Esselunga…dai Racconti di vetro di Andrea Salvatici.

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Esselunga

Vincenzo uscì dal suo studio pubblicitario alle ore venti e quindici un po’ prima rispetto al solito. La sua agenzia pubblicitaria era fra le più importanti e potenti di Milano. Aveva sbaragliato la concorrenza nazionale, ma soprattutto quella americana e adesso la sua creatura aveva un ruolo predominante nel mercato pubblicitario televisivo: campagne per la Fiat, per la Barilla, per la Superga, per l’Adidas, per la Nike.  Insomma, la sua agenzia era la numero uno. Premi, targhe, riconoscimenti internazionali, tutto contribuiva a rafforzare la sua qualità e creatività professionale. Alle ore venti e trenta era già con il suo carrello fra il corridoio dei detersivi e quello dei sottaceti, distratto e lontano da tutto, con una leggera fame e tanta voglia di andare a casa e mettersi sul divano a vedere qualche programma registrato di Lucarelli. Possedeva tutte le cassette della serie “Blu notte”. Persino al lavoro ripeteva ogni tanto al suo fidato collaboratore: ”Lui non sa … ma è già morto”. Lento e leggermente sfiorato da una stanchezza cronica oramai accettata senza nessuna conflittualità personale, Vincenzo provava a quell’ora una rilassatezza meravigliosa. Comprava quasi sempre broccoli, cimette di rapa, acciughe, aglio, peperoncini e pasta fresca, in particolare orecchiette pugliesi. Dopo il divorzio le sue serate si erano trasformate: all’inizio in un momento nuovo e assai eccitante, col tempo si era poi stancato di avventure occasionali e adesso difendeva fermamente il suo spazio personale. Non era una rinuncia alla nuova vita da single o un rifiuto del mondo femminile, era soltanto una voglia diversa di viversi. Voleva stare da solo dopo tre relazioni importanti e un matrimonio fallito. In lui non c’era né rabbia, né tristezza, né dolore. C’era solo il desiderio di godersi la sua vita per la prima volta da solo. Quella sera al supermercato comprò cimette di rapa già pulite e tagliate, parmigiano in busta, acciughe, peperoncino e orecchiette di pasta fresca. Domani non sarebbe andato al lavoro. Gara vinta, due giorni di riposo, quindi si comprò due bottiglie di Chianti, il solito, quello che beveva con Francesco ai tempi dell’università, ai tempi della prima occupazione degli anni novanta. Era affezionato a quel vino anche se non era fra i più pregiati ma quel rosso gli ricordava le serate con Francesco, che ora non c’era più, a Castellina in Chianti con le loro amiche di corso. Tutti davanti a un grande caminetto acceso. Quante discussioni filosofiche e quanti innesti meravigliosi fra una goccia di sudore e l’altra. Giunto alla cassa cinque si mise in fila dietro due ragazze che parlavano inglese speditamente. Vincenzo guardava le lamette e i giornali. Spostò lo sguardo e incontrò quello di una delle due ragazze: potente e immediato nel trattenere quello di Vincenzo nel verde dei suoi occhi. Lei gli sorrise e ritornò a sistemare i pochi prodotti acquistati con l’amica sul nastro della cassa: insalata già pulita, yogurt, cracker e una bottiglia di Rum cubano. Vincenzo rimase immobile e aspettò il suo turno. L’altra ragazza dai capelli biondi, gli passò il separatore con scritto “prossimo cliente”. La cassiera, una donna sui quarant’anni, passava i prodotti a grande velocità, la ragazza dai capelli biondi, sorridendo con un certo imbarazzo, si accorse di non avere i soldi per comparare la bottiglia di Rum cubano. Chiese all’amica un aiuto. Niente, nessuna delle due poteva  pagare la bottiglia e la cassiera continuava a dire in tono assai acido: ”Allora?”. Vincenzo capì un’esclamazione in inglese un po’ imbarazzata e intervenne con il suo perfetto inglese e con estrema delicatezza. “ Posso darvi una mano per la bottiglia? Senza offesa…”. Le due ragazze lo guardarono e annuirono sorridendo. Lui pagò la loro bottiglia, la cassiera si tranquillizzò e le giovani donne lo ringraziarono. Assomigliavano a due modelle. Alte, magre e vestite con  jeans e magliette bianche.

Vincenzo mise i suoi prodotti sul rullo e guardò le due sirene uscire senza voltarsi. Nel parcheggio aprì il lucchetto della bicicletta e vide le due ragazze non lontane da lui appoggiate a una macchina mentre fumavano una sigaretta. Gli fecero un sorriso invitante.

Inforcando la sua bicicletta gli passò accanto, rispose al sorriso e incominciò a pedalare con leggerezza.

da Il Corriere della Sera       

Coin… di Andrea Salvatici, da I Racconti di vetro.

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Coin

Daniele guardava dormire suo figlio Filippo con soddisfazione e con gioia. Era riuscito a farlo addormentare. Adesso poteva ritornare in salotto. Filippo aveva due anni e assomigliava a sua nonna in modo impressionante: occhi blu molto grandi  con un leggerissimo strabismo di Venere. Labbra molto carnose assai sproporzionate rispetto agli altri tratti ma che donavano già al bambino una fisionomia animale e sensuale. Daniele lo guardava e sorrideva dicendo a se stesso: ”Mio figlio sarà un animale braccato e desiderato dalle donne per le sue labbra, ma lui riuscirà a trasformarle in gazzelle nelle sue fauci di predatore affamato”. Quest’idea gli ritornava spesso quando guardava suo figlio e senza dire una parola a nessuno capiva che si nutriva di un luogo comune verso il sesso femminile. Di fatto era troppo sentimentale, dolce, disponibile! Di fatto era debole verso le donne. Persino la paternità non era riuscita a suscitare in lui qualcosa di nuovo e di vero. Continuava a non comunicare in modo leale e sincero con la donna che gli aveva dato un figlio bellissimo. Continuava a non affidarsi e a fidarsi completamente delle donne. Ecco la verità! Le donne concedono e non si danno completamente. Le donne creano il latte. Gli uomini lo bevono. Per lui non era un pregiudizio, era il suo sentire dopo molte donne. Tutto qui. Un suo parere e non voleva farne assolutamente un manifesto per la collettività. Il divario rimaneva, ma ora cominciava ad accettarlo con una tranquillità più pratica ed efficiente: carriera, soldi, potere, vacanze al mare, in montagna e qualche scappatella con giovani donne. Insomma tutto si ripeteva allo stesso modo con le stesse fissità, con gli stessi piccoli soccorsi: matrimonio, figli, convivenza. Viveva su dei binari d’oro, ma erano pur sempre dei binari. Passò dal salotto, sua moglie e la sua amica si erano trasferite in terrazza: cento metri quadri di fiori e di piante. Una vetrata separava il divano bianco da un gigantesco ciliegio cinese. Lo aveva comprato Daniele il giorno della nascita di Filippo. Amava regalare o comprare alberi quando arrivava un bambino. Lo faceva con gli amici, con i parenti e quel giorno lo fece per la sua famiglia. Tre mesi dopo sua suocera, senza dirgli nulla, potò i due rami centrali e lo trasformò in un bonsai. Che rabbia per lui! Che voglia di mandarla a quel paese! Ma poi l’albero era riuscito in pochi mesi a crescere di nuovo e quella rabbia si era persa nella distanza fra lui e la suocera. Salutò sua moglie e la sua amica e uscì. Aveva voglia di fare due passi ma si accorse che era sabato pomeriggio e lui abitava in una traversa di Corso Vercelli. Erano le quattro. Un fiume in piena fatto di persone lo costrinse a entrare da Coin. Senza pensarci prese la scala mobile e arrivò all’ultimo piano: casalinghi. Trovò una sedia davanti a una lampada e si sedette. Cominciò a guardare quella lampada che sembrava un girasole con i petali chiusi in avanti.  Simpatica, allegra ma di pessima qualità. Lui amava le lampade, quelle costose, di alto design, ma quel giorno decise di fissare quella lampada. Si sentì toccare con delicatezza la spalla e si voltò. Era una giovane commessa. Lui la guardò senza dirle una parola. “Le chiedo scusa! Ma ho bisogno di questa sedia!” disse la giovane commessa. Lui si alzò immediatamente e le sorrise scusandosi. La ragazza prese la sedia e la portò via. Daniele rimase tutto il pomeriggio all’ultimo piano di Coin a guardare caffettiere, forchette, frullatori, fiori finti, oggetti colorati, bicchieri e piatti. In quel luogo di solito, in compagnia di sua moglie, riusciva a rimanere dieci minuti al massimo, poi si innervosiva e usciva. Ma quel giorno era da solo e non pensava a nulla. Ogni tanto incontrava lo sguardo della giovane commessa, sempre indaffarata a sistemare oggetti, pacchi, scontrini e buste. Lui, tra forchette, piatti, tazze e pentole, si sentiva a suo agio. Poi, prima della chiusura, ci fu un groviglio inaspettato di sguardi fra Daniele e la giovane commessa: un rampicante impazzito, un’edera di bosco magica e vivente tra le fronde di un albero. Daniele si trovava  vicino a un vaso di cristallo, assai insignificante e normale, di forma cilindrica allungata, pieno di sassi colorati. Quei vasi che dopo una settimana ti stancano di vederli ma non sai dove metterli. Quei vasi che si trasformano in oggetti ingombranti e brutti. Squillò il suo cellulare. Non rispose! Era sua moglie che lo stava cercando. Dopo un paio di minuti gli arrivò un suo messaggio: ”Ma dove sei finito? Non te lo ricordi? Siamo a cena da mio fratello!” Daniele rispose senza usare tante parole: ”Arrivo!” Lei non gli rispose e lui alla fine comprò  quella lampada a forma di girasole. La giovane commessa, quella che gli aveva tolto la sedia, adesso si trovava alla cassa. Lo guardò e gli dette lo scontrino insieme alla lampada. Daniele allungò il braccio per prendere la busta con la lampada.

La ragazza gli disse: “Prossima settimana arriveranno nuove lampade a forma di fiore!”.

La Cartella- Dai racconti di Vetro di Andrea Salvatici.

 

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ILLUSTRAZIONE DI ZAC

Cartella

La cartella era su una sedia della cucina, davanti al forno. Il grembiule sopra un’altra sedia vicino alla porta. Il fiocco blu e il colletto bianco, entrambi stirati e puliti come il grembiule, si trovavano sopra il tavolo. Erano le sette del mattino. Sulle pareti della cucina, del bagno, del salotto, dello studio, delle camere, dello sgabuzzino, della terrazza e della cantina, bigliettini, tantissimi bigliettini adesivi sparsi come polline a primavera in quella casa oramai diventata di carta. Un banale riscontro d’aria l’avrebbe sparpagliata come quel fiore di campo chiamato “Bocca di leone “oramai sfiorito, bianco. Tutti i mobili, tutti gli oggetti, tutto era stato inventariato. Il colore delle cose non c’era più. Solo frasi semplicissime e disegni. Quell’insolito linguaggio appiccicato su tutte le cose, ogni giorno che passava diventava sempre più bianco, sempre più somigliante a un pagina bianca. Non rimaneva altro che aggrapparsi ai suoi  sguardi, ai suoi sorrisi, ai suoi gesti sempre più ripetitivi, indecifrabili, ma sempre dolorosamente umani. Prese la cartella e lo aspettò nell’ingresso. Ferma, con un sorriso: un banco di nebbia? Un frammento emotivo ancora reale? Un tratto ancora vivo del suo volto? Chi lo sa? Aspettava comunque suo figlio con un’espressione facciale importante.

–  Hai preso i soldi per la schiacciata? Vieni, fatti sistemare il grembiule! Il fiocco? Il colletto bianco dove sono? Ah, bene! Sei pronto! Adesso puoi andare a scuola! A scuola!  – disse la donna davanti allo specchio dell’ingresso con suo figlio dietro alle sue piccole spalle.

–  Dammi un bacio! E ricordati amore mio di passare a salutare la moglie del portinaio!

– Va bene mamma! – rispose suo figlio.

Mario accompagnò la madre in salotto e l’aiutò a sedersi sulla poltrona. La donna chiuse gli  occhi. Vicino a lei un tavolino anni Trenta carico di libri di fisica quantistica. Quella donna era stata direttrice del dipartimento di fisica di Milano. Ora quei libri erano dei semplici soprammobili, dei ricordi, degli oggetti, delle cose da toccare con le dita. Spesso la badante la trovava addormentata con le dita sopra i suoi libri. Alcuni per terra come farfalle  schiacciate, altri ai suoi piedi. Libri sparsi intorno a lei come uno sciame di api morte.

Suonò il campanello. Era la badante come ogni mattina. Puntuale e precisa nel fare i suoi compiti in quella casa dove oramai il lessico famigliare si era ridotto a imitare i petali secchi e bianchi  di un fiore chiamato “Bocca di leone”.

Mario baciò sua madre. Prese la cartella, il grembiule, il fiocco e il colletto, li mise in tasca e uscì di casa dopo l’arrivo della badante.

Salì nella sua BMW 7.30, appoggiò la cartella sul sedile anteriore, quest’ultimo costretto ogni mattina a indossare il grembiule blu. Sistemò il colletto bianco e il fiocco intorno al poggiatesta.

Poi girò la chiave e uscì dal garage.

 

 

Da Il Corriere della Sera