“Fiorita di marzo” di Ada Negri: la poesia della giovinezza in fiore…

Quando scrisse i versi di “Fiorita di marzo” Ada Negri aveva quasi quarant’anni. Forse per questo la poesia appare come un rimpianto della giovinezza perduta poichè la poetessa fa una descrizione della primavera, evento dirompente, di osservazione. La stagione “nuova” portata dal mese di marzo diventa una metafora. Il miracolo della primavera si ripete ed è un dolce languore di fiori che sbocciano timidi al primo sole, emanando un profumo inebriante e tuttavia fugace. Il vero tema della poesia di Negri non è l’elogio del trionfo della primavera, ma la fuggevolezza del tempo, come si evince dal primo aggettivo presente nel verso di apertura: “breve”.
La primavera descritta da Ada Negri dura il tempo di una fioritura, è un fragile fiore in boccio insidiato dal primo alito di gelo, proprio come l’innocenza della giovinezza che presto cede il passo a una consapevolezza nuova, a un risveglio amaro che permette un’effettiva presa di coscienza della realtà. Sono versi venati di rimpianto, scritti per celebrare più la giovinezza perduta che il mese di marzo

“Fiorita di marzo” di  Ada Negri:

La fioritura vostra è troppo breve,
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.

Troppo rapido è il passo con cui tocchi
il suolo—e al tuo passar l’erba germoglia
o Primavera, o gioia de’ miei occhi.

Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell’orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,

essi, ne’ loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l’aria densa di languori;

e se ne va così la tua bellezza
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di Marzo, o Giovinezza!…

 

 
monet-campo-di-fiori

Claude Monet___ Prato fiorito

La primavera cantata da Ada Negri è connotata da un forte sentimento di perdita: i versi sembrano scorrere attraverso le dita, fluire come acqua, sono inafferrabili, imprendibili, in perpetua fuga. Sembra una sinfonia di passaggio, un interludio. La stagione portata da marzo, il più instabile di tutti i mesi, in effetti è fugace, repentina, la meno stabile di tutte: non ha la lunga permanenza del gelo dell’inverno né il furore accecante ed eterno dell’estate che trascina il mondo in un limbo. La primavera è una stagione di passaggio, di durata breve, dal tempo incerto di nuvole e sole. Per queste ragioni la poetessa la associa alla giovinezza, che è l’età della vita in cui l’essere umano è più fragile, incompleto, incerto, eppure ha in sé tutte le energie per affrontare il futuro, proprio come quei fiori in boccio che si schiudono a fatica sotto la sottile coltre di neve illuminata da una luce timida che ancora non scalda. La metafora governa l’intera poesia, ma solo nel finale ci viene svelata nella sua trionfante verità con un’apostrofe che è anche una personificazione: “o Giovinezza!”. E allora capiamo che quello che l’autrice voleva dirci, in realtà, era un’altra cosa, che nei suoi versi scorreva un pianto che non si vede, le sue parole sono quasi un grido dell’anima, che non tace più. Nei fragili fiori di marzo Ada Negri scorge, dalla soglia della propria età ormai matura, il proprio “tempo perduto”. Un tempo era stata anche lei una jeune fille en fleur, un’ardente e delicata creatura della giovinezza; ma quel momento è passato per sempre, è stato un attimo, tanto che ora lei stenta a credere che sia mai esistito, lo ricorda con i contorni sfocati e indistinti di un sogno. La conclusione difatti è lapidaria: “come un sogno muori”.

fonte Solo Libri.net

Felicità o serenità?

 

La felicità di certo è il massimo che ognuno possa volere, infatti con se porta il tutto ;tuttavia non mi piace concentrarmi su di essa.Penso sia più importante il concetto di serenità e armonia. Il concetto di felicità presuppone una gioia incontenibile, che si desidera esternare mostrandola a tutti , abbracciando, sorridendo, dicendo anche apertamente -sono felice- palesando la meraviglia di quello che si prova. Basterà comunque un nulla, per quanto piccolo , ma doloroso possa essere , a distruggere tutto in un attimo.
Invece la serenità è una cosa completamente diversa, lo star bene presuppone la disponibilità d’animo e di pensiero all’accettazione del nostro quotidiano, come inevitabile componente della vita e come riconoscimento dei nostri limiti nel suo confronto, nonostante ogni sforzo. In questo modo si riesce a vivere in armonia non solo col mondo , che ci circonda, ma anche con noi stessi e a collezionare con cura nel cuore ogni momento di felicità.

OIG4

Alessandro, la gloria finisce in un bacio gay…

L’Occidente comincia con Alessandro Magno e finisce con lui. Fu lui il primo a demarcare i confini tra Oriente e Occidente, a combattere i persiani, a sentirsi erede di Achille che assedia con gli altri achei Troia, simbolo dell’Asia Minore. Fu lui il primo imperatore, il primo Caesar precursore dei cesari romani, a spingersi fino in India, a unificare gli occidenti, dalla Grecia a Roma, che si sottomise a lui e da lui apprese la vocazione imperiale. Fu lui, Alessandro dai capelli rossi e ricci come un Sinner dell’antichità, a segnare simbolicamente l’atto costitutivo dell’Occidente, la decisione di tagliare il nodo di Gordio, altrimenti insolubile da secoli. La supremazia dell’Occidente fu in quella decisione-recisione, il primato dell’agire sulla pazienza di sciogliere, l’azione risoluta che spezza la profezia oracolare e secolare legata a quel mitico nodo. Ne scrisse millenni dopo Carl Schmitt. Fu lui, Alessandro, a fondare l’egemonia, definito – come suo padre – Hegemon della Lega ellenica. Ma nell’Occidente contemporaneo, che è passato da Callistene e Plutarco a Netflix e al gay pride, Alessandro Magno è l’imperatore gay che ha una tresca col suo generale Efestione; del film resta per l’immaginario collettivo dello storytelling occidentale il loro bacio omosessuale. Qui finisce l’Occidente, nel politically correct, a cui seguirà qualche altro racconto su Alessandro l’Inclusivo, l’Accogliente coi migranti, che abbatte i confini perché sogna un mondo di eguali, senza frontiere, non solo sessuali. Eppure Alessandro era grande per ben altre, eccezionali imprese, senza precedenti nel mondo antico. Aveva vinto battaglie e conquistato terre lontane, in rapporto al suo tempo, aveva unificato sotto il suo scettro popoli e aveva fondato il primo impero d’Occidente. Alessandro il Macedone era grande perché aveva avuto come precettore il più grande filosofo della sua epoca, e non solo, il maestro di color che sanno, il grande Aristotele, che fu il suo primo spin doctor e influencer, altro che Fedez e Casalino. Alessandro bambino era già così risoluto e capace da domare il mitico cavallo Bucefalo, che lo accompagnò in tutte le sue battaglie per tutta la sua breve vita, e anche dopo, al suo funerale. Alessandro fu il primo uomo di potere che blandì un intellettuale e gli offri qualunque cosa per ingraziarselo e dargli un riconoscimento. Ma ebbe la sfortuna di incorrere in Diogene il cinico, che viveva come un cane e un barbone, per strada; e quando l’imperatore si parò davanti, e gli chiese cosa potesse fare per lui, la risposta del pezzente fu grandiosa: Scostati dal sole. Ossia l’intellettuale non chiedeva onori e ricchezze, ma che l’Imperatore lo lasciasse libero di godere la luce del sole, che non gli facesse ombra. La richiesta del filosofo fu di non frapporsi tra lui e la luce, il calore dei raggi, lo splendore della visione del mondo illuminato dal vero signore dell’universo. Fu la più grande lezione di libertà e umiltà di un filosofo, la fondazione del pensiero libero. E Alessandro, che si rivelò veramente grande, non si irritò per l’insolente risposta, come era nel suo temperamento irruento, e per il rifiuto che l’ultimo uomo, più povero e impotente della terra aveva opposto al primo, più grande e potente uomo del mondo. Ma commentò che se non fosse Alessandro avrebbe voluto essere Diogene. Una lezione che vale anche oggi, che il potere occidentale è alla frutta.   Ma di Alessandro oggi si racconta, si fanno le fiction, perché è considerato il precursore dell’amore gay, l’archetipo politico-militare dell’omosessuale; non solo i filosofi dell’antichità, ma anche i grandi condottieri, gli imperatori sono ormai riconosciuti solo se hanno qualcosa che sia woke, omo, al passo dei nostri giorni.  E poco importa aggiungere che Alessandro ebbe anche grandi amori etero, ebbe figli e ben tre matrimoni, pur essendo morto giovane, all’età di Cristo. Quel che importa sottolineare è che aveva una love story con Efestione, come si dice di Achille con Patroclo: quel che importa è ridurlo al nostro presente, alle sue ossessioni, ai suoi piccoli ma tenaci pregiudizi. Netflix, come già aveva fatto con Cleopatra, si inventa un Alessandro paladino e precursore Lgbt. E sforna un “Alexander: the making of a God” allineato ai più beceri conformismi woke dei nostri giorni. Il ministro della cultura del governo conservatore greco, Lisa Mendoni, oltre a sottolineare le numerose inesattezze storiche e la scarsa qualità della fiction, coglie il nodo “gordiano” della questione: non possiamo interpretare le pratiche e le persone di 24 secoli fa, applicando il nostro metro attuale. Quello è in effetti, al di là del feticismo lgbtq+, il problema: la riduzione di tutta la storia, nei suoi millenni, nelle sue grandezze e tragedie, al metro piccino dei nostri giorni; quello che viene chiamato presentismo o meglio egocentrismo del presente. Peccato che lo stesso governo conservatore greco si sia adeguato alla ventata woke introducendo i matrimoni omosessuali. Al di là delle possibili obiezioni, c’è un argomento preliminare: se la gente ha deciso di votare per un governo conservatore anziché progressista, è perché vuole vedere tutelati e difesi alcuni valori, alcune distinzioni e priorità, alcune salvaguardie, come per la famiglia naturale e tradizionale. Altrimenti voterebbe direttamente per i progressisti. Ma al cinema, a teatro, in tv, ormai è tutta un’orgia woke: del passato si parla solo se allude all’oggi, in modo correct. La storia dell’occidente finisce in un attimo fuggente…

Marcello Veneziani                                                                                                           

Benefici errori..

 

Certe volte bisogna prendere le decisioni sbagliate, perché quelle giuste sono tali solo col senno di poi. Ma noi viviamo adesso, non poi. E bisogna imparare a sbagliare bene, a fare gli errori giusti, e magari a non rifarli più. O a rifarli altre centro volte, dipende. Chi non sbaglia mai non è saggio. È morto. Sbagliate, e fatelo continuamente. Col cervello, convinti di ciò che comporterà, e se ci saranno conseguenze, felici di incontrarle. Perché gli errori giusti esistono. Sono momenti trasparenti di libertà che ci permettiamo di prendere per seguire noi stessi. Perché la coerenza, come la definisce la gente, non esiste. Cosa c’è di più coerente del dar retta ai propri istinti? Chi l’ha detto che se anni fa eravamo contrari ad una cosa, ora non possiamo farla? Chi è il giudice? Dov’è il tribunale? Ascoltatevi. Assecondatevi. Pentitevi.Vivrete,allora, una vita intera sapendo di aver fatto una marea di scemenze, certi però di essere stati davvero voi stessi, di aver vissuto una vita che è appartenuta a voi,e a nessun altro.Irripetibile. Unica. Vera

errori benefici

Consolatevi, eravamo così già due secoli fa…

 

Ho trovato la descrizione perfetta dell’Italia d’oggi, anno di grazia Ventiquattro. È un catalogo meticoloso e amaro della condizione presente e una diagnosi precisa dei suoi mali e dei suoi agenti. Ma con una particolarità, davvero curiosa: è scritta, si, nell’anno di grazia e disgrazia Ventiquattro, ma di due secoli fa, esatti. E’ del 1824. L’impietoso analista è tristemente e gloriosamente noto: l’eccelso, dolente Giacomo Leopardi. E anche il suo scritto non è ignoto, è il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani.

Provo a sintetizzare il suo sguardo e proiettarlo nel nostro presente. Gli italiani d’oggi sono cinici, indifferenti a tutto, non hanno stima di nulla, sono propensi a buttarla sul gioco e sull’ironia, deridono tutti e disprezzano tutto, convinti dell’infinita vanità di ogni cosa. Gli intellettuali, le sette illuminate, hanno distrutto la morale tradizionale, hanno “liberato” il popolo dai suoi principi tradizionali, con la promessa di una vita migliore ma hanno generato solo una nuova barbarie. La “barbarie rinnovata, la barbarie della riflessione”, di cui parlava un secolo prima Giambattista Vico. Il riferimento polemico, di Vico come di Leopardi, è alla setta intellettuale degli illuministi. La distruzione dei valori ha avuto conseguenze nefaste sui costumi, perché l’agire umano si è trovato privo di fondamenti, di motivazioni alte e profonde, di senso del limite. Il testo leopardiano esordisce facendo riferimento a “questo secolo presente”, che descrive come nomade e globale, esattamente come il nostro. Si spegne “l’amore e fervor nazionale” e in genere “di tutte le passioni degli uomini”; “il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi”. Leopardi nota che le leggi senza i costumi non bastano, e gli altri paesi “hanno un principio conservatore della morale e della società” che noi non abbiamo; anzi da noi è venuta a mancare “la società più stretta” che potremmo chiamare la classe dirigente, l’élite guida. Si è perso il desiderio di gloria,”incompatibile colla natura dei tempi presenti”, dopo “la strage delle illusioni”; ma anche il suo succedaneo, il sentimento dell’onore. Prevale un becero individualismo – “ciascun italiano fa tuono e maniera da sé” – e una filosofia pratica, cinica e scettica, a fronte di una carenza di studi e letture filosofiche. Anzi, per Leopardi, “gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi dei maggior filosofi”. E qual è il succo di questa filosofia pratica? La vanità di tutto, la mancanza di illusioni che rendono degna la vita, e insieme l’assenza di sostanza, verità e prospettiva futura, perché la visione “è ristretta al solo presente”; ne segue la “total frivolezza delle loro occupazioni”, “la perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose”, la solitudine, la “dissipazione giornaliera e continua senza società”, lo sviluppo dell’immaginazione “per l’assenza del vero e della realtà e della pratica”. Perciò, insiste Leopardi, gl’italiani sono “molto più filosofi di qualunque filosofo straniero”; ma il perno di questa filosofia, la vanità di tutto, produce sui costumi “il maggior danno che si possa pensare”. “Indifferenza profonda”, “disinganno”, “pieno e continuo cinismo d’animo”. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche, ma anche “il popolaccio italiano è il più cinico de’popolacci”. Gli italiani, dice, ridono di tutto e si deridono a vicenda; ridono della vita e disistimano anche se stessi; la loro conversazione è il cazzeggio (il neologismo non è leopardiano). Da qui “l’infelicità sociale e nazionale” dopo la perdita dei fondamenti “che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti”. Ci restano usanze e abitudini, piuttosto che costumi, e ne patisce lo spirito pubblico; la nazione che era più calda e vivace del mondo, è ora “la più morta, la più fredda” la più indifferente. Leopardi rimpiange perfino che non si trovino più in Italia “veri fanatici di nessun genere”.

Anestesia generale, e nazionale.

Non vado oltre, mi soffermo sulle analogie col presente. Sorprendenti ed estese. Ma la vera sorpresa è un’altra: noi credevamo che “lo stato presente” degli italiani dipendesse dal mondo attuale, dai modelli prevalenti, dal distacco tra paese reale e paese legale, dai traumi storici del secolo scorso, guerre, fascismo e antifascismo e dalla guerra civile perdurante; credevamo che il suo aggravarsi nei nostri anni dipendesse dai social, dalle tecnologie, dall’uso narcisistico degli smartphone, dalla secolarizzazione e dalla scristianizzazione odierna. Leopardi invece descrive il nostro stato presente in un’epoca che precede tutto questo. Che vuol dire? Che i mali denunciati come mali presenti sono invece mali atavici, se non endemici; e l’occhio critico e negativo degli osservatori ci fa vedere tutto più scuro di quanto realmente sia. Tra corsi e ricorsi, cicli e ricicli, le epoche si somigliano, come le egemonie intellettuali; l’illuminismo di ieri riverbera nel nichilismo di oggi. E questo ci può condurre a due esiti opposti: lo sconforto assoluto, irrimediabile e irredimibile, perché tutto era e sarà così, non c’è nulla da fare; o viceversa la fiducia che se con questi mali conviviamo da secoli, possiamo sopravvivere ad essi, coabitarci e non escludere che ci possano essere risorgimenti e rinascimenti seppure provvisori. La fiducia nasce sulle basi della disperazione. E qui vi confesso una sensazione che vorrei condividere. Quando leggo i grandi pessimisti del passato, io mi rincuoro. Più sono tragici, e catastrofici, e più mi consolano. Non solo Leopardi ma anche Cioran, Ceronetti, Sgalambro. Perché descrivono la decadenza e la fine dell’Italia o del mondo già secoli prima del nostro tempo. E dunque ci fanno capire che non viviamo nel peggiore dei mondi possibili, che non abbiamo toccato ora il punto più basso; dopo tante catastrofi l’Italia è arrivata fino a noi, longeva e benestante, ferita, ammaccata, sfregiata ma viva. E quei mali non sono mortali ma cronici, ovvero possiamo conviverci a lungo. Anzi, la decadenza dell’Italia, descritta nel 1824, precede addirittura l’Unità d’Italia, del 1861…

Insomma, Leopardi vede nero, ma alla fine ci rincuora: niente di nuovo sotto il sole, ombre incluse. Allegria dei naufragi.

Marcello Veneziani 

Galimberti: “La famiglia è un disastro. Genitori amici dei figli che dalla scuola vogliono solo la promozione e non l’educazione”

 Tratta da Orizzonti scuola, un ‘intervista di Umberto Galimberti a

“IL FOGLIO”

“La famiglia in questo momento è un disastro. Molti genitori non sanno gestire il rapporto con i figli, forse perché non sanno che con i figli devono parlarci prima che inizi l’adolescenza, per creare un rapporto di fiducia prima dei dodici anni. Invece i padri non parlano perché si annoiano, e le madri parlano per raccomandarsi a livello fisico: metti il maglione, asciuga i capelli. Non fanno mai domande che riguardino la psiche, per esempio: ‘Sei felice?’. Una domanda semplice che potrebbe innescare una riflessione”.
Lo dice Umberto Galimberti, intervistato da Il Foglio, che ribadisce alcuni punti espressi nei giorni scorsi a proposito dei genitori e della scuola.
A tal proposito, secondo Galimberti, uno dei problemi della genitorialità è quello di“diventare amici dei propri figli. Un padre deve mantenere l’autorità che gli deriva dall’autorevolezza. Stessa cosa per il professore”.
“Il genitore – prosegue Galimberti – deve sapere che, dopo i dodici anni, la sua parola non è più efficace. Serve l’esempio. Ma purtroppo oggi l’esempio è disastroso, se si pensa ai tanti cinquantenni dall’atteggiamento giovanilistico. E nelle tante separazioni che vediamo, ai figli spesso si spiega ragionevolmente che mamma e papà non vanno più ’accordo, ma poi si ingaggia una guerra con i figli strumentalizzati in mezzo. Questo genera enorme sfiducia nei confronti del mondo genitoriale, anche se certo è un bene che ci si separi, piuttosto che far vivere i ragazzi nella tensione o nell’indifferenza cinica reciproca”.
C’è poi il rapporto con la scuola e i docenti: “A molti genitori importa soltanto che i figli siano promossi, non educati. Sostituendosi al figlio, il genitore gli impedisce di vivere il rito iniziatico del confronto diretto con il docente. Il professore, dal canto suo, deve parlare con gli studenti, ascoltandoli con competenza”.
Sulla scuola, il filosofo dice: “La scuola italiana ha i suoi mali: non educa, al massimo quando ce la fa istruisce. Educare vuol dire seguire i ragazzi nei loro processi psicologici, cosa impossibile finché si avranno classi da trenta alunni invece che da quindici“.
“E poi – aggiunge – nel percorso formativo del docente inserirei un test di personalità per cercare di assicurarsi che sia dotato di empatia. Senza empatia non arrivi al cuore. Platone diceva che la mente non si apre se prima non si apre il cuore”.
Infine, una battuta sui cellulari a scuola, dopo l’ultima dichiarazione del Ministro Valditara: “In classe li farei spegnere a tutte le età, ma non si può vietare in sé a un figlio di possedere il cellulare, legato alla socialità e ormai pervasivo. Non vedo purtroppo rimedio al danno pazzesco creato dall’abitudine allo schema binario tipico del telefonino: sì-no. Disabituati a pensare in modo complesso, come si può poi affrontare la complessità“

galimberti

Quando i pensieri sono sempre attuali…

Il problema umano del capitalismo moderno può essere formulato nel modo seguente. Il capitalismo moderno necessita di uomini che cooperino in vasto numero; che vogliano consumare sempre di più; i cui gusti siano standardizzati e possano essere facilmente previsti e influenzati. Necessita di uomini che si sentano liberi e indipendenti, che non si assoggettino ad alcuna autorità e tuttavia siano desiderosi di essere comandati, di fare ciò che ci si aspetta da loro, di adattarsi alla moderna macchina priva di frizione; che possano essere guidati senza la forza, guidati senza capi, incitati senza uno scopo, tranne quello di rendere, di essere sulla breccia, di funzionare, di andare avanti. Qual è il risultato? L’uomo moderno è staccato da se stesso, dai suoi simili, dalla natura.

Erich Fromm

The young office worker looks at his small spoon in surprise when he sees the giant ladle in his boss's hand. (Used clipping mask)

La fine che fanno i dissidenti, a est e a ovest…

 

 

Da una parte c’è una vera autocrazia, dall’altra parte c’è una falsa democrazia. La morte di Alexei Navalny e la vicenda di Julian Assange possono essere sintetizzate in questo modo un po’ brutale. Da una parte un regime autoritario, erede della storia sovietica e zarista, viene accusato della morte di un dissidente, detenuto nelle sue prigioni e verosimilmente ucciso. Dall’altra, una democrazia liberale, che ha tanti scheletri nell’armadio, perseguita un giornalista, in carcere da anni, che ha portato alla luce pagine vergognose della storia americana, crimini di cui dovrebbe vergognarsi un Paese che fa la predica umanitaria al mondo.
I primi potrebbero dire a loro difesa che Putin gode di un largo sostegno popolare, viene rieletto periodicamente in votazioni almeno all’apparenza democratiche e non aveva oggettivamente alcun vantaggio ad eliminare Navalny, in un momento in cui l’incidenza del dissenso è minima e la prospettiva di vittoria russa in Ucraina è massima. Ma quella morte pesa e non trova spiegazione altrettanto convincente di un assassinio; così come è innegabile l’impronta autocratica del regime putiniano, e la sua biografia di uomo del KGB ai tempi dell’Urss comunista. I secondi, invece, potrebbero pur dire che Assange aveva svelato con Vikileaks delicati segreti di stato, e magari lavorava per la Russia (ma lo stesso dicono in Russia di Navalny con gli Usa) e che comunque quel che accade in America e in Occidente è alla luce del sole e sotto l’occhio dei tribunali. E comunque gli Stati Uniti storicamente hanno difeso la libertà nel mondo e da noi.
Per chiarirci prima di entrare in argomento, partiamo da una doppia premessa: chi scrive è critico da svariati decenni nei confronti dell’Occidente e dell’egemonia statunitense sul mondo, è critico verso il suo modello ideologico ed economico, il suo nichilismo e il suo catechismo woke: il modello occidentale è una negazione della stessa civiltà europea da cui pure trae origine, e dalle sue matrici culturali, religiose, morali e civili.
Con la stessa franchezza però dico: se critico l’Occidente, non vivrei mai sotto un regime come quello russo. O cinese, o islamico. Tanto per chiarirci. Preferisco denunciare a vuoto le miserie dell’occidente, ma restare qui, piuttosto che patire i regimi autocratici e dispotici dell’Asia o del Medio Oriente. E ringrazio la sorte di essere italiano e di vivere in Italia, pur avendo un giudizio assai critico sul nostro Paese. Dovrebbero avere l’onestà di dirlo tutti i critici radicali dell’Occidente e del nostro Paese.
Poste queste premesse, entro nella questione. Non da oggi le democrazie hanno rapporti con regimi dispotici e perfino sanguinari; rapporti non solo commerciali. La politica internazionale va interpretata con uno sguardo realista e geopolitico, e non con categorie morali o politicamente corrette.
Il ruolo di Putin a livello internazionale, è stato per anni, importante, decisivo; sia per gli equilibri mondiali, sia per le sue posizioni politiche e culturali. Non ho difficoltà a riconoscere che negli anni passati l’ho considerato, pur nelle sue ombre sinistre, un grande statista e un leader mondiale.
L’attacco all’Ucraina è stato per metà colpa sua e del suo regime, per metà dell’Occidente sotto la guida statunitense, che non ha voluto rendersi conto della situazione, dei rischi e dello squilibrio che si andava creando con l’Ucraina che decideva di passare alla Nato, tramite l’Unione europea. Se la Russia pretendeva di essere trattata come una superpotenza mentre non lo è più dal 1991, gli Stati Uniti ancora pretendono di essere gli arbitri del mondo e non lo sono più da un pezzo. I tre quarti del pianeta sono contro il suo dominio. In più l’Occidente ha sostenuto e foraggiato un leader come Zelenskij, figura poco credibile di guitto e di marionetta, che ha epurato più ministri e generali di Putin in Russia, che guida un regime tra i più corrotti nel mondo e che vorrebbe trascinare l’Occidente intero in una guerra mondiale pericolosa e insostenibile, pur di evitare un ragionevole negoziato con i russi. Entrambi, Putin e Zelenskij, con l’appoggio degli Usa e dei suoi alleati, hanno esposto a un calvario immane di morte, distruzione e deportazione il popolo ucraino.
Il falso su cui regge l’assedio a Putin è che voglia minacciare l’Occidente e attaccare l’Europa: sappiamo invece che vuole ripristinare il ruolo egemone della Russia in quell’area che era sotto la dominazione russa al tempo dell’Unione sovietica e dell’Impero zarista.
Ma la Russia non vuole invadere l’Europa, è strategico e funzionale anche per loro che l’Europa abbia un suo ruolo autonomo e sovrano; un’Europa con cui trattare, accordarsi o confrontarsi, non ridotta a succursale degli Stati Uniti. Ieri c’era una lettera obiettivamente sensata, storicamente circostanziata e ben argomentata dell’ambasciatore russo in Italia, Alexey Paramonov, su la Repubblica. Naturalmente si deve fare la tara di quello che dice, considerare il Cicero pro domo mea che inevitabilmente un rappresentante della Federazione russa di Putin deve compiere in una difesa d’ufficio del suo Paese.
Ma il messaggio di apertura all’Europa va colto. Bisogna in realtà ripristinare il dialogo con la Russia; come dialoghiamo con la Cina che è un regime ben più dispotico e minaccioso per l’Occidente, anche perché – a differenza della Russia- cavalca la globalizzazione e ha una potenza demografica, commerciale ed espansiva nel mondo assai superiore.
cioè la sua autonomia e il suo ruolo internazionale, che non può essere quello di propaggine dell’impero Usa. In questa chiave è da auspicare un cambio di passo degli Stati Uniti, magari con l’arrivo di Donald Trump, sottoposto a una vergognosa e indecente persecuzione giudiziaria, economica e mediatica, indegna di una vera democrazia.
Si deve infine notare che i crimini americani denunciati da Assange dimostrano che esiste ancora un giornalismo libero di cui l’Occidente dovrebbe essere orgoglioso. Intanto accontentiamoci di rilevare, che benché incarcerato e ricercato, perlomeno Assange è vivo e invece Navalny è morto. Ma poi dobbiamo affrontare tutto il resto.

Marcello Veneziani   

Gli uomini senza identità uxordipendenti…

 

Marcello Veneziani ha trovato la parola giusta per definire la ragione primaria di tante uccisioni di donne .

donne

Uxordipendenza, ecco la parola giusta. L’ha trovata Marcello Veneziani e l’ha scritta in “L’amore necessario” (Marsilio), libro sull’amore nell’epoca del disamore. L’ha scritta nelle pagine sul cosiddetto femminicidio, “obbrobrio giuridico” e parola sbagliata come poche. La molla primaria di tante uccisioni di donne, spiega Veneziani, è la dipendenza. “Come la tossicodipendenza, è una dipendenza tossica, patologica e ossessiva. Come chiamarla? Uxordipendenza”. Gli uxordipendenti sono uomini che “se avessero un minimo di dignità maschile, di orgoglio virile, si allontanerebbero, guarderebbero altrove, rifacendosi una vita. Ma la loro virilità è fragile. Insomma, chi uccide non è l’antico Maschio Padrone, ma il tossicodipendente dalla sua donna”. Ecco spiegato bene il motivo della non pericolosità di noi maschi veri, maschilisti seri: non perché siamo buoni (“nessuno è buono”) ma perché siamo indipendenti.

Camillo Langone_IL FOGLIO

Elogio della nostalgia, la fonte da cui nasce l’arte…

La nostalgia si addice a quel che è stato, riguarda il passato. Qualcuno anni fa parlò perfino di nostalgia dell’avvenire ma il significato era trasparente: costruire il futuro sulle tracce di un mitico passato. La nostalgia del presente fu invece il titolo d’una famosa poesia di Borges, dove il desiderio combaciava con la realtà. Al di là di Borges, la nostalgia del presente appare quasi uno scippo di vitalità alla pienezza del tempo in atto, un’emorragia vitale o una schizofrenia mentale, il contrario del carpe diem. È il sentore di non vivere abbastanza il presente, di non trattenere alcuna traccia di quel che sta accadendo, come se finisse prima che se ne prenda pieno possesso. E dunque indica il timore e il dolore di veder sfiorire le situazioni presenti.  La fotografia è una forma tecno-pratica di nostalgia del presente: immortalare il momento o il luogo, cioè fermarlo, depositarlo nella sacca della nostalgia, l’archivio. Il vintage è invece la nostalgia applicata agli oggetti.  La poesia nasce da un sentimento di nostalgia preventiva: mentre vivi un’esperienza, un incontro, una presenza, prefiguri il suo svanire, avverti il presagio della sua assenza. E da quel sentimento di perdita sorge la poesia, che è il tentativo estremo di eternizzare o tesaurizzare quel momento, quel luogo, quell’incontro e di farlo vivere in un altrove, oltre il tempo e lo spazio. Salvare nei cieli della poesia quel che finisce in terra, dissipato nei giorni. La poesia è la dimora della nostalgia, intima e cosmica; la poesia sorge sull’amore perduto o caduco, sul presagio doloroso di una mancanza, passata, presente o ventura.  La nostalgia è il sentimento originario che ha mosso l’arte, il pensiero e la  grande letteratura di ogni tempo: si pensi all’Odissea, il poema della nostalgia.  Il filosofo della nostalgia è Plotino che nel nome di Platone eresse un pensiero incentrato sul conato dell’anima a ricongiungersi all’Uno da cui è sgorgata.  Ma il termine nostalgia, benché evocante due parole antiche – nostos e algos – è  recente e non sorge in ambito filosofico-letterario bensì medico-scientifico. Indicava infatti una malattia diagnosticata poco più di tre secoli fa e riguardava i soldati svizzeri che pativano la lontananza dalla loro valle, la loro patria.  Quel sentimento di lontananza spaziale, che in seguito fu ribattezzata apodalgia, coi romantici si tramutò in lontananza temporale. Non più distanza spaziale che implica la presenza pur remota di ciò che si anela a rivedere; ma distanza temporale, riferita a un tempo trascorso; dunque sentimento disperato che non può essere esaudito.  Il suo più acuto sensore fu Marcel Proust, il suo capolavoro riassume il senso della nostalgia: alla ricerca del tempo perduto. Il suo prologo in cielo, ossia la sua versione metafisica, è il paradiso perduto, che è poi l’unico paradiso da noi conosciuto, secondo Borges. Da Omero a Kavafis, da Saffo a Pasolini, la nostalgia è l’anima della poesia. L’uomo è un animale nostalgico, non sa vivere solo del presente. Vive tra l’attesa ponderata del futuro (Kant) e la nostalgia delle origini (Plotino, Vico, Mircea Eliade).  La follia odierna pretende di abolire la nostalgia e negare il passato. Questo da un verso implica la cancellazione della memoria storica ma dall’altro comporta la velleità utopica di proiettare la condizione di allora nel momento presente. L’infanzia e la giovinezza sono le fonti della nostalgia? Aboliamo la nostalgia e viviamo nell’illusione del puer aeternus, figurandoci come bambini permanenti, sempre giovani.  La sindrome di Peter Pan nega la nostalgia perché rifiuta di considerare il tempo che passa. La nostalgia, invece, accoglie il principio di realtà: quella condizione, quell’atmosfera è passata, è trascorsa da storia a mito. La separazione dal presente rende sacro quel passato. Il fascino della nostalgia è lì: evoca un evento o uno stato irripetibile e irrevocabile. Non puoi rifarlo né puoi cancellarlo. Come i classici, le grandi imprese, gli amori perduti. L’arte che ne scaturisce sublima quella mancanza, e il desiderio esala fino alle stelle (de-sidera). Per il bambino perenne, invece, il desiderio va esaudito e così cessa l’arte, nata dalla nostalgia che è il dono della mancanza.   Analoga pretesa hanno i movimenti nostalgici che vogliono ripristinare un passato concluso. Il passato lo puoi amare e onorare ma non puoi riportarlo in vita. È morto e può vivere solo nel mito. La nostalgia è un nobile sentimento intimo e universale ma non può essere un programma storico-politico.  La storia è una freccia, la nostalgia è invece una curva; la pietà del ritorno che si curva a raccogliere il tempo versato. La nostalgia riconosce il fascino dell’inattuale, irriducibile all’attualità. Ma è ingenuo idealizzare il passato .  La superiorità ontologica del passato sul presente è un’illusione ottica che nasce da due motivi: il rimpianto bioepico della nostra infanzia/giovinezza e l’occhio magico della nostalgia che è selettiva e conserva del passato solo le cose amate.  Ci sono temperamenti più inclini alla nostalgia e altri più protesi alle novità. Ci sono i migranti di prua che amano vedere lo scafo che solca nuove onde e punta nuove terre, appena intraviste, e ci sono i migranti di poppa che amano vedere il paesaggio originario che si perde alla vista e la scia sul mare è il suo estremo cordone ombelicale. Beato chi ama ambedue, le origini e l’approdo, divino chi le combacia. La nostalgia è il canto, e l’incanto, di un tempo che passa al mito. Il passato che vive e non passa si chiama invece Tradizione, che è patrimonio trasmesso, eredità perpetuata, perennità che continua nel corso del tempo.  Ci sono giorni e sere soprattutto in cui avverti il peso ottuso della vita andata. Il male, il nulla, il falso, il poco, il mio, il futile, il labile, sono i sette colori di quest’iride spettrale che va dal nero al bianco, ingrigendo la vita. Senza la luce della nostalgia scema la policromia del mondo. È la nostalgia a dare colore al passato.  C’è un proficuo esercizio d’amore per animare la nostalgia nell’intimità. Chiudete gli occhi e concentratevi a ricordare ad una ad una le voci delle persone più care e assenti. Passatele in rassegna, lentamente, fino a sentirle risuonare nella memoria e nel cuore, associandole allo sguardo, l’ultimo sguardo di loro che vi è rimasto impresso benché remoto e ormai sfocato. Per dare più forza a quell’esercizio ripartite dalla memoria della vostra voce che li chiama. Li vedrete apparire e sentirete la loro voce che vi parla e il loro sguardo che vi guarda.  Questa è l’arte di procurarsi i sogni, di rianimare il passato e di con-vocare gli assenti in un simposio di nostalgia. Un esercizio difficile e delicato, come risalire la corrente, sfidando le rapide impetuose che invece trascinano verso il basso, nella valle dell’oblio. La pietà della vita è protesa a risalire la corrente del tempo.  La nostalgia è quel dolore dolcissimo che pervade l’anima per una lontananza che sentiamo vicina e per un’assenza che sentiamo presente.

Marcello Veneziani