Chi ha inventato il Festival del cinema di Venezia e perché?

La Mostra del cinema di Venezia, inaugurata il 6 agosto 1932, fu il primo festival cinematografico al mondo: venne finanziata dal conte Giuseppe Volpi per rilanciare il Lido.

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Tra le eredità del Ventennio fascista c’è anche la Mostra del cinema di Venezia. Inaugurata il 6 agosto 1932 in occasione della Biennale d’arte, che all’epoca aveva già 39 anni di vita, fu il primo festival cinematografico al mondo. La prima edizione, non competitiva, si svolse sulla terrazza dell’Hotel Excelsior al Lido di Venezia. La seconda edizione si svolse due anni dopo, perché legata alla cadenza della Biennale, dal 1º al 20 agosto 1934. A partire da quest’edizione le nazioni in gara erano 19. Già dalla terza edizione, 1935, la manifestazione divenne a cadenza annuale.

Il conte ministro. L’idea di una rassegna cinematografica internazionale l’aveva avuta Luciano De Feo, direttore dell’Istituto Luce e fu appoggiata dal conte Giuseppe Volpi di Misurata (1877-1947), ministro delle Finanze dal 1925 al 1928, e all’epoca direttore della Biennale di Venezia. Il conte, che era diventato ricchissimo grazie anche alle concessioni sulle coltivazioni di tabacco in Montenegro, voleva infatti rilanciare le fortune del Lido di Venezia.  Una rassegna cinematografica “quasi libera”. Benché il suo scopo fosse valorizzare le pellicole italiane (nel 1937 fu premiato Scipione l’Africano) e affermare la supremazia dei nostri film su quelli hollywoodiani, negli Anni ’30 la mostra rappresentò l’unica occasione di vedere film di generi diversi, tra cui autentici capolavori del cinema straniero, opere americane, sovietiche, francesi mai proiettate in Italia. L’Oscar italico. La prima edizione non prevedeva premi, ma dal 1934 fu istituita la Coppa Volpi per i migliori interpreti maschile e femminile. Un “Oscar” italiano che si assegna ancora oggi.

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Ma perché siamo nati senza pelo e ci siamo dovuti coprire?

 

La scoperta in Marocco di una caverna dove si confezionavano capi di pelle conferma l’idea che l’uomo iniziò a vestirsi molto indietro nella preistoria.

L’uomo si veste da almeno 170 mila anni, indicano gli studi genetici sui pidocchi dei vestiti: risale infatti a quel periodo la specializzazione di un contingente di pidocchi della testa che trovò più conveniente migrare nei vestiti per infestare da lì la pelle degli umani. Ora però ci sono prove più dirette: le analisi del Max Planck Institute su ossa di animali e strumenti risalenti a 120 mila anni fa, trovati nella grotta di Contrebandiers, sulla costa atlantica del Marocco, hanno permesso di ricostruire le attività di una pellicceria (e pelletteria). Non di trovare la “merce”, che non poteva conservarsi tanto a lungo, ma gli attrezzi e le ossa fossili degli animali scuoiati. Il fatto che in quella regione non facesse tanto freddo indica che da un pezzo l’umanità aveva iniziato a vestirsi, e che forse gli abiti erano già caratteri distintivi delle diverse comunità, per forma o anche per tipo di animale utilizzato. In particolare, le prove che nella caverna vi fosse una pelletteria derivano da strumenti in osso fabbricati in modo da fungere da raschiatoi con terminali rotondi per non bucare le pelli. I resti di animali – volpe del deserto, gatto selvatico e sciacallo dorato – mostrano sulle ossa delle zampe, di mandibole e mascelle segni di tagli che manifestano l’intenzione di scuoiarli preservando l’integrità delle pelli, come facevano gli indiani d’America e i cacciatori di pellicce bianchi del Canada.
L’archeologa Hemily Hallet, prima firmataria dello studio apparso su Science, ha raccontato di avere esaminato 62 utensili in osso, fra cui bulini e altri a forma di spatola. Un dente di capodoglio serviva da percussore, cioè a scheggiare per ottenere gli utensili da pellicceria desiderati. Questo ritrovamento riconduce ai raschiatoi di pietra di tanti siti del Paleolitico, a indicare che la concia delle pelli non doveva solo riguardare la fabbricazione di stuoie, sacche per trasporto, contenitori per acqua e cibo, ma in modo particolare il vestiario. Tanto più utile all’uomo di Neanderthal, che non sarebbe durato oltre 250 mila anni nell’Europa glaciale senza pellicce. I suoi denti incisivi vengono spesso trovati consumati, segno che, come gli Inuit dell’Artico, conciava le pelli usando anche la bocca. Il vestiario deve poi essere stato decisivo per l’Homo sapiens, proveniente dall’Africa, nella sua diffusione in Siberia e in Nord Europa.

L’uomo è uno dei pochissimi, fra le oltre 5 mila specie di mammiferi, a non avere pelo o quasi, assieme ai cetacei e a una talpa, l’eterocefalo glabro.È l’unico senza pelo fra i primati. Come i cetacei e le lontre, è fra i pochi a poter trattenere il respiro volontariamente. Occorre ricordare che se il colore della pelle è un adattamento locale, la mancanza di pelo è un carattere universale, frutto quindi di una mutazione molto antica. Tutto ciò ha fatto ipotizzare che nell’evoluzione umana ci sia stato un periodo acquatico: cioè si stava spesso a bagno in cerca di molluschi, crostacei e pesci. Di questa parentesi risalente forse a 5 milioni di anni fa se ne parlò in un libro dell’antropologa inglese Elaine Morgan e ne fu promotore negli anni ’20 Gioacchino Sera, antropologo all’università di Napoli. Più di recente, ritrovamenti di ominini fossili presso i grandi laghi africani, che un tempo avevano sulle loro rive fitte foreste, e la scoperta che l’Africa orientale fu interessata, 5 milioni di anni fa, da una trasgressione marina, hanno insidiato la teoria della savana e convinto l’antropologo sudafricano Phillip Tobias a rilanciare l’idea di un passato acquatico dell’uomo. Se la teoria della savana dice che i nostri antenati divennero bipedi per meglio guardarsi in giro dall’alto della stazione eretta, quella acquatica la reputa un adattamento per guadare i corsi d’acqua (anche le scimmie al guado si alzano su due arti) e utile persino per nuotare. Secondo questa teoria, grazie alla pesca in apnea impararono a controllare volontariamente la respirazione, potendo poi permettere a noi di parlare modulando il respiro. Come le foche e i delfini, noi umani abbiamo il grasso sottocutaneo, di cui nessuna scimmia dispone. Che permette ancora oggi ai bambini di avere sufficienti energie per sviluppare un grande cervello.

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