sono numerose le petizioni che chiedono al Governo della Repubblica Democratica del Congo di fermare questo sfruttamento, ma, nonostante
tutto questo, i bambini continuano a lavorare per le nostre comodità; questo è una vergogna per tutto il mondo civile e democratico.

Fonte , Il Cortile dei Gentili

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I ragazzi non leggono e nessuno studia più il greco e il latino. Gli unici orizzonti sono quelli del no alcol o dei superalcolici…

 

Non mi sorprende la crisi italiana e mondiale del vino, in particolare del rosso. Mi sorprenderebbe molto il contrario, un boom di vendite. Perché sarebbe incoerente con le tendenze dell’epoca. Amici produttori mi chiedono: cosa succede? Succede quello che doveva succedere. Il vino è cultura. E a chi interessa più la cultura? Vedete forse moltiplicarsi le librerie? Vedete molti giovani leggere libri sui mezzi pubblici, sulle panchine dei parchi? Il vino è il mondo classico, è Grecia, è Antica Roma. E dove sono gli amanti del greco e del latino? Quanti citano Alceo? Quanti declamano Orazio? Il vino ovviamente è cristianesimo, fatto sacramento nel corso dell’Ultima Cena, il Giovedì Santo, oggi. Ma il cristianesimo, vedi Pioltello, non vale più la pena nemmeno per i preti. Invece i fenomeni moderni, il no alcol e il superalcol (distillati da cocktail), non richiedono conoscenza né impegno, non richiedono nemmeno un’anima. Entrambi riguardano solo il corpo, unico orizzonte del presente. Il no alcol soddisfa il salutismo, lo stolto culto del muscolo mortale, mentre i superalcolici, droga legale, concedono estasi fisica senza le complicazioni delle buone bottiglie. “Il vino sintonizza l’anima su frequenze millenarie” scrive Pietro Castellitto. Ma se l’anima non ce l’hai, e se giudichi i millenni vecchiume, del vino che te ne fai?

Camillo Langone__Il FOGLIO

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Se la canzone riflette il male di vivere…

 

Spesso il male di vivere ho incontrato, poetava Eugenio Montale. Quel male di vivere s’insinua anche nella musica leggera, che pure esprime la voglia di leggerezza e di spensieratezza.

La canzone e il nulla. Tema vago e vagamente minaccioso. Ne abbiamo parlato l’altra sera al Festival di popsophia ad Ancona, tra una canzone e l’altra. Il tema era nientemeno “nichilismo e canzonette”. L’accostamento così stridente tra pensiero del nulla e canzonette a prima vista spiazza, induce a un effetto di straniamento. Troppo pesante il fardello del nichilismo sulle fragili spalle della musica leggera. Ma se è vero che il nichilismo è sceso dalle altezze dei filosofi solitari a fenomeno di massa e permea la vita di ogni giorno, i consumi, i linguaggi, la canzone non ne è immune. Il nichilismo intuito due secoli fa da Turgenev e Dostoevskij, Stirner e Nietzsche, poi germogliato tra gruppi, intellettuali e alta società nel secolo scorso, è diventato clima epocale di massa, e se ne fa interprete la musica leggera. Qualche anno fa il filosofo nichilista Manlio Sgalambro, amico e paroliere di Franco Battiato, scrisse una Teoria della Canzone; sostenne che la canzone non è la pappa del cuore, tutta romanticherie e fatuità, ma riflette il tema della nostra epoca, “la morte dello spirito”. La canzone dura quanto la vita di un insetto ma si replica tante volte, sostituisce l’attimo con l’eterno; e la discoteca, arriva a dire, è una palestra di nirvana in versione attuale-occidentale. Eppure è rassicurante la banalità delle canzonette, con le vecchie rime di cuore e amore, il recinto privato dei languori, la storia ridotta a vita intima. Ma per Sgalambro i corpi sputano l’anima sotto le note, si scoprono nel nulla.  Se ascoltate con attenzione alcune canzoni, per esempio Un giorno dopo l’altro di Luigi Tenco, Dio è morto, di Francesco Guccini, Voglio una vita spericolata di Vasco Rossi, o Avec le temps di Leo Ferrè, anche nella versione italiana di Patty Pravo (Col tempo sai) o Ne me quitte pas di Jacques Brel, cogliete il male di vivere, la disperazione affidata alla canzone. E Domenico Modugno de L’uomo in frac, Sergio Endrigo, Gino Paoli, Mia Martini e altri ancora, fino alla più recente “voglia di niente”della musica leggerissima di Colapesce e Dimartino “per non cadere dentro al buco nero che sta a un passo da noi”; cresce il lato d’ombra della musica leggera.  Sotto l’epidermico mondo delle canzonette, in pieno boom economico, poi in pieno impegno ideologico, ora in piena solitudine globale, scorre quel fiume carsico, il sottofondo disperato della società opulenta, oltre la frenesia di vivere e divertirsi. Tragico fu il destino di Luigi Tenco, col suo epilogo suicida; nelle sue canzoni la malinconia della vita oscilla tra la noia e il dolore, il perdersi nel tempo e il vuotarsi dei motivi per vivere che trascina nel nulla. L’epica nichilista è esaltata in Vasco Rossi, con la sua vita spericolata, piena di guai; il caos in cui annega l’esistenza tra fumi e alcol, il vivere per niente, l’istigazione a perdersi nel fiume della trasgressione. Il nichilismo assume tratti apparentemente nietzscheani e dionisiaci, che sembrano evocare il vivi pericolosamente e l’al di là del bene e del male. Quando scrissi di questo fondo nichilistico in Vasco, i suoi fan insorsero con veemenza e lui mi rispose risentito, da un verso negando il nichilismo, che aveva forse confuso con una sostanza stupefacente, e dall’altro spacciando un autoritratto di uomo dedito alla famiglia, con un quadro fiscale, sanitario e giudiziario irreprensibile (ma nessuno si era riferito a queste cose). Ma poco dopo uscì una sua canzone che era un vero manifesto del nichilismo musicale: in Dannate nuvole canta versi come “Niente dura niente”, “Quando cammino in questa valle di lacrime vedo che tutto si deve abbandonare”, “non esiste niente, solo del fumo, niente di vero”. Il vitalismo assoluto si rovescia in un nichilismo cupo, proiettato nel male di vivere senza senso. Siamo oltre Nietzsche, oltre Dioniso, oltre Sartre e gli esistenzialisti, oltre perfino la trasgressione. Altri brevi trattati di nichilismo e di male di vivere si affacciano in molte star e gruppi rock; il più famoso è Jim Morrison, ma è solo la punta di un iceberg. Facile ritrovare scampoli di nichilismo nella musica rock americana e nelle sue varianti hard o heavy e trovare riscontro in certe vite e certe morti precoci o suicide, tra droga, sesso, velocità e rock and roll. Il nichilismo rock, tra allucinazioni e perdita della realtà, insegue déi e demoni estemporanei, vite capovolte, cupio dissolvi, oscuri abissi. La canzone del male di vivere e la scoperta amara che niente ci aspetta, il nulla come destinazione, una volta reso niente il destino.  Sbiadisce il nichilismo nella musica leggera più recente, tra canzoni banali, narcisismo generazionale chiuso al mondo, fantasmi virtuali e autistici. Vivere a orecchio, sostituire il pensiero con l’emozione, la riflessione con la vibrazione, percorrendo il cammino inverso dell’illuminismo kantiano: non elevare l’uomo da mezzo a fine, ma il contrario e vivere di energie emotive, impulsi, ebbrezze aleatorie. L’uomo si fa chitarra, batteria, suono e percussione, veicolo musicale. Dietro l’amoreggiare della musica leggera, serpeggia quella perdita di senso e di scopo nel rifugio nelle pulsioni. Così le canzonette, magari senza volerlo, diventano la scuola elementare del nichilismo, di cui fornisce i primi assaggi o forse gli ultimi cascami. In realtà sono lo specchio di una società snaturata e deculturata, priva di principi, valori, eredità, legami. La musica rispecchia il suo tempo e propaga le sue ossessioni. I pensieri alti come cieli plumbei si specchiano in basso, nelle pozzanghere della quotidianità e si riflettono nella musica leggera. A dimostrazione che esiste un clima d’epoca che i filosofi chiamano Zeitgeist, che colpisce “in alto e in basso”, per dirla con Zarathustra. Nulla da obiettare a chi canta e a chi ascolta, ma i demoni dell’epoca serpeggiano pure nelle canzoni…

Marcello Veneziani